COME PREVENIRE E RISOLVERE IL CONTENZIOSO IN CORSO DI RAPPORTO DI LAVORO

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1 COME PREVENIRE E RISOLVERE IL CONTENZIOSO IN CORSO DI RAPPORTO DI LAVORO I mutamenti di mansioni; La definizione ed i mutamenti dell orario di lavoro; I trasferimenti di luogo di lavoro; Il trattamento delle trasferte; Lo straordinario: quando volontario e quando obbligatorio; Lo straordinario: il compenso forfetario; L incidenza delle voci retributive sugli istituti indiretti e differiti; Il comportamento in caso di malattia; Le assenze ingiustificate; La richiesta di permessi per ferie, ex festitiva e riduzioni di orario. Relatore: Dott. Mario Giudici Responsabile servizio sindacale dell Unione Industiali di Como Consulente del Lavoro CONVEGNO DEL 28 GIUGNO

2 SANZIONI DISCIPLINARI Potere disciplinare Il potere disciplinare è riconosciuto al datore di lavoro dall'art cod. civ., secondo il quale l'inosservanza del dovere di diligenza, di obbedienza o dell'obbligo di fedeltà (artt e 2105 cod. civ.) espone il lavoratore all'applicazione di sanzioni disciplinari di entità proporzionata alla gravità dell'infrazione. Tale potere, pertanto, è legittimamente esercitato solo se volto a sanzionare la violazione di un obbligo del lavoratore derivante dal contratto di lavoro. E' inoltre necessario che l'irrogazione della sanzione avvenga nel rispetto di quanto disposto dall'art. 7, L. n. 300/1970 (v. infra). Il potere disciplinare può essere esercitato: - dal datore di lavoro personalmente o da persona munita di rappresentanza in senso tecnico (nel caso di persone giuridiche il potere disciplinare è esercitato dal rappresentante legale delle stesse); - da chiunque altro sia titolare del potere disciplinare secondo l'organizzazione aziendale. Tipologia delle sanzioni Salvo diversa previsione contenuta nei contratti collettivi le sanzioni disciplinari che vengono nella pratica più frequentemente irrogate sono: - il rimprovero verbale; - il rimprovero scritto; - la multa; - la sospensione dal servizio; - il licenziamento con preavviso; - il licenziamento senza preavviso (per giusta causa). Condizioni di legittimità della sanzione disciplinare: codice disciplinare Per il legittimo esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro ha l'onere, ex art. 7, comma 1, L. n. 300/1970, di portare a conoscenza dei lavoratori, mediante affissione in luogo accessibile a tutti, le norme relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse (c.d. codice disciplinare). Secondo la giurisprudenza: - la mancata affissione del codice disciplinare determina la nullità della sanzione irrogata, salvo il caso in cui l'infrazione consista in violazione di norme di legge; - deve ritenersi inammissibile qualunque forma equipollente di pubblicità. E' stato inoltre precisato che il codice disciplinare, pur non dovendo contenere necessariamente un'analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e delle corrispondenti sanzioni, deve comunque essere redatto in forma tale da rendere sufficientemente chiare le ipotesi di infrazione, e le relative sanzioni. 2

3 Nella prassi, il datore di lavoro non sempre redige il codice disciplinare, ma più spesso si limita ad affiggere la parte del c.c.n.l. che prevede le sanzioni disciplinari. Tale comportamento soddisfa l'obbligo di affissione se ed in quanto le norme del c.c.n.l. in materia di sanzioni disciplinari rispondono ai requisiti di contenuto previsti dall'art. 7 della legge n. 300 del Contestazione dell'addebito L'art. 7, comma 2, L. n. 300/1970 prevede che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza avergli dato la possibilità di essere sentito a sua difesa. A norma del quinto comma, art. 7, L. n. 300/1970 la contestazione dell'addebito deve essere fatta per iscritto; non sono tuttavia indicate le modalità di consegna al lavoratore dell'atto scritto contenente la contestazione, onde è ammessa ogni forma di comunicazione (raccomandata con ricevuta di ritorno, consegna a mani proprie del lavoratore effettuata da persona incaricata dal datore di lavoro) salvo diversa previsione della contrattazione collettiva. La sanzione disciplinare irrogata senza il rispetto dell'obbligo di contestazione è nulla, salva la facoltà del datore di rinnovare il procedimento disciplinare e di reiterare la sanzione stessa. Difesa del lavoratore I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa (art. 7, comma 5, L. n Tale termine non deve tuttavia essere necessariamente rispettato qualora prima della scadenza dello stesso il lavoratore abbia fatto pervenire le proprie discolpe senza fare riserva di ulteriori deduzioni (Cass. S.U. n. 4845/1994). In base al comma 3 dell'art. 7, il lavoratore, nell'esporre le proprie ragioni difensive, può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. Irrogazione della sanzione Termini per l'irrogazione La legge, mentre prevede un termine iniziale - e cioè i cinque giorni che devono intercorrere tra la contestazione dell'addebito e l'irrogazione della sanzione - non prevede un termine finale decorso il quale la sanzione non può più essere irrogata. Tale termine tuttavia può essere legittimamente previsto dai contratti collettivi. Determinazione della sanzione In conformità dell'art. 2106, cod. civ. le sanzioni disciplinari irrogate devono essere proporzionate alla gravità dell'infrazione commessa. La proporzionalità tra sanzione irrogata e infrazione è sindacabile dal giudice, in caso di impugnazione della sanzione. L'art. 7, comma 4, L. n. 300/1970 vieta comunque: - l'irrogazione di sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto; 3

