Fabio Murgia L ESSERE. Tesina d esame di maturità Anno scolastico Liceo scientifico A. Volta, Ghilarza

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1 Fabio Murgia L ESSERE Tesina d esame di maturità Anno scolastico Liceo scientifico A. Volta, Ghilarza

2 «Be as different as you want to be». Jared Leto In copertina Il frontespizio è una ripresa della copertina della versione Club Italiano dei Lettori del saggio di Erich Fromm, Avere o Essere?, al quale mi sono in gran parte ispirato per la stesura della tesina. La stadera fotografata indica lo strumento attraverso cui si pesano gli oggetti (in genere di piccole dimensioni) in relazione a dei campioni di peso componenti lo strumento stesso. La sfera indica invece l essere, personificato nella sfera perfettamente rotonda da Parmenide di Elea. L immagine ossimorica riassume la morale dello scritto che presenta: si soppesi il proprio il proprio essere, la propria personalità e il proprio carattere, anziché badare esclusivamente ai beni materiali e ai possessi quantificabili: si possieda personalità. Hanno collaborato all apparato iconografico Claudio Murgia e Marta Arru.

3 Indice 1 Introduzione 2 Le origini: Parmenide ed Eraclìto 5 Un interpretazione diversa 7 Essere o Apparire 12 Essere o Avere 20 L essere come fattore storico 23 L essere nella mia realtà: la scuola

4 Fabio Murgia L ESSERE Tesina d esame di maturità Anno scolastico Liceo scientifico A. Volta, Ghilarza

5 Introduzione Tra i principali temi che costituiscono la storia della filosofia occidentale, quello dell essere è, indubbiamente, tra i più studiati e i più discussi. In virtù dei suoi molteplici e controversi significati, nel XVII secolo venne coniato il temine ontologia, che letteralmente significa scienza dell ente ( òn, che equivale all italiano ente, è il participio del verbo greco einai, traducibile appunto con essere ) e che racchiude in sé l insieme delle interpretazioni dell essere e di tutte le sue accezioni. Il termine essere rimanda principalmente ai seguenti significati: Esistenza: per esprimere il fatto che tale ente esiste (ad es.: la penna è, ovvero la penna c è, esiste materialmente). Identità: io sono Fabio Predicazione: che esprime la proprietà o la caratteristica di un ente (ad es.: oggi è una bella giornata). [Wikipedia] Ma, al di là del suo connotato verbale grammaticalmente definito, l ontologia sembra offrirci una serie di interpretazioni storiche che associano all essere un identità, un concetto, un astrazione, che nella loro decodificazione coinvolgono necessariamente etica, morale, psicologia e tanta soggettività. 1

6 1. Le origini: Parmenide ed Eraclìto Le prime vere interpretazioni dell Essere affondano le loro radici nella filosofia classica dell antica Grecia. Fu Parmenide, nato ad Elea intorno alla metà del VI secolo a.c., ad elaborare per la prima volta una teoria che definisse l essere come un principio applicabile alla lettura della realtà e alla ricerca del vero. Nel suo poema Sulla Natura, egli parla della conoscenza della verità sulle cose per mezzo di una rivelazione divina che gli espone il corretto metodo di ricerca della stessa: al mondo esistono due vie per arrivare alla conoscenza, l una «che è e che non è possibile che sia» (la cosiddetta via dell affermazione), l altra «che non è e che è impossibile che sia» (la cosiddetta via della negazione). Tuttavia, solo la prima è effettivamente percorribile, poiché, sostiene Parmenide, il non-essere non può essere né pensato né detto: per giungere alla Verità occorre attenersi alla via dell affermazione, ossia al metodo che, in rapporto alla realtà, afferma ciò che è davvero, mentre è necessario evitare la via della negazione, incerta, inesatta, illusoria, che potrebbe rappresentare ciò che non è. Se ne deduce quindi che, per l eleate, il Regno della Verità (il mondo vero) coincide con il regno di ciò che esiste, e la regola che ci deve guidare alla sua scoperta consiste nell attribuire alla realtà solo quelle caratteristiche che non comportano una negazione. Parmenide assegna dunque all essere una serie di caratteristiche concrete e definite che hanno lo scopo di esentarlo da ogni possibile negazione. L Essere, nell accezione parmenidea, è dunque ingenerato e incorruttibile, poiché se fosse generato e corruttibile ci sarebbe un momento in cui non è ancora o non è più ; è anche immobile, in quanto se fosse in movimento non sarebbe più in un dato punto o in un dato luogo; è infinito, in quanto se fosse finito non sarebbe più tale oltre dei limiti, e secondo la stessa logica è atemporale, indivisibile, continuo ecc Alla luce di queste caratteristiche si capisce perché Parmenide abbia scelto di rappresentare l Essere attraverso la metafora di «una sfera perfettamente rotonda», in quanto assolutamente perfetta e omogenea, priva dei limiti e delle peculiarità della geometria. Come si nota, l Essere parmenideo è una forma pseudo materiale ben definita, alla quale non solo è possibile, ma è strettamente necessario ricondurre lo studio della realtà e la ricerca del vero. Tuttavia, come nota Erich Fromm nel suo saggio Avere o Essere?, «[ ] l essere parmenideo è una sostanza permanente, atemporale e immutabile [ ] e ha senso solo nella nozione idealistica che un pensiero costituisca la realtà ultima» ( Erich Fromm, Avere o Essere?, Milano, Club Italiano dei Lettori, 1978, p. 44 ). Come anche sottolineato da Georg Simmel, una concezione dell essere assoluta, selettiva, categorica, che inquadra il mondo in un mosaico di incastri definiti e immutabili appare restrittiva e decisamente inadeguata per la rivelazione di una realtà vitale che implica crescita, trasformazione, diversità. In particolare, Emanuele Severino, nel suo La Filosofia Antica, esamina come la negazione, da parte di Parmenide, del divenire e della molteplicità della natura costituiscano quelle conseguenze logiche dell essere sferico proposto da Parmenide: «Il senso dell essere (parmenideo) consente il costituirsi della negazione dell esistenza del molteplice [ ] in base alla considerazione che l affermazione di tale esistenza equivarrebbe all affermazione che il non-essere è. [ ] Se solo l essere è, allora ogni cosa determinata, proprio perché è determinata in un certo modo (ossia come colore, forma, suono ecc..) non è l essere, ossia è il non-essere» (Emanuela Severino, La Filosofia Antica, Milano, Rizzoli, 1984, p. 50). In altre parole, un albero non è l essere, perché tale albero, proprio perché è definito in tutte le sue caratteristiche come albero, implica l idea che non sia una roccia, un animale, un essere umano, un albero di specie diversa, e qualunque altra entità che al mondo non sia esattamente quell albero. In questo modo, l essere parmenideo è considerabile unico. 2

7 Per quanto riguarda la negazione del divenire, ci si può attenere alle stesse modalità di ragionamento: se l essere è assolutamente immobile ed eterno, è dunque impossibile che esso si trasformi, che divenga, ovvero che esso assuma caratteri diversi da quelli che aveva in partenza: se in un primo momento si aveva un entità a-b-c con date peculiarità e che, subìto un processo, diventa un entità a-b-d, significa che l entità non è più a-b-c. L essere parmenideo può quindi considerarsi immutabile. La negazione del molteplice e soprattutto del divenire come caratteristiche logiche e inequivocabili di un principio che vuole porsi alla base della lettura della Verità, rappresentano le teorie perfettamente opposte alla filosofia di un altro grande pensatore della Grecia ellenistica: Eraclìto. Nato a Efeso intorno alla metà del VI secolo a.c., Eraclìto passò alla storia come il filosofo del Divenire : al contrario di Parmenide, egli sosteneva che la realtà, necessariamente mutabile, varia, diversa, e costantemente in trasformazione, come appunto lo è la vita in sé, fosse riconducibile ad un unico «ordinamento», ovvero il Divenire. Infatti, secondo questa imprescindibile clausola, sarebbe contraddicente racchiudere il flusso naturale della vita in una forma definita e immutabile come quella sferica dell essere parmenideo. Severino scrive: «Tutte le cose sono uno, dice Eraclìto. Per quanto diverse e opposte si raccolgono in una suprema unità; ossia, pur nella loro diversità e opposizione, sono identiche. [ ] L identità delle cose è il loro stesso esser diverse e opposte, il loro stesso diversificarsi (dalle altre) e opporsi (alle altre). [ ] L identità del diverso è l opporsi di ogni cosa alle altre, il suo non essere le altre, il suo essere, appunto, un diverso». (Emanuele Severino, La Filosofia Antica, Milano, Rizzoli, 1984, p. 42). È dunque questa, per Eraclìto, la chiave della realtà: la diversità, la moltitudine, il contrasto dei discordi sono le caratteristiche comuni agli enti del mondo, il principio al quale ogni cosa può essere ricondotta: essere diversi è quanto più hanno in comune due poli opposti. Su questa teoria, considerata tutt oggi dalla potente originalità, Eraclìto edificò il famoso aforisma del panta rei, ovvero tutto scorre : il filosofo intendeva esprimere l idea di mutamento e trasformazione costante della realtà (il Divenire) attraverso la metafora dell acqua di un fiume: in un punto preciso del fiume è possibile bagnarci solo una volta, poiché quella stessa acqua nella quale ci si era immersi è stata in un attimo (in quell attimo in cui ci si bagna) trascinata dalla corrente che la componeva e mai sarebbe tornata indietro. Quest immagine di fugacità e di cambiamento simultaneo della realtà rimanda alla visione eraclidea del mondo stesso, inevitabilmente predisposto ai mutamenti delle forme. Un altra metafora che riassume l essere-divenire di Eraclìto consiste nella semplice immagine del fuoco. Il significato del fuoco ardente non rappresenta calore e vita come di immediata intuizione, ma rimanda alla focalizzazione particolare sulla fiamma, la quale è di sua natura in continuo ed eterno mutamento: un fuoco non sarà mai composto da fiamme uguali, né una stessa fiamma si ripeterà mai identica a sé stessa. Il fuoco è quella sostanza quasi immateriale che impersona il divenire, il mutamento, la trasformazione incessante, e che ingloba nel suo essere fiamma tutte quelle particolarità specifiche che lo differenziano da ogni altra fiamma. Per Eraclìto, il fuoco non è dunque la materia di cui è formata la realtà, bensì ne è la legge, che sottintende opposizione, identità, competizione, movimento. Lo stesso Fromm, in antitesi all essere unico e immutabile di Parmenide, scrive che «per Eraclìto l essere implica mutamento, vale a dire che essere è divenire [ ] quando partiamo dalla realtà degli esseri umani che esistono, amano, soffrono, dobbiamo constatare che non si dà essere che non sia in pari tempo in divenire e mutevole». (Erich Fromm, Avere o Essere?, Milano, Club Italiano dei Lettori, 1978, p. 44 ). In virtù di quanto precedentemente esposto, si può concludere che l Essere, nella nozione eraclitea, inteso come essere diverso, costituisce il presupposto primo di ogni cosa, il concetto che contraddistingue ma insieme accomuna la moltitudine della realtà e le sue trasformazioni. Ogni entità, dunque, 3

8 può considerarsi tale in quanto riconducibile al suo essere, e all opposto di Parmenide, in quanto capace di crescita, alterazione ed evoluzione. 4