4 - sospensioni dal servizio e dalla retribuzione per periodi superiori a 10 giorni; - multe per importi superiori a 4 ore di retribuzione base. Immodificabilità della sanzione Secondo la giurisprudenza: - il provvedimento con il quale viene adottata la sanzione disciplinare deve fondarsi su fatti in ordine ai quali, essendo stati specificati nella lettera di contestazione (immodificabilità degli addebiti disciplinari), il lavoratore abbia potuto difendersi; - la sanzione, una volta irrogata non può essere modificata o sostituita (immodificabilità della sanzione); - nel caso in cui il procedimento disciplinare si sia chiuso senza l'adozione di alcuna sanzione non è consentito al datore di lavoro di "riaprire", in relazione ai medesimi fatti disciplinari, il procedimento stesso. Recidiva L'art. 7 citato dispone poi al comma 8 che non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari irrogate decorsi due anni dalla loro applicazione. Rinnovazione del procedimento disciplinare Il procedimento disciplinare affetto da nullità per vizi di forma può essere rinnovato dal datore di lavoro per gli stessi fatti che avevano determinato la prima sanzione. Licenziamento disciplinare Al licenziamento intimato per motivi disciplinari devono essere applicate le garanzie procedurali previste dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, L. n. 300/1970. Il licenziamento intimato senza il rispetto di tali norme è nullo e comporta, pertanto e secondo i casi, la reintegrazione nel posto di lavoro o relativa indennità sostitutiva ovvero l'obbligo di riassunzione o di risarcimento del danno (v. anche C. Cost. 30 novembre 1982, n. 204). Si ritiene che abbia natura disciplinare il licenziamento comunque derivante da un comportamento colposo o doloso del lavoratore che contravvenga a doveri derivanti dal rapporto di lavoro (e dunque sempre il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, a seconda delle ipotesi, il licenziamento per giusta causa). Sospensione cautelare La sospensione cautelare non costituisce sanzione disciplinare (a differenza della sospensione dal servizio) e non è pertanto soggetta alla procedura prevista dall'art. 7, L. n. 300/1970. Se essa è prevista dalla contrattazione collettiva (v., ad esempio, l'art. 26 del c.c.n.l. Industria - Metalmeccanica del 5 luglio 1994) sarà quest'ultima a regolarne la procedura per l'irrogazione. La giurisprudenza ha ritenuto legittime le clausole dei contratti collettivi che prevedono per il periodo di sospensione cautelare la contestuale sospensione 4

5 dell'obbligazione retributiva, fermo restando il diritto del lavoratore alle retribuzioni arretrate qualora venga riammesso in servizio. 5

6 LICENZIAMENTI INDIVIDUALI Presupposti del licenziamento In virtù del disposto dell'art. 1, L. n. 604/1966 il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore se non in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, salvo i casi di "libera recedibilità" esposti più avanti. Licenziamento di particolari categorie di lavoratori I lavoratori disabili assunti in regime di assunzioni obbligatorie ex L. n. 68/1999 possono essere licenziati quando, la Commissione medica di cui all'art. 4, L. 5 febbraio 1992, n. 104 accerti, su richiesta dell'imprenditore, la definitiva impossibilità, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, di reinserire il disabile all'interno dell'azienda (art. 10, L. n. 68/1999). Licenziamento "ingiurioso" Il licenziamento, a prescindere dalla circostanza che esso sia legittimo o meno nei suoi presupposti, può comunque dar luogo all'obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno che il lavoratore abbia subito nel caso in cui il recesso si concretizzi - per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano - in un atto "ingiurioso", cioè lesivo della dignità e dell'onore del lavoratore licenziato (es. gestore di un pubblico esercizio che, all'atto della consegna della lettera di licenziamento additi pubblicamente il dipendente come "lavativo" e "buono a nulla"). Licenziamento per giusta causa In base all'art. 2119, cod. civ., il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche solo provvisoria del rapporto. Nozione di giusta causa Secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza costituisce giusta causa di licenziamento ogni fatto o comportamento - anche diverso dall'inadempimento contrattuale - obiettivamente idoneo a far venir meno il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore che costituisce il presupposto essenziale della collaborazione e, quindi, della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Accertamento della giusta causa Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha escluso la possibilità di un giudizio in astratto circa l'idoneità del fatto contestato al lavoratore ad incidere sul vincolo fiduciario del rapporto di lavoro. Ed infatti, a tali fini, secondo la Corte di cassazione, occorre valutare, caso per caso, la qualità del rapporto intercorso tra le parti (a seconda dell'inquadramento e delle mansioni affidate al lavoratore) e lo specifico comportamento posto in essere dal dipendente (a seconda della sua gravità e della sussistenza dell'elemento doloso o colposo dell'agente). 6

7 Ed invero un fatto può incidere irreparabilmente sul vincolo fiduciario se imputabile ad un impiegato con funzioni direttive, può risultare meno grave se commesso da un addetto alle pulizie, per il quale tale vincolo non è di regola altrettanto intenso. Rilevanza di fatti estranei all'attività lavorativa Secondo la giurisprudenza i comportamenti del lavoratore estranei all'attività lavorativa possono costituire giusta causa di licenziamento solo se - per la loro natura e gravità - evidenziano obiettivamente l'inaffidabilità professionale del lavoratore a svolgere le specifiche mansioni alle quali è stato assegnato. Così, ad esempio, la condanna per furto compiuto fuori dal lavoro potrebbe integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento nei confronti di un cassiere di banca ma non di un impiegato con mansioni di dattilografo. Allo stesso modo la Corte di cassazione non ha escluso la possibilità di valutare ai fini del licenziamento la rilevante esposizione debitoria nei confronti di terzi del dipendente di un istituto bancario, in violazione di una direttiva del datore di lavoro. Non decisività dell'entità del danno provocato dal lavoratore Ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento non è necessario che il lavoratore abbia provocato un danno patrimoniale di rilevante entità al suo datore di lavoro, nè che un danno si sia in concreto verificato, essendo, invece, sufficiente un mero pericolo obiettivo di danno. Giusta causa ed esiti del giudizio penale E' stato, peraltro, ritenuto che il datore di lavoro che contesti al dipendente la commissione di un reato non debba necessariamente attendere la sentenza di condanna del giudice penale per l'intimazione del licenziamento. Onere della prova Ai sensi dell'art. 5, L. n. 604/1966, l'onere della prova della sussistenza della giusta causa di licenziamento spetta al datore di lavoro. Licenziamento disciplinare Il licenziamento per giusta causa può assumere la natura di licenziamento disciplinare ogni qualvolta sia stato intimato in relazione alla violazione da parte del lavoratore degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. In tali casi esso deve essere intimato, pena l'illegittimità, con l'osservanza della procedura prevista dall'art. 7, L. n. 300/1970. Licenziamento per giustificato motivo Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato il datore di lavoro può, in presenza di un giustificato motivo, licenziare con preavviso il lavoratore. Ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/1966, il giustificato motivo di licenziamento consiste in: - ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo oggettivo); - un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro (c.d. giustificato motivo soggettivo). Per espressa previsione normativa il trasferimento di azienda non costituisce di per sè motivo di licenziamento (art. 47, comma 4, L. n. 428/1990). 7