9 2. Un interpretazione diversa Tuttavia, secondo una diversa chiave interpretativa (esclusivamente personale), l Essere ellenico fin qui ampiamente confrontato può costituire un principio antropologico moderno alla base delle identità dei singoli; da un punto di vista politico, questa definizione conferisce all essere la costituzione etica, morale e interamente soggettiva della persona, degli individui e dunque della società. Parlo di un essere psicologico, distintivo, caratterizzante, un essere che costituisce quell insieme psichico, emotivo, comportamentale, relazionale che fa di un individuo quell individuo, diverso a sua volta dagli altri individui, dagli altri esseri. Tale concetto, profondamente astratto e dai difficili parametri, può essere riassunto nella forma essere una persona, che implica il possesso di una serie indefinita e indefinibile di qualità, di caratteristiche, di singolarità, tra cui il possesso, non scontato, di un proprio carattere e una propria personalità, ma anche di una mentalità, di uno stile, di una particolare inclinazione, di un preciso modo di espressione. È questa la cellula staminale che, pur medesima in tutti, permette le differenze e la varietà; è questo il tassello che costituisce modernamente la prerogativa indispensabile alla società umana e plasma il principio cardine su cui ruotano gli assi della civiltà e poggiano le fondamenta della psicologia, ovvero i rapporti umani. Se l Essere di Eraclìto rappresentava il minimo comune denominatore di quella che possiamo definire realtà universale, ossia la realtà fisica e naturale, il mondo visibile e gli enti che ne fanno parte, allo stesso modo tale essere, rapportato alle singole esperienze individuali, costituisce la realtà specifica, ovvero la realtà politica che ognuno di noi si costruisce, inquadrando le proprie azioni, i propri rapporti, la propria intera vita nel complesso sistema della società. L essere un individuo equivale dunque a contribuire nella creazione di una moltitudine specifica; in altre parole, la varietà di persone (personalità) è la definizione stessa di società, che altrimenti sarebbe gruppo, setta, partito, fazione unilaterale. Per un confronto con la filosofia di Eraclìto, il Divenire è il requisito minimo della realtà: ogni entità concreta è tale perché diviene, cambia, si trasforma, ed è lecito concludere che divenire equivale a esistere, essere presente, essere vivo e materialmente costituito. Come anche sottolineato da Emile Benveniste, «Essere nelle lingue indoeuropee deriva dal radicale es, che ha il significato di avere esistenza, essere reperibile nella realtà. Essere e realtà sono definibili come ciò che è autentico, consistente, vero. [ ] Il radicale di Essere è pertanto qualcosa di più che non una semplice affermazione di identità, di soggetto e attributo, qualcosa di più che non la designazione descrittiva di un fenomeno: denota la realtà dell esistenza di colui o di ciò che è; afferma l autenticità e le verità sue. E affermare che qualcuno o qualcosa è, rimanda all essenza della persona o della cosa, non alla loro apparenza.» (Erich Fromm, Avere o Essere?, Milano, Club dei Lettori Italiani, 1978, p. 42 ). In questa concezione traspare la correlazione tra esistere ed essere a livello sociale, in pieno contrasto a conformarsi e confondersi e traducibile invece in distinguersi e differenziarsi : se tutti sono omologati a tutti, se nessuno, idealmente, ha quella personalità che gli permetterebbe di identificarsi, allora, come singolo individuo, non esiste. Esiste come componente, come numero, come abitante e come cittadino, ma non come persona. Esiste come ente, ma non come entità. Un concetto simile venne espresso anche da Immanuel Kant, filosofo tedesco di fine 700, che nel suo trattato Idee per una Storia Universale dal punto di vista Cosmopolitico si espresse in questi termini: «Senza la condizione [ ] della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno, nelle sue pretese egoistiche, deve di necessità incontrare, tutti i talenti rimarrebbero eternamente nascosti nei loro germi in un arcadica vita pastorale di perfetta armonia, frugalità e amore reciproco [ ] Senza di 5

10 esse (le resistenze, ossia le diversità), tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nell umanità rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi. L uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: ossia, vuole la discordia.» (Lo Stato di Diritto, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp ) Per Kant, dunque, la competizione è inevitabile; ma proprio questa consente la nascita della civiltà, il confronto ne permette il suo sviluppo, e la diversità genera l emergere degli individui. Per scoprire la propria identità è necessario stare a contatto con il diverso, perché solo la dissomiglianza mette in risalto le differenze caratterizzanti che ci contraddistinguono e fanno di noi degli esseri unici ma non incompatibili, diversi ma non avversi. 6

11 3. Essere o Apparire Tra le tante tessere che compongono in nostro essere, e quindi la nostra personalità, è compresa (e spesso rilevante) la volontà di proiettare all esterno l immagine di noi stessi e di trasmettere al primo impatto quella che approssimativamente coincide con la nostra identità. Sin dai tempi antichi, questa predisposizione ha assunto caratteri sempre più invadenti, eccessivi, esasperati, fino a diventare una sorta di patologia totalizzante. L uomo è arrivato ad ammalarsi, a confondersi in sé stesso, tanto da non riuscire più a distinguere quale fosse l immagine e quale il proiettore; egli è stato inghiottito, soggiogato da quell intento, in origine genuino, di presentarsi agli altri, perdendo di vista quella personalità essenziale che rendeva veritiera e autentica la presentazione stessa. E così, il valore dell apparire ha offuscato le menti e infettato le azioni, volte con ogni sforzo a limare la figura originale di una personalità fasulla che ammalia, certo, appare, ma non è. La nocività di questa pratica illusoria venne messa in luce già agli inizi del 1300, da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, il quale, riferendosi ad una Firenze antica ancora sobria e pudica, scrisse: «non avea catenella, non corona non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona» (Paradiso, canto XV, vv ) In questa terzina significativa, il poeta intende creare una linea di paragone tra la Firenze dei suoi antenati, ancora semplice, pura e sincera con la corruzione, l ipocrisia e la falsità che al suo tempo l affliggeva. Tra le cause del degrado della città fiorentina, Dante inserisce un elenco simbolico di oggetti e indumenti che costituiscono gli strumenti che davano a veder più che la persona, ossia che offuscano la personalità degli individui e li inducono a coltivare un interesse puramente materiale ed estetico verso tutte quelle ignobili apparenze che accreditano ed esaltano il loro stemma familiare, il loro rango, la loro condizione sociale. Ma la prima concreta, nonché esplicita critica all esagerata tendenza antropologica dell uomo all apparire fu pronunciata, a metà del 700, da Jean-Jacques Rousseau con il suo Discorso sulle Scienze e sulle Arti (1750). Egli rimase amaramente indignato dall artificiosità formale e dall esasperata frivolezza dei salotti intellettuali e degli ambienti altolocati francesi: attraverso un ideologia radicalmente controcorrente, Rousseau sostenne che il progresso delle scienze e delle arti (cioè di quella che noi oggi chiameremmo cultura ) è stato direttamente proporzionale all indebolimento della virtù. I salotti sfarzosi della Francia settecentesca crearono in Rousseau un marcato ripudio per la vita comoda e raffinata, che esponeva le identità alla corruzione del lusso e alla ricerca egoistica del vantaggio personale, a discapito della vera essenza etica, sociale e relazionale della persona: la cultura raffinata dei boudoir parigini è, per il filosofo, l espressione di una società falsa fondata sul apparire e non sull essere, e l intero galateo di cui va tanto orgogliosa non è che uno schermo ipocrita che distorce la sincerità dei rapporti umani. Ormai «Non si ha più il coraggio di apparire quel che si è», e «tutti fanno consistere il loro essere in ciò che sembrano; tutti, schiavi e vittime dell amor proprio, non vivono per vivere ma per far credere di aver vissuto». Dunque, il progresso intellettuale e l incivilimento non giovano né alla moralità né alla felicità dell uomo, e anzi, sono la causa della corruzione. Quello di Rousseau non è un elogio all ignoranza, ma l affermazione della priorità dei veri valori etici su ogni altra cosa: «Prima che l arte avesse ingentilite le nostre maniere e appreso alle nostre passioni a esprimersi in un linguaggio affettato, i no- 7

12 stri costumi eran rozzi, ma naturali; e le differenze di condotta manifestavano a colpo d occhio le differenze di carattere. [ ] Oggi, [ ] regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esiste, la convivenza ordina, senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio. Non si osa più apparire ciò che si è; e in questa condizione continua, gli uomini, che formano quel gregge che si chiama società, posti nella stessa circostanza faran tutti le stesse cose. [ ] non più amicizie sincere, non più vera stima, non più fondata fiducia. I sospetti, le ombrosità, le paure, la freddezza, la circospezione, l odio, il tradimento si nasconderanno continuamente sotto questo velo uniforme e perfido di cortesia, sotto questa urbanità tanto decantata, che dobbiamo alla luce di civiltà del nostro secolo. [ ] Oh virtù! Scienza sublime delle anime semplici, occorre dunque tanta pena e tanto apparato per conoscerti?» (J.-J. Rousseau, Discorso sulle Scienze e sulle Arti, in Opere di Paolo Rossi, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 4-6) L emblematica critica di Rousseau alla cultura del suo tempo riassume perfettamente quella mentalità tipicamente moderna dell estetica, della copertina, dove la forma vale più del suo contenuto e dove l arte raffigurativa stagna fine a sé stessa. Il filosofo dipinge in maniera sorprendentemente verosimile l ipocrisia occulta della società contemporanea, che compone un mondo che si cela, che si mette in posa, che finge, mente, che si lascia surclassare dalle convenzioni, dalla pubblicità, dalle mode, e insensibilmente vi si abbandona, consentendo all ideale universale di manipolare quella mente che nel mondo ci distingue. Le tendenze del momento e il gusto corrente della società globale (e informatica) conformano i contraenti ad un archetipo che diventa religione, forgiando un esercito unilaterale che appiana le mentalità ed esclude i discordanti, generando concordia, intesa, coincidenze, e falsità. Un altro esempio significativo di come il sociale sia sempre stato contaminato dalla propensione al sembrare piuttosto che all essere ci è fornito da Luigi Pirandello, tra i massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento, il quale basò la sua intera poetica su una visione del mondo, e in seguito della società, che riprende alcuni aspetti della filosofia di Eraclìto, trattata precedentemente: in particolare, egli si ispira al Divenire eracliteo per coniare la dicotomia flusso/forma, pressoché basilare nella sua concezione del mondo, che consiste nel dimostrare che la vita, la natura, la realtà sono flusso continuo, incandescente, indistinto, antitetico rispetto alla forma morta e definita. Le clausole del discorso sono le medesime di Eraclìto: con flusso si intende quella concezione vitalistica pirandelliana secondo la quale la realtà è un perpetuo movimento vitale, un eterno divenire, ove ogni cosa è in continua trasformazione e parte di un incessante circolo di evoluzione; per questa ragione la vita non può essere racchiusa in forme delineate e distinte, in figure determinate e certe, perché ciò costituirebbe una contraddizione in termini e implicherebbe l irrigidimento, l incrostamento, e dunque la morte dell essere stesso. Pirandello si serve di questa opposizione per incentrare la riflessione sulla sua società: egli rapporta la dicotomia flusso/forma alle relazioni sociali e interpersonali, sostenendo che l uomo della cultura contemporanea, anziché relazionarsi spontaneamente e liberamente secondo l eterno fluire, tende a identificarsi in una personalità precisa, canonica, e convenzionale, marchiando i suoi rapporti di ipocrisia e simulazioni. È quella che Pirandello denomina come dicotomia volto/maschera, secondo la quale i ruoli sociali, il conformismo, il costume hanno fatto sì che i rapporti tra gli uomini non fossero più autentici, ma mediati, corrotti, falsati. Gli uomini del 900, per Pirandello, non si trovano più faccia a faccia, ma maschera a maschera, come in una recita in cui i falsi sorrisi, i vestiti, i portamenti, le maniere, le azioni, le parole, e gli stessi pensieri non sono che la parte che a ciascuno spetta del grande copione sociale. «La società è un enorme pupazzata», dirà, nella quale ognuno rinuncia ad essere una persona per diventare un personaggio. 8