8 Sussistenza di un giustificato motivo oggettivo Secondo la giurisprudenza la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento è subordinata al verificarsi di due condizioni: - che il recesso sia stato determinato da obiettive esigenze organizzative o produttive aziendali; - che il lavoratore licenziato non possa essere riutilizzato in altro settore aziendale. La giurisprudenza ha inoltre affermato che: - il giustificato motivo oggettivo ricorre, non solo in caso di modifiche strutturali e organizzative, ma anche nel caso in cui sussista la necessità di ridurre i costi di esercizio eliminando l'onere eccessivamente gravoso costituito da un numero esuberante di dipendenti; - si devono ritenere non vincolanti ai fini della scelta del lavoratore da licenziare per giustificato motivo oggettivo eventuali situazioni personali del lavoratore quali, ad esempio, il carico di famiglia o l'anzianità di servizio; - la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In tale ipotesi di giustificato motivo la giurisprudenza è solita ritenere che la sussistenza dello stesso prescinda - a differenza degli altri casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo - dalla impossibilità o meno di riutilizzare il lavoratore in mansioni diverse. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il giudice, una volta dimostrate dal datore di lavoro le circostanze che ne integrano la fattispecie, non può sindacare l'opportunità delle scelte organizzative effettuate dall'imprenditore che sono "a monte" dell'intimazione del licenziamento stesso. Sussistenza di un giustificato motivo soggettivo Secondo la giurisprudenza costituisce giustificato motivo soggettivo di licenziamento il comportamento del lavoratore che sia - anche solo potenzialmente - tale da arrecare grave pregiudizio al datore di lavoro e che si traduca nella obiettiva - e cioè a prescindere dalla valutazione soggettiva del datore di lavoro - impossibilità di un ragionevole affidamento di una gestione corretta delle mansioni affidate al prestatore di lavoro. Onere della prova L'onere della prova della sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento spetta, ex art. 5, L. n. 604/1966, al datore di lavoro. Licenziamento disciplinare Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in quanto intimato in relazione ad un inadempimento del lavoratore assume natura disciplinare e deve, pertanto, essere intimato con l'osservanza della procedura di cui all'art. 7, L. n. 300/1970. Intimazione del licenziamento Il licenziamento deve essere intimato dal datore di lavoro, da un suo rappresentante legale ovvero dai soggetti che ne sono legittimati sulla base della distribuzione del potere di gestione del personale fissata dall'organigramma aziendale. 8

9 La giurisprudenza ha ritenuto, peraltro, che il licenziamento intimato da un soggetto non legittimato non è nullo, bensì soltanto annullabile su azione del datore di lavoro, che può - alternativamente - ratificarlo a norma dell'art cod. civ. (che disciplina la ratifica del rappresentato degli atti compiuti dal rappresentante senza potere). Forma dell'atto di licenziamento In applicazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 604/1966, il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro, salvo ulteriori requisiti di forma stabiliti dalla contrattazione collettiva. Il requisito della forma scritta dell'atto di licenziamento non è soddisfatto da forme di comunicazione equipollenti. E' pertanto esclusa la legittimità di licenziamenti portati a conoscenza del lavoratore interessato - ad esempio - mediante affissione nei locali dell'impresa o sulla porta degli uffici ovvero sulla bacheca del cantiere. Comunicazione dei motivi Ai sensi del comma 2 del citato art. 2, il prestatore di lavoro entro i 15 giorni successivi alla data in cui ha ricevuto la comunicazione del licenziamento, può richiedere i motivi che hanno determinato il recesso. In tal caso il datore di lavoro deve comunicare - sempre per iscritto - i motivi del licenziamento entro 7 giorni dal momento della ricezione della richiesta. E' sufficiente che entro tale termine di 7 giorni venga inviata dal datore la comunicazione rimanendo irrilevante - secondo la giurisprudenza - che la lettera contenente l'indicazione dei motivi venga ricevuta dal lavoratore in data successiva. Ove il lavoratore non abbia fatto richiesta di conoscere i motivi del licenziamento, questo è valido ed efficace anche senza l'esplicazione dei motivi. I motivi comunicati dal datore di lavoro al lavoratore che ne abbia fatto richiesta devono essere specifici. Cioè a dire che il datore di lavoro deve esporre i dati e gli aspetti essenziali del fatto che ha determinato il recesso, onde consentirne l'esatta individuazione. Immutabilità dei motivi del recesso Ai fini della valutazione della giustificatezza o meno del licenziamento possono prendersi in considerazione soltanto i fatti addotti a suo sostegno al momento della comunicazione del recesso o dei motivi che lo hanno determinato. Conseguentemente rimangono privi di rilevanza i fatti ed i motivi non comunicati o comunicati tardivamente. Tale principio non esclude, peraltro, che la qualificazione giuridica del motivo di licenziamento possa essere corretta o che possano essere successivamente addotte nuove circostanze specificative o confermative dei fatti già contestati. In particolare il datore di lavoro può ulteriormente specificare i motivi che hanno determinato il recesso, purchè l'integrazione della motivazione non si concreti in una diversa motivazione del licenziamento rispetto a quella resa nota all'atto della comunicazione del licenziamento stesso o dei motivi che lo hanno determinato. Comunicazione dei motivi di licenziamento per giusta causa Secondo la prevalente giurisprudenza il licenziamento per giusta causa deve essere intimato unitamente ai suoi motivi immediatamente dopo che il datore di lavoro 9