13 La desolazione derivata da questa consapevolezza genera in Pirandello un marcato di ripudio per le forme, percepite come delle trappole oppressive che racchiudono le identità e le conducono inesorabilmente alla morte: «Come la mano, trema tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e inconsistente. [ ] E tutti i vostri sensi vigilano tesi con ispasimo, nella paura che sotto questa realtà, di cui scoprite la vana inconsistenza, un altra realtà non si riveli, oscura, orribile: la vera. [ ] Tu sai come ho vissuto finora. Sai che ho provato sempre ribrezzo, orrore, di farmi comunque una forma, di rapprendermi, di fissarmi anche momentaneamente in essa. [ ] Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura di voi stessi, cioè di perdere mutando la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che decidiamo noi. Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente, indistinto. [ ] La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. [ ] Io mi sento perso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma, e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo! [ ] Siamo tanti morti affaccendati, che c illudiamo di fabbricarci la vita». (Luigi Pirandello, La trappola in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, vol. I, Mondadori, Milano, 1985) Appurata la nocività dell apparenza convenzionale al quale la società sembra essere condannata, Pirandello conclude che il rimedio allo squallore di tanta falsità consiste nell irrazionalità, nell immaginazione, nonché nella follia, unica circostanza nella quale l individuo può dimostrarsi quello che è veramente senza doversi curare di quanto il suo aspetto e la sua forma rispecchino la posizione sociale e le maniere che tradizionalmente gli si convengono. Come hanno dimostrato le testimonianze di Dante ( 300), Rousseau ( 700) e Pirandello ( 900), l esaltazione formale e la prevalenza della figura rispetto alla sostanza si possono considerare direttamente proporzionali all evoluzione della società: il culto dell apparire, in antitesi all essere, costituisce quella secolare contraddizione della società pluralista che oggi sembra tutt altro che in fase di guarigione; È palese a tutti che il XXI secolo è un tempo digitale che non conosce che non conosce soste. Il processo latente della globalizzazione ebbe inizio già con la radio, che diede avvio all inarrestabile corsa alla tecnologia con la creazione del telefono, della TV, del computer, internet, e Social Network. Ormai siamo tutti partecipi di una realtà che non possiamo più negare, dove abbiamo una carta d identità e un profilo, un nome e un account. Il rivoluzionario azzeramento della distanza fisica, voragine che ha sempre impossibilitato il contatto, il dialogo, il rapporto, costituisce indubbiamente la più grande conquista del genio umano sul campo delle comunicazioni, e segna quel solco profondo dietro il quale tutto è storia. Ma come tutte le conquiste, anch essa ha un prezzo, che non è di vite né di denaro, bensì di persona, di essere : l accessibilità economica, la velocità istantanea, l essere smart, sono quelle appetibilità che spronano il genere umano all abuso delle piattaforme digitali, strumento ormai imprescindibile della nostra quotidianità. Guardiamoci intorno: siamo risucchiati da uno schermo, immersi, è il caso di dirlo, in un mondo parallelo, in una realtà che è illusione, dove ognuno indossa persone che costruisce con un click, dove chiunque si pronuncia pubblicamente per quello che sembra, per quello che vorrebbe essere, per quello che gli altri vorrebbero che sia, ma che non è. Sono i Social Network, scappatoia universale della società, dove è lecito, e quasi auspicabile, sembrare tutto a eccezione di quel che si è, e istantaneamente condividerlo, pubblicarlo, diffonderlo; è il mondo dove si coltivano le relazioni sintetiche, fasulle, mediate e prudenti, dove il confronto non 9

14 è con te stesso ma con l intera platea digitale, dove si dimentica cosa vuol dire parlare, perché è sufficiente digitare. Nella rete stessa, su You Tube, circola come un vaccino ancora non accettato il video-poesia di Gury Turk, intitolato Look Up (Guarda in Alto), che si propone come un coraggioso tentativo di presentare lucidamente la panoramica desolante della società assuefatta e totalizzata dall ininterrotta attività sui Social Network, risucchiata dalla sua stessa definizione di sociale. [ ] A world of self-interest, self-image, self-promotion Where we all share our best beats, but leave out the emotion ( Un mondo pieno di egoismo, narcisismo, autocelebrazione Dove tutti condividiamo i nostri pezzi forti, ma non le emozioni ) [ ] I can t stand to hear the silence of a busy commuter train Where no one talk for the fear of looking insane We re becoming unsocial, it no longer satisfies To engage with one another, and look into someone s eyes ( Non sopporto il silenzio di un treno pieno di pendolari presi dai loro cellulari Dove nessuno parla per paura di sembrare matto Stiamo diventando asociali, non ci piace più impegnarci In una vera conversazione, e guardare qualcuno negli occhi ) [ ] Just one real connect is all it can take To show you the difference that being there can make ( Basta un solo un vero contatto Per farti capire la differenza che si può venire a creare ) (Gury Turk, Look Up, ) Il messaggio di Turk, seppur raccapricciante, è chiaro: non lasciamoci coinvolgere dalla turbina dei portali digitali, alziamo lo sguardo e impariamo ad apprezzare la vita vera, autentica e vissuta. Nella società attuale, dunque, è sempre più difficile essere, perché tutti accettano di credere ad un profilo irreale e illusorio, per il quale è completamente inutile sapersi relazionare, dimostrare carattere, essere loquace, eccentrico, dispersivo, coinvolgente, umano. Non conta il tuo sguardo, ma la tua foto; non conta la tua parola, ma il tuo stato; non conta il tuo sorriso, ma il tuo mi piace ; non conta la tua persona, ma il tuo smartphone. 10

15 Tuttavia, come si è detto, il valore dell apparenza è mosso da uno scopo positivo, che è quello di dimostrare, in una sola immediata visione, la propria personalità caratteristica e il proprio stile di vita. Infatti, quell essere che nella maggior pare dei casi viene minimizzato o sovrastato dall apparire, assume la sua forma più espressa attraverso il fascino, accezione che si mantiene piacevolmente distante dall aggettivo bello in senso estetico, somatico, stilistico. Una persona affascinante è tale perché si distingue, perché emana un carisma particolare e caratteristico, una suggestività interessante che perciò la rende unica, singolare, inconfondibile. Il più delle volte, essere una persona coincide con l avere un certo fascino relativo; possiamo affermare che affascinante è colui che riflette in maniera compiuta il proprio essere sull apparire, ottenendo una completezza estetica che conferma la natura della persona. Tuttavia, il rischio che l estetica, anziché completare la personalità, la compensi, costituisce uno degli equivoci più rammaricanti della nostra società: atteggiamenti, portamenti, movenze, trucchi, accessori, gadget, e qualsiasi tipologia di oggetto indossabile o aspetto impersonabile si trasformano in quelle necessità intrascurabili per il conseguimento di un modello di vita che esprime quella determinata essenza, che manifesta quella determinata ideologia. E così, frivolezza, mondanità, cura dei minuziosi particolari sono le figliastre di un consumismo di massa che ci obbliga a seguire i canoni convenzionali istituiti dall esemplare di riferimento al quale ci ispiriamo: paradossalmente, noi siamo suggestionati da tale modello non per il suo vestito, né per il suo successo, né per la sua estetica, bensì per la sua personalità, la sua influenza, il suo fascino. E così, incapaci di rassomigliare al nostro modello d esempio nella sua persona, cerchiamo con ogni sforzo di riprodurne la forma e l estetica, nonché gli aspetti semplicemente periferici e marginali delle ragioni del suo successo. Questa contraddizione incanala il ragionamento su un altra questione secolare della filosofia etica: essere o avere. 11

16 4. Essere o Avere La riflessione sui due imperativi massimi che costituiscono la quasi totalità del nostro parlare è interamente ispirata e ripresa dal saggio di Erich Fromm, Avere o Essere?, edizione del Club Italiano dei Lettori, Milano, Erich Pinchas Fromm nacque a Francoforte sul Meno il 23 marzo del 1900, ed è stato un famoso psicanalista e sociologo tedesco, considerato tutt oggi uno dei maestri della psicoanalisi. Cresciuto in una famiglia ebrea molto osservante, nel 1922 ottenne il dottorato in sociologia ad Heidelberg. A Berlino iniziò la sua carriera come psicoanalista freudiano ortodosso, e nel 1934 emigrò negli Stati Uniti, dove ne ottenne, sei anni dopo, la cittadinanza. Visse e lavorò negli Stati Uniti e nel Messico; nel 1974 partì per la Svizzera, dove morì cinque giorni prima del suo ottantesimo compleanno. Tra le sue opere di maggior successo e maggiore rilevanza concettuale, Avere o Essere? si propone come un acuta e lucidissima analisi dei mali universali della nostra epoca, sottolineando l importanza capitale della differenza tra l avere e l essere. Nel capitolo introduttivo del saggio, Fromm presenta un quadro riassuntivo che anticipa le tematiche principali dell intera trattazione e che mi è parso opportuno riportare per intero: «1. Dicendo essere o avere, non mi riferisco a certe qualità a sé stanti di un soggetto, quali quelle che sono espresse in proposizioni come ho un automobile oppure sono bianco o sono felice». Mi riferisco, al contrario, a due modalità di esistenza, a due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti e in quelli del mondo, a due diversi tipi di struttura caratteriale, la rispettiva preminenza dei quali determina la totalità dei pensieri, sentimenti e azioni di una persona. 2. Nella modalità esistenziale dell avere, il mio rapporto con il mondo è di possesso è proprietà, tale per cui aspiro a impadronirmi di ciascuno e di ogni cosa, me compreso. 3. Nella modalità esistenziale dell essere, vanno distinte due forme di essere. L una si contrappone all avere, secondo gli esempi forniti da Du Marais, e significa vitalità e autentico rapporto con il mondo. L atra forma di essere si contrappone all apparenza, e si riferisce alla vera natura, all effettiva realtà di una persona o cosa, in quanto contrapposta a illusorie apparenze, com è appunto comprovato dall etimologia di essere.» (p. 43) 4.a. La modalità esistenziale dell avere Nell analisi della modalità di esistenza dell avere, Fromm parte da una constatazione fondamentale: la società moderna si fonda sulla proprietà privata, ed è dunque inevitabile che gli individui che la compongono pensino e agiscano secondo la modalità dell avere. «Acquisire, possedere, realizzare un profitto, costituiscono, nella società industriale, i sacri e inalienabili diritti dell individuo» (p. 97), che vengono tutelati, e dunque fortemente valorizzati, dalle leggi. La proprietà privata (dal latino privare, portare via ad altri) ha sempre avuto quella facoltà di trasformare i titolari di questa in suoi padroni, investiti del pieno diritto di privare gli altri individui del suo uso o godimento. Il possesso dunque, materiale, quantitativo, contabile, è la genesi della società avida, la nostra, che fa dell economia (in senso lato) l interesse principale dell esistenza. Ma Fromm afferma che la soddisfazione massima non consiste tanto nel possedere oggetti materiali, quanto esseri viventi: costituisce una predisposizione antropologica tipica delle società patriarcali quella di esercitare un potere assoluto e un egemonia incondizionata sull ambiente, in primis sulla famiglia, sulla moglie, figli, ani- 12

17 mali. Non solo, ma come osservato da Max Stirner, le persone medesime vengono trasformate in cose dalla loro stessa ossessione borghese per la proprietà. Fromm espone in maniera inequivocabile come l individualismo si manifesti come possesso di sé, come diritto e dovere di investire le proprie energie nel successo personale. Detenere la proprietà di sé stessi è il maggior momento del nostro intero sentimento di proprietà, perché implica il possesso del nostro corpo, del nostro nome, del nostro rango sociale, dei nostri stessi possessi, materiali o meno. È così che l uomo moderno disseta la propria voglia di avere, credendo di custodire il suo io, e questo, per Fromm, si dimostra la le principali avversioni alle possibilità della vita. Un altro aspetto dimostrativo di come l avere indirizzi le nostre brame alle sole sostanze materiali si trova racchiuso nell accezione di consumismo: definito da Fromm come inghiottimento del mondo intero, il consumismo è quell energia dell avere che porta gli individui ad acquistare per gettare, e dunque acquistare ancora. A pagina 100 viene presentato un interessante confronto con la politica mentale del XIX secolo, del quale slogan sarebbe stato «Il vecchio è bello!»: in quegli anni, a causa anche del divario industriale col confronto moderno, tutto ciò che si possedeva veniva tenuto in alta considerazione, curato, usato fino ai limiti estremi della sua fruibilità. L acquisto aveva una prospettiva duratura, e la valorizzazione dell oggetto portava le persone a conservare, aggiustare, preservare. Oggi invece, all unisono de «Il nuovo è bello!», l acquisto viene fatto non per conservare, ma per gettare, per soddisfare quella costante sete del nuovo, contribuendo ad alimentare il vizioso circolo dell acquisto consumistico. Dunque, secondo la modalità esistenziale dell avere, null altro conta se non la mia proprietà e il mio illimitato diritto di conservare quanto ho acquisito. Tuttavia, come osserva Fromm, la proposizione ho qualcosa esprime un rapporto tra il soggetto e l oggetto che implica l immutabilità del soggetto e la permanenza dell oggetto: è questa una relazione assoluta, che prescinde dalle condizioni temporali e materiali dell oggetto. Analogamente a quanto appurato dall iniziale confronto tra l Essere di Parmenide e l Essere di Eraclìto, l analisi di un qualsiasi soggetto che faccia parte della realtà terrena non può ignorare la sua esposizione al tempo, al cambiamento, alle incertezze e alla fugacità che necessariamente lo costituiscono. Assodata la nostra inevitabile fine come esseri viventi (la morte), occorre considerare anche la temporaneità dell oggetto, che può essere distrutto, smarrito o può perdere del proprio valore. Parlare di qualcosa come se la si possedesse in permanenza deriva dall illusione di una sostanza indistruttibile e incorruttibile, mentre questa condizione non è che un momento transitorio nel processo vitale. Fromm arriva quindi a delineare la proposizione fondamentale della sua denuncia alla società sulla modalità esistenziale dell avere: «In ultima analisi, la proposizione io ho questo, esprime una definizione del soggetto tramite il possesso dell oggetto. Il soggetto non è più il mio io, bensì l io sono ciò che ho. La mia proprietà mi costituisce e costituisce insieme la mia identità. [ ] Secondo la modalità dell avere, non c è rapporto tra me e quello che io ho. Questo e l io sono divenuti cose, e io ho le cose perché ho la forza di farle mie. C è però una relazione inversa: le cose hanno me, perché il mio sentimento di identità, vale a dire il mio sentimento mentale si fonda sul mio avere le cose. La modalità esistenziale secondo l avere non è stabilita da un processo vivente, produttivo, tra soggetto e oggetto; essa rende cose sia il soggetto che l oggetto. Il rapporto è di morte, non di vita.» (p. 107) L intera critica alla cupidigia della nostra cultura culmina nel passo citato, nel quale l autore evidenzia come il nostro essere sia coincidente con quello che noi possediamo e in quale quantità, e la nostra felicità sia cagione della nostra capacità di conquistare, ottenere e detenere. Nella società dell avere non si guarda più al rapporto vitale e al guadagno morale ed emotivo che se ne trae, ma alla somma concreta di capitale, di possessi, e dunque di soldi: l avidità di denaro è il riflesso mordace della competizione storica al benessere, che si è sempre identificato con il lusso, con il pregio, con il 13