10 è venuto a conoscenza del fatto che costituisce la giusta causa di recesso (c.d. principio dell'immediatezza). Tale principio è, peraltro, temperato dall'ammissibilità del decorso di un certo lasso di tempo tra il verificarsi dei fatti e l'adozione del licenziamento, laddove sia necessario accertare la veridicità dei fatti e valutarne la gravità, nei limiti del tempo necessario per tale accertamento. A titolo d'esempio è stato ritenuto: - tempestivo il licenziamento intimato dopo la condanna del lavoratore per i medesimi fatti posti a base del licenziamento stesso, se il lavoratore era stato sottoposto a procedimento disciplinare aperto subito dopo il fatto e sospeso in attesa degli esiti del giudizio penale; - intempestivo il licenziamento intimato al lavoratore che, dopo essere stato condannato in sede penale, era stato riammesso in servizio per alcuni mesi e successivamente licenziato. Inosservanza dei requisiti di forma L'art. 2, comma 3, L. n. 604/1966 sancisce che il licenziamento intimato in violazione dei commi 1 e 2 dello stesso articolo (forma scritta del licenziamento, obbligo di motivazione e relativi termini) è inefficace. Cioè a dire che esso deve considerarsi inidoneo ad estinguere il rapporto di lavoro. Ciò, peraltro, non esclude - secondo la prevalente giurisprudenza - che il datore di lavoro possa intimare un nuovo licenziamento fondato sugli stessi motivi sui quali si fondava il primo nel rispetto, questa volta, delle modalità previste dalla legge. Il secondo licenziamento ha efficacia dal giorno in cui è stato comunicato. Casi di libera recedibilità La disciplina limitativa dei licenziamenti individuali non trova applicazione - e quindi il lavoratore può essere legittimamente licenziato "ad nutum" (cioè anche in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo) - nei seguenti casi: - per tutta la durata del periodo di prova fintantochè non siano comunque decorsi 6 mesi dall'assunzione; - lavoratori domestici; - possesso da parte del lavoratore dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia, semprechè, ai fini della prosecuzione dell'attività lavorativa oltre l'età pensionabile, non sia stata esercitata l'opzione di cui all'art. 6, D.L. n. 791/1981, convertito nella legge n. 54/1982, o quella di cui all'art. 6, L. n. 407/1990. Esclusione dai vincoli di forma Ai licenziamenti "ad nutum" non si applicano le norme contenute nella L. n. 604/1966, pertanto non sono sottoposti a particolari oneri di forma, salvo che sia stabilito diversamente dalla contrattazione collettiva. Dirigenti Il licenziamento dei dirigenti deve essere intimato per iscritto, a norma dell'art. 2, comma 4, L. n. 604/1966, ma non è richiesta la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, nè vige l'obbligo di motivazione. 10

11 Diritto d'opzione ex D.L. n. 791/1981 Il diritto di opzione disciplinato dal D.L. n. 791/1981 è riconosciuto, ex art. 6, comma 1, dello stesso D.L. n. 791, agli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, ovvero a gestioni sostitutive, esclusive od esonerative - semprechè non abbiano ottenuto o non richiedano la liquidazione di una pensione a carico dell'inps o di trattamenti sostitutivi, esclusivi od esonerativi dell'assicurazione generale obbligatoria - che intendano continuare a prestare la loro opera fino al raggiungimento dell'anzianità contributiva massima utile o per incrementare la propria anzianità contributiva comunque non oltre il compimento del 65 anno di età. Il diritto in parola ad avviso della giurisprudenza, va riconosciuto anche ai dirigenti, ancorchè dal suo esercizio non discenda la stabilità del posto di lavoro, ma semplicemente l'illegittimità del licenziamento intimato sul raggiungimento dell'età pensionabile. L'opzione deve essere comunicata al datore di lavoro - ai sensi del comma 2 dell'art. 6 - almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia. L'art. 6 prevede poi al comma 6 che se l'opzione viene esercitata, la cessazione del rapporto di lavoro per avvenuto raggiungimento dell'anzianità contributiva massima utile avviene, in ogni caso, senza obblighi di preavviso, salva ovviamente per le parti la possibilità di accordarsi anche tacitamente per l'ulteriore prosecuzione del rapporto. Diritto d'opzione ex L. n. 407/1990 Originariamente il diritto di opzione di cui all'art. 6, legge n. 407/1990 era riconosciuto agli stessi soggetti summenzionati che, nonostante avessero raggiunto l'anzianità contributiva massima, intendevano continuare a prestare l'attività lavorativa fino al 62 anno di età, momento in cui il rapporto di lavoro cessava in ogni caso senza obblighi di preavviso. Tale limite di età, sino al raggiungimento del quale prosegue il rapporto di lavoro è stato successivamente elevato - a norma dell'art. 1, D.Lgs. n. 503/ a 65 anni. L'elevazione, peraltro, non riguarda i lavoratori con un grado di invalidità pari o superiore all'80%. L'esercizio dell'opzione in oggetto deve essere comunicato, ex art. 6, comma 2, L. n. 407/1990, al datore di lavoro e all'ente previdenziale almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia. In base al suindicato art. 1, D.Lgs. n. 503/1992, sono esonerati da tale onere i lavoratori che alla data del 1 gennaio 1993 abbian o già maturato i requisiti per il diritto alla pensione di vecchiaia e i lavoratori che maturano tali requisiti entro il successivo 1 luglio, fermo restando tuttavia l'obbligo di dare comunicazione al datore di lavoro dell'esercizio dell'opzione entro la data della loro maturazione. Regime della libera recedibilità Nei rapporti di lavoro rientranti nell'area della libera recedibilità il datore di lavoro può licenziare il lavoratore: - con preavviso (o erogando l'indennità sostitutiva del preavviso), anche in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo (si veda, al riguardo, quanto esposto in tema di obbligo di preavviso e di indennità sostitutiva), salvo che non sia stato stabilito un termine; - senza preavviso, se sussiste una giusta causa. 11