18 vantaggio materiale, con gli strumenti superflui, e che costituisce quella conseguenza naturale dell orientamento all avere. Fin quando il profitto sarà la misura del nostro agio, l uomo sarà inevitabilmente predisposto al raggiungimento della massima cifra, che corrisponde agli acquisti in potenza che il soggetto può permettersi di fare. Infine, nota Fromm, la più concreta e duratura espressione del concetto di possesso è insita nell uomo stesso, sotto forma del suo stesso nome: «Il nome di una persona crea l illusione che l individuo che lo porta sia un essere immortale. La persona e il nome divengono equivalenti; il nome comprova che la persona è un entità duratura, indistruttibile, anziché un divenire». (p. 112) 4.b. La modalità esistenziale dell essere «La definizione della modalità dell essere è assai più difficile di quella dell avere, e va ricercata nella natura stessa delle disparità tra l una e l altra. L avere si riferisce a cose, e le cose sono fisse e descrivibili. L essere si riferisce all esperienza, e l esperienza umana è in via di principio indescrivibile». Fromm, per completare la definizione, analizza la sottile differenza tra la nostra persona esteriore e la nostra peculiare identità: la prima combacia con la maschera che ciascuno di noi indossa e con il nostro complesso di caratteristiche comprensibili attraverso i sensi e per questo rappresentabili, la seconda è il nostro stesso essere umani viventi, che non può essere descritto con un immagine morta, come una cosa, e anzi, l essere umano vivente non può essere descritto. L intera individualità di una persona, la sua singolare entità, è unica come lo sono le sue impronte digitali, e non potrà mai essere pienamente compresa, né descritta, né riprodotta. Erich Fromm riversa una particolare enfasi nella sua introduzione alla modalità dell essere, con il probabile intento di voler egli stesso esprimere il proprio essere e la propria passionalità nella descrizione di quelle medesime caratteristiche: «Nessuno è in grado di descrivere pienamente l espressione di interesse, di entusiasmo, amore per la vita, ovvero di odio e narcisismo che capita di cogliere negli occhi di un altro, nella varietà delle espressioni facciali, di modi di camminare, di posizioni e intonazioni, che caratterizzano le persone.» (p. 119) Tuttavia, sostiene l autore, la modalità esistenziale dell essere pretende dei requisiti minimi fondamentali, che sono l indipendenza, la libertà, e la presenza della ragione critica. Dopodiché, Fromm si presta ad enunciare la proprietà principale di tale modalità, che consiste nell essere attivo: questo non va inteso nel senso di avere un attività esterna, nell essere indaffarati, ma nell attività interna, ossia nell uso produttivo dei nostri poteri, delle nostre facoltà e nella valorizzazione delle nostre tendenze, doti, talenti. Significa «rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carcere del proprio io isolato, essere interessato, prestare attenzione, dare». Nessuna di queste esperienze può essere però comunicabile a parole, e tanto meno essere compresa da chi non ha vissuto la stessa esperienza, poiché nel momento in cui racchiudiamo l esperienza, astratta ed emotiva, viva e indescrivibile, in frasi e parole dal significato preciso, questa non è già più mera esperienza, ma parola, ricordo, cadavere. Nella struttura dell avere, la morta parola è l unico e indispensabile strumento per la descrizione e la condivisione, che nega ogni possibilità di interpretazione, di esercizio mentale, di attività produttiva propria dell essere. È comunque opportuno distinguere l accezione moderna di attività da quella filosofica. Comunemente, con attività intendiamo un tipo di comportamento che implica un effetto visibile grazie ad un impiego di energia; è dunque un azione pratica, un occupazione, nella quale noi agiamo in funzione di un fine, di uno scopo, di un prodotto da ottenere. In questo caso, il soggetto lavora e sperimenta l oggetto compiuto. La concezione moderna del termine si riferisce unicamente al compor- 14