12 Al riguardo va peraltro rilevato che, secondo l'oramai consolidato insegnamento giurisprudenziale anche per tali rapporti, laddove al licenziamento debba essere riconosciuta natura disciplinare, questo deve risultare intimato nel rispetto degli oneri procedurali previsti dall'art. 7 della L. n. 300/1970, pena la nullità del medesimo. Impugnazione del licenziamento L'art. 6 della legge n. 604/1966 sancisce che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza mediante un atto scritto, anche extragiudiziale (es. lettera), idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale. L'impugnazione deve pervenire al datore di lavoro entro 60 giorni dalla ricezione da parte del lavoratore della comunicazione del licenziamento stesso o dei motivi se richiesti. Peraltro, a norma dell'art. 5, comma 5, L. n. 108/1990, anche la comunicazione al datore di lavoro della richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione (v. p. 11) avvenuta nel termine di 60 giorni di cui all'art. 6, L. n. 604/1966, impedisce la decadenza sancita nella medesima norma. La dichiarazione di impugnazione deve essere resa al datore di lavoro. Secondo la giurisprudenza: - l'impugnazione può essere validamente proposta anche prima della comunicazione dei motivi; - in caso di licenziamento intimato oralmente - e quindi senza l'osservanza della forma scritta - il lavoratore non ha l'onere di impugnare il licenziamento entro il termine di decadenza di 60 giorni previsto dalla L. n. 604/1966, bensì deve soltanto osservare i termini prescrizionali stabiliti, in via generale, dal codice civile; - l'impugnazione del licenziamento disciplinare nullo per violazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970 non è sottoposta al termine di decadenza in oggetto. - il licenziamento può essere impugnato anche da una persona diversa dal lavoratore - ad esempio lettera di impugnazione sottoscritta da un avvocato o procuratore legale - se quest'ultimo risulta essere munito di specifica procura scritta rilasciata prima della sottoscrizione dell'atto di impugnazione. Secondo un orientamento accolto dalla Corte di cassazione la decadenza dall'impugnazione del licenziamento non preclude al lavoratore l'azione risarcitoria ordinaria. Rinuncia espressa o tacita all'impugnazione Secondo la giurisprudenza: - il lavoratore può rinunciare all'impugnazione del licenziamento o revocare l'impugnazione già proposta anche mediante comportamenti concludenti quali l'accettazione del t.f.r. accompagnata dalla mancata comparizione del lavoratore alla riunione del collegio di conciliazione, o il decorso di diversi anni tra il licenziamento e la presentazione del ricorso giudiziario; - l'accettazione del licenziamento da parte del lavoratore non comporta di per sè la rinuncia agli effetti giuridici scaturenti dal licenziamento stesso ed ai relativi diritti, tra cui quello della sospensione e prolungamento del termine di preavviso in caso di sopraggiunta malattia del lavoratore stesso. 12

13 Tentativo obbligatorio di conciliazione Conciliazione ex art. 410 cod. proc. civ. A norma dell'art. 410 cod. proc. civ. chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione presso la Commissione di conciliazione nella cui circoscrizione si trova l'azienda o la dipendenza alla quale il lavoratore è addetto o era addetto al momento dell'estinzione del rapporto. L'espletamento del tentativo di conciliazione in parola costituisce condizione di procedibilità della domanda (art. 412 bis cod. proc. civ.). Organizzazioni di tendenza L'art. 4, comma 1, L. n. 108 dispone che fermo restando quanto previsto in caso di licenziamento discriminatorio, la tutela reale non è applicabile nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro (c.d. organizzazioni di tendenza) attività di natura politica (partiti), sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto. MALATTIA Obbligo di comunicazione e certificazione della malattia Il lavoratore assente per malattia ha l'obbligo di comunicare al datore di lavoro lo stato di malattia e di giustificarlo con valida certificazione medica. Le modalità e i termini entro cui effettuare tale comunicazione sono stabiliti dai contratti collettivi ed eventualmente dai regolamenti aziendali. Il lavoratore è altresì tenuto a presentare un certificato di malattia rilasciato da qualsiasi medico abilitato all'esercizio della professione, salvo che il contratto preveda l'onere di documentare lo stato patologico con una certificazione rilasciata da una particolare categoria di medici (es. medico ASL). Il certificato medico può attestare, oltre alla sussistenza della malattia al momento della visita, anche la sua esistenza in un momento precedente. Il lavoratore è tenuto a documentare l'eventuale prosecuzione della malattia oltre il termine originariamente prognosticato: infatti, l'assenza del lavoratore non può essere giustificata dalla malattia denunciata e comprovata solo per un periodo antecedente l'assenza medesima. Al fine di consentire le visite di controllo del suo stato di malattia il lavoratore ha l'obbligo di comunicare al datore l'eventuale cambiamento di indirizzo (si veda inoltre quanto esposto al par. 10). Con riferimento agli adempimenti suesposti, la giurisprudenza ha sottolineato che costituiscono mancanze disciplinari, sanzionabili nei casi più gravi anche con il licenziamento: - la mancata comunicazione dello stato di malattia e della prosecuzione della stessa oltre i termini originariamente prognosticati o la comunicazione effettuata oltre i termini previsti dal contratto collettivo; - il mancato invio del certificato. 13

14 Obbligo di sottoporsi ai controlli sanitari Il lavoratore ha l'obbligo sia di consentire la visita di controllo da parte dei sanitari appartenenti alle strutture pubbliche previste dalla legge, sia di fornire le indicazioni sulla propria identità personale richieste dal medico che procede alla visita, essendo questi un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. Qualora si verifichi una modifica della prognosi originaria, il lavoratore è tenuto a darne comunicazione al proprio datore di lavoro (trasmettendo copia del referto) anche nel caso di visita effettuata d'ufficio (INPS circ. n. 182/1997). Il lavoratore assente, senza giustificato motivo, alla visita di controllo effettuata nelle fasce di reperibilità decade dal diritto al trattamento economico di malattia (si veda quanto esposto al par. 10) ed è passibile, ove il contratto collettivo lo preveda, di sanzioni disciplinari. Facoltà di controllo del datore di lavoro Il datore di lavoro, al fine di controllare le assenze per malattia dei suoi dipendenti, può avvalersi - a norma dell'art. 5, commi 1 e 2, L. n. 300/ esclusivamente dei servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, che sono tenuti a compiere il suddetto controllo quando il datore lo richieda; sono vietati accertamenti diretti del datore di lavoro sull'infermità per malattia del lavoratore. Ai sensi dell'art. 38, L. n. 300/1970, la violazione delle suddette prescrizioni è punita, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da 154 (L ) fino a (L ) o con l'arresto da 15 giorni ad un anno. Nei casi più gravi le pene dell'arresto e dell'ammenda possono essere applicate congiuntamente. L'ammenda può essere aumentata dal giudice fino al quintuplo se, per le condizioni economiche del reo, può presumersi inefficace anche se applicata nel massimo. Nei casi più gravi suindicati, l'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall'art. 36 cod. pen. (vale a dire per una sola volta, in uno o più giornali designati dal giudice, generalmente per estratto). ORARIO DI LAVORO Modifiche alla durata e alla distribuzione dell'orario di lavoro Il datore di lavoro non può ridurre unilateralmente l'orario normale di lavoro dei propri dipendenti, mentre ha il potere di modificare anche unilateralmente la distribuzione dell'orario di lavoro nell'arco della giornata o della settimana lavorativa purchè tale modifica non sia arbitraria ma dettata da effettive esigenze tecniche, organizzative e produttive. Tale potere del datore di lavoro non viene meno neppure quando la distribuzione dell'orario di lavoro in atto risulti praticata da tempo, in quanto non possono essere configurati, in materia, usi aziendali vincolanti. D'altronde, anche nel caso che il contratto collettivo imponga particolari oneri procedurali in ordine alla determinazione delle modalità temporali della prestazione lavorativa - ad esempio obbligo di informazione preventiva o di esame congiunto con i sindacati - il datore di lavoro, una volta soddisfatti 14

15 correttamente quegli oneri, può comunque disporre la modifica della distribuzione dell'orario di lavoro unilateralmente, laddove non sia stato possibile addivenire ad un accordo con i lavoratori o con i loro rappresentanti sindacali. Tuttavia, il datore di lavoro non può modificare unilateralmente l'orario di lavoro dei singoli dipendenti quando la determinazione dell'orario di lavoro non sia stata effettuata attraverso un mero rinvio alla disciplina collettiva ma abbia costituito oggetto di una specifica pattuizione individuale. LAVORO STRAORDINARIO Potere del datore di lavoro di richiedere l'effettuazione di lavoro straordinario Ogni qualvolta la contrattazione collettiva preveda l'effettuazione di lavoro straordinario, il datore di lavoro ha il potere di richiedere e di imporre ai propri dipendenti l'effettuazione di lavoro straordinario nel rispetto dei limiti di durata previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva di categoria. In presenza di esigenze aziendali inderogabili ed eccezionali, il datore di lavoro ha anche il potere di imporre prestazioni di lavoro straordinario nei giorni festivi ovvero nelle ore notturne. Ne deriva che, da un lato, il lavoratore che si rifiuti ingiustificatamente di prestare il lavoro straordinario legittimamente richiestogli dal datore di lavoro pone in essere un inadempimento contrattuale e diventa, quindi, passibile di sanzione disciplinare, a meno che sussistano norme contrattuali collettive o individuali che escludano l'obbligatorietà delle prestazioni di lavoro straordinario ovvero subordinino il legittimo esercizio del potere del datore di lavoro di richiedere prestazioni straordinarie al ricorrere di circostanze o esigenze particolari o eccezionali; dall'altro lato, che il lavoratore non può pretendere, senza il consenso del datore di lavoro, di continuare a svolgere lo stesso numero di ore di lavoro straordinario prestate in precedenza, al fine di lasciare intatto l'ammontare complessivo della propria retribuzione. 15

16 MUTAMENTO DELLE MANSIONI Assegnazione a mansioni equivalenti Le nuove mansioni alle quali è adibito il prestatore possono essere considerate equivalenti a quelle di provenienza qualora siano collocate nel medesimo livello d'inquadramento previsto dal contratto collettivo e, comunque, abbiano un analogo contenuto professionale. Il trattamento retributivo del lavoratore - stante quanto disposto dall'art. 2103, cod. civ. - non può subire riduzioni per effetto del mutamento delle mansioni (c.d. principio dell'irriducibilità della retribuzione). Al riguardo la giurisprudenza ha affermato che il principio della irriducibilità della retribuzione in caso di assegnazione a mansioni equivalenti non trova applicazione in relazione a quegli emolumenti che non sono connessi tanto al livello professionale richiesto dalle mansioni originarie, quanto a mere circostanze di tempo o di modo dello svolgimento della prestazione stessa (disagio attinente al luogo di lavoro, al tempo, al rischio per la salute e simili). Assegnazione a mansioni superiori L'art. 2103, cod. civ., sancisce inoltre che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore di lavoro ha diritto: a) al trattamento retributivo corrispondente al livello d'inquadramento superiore in cui rientrano le nuove mansioni sin dal momento in cui queste ultime cominciano ad essere svolte; b) all'inquadramento nel predetto livello dopo un periodo continuativo di svolgimento delle mansioni superiori a meno che tali mansioni siano svolte in sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Tale periodo è fissato: - per i lavoratori in genere, in tre mesi o nel periodo inferiore stabilito dai contratti collettivi; - per il riconoscimento dell'appartenenza alla categoria dei quadri o dei dirigenti, in tre mesi o nel periodo superiore stabilito dai contratti collettivi (art. 6, L. n. 190/1985). Si deve ritenere che il lavoratore abbia svolto mansioni "superiori" quando abbia, di fatto, svolto mansioni corrispondenti ad un livello d'inquadramento più elevato rispetto a quello al quale appartiene. Pertanto, affinchè il lavoratore maturi il diritto alla qualifica superiore: - non è sufficiente che ad esso siano stati richiesti compiti "quantitativamente" ulteriori o aggiuntivi rispetto a quelli svolti in precedenza se tali compiti ulteriori corrispondono al medesimo livello d'inquadramento, bensì è necessario che al lavoratore siano state assegnate mansioni corrispondenti ad un livello d'inquadramento superiore; - nel caso che il lavoratore eserciti promiscuamente mansioni appartenenti a più livelli d'inquadramento, le mansioni corrispondenti al livello superiore, se esercitate promiscuamente a mansioni di livello inferiore, devono essere, rispetto a quest'ultime, quantomeno prevalenti; - i compiti concretamente svolti dal lavoratore devono corrispondere a mansioni inquadrate nel livello superiore non solo quanto agli atti nei quali essi materialmente si esplicano, ma anche quanto al grado di responsabilità e di autonomia proprio della qualifica rivendicata (in particolare, rileva la circostanza 16

17 che l'assegnazione alle mansioni superiori sia piena o che abbia comportato invece l'assistenza ed il consiglio di altri dipendenti più preparati o dello stesso datore di lavoro). Peraltro, è stato generalmente escluso: - che il lavoratore possa invocare il riconoscimento di una qualifica superiore sulla base della mera circostanza che alcuni suoi colleghi - che esercitano mansioni analoghe - si siano visti concedere, come trattamento di miglior favore, una qualifica superiore rispetto a quella che sarebbe loro spettata sulla base del contratto collettivo: ed invero a tale circostanza è stato riconosciuto un valore meramente indiziario o integrativo di elementi probatori già esistenti o, ancora - ma in una fattispecie particolare - presuntivo; - che l'attribuzione al lavoratore di una qualifica superiore a quella precedentemente attribuita, in relazione allo svolgimento delle medesime mansioni, sia da sola sufficiente per riconoscere al lavoratore il diritto di inquadramento superiore anche per il periodo precedente, posto che la suddetta circostanza può anche essere espressione della facoltà del datore di lavoro di corrispondere un maggior compenso a parità di attività lavorativa; - che il datore di lavoro il quale abbia indetto un concorso privato tra i dipendenti per decidere quali tra essi abbiano diritto alla promozione possa valutare arbitrariamente gli esiti del concorso stesso: egli dovrà, invece, comportarsi, nella valutazione dei risultati del concorso, secondo correttezza e buona fede; - che l'esistenza di norme contrattuali collettive secondo le quali il datore di lavoro è tenuto ad assegnare la qualifica superiore "per concorso", impedisca al lavoratore di conseguire tale qualifica se ha svolto, di fatto, le mansioni corrispondenti a detta qualifica; - che il lavoratore possa vantare un diritto alla "carriera" se non sono maturati i presupposti di fatto che la legge e la contrattazione prevedono per l'avanzamento di qualifica. L'assegnazione provvisoria a mansioni superiori può generalmente essere disposta dall'imprenditore senza il consenso del dipendente interessato. Per contro, secondo la prevalente giurisprudenza, l'assegnazione definitiva a mansioni superiori (c.d. promozione unilaterale) può avvenire solo con il consenso dell'avente diritto. Diritto al miglior trattamento economico Il diritto al trattamento economico proprio delle mansioni superiori sorge non appena - e in quanto - queste vengono esercitate. Peraltro, la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi nel senso della legittimità delle clausole contrattuali che prevedono le cosiddette "posizioni in addestramento"; clausole, cioè, che riconoscono la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni superiori, senza l'immediata attribuzione del trattamento economico corrispondente e prevedendo, invece, una crescita retributiva graduale nel tempo. Ciò sul presupposto che esse non fanno che adeguare il trattamento spettante al lavoratore "in addestramento" al progressivo aumento dell'esperienza e della professionalità. 17

18 Diritto alla qualifica superiore Dopo il concreto e continuativo svolgimento per un periodo di tre mesi - o per il periodo previsto dalla contrattazione collettiva - di mansioni superiori il lavoratore ha diritto al riconoscimento della qualifica superiore con le relative conseguenze sul piano economico e normativo a meno che le mansioni superiori non siano state svolte in sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Secondo la giurisprudenza: - il diritto alla qualifica superiore sorge dopo l'espletamento di fatto delle relative mansioni per un periodo superiore ai tre mesi a prescindere da intese di diverso contenuto intercorse tra le parti; - il periodo di tre mesi previsto dall'art cod. civ., come limite massimo oltre il quale il lavoratore matura il diritto al riconoscimento della qualifica superiore non si calcola a giorni bensì si compie nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale; pertanto, secondo il criterio suesposto, non conseguirebbe il diritto alla promozione il lavoratore che abbia prestato servizio per 92 giorni consecutivi, in quanto non sarebbe decorso completamente il trimestre secondo il criterio sopra indicato. Peraltro in ordine ai criteri di calcolo del periodo di effettivo svolgimento delle mansioni superiori è stato altresì precisato che: - va escluso il periodo svolto per assolvere il servizio militare; - non vanno compresi i periodi di ferie, i quali, peraltro, non hanno effetto interruttivo, potendosi sommare la frazioni temporali anteriori e successive alla pausa feriale caratterizzate dallo svolgimento di mansioni superiori; - sarebbero compresi i periodi di malattia. Sotto quest'ultimo profilo è stato, in particolare, ritenuto che la malattia, in quanto causa di temporanea sospensione del rapporto non imputabile al lavoratore non può risolversi in danno di coloro che siano assegnati a mansioni superiori, onde il termine di cui all'art cod. civ. continua a decorrere anche durante la malattia, fermo restando il potere del datore di lavoro di revocare l'assegnazione, anche in costanza di malattia. Ai fini della maturazione del diritto alla relativa qualifica, l'assegnazione a mansioni superiori deve durare ininterrottamente per tutto il periodo fissato dalla contrattazione collettiva o dalla legge a quel fine, onde il lavoratore non può pretendere nè il riconoscimento di tale qualifica nè di essere assegnato definitivamente alle nuove mansioni cumulando distinte e reiterate assegnazioni provvisorie di breve periodo. Peraltro, tale principio è stato notevolmente temperato da quegli orientamenti secondo i quali possono essere cumulati i periodi durante i quali il lavoratore è stato assegnato a mansioni superiori che abbiano assunto carattere di particolare frequenza e sistematicità (carattere desumibile dal numero delle assegnazioni, dal tempo intercorso tra un'assegnazione e l'altra, dalla disposta cessazione delle assegnazioni medesime a ridosso dello scadere del periodo trimestrale); ciò specie se si dimostri l'intento del datore di lavoro di eludere la normativa sulla c.d. promozione automatica del lavoratore. Ai fini del riconoscimento della qualifica superiore, è sufficiente che il lavoratore abbia svolto, di fatto, le mansioni superiori, senza che possa assumere - neppure se previsto dalla contrattazione collettiva - rilevanza la 18

19 circostanza che il datore di lavoro abbia o meno formalmente richiesto o riconosciuto lo svolgimento di dette mansioni. Di contro il lavoratore non può invocare il riconoscimento della qualifica superiore nel caso che abbia svolto le mansioni relative contro la volontà del datore di lavoro. Prescrizione del diritto al riconoscimento della qualifica superiore e alle differenze retributive Il diritto del lavoratore all'inquadramento nella categoria superiore, per effetto dello svolgimento delle mansioni ad essa corrispondenti, è soggetto all'ordinaria prescrizione decennale, la quale, non essendo stata oggetto della sentenza n. 63/1966 della Corte costituzionale (avente ad oggetto la prescrizione dei crediti di lavoro), decorre anche in costanza del rapporto di lavoro. Il diritto alle differenze retributive relative ai periodi durante i quali si sono effettivamente svolte mansioni superiori è soggetto invece alla prescrizione quinquennale che decorre in costanza del rapporto di lavoro, se questo è assistito dalla cosiddetta "stabilità reale" (e cioè se sono ad esso applicabili le limitazioni dei licenziamenti individuali di cui alle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 e la garanzia della retribuzione in caso di illegittimo licenziamento); se, invece, al rapporto di lavoro non trova applicazione la c.d. stabilità reale, il termine di prescrizione quinquennale del diritto alle differenze retributive per l'esercizio di mansioni superiori decorre solo dal momento della cessazione del rapporto di lavoro. 19

20 TRASFERIMENTO A norma dell'art. 2103, cod. civ., nel testo sostituito dall'art. 13, L. n. 300 del 1970, il potere del datore di lavoro di trasferire il lavoratore da una unità produttiva ad un'altra è limitato alle ipotesi in cui sussistano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (non è pertanto ammesso il trasferimento dettato da motivi disciplinari, oltre tutto contrario al divieto, sancito nell'art. 7, comma 4, L. n. 300, di erogare sanzioni che comportino un mutamento definitivo del rapporto). Oltre che in conseguenza delle ragioni organizzative suesposte, il trasferimento deve essere disposto nel rispetto delle eventuali clausole del contratto collettivo che stabiliscano specifici oneri di forma, particolari modalità in ordine alla comunicazione del trasferimento, o ancora che restringano il campo delle "ragioni" che legittimano il trasferimento. Per quanto concerne la comunicazione dei motivi del trasferimento, il relativo obbligo, ad avviso della giurisprudenza, non sorgerebbe contestualmente alla comunicazione dell'ordine di trasferimento, ma solo e quando il lavoratore trasferito ne abbia fatto espressa richiesta. Divieto di trasferimento Per espressa previsione normativa (art. 78, D.Lgs. n. 267/2000), inoltre, i lavoratori eletti membri di consigli comunali, provinciali e di altri enti territoriali non possono essere trasferiti durante l'esercizio del mandato consiliare se non a richiesta o con il loro consenso; analogamente, ai sensi dell'art. 22, L. n. 300, il trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali non può essere disposto senza il preventivo nulla osta delle organizzazioni sindacali di appartenenza. Sindacato giurisdizionale sui motivi del trasferimento Il controllo del giudice circa la ricorrenza della condizione imposta dall'art. 2103, Cod. civ. deve limitarsi ad accertare la sussistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive e il nesso causale tra quelle ragioni e il trasferimento, ma non può estendersi all'esame delle intrinseche motivazioni delle scelte tecnico-economiche operate dall'imprenditore dal momento che ciò contrasterebbe con il principio di libertà dell'iniziativa economica privata sancito dall'art. 41 della Costituzione. 20

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