19 tamento, non alla persona dietro al comportamento stesso; essa, infatti, non fa distinzioni tra attività vera e propria e il semplice essere indaffarati. Eppure, la differenza è sostanziale: l attività (nell accezione filosofica) prescinde interamente dal suo movente per creare un azione sulla persona stessa; Il soggetto sperimenta sé stesso come oggetto della sua attività. Questo implica che la mia attività è una manifestazione dei miei poteri, che io e la mia attività siamo tutt uno. A tale concetto Fromm attribuisce la denominazione di attività produttiva, che incentra il suo significato sulla qualità, a sua volta risultato dell attività interiore che anima il nostro operato. L ideale d azione di Fromm, basato (o meglio, composto) sull essere, può riassumersi nel grande significato di passione; la dedizione, la pienezza delle azioni, l entusiasmo, la voglia di crescere, di mostrare, di migliorare, di vivere con passione, costituiscono le manifestazioni più nobili dell essenza umana, che generano quella sincera voglia di dare, di condividere, di offrirsi a gli atri e per gli altri sacrificarsi. Per Fromm, sono queste le autenticità della vita umana, che producono quel puro sentimento di amore, di solidarietà e felicità che dà gioia tanto al mittente quanto al destinatario. La propria personalità, infine, è verificabile non solamente nelle relazioni con una seconda persona, che a sua volta è un individualità dai propri connotati, ma anche con sé stessi. Anzi, la misura del mio essere è sempre in funzione del mio io, delle mie potenzialità, delle mie tendenze, dei miei strumenti. Pertanto, colui che è solido caratterialmente, si ritroverà automaticamente a gestire una certa dose di coraggio, di determinazione, di sicurezza, strumento essenziale per dimostrare la forza della propria persona nel momento in cui le circostanze sono difficili o sconvenevoli. Infatti, accade spesso (e quasi sempre in una maniera tanto inaspettata quanto trionfale) che la personalità più nascosta di un individuo debole possa emergere fiammeggiante solo nel momento in cui il gioco si fa duro ; ed è grazie a questa predisposizione, per l altro scientificamente dimostrata, che l uomo si nutre di adrenalina, si carica di determinazione, e fa dunque appello a tutta la sua personalità per affrontare le circostanze con quella grintosa e decisa forza di volontà che gli permette, nella maggior parte dei casi, di sovrastare l ostacolo. È di questo coraggio che l uomo deve servirsi, perché solo quello occorre per dire la verità, per sostenere un interrogazione difficile, per fronteggiare un avversario agonistico, per denunciare un abuso sessuale, per rialzarsi, per superare un trauma salutare, familiare, sociale. Ed è quello stesso coraggio tanto decantato dalla figure monumentali del pensiero letterario italiano, da Sant Agostino a Petrarca, da Gramsci a Svevo: in modo particolare, la figura dell inetto, ossia di colui che non possiede carattere e personalità e che pertanto non riesce a dare sfocio concreto alla proprie decisioni, assume una fisionomia definitiva nel personaggio di Zeno Cosini (protagonista de La Coscienza di Zeno di Italo Svevo), che viene immediatamente inquadrato come soggetto privo di quella carica mentale positiva che gli permetterebbe un seguito sociale dignitoso, ma che è stata surrogata dall accidia, malattia dell animo che gli procura continui disagi e delusioni. Uno tra gli esempi più significativi ci è fornito dal capitolo terzo, nel quale Zeno riflettere sulla sua incapacità di fare pronte al vizio del fumo (simbolo della tentazione e del vizio umano) nonostante la sua buona volontà: «Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l uomo ideale e forte che m aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio, perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.» (Italo Svevo, La Coscienza di Zeno, Paolo dall Oglio per Einaudi, Milano, 1976 ). Il modello di personalità di Zeno, plasmato sui traumi altalenanti delle sue vicende biografiche, emana quella frustrazione latente alla stessa narrazione che ci insegna a mantenere forti i nostri propositi e ad essere sempre noi stessi, anche e soprattutto nelle situazioni in cui ci sentiamo affranti e impossibilitati. Volere è potere; potere è essere. 15

20 4.c. Avere ed essere nell esperienza quotidiana In diverse parti del saggio, Fromm si cura di presentare varie dimostrazioni di vita quotidiana in cui sia chiaramente apprezzabile la differenza tra la modalità dell essere e quella dell avere, le rispettive caratteristiche circostanziali, le rispettive dimostrazioni, le rispettive conseguenze. Qui di seguito gli esempi più significativi. Ricordare Tra le forme di memoria della modalità dell essere e quelle della modalità dell avere c è una sostanziale differenza: «Nella modalità mnemonica dell avere sostiene Fromm la connessione è in tutto e per tutto meccanica, come si verifica quando la connessione tra una parola e la successiva è stabilita e confermata dalla frequenza con la quale viene istituita» (p. 51), ossia una parola è connessa ad un'altra attraverso un preciso campo logico del sistema mentale (spazio, tempo, dimensione, colore ecc..) Invece, nel caso della modalità dell essere, ricordare significa «richiamare attivamente alla memoria parole, idee, cose viste, dipinti, suoni musicali», ovvero «consistere nel connettere il singolo dato da rammentare ai molti altri dati a cui è correlato». In questo caso, i collegamenti non sono meccanici né logici, bensì viventi, accompagnati da una relazione emotiva esclusivamente soggettiva, come per un profumo, per una canzone, per un espressione, e via dicendo. Se, ad esempio, associamo alla parola palla il concetto di sfera, istituiamo una relazione logica, meccanica. Se invece le associamo l espressione giocare a palla o musica a palla istituiamo un collegamento anticonvenzionale, creativo, produttivo, ma soprattutto personale, congiunto alla nostra esperienza. Fromm, inoltre, precisa che chi non ha la predisposizione all immagazzinamento dei dati, constaterà che la sua memoria, per funzionare a dovere, avrà bisogno di un effettivo ed immediato interesse. La riflessione sul ricordare si conclude con un interessante esempio preso dalle familiari aule scolastiche: «è facile per gli insegnanti constatare come gli allievi che annotano attentamente ogni frase della lezione, con tutta probabilità ricorderanno e comprenderanno meno degli allievi che hanno fatto assegnamento alla propria capacità di comprendere, e di conseguenza rammentano per lo meno i dati essenziali.» (p. 54) Conversare Per quanto riguarda la differenza tra le due modalità esistenziali, il tema della comunicazione costituisce, per Fromm, un esempio calzante. Si consideri uno scambio di idee tipico tra due uomini, i quali hanno ognuno una propria opinione divergente da quella dell altro. Nel confronto, ciascuno dei due uomini si identifica con la propria opinione, e ciò che per entrambi conta è reperire i migliori argomenti al fine di difendere, rafforzare, confermare la propria tesi e, se possibile, confutare l altra. Tuttavia, nessuno dei due è disposto a cambiare parere, poiché questo costituirebbe una sorta di sconfitta : sia l uno che l altro provano paura all idea di mutare la propria opinione, appunto perché si tratta di uno dei loro possessi, ragion per cui la sua perdita equivarrebbe ad un impoverimento. Nella modalità dell avere, dunque, il dibattito delle idee è un confronto competitivo in cui i contraenti cercano di provare la propria supremazia dimostrando chi ha torto e chi ha ragione, in cui il dialogo si trasforma in un conflitto. Al contrario, nella modalità dell essere, i dialoganti non si basano sull idea che hanno, ma su quello che sono; essi, proprio perché non si aggrappano a nessun possesso di pensiero, danno vita a nuove idee, esprimono appieno la propria vitalità, vivacità, spontaneità e senza limitazioni o preoccupazioni derivate dalle circostanze, e sono in grado di generare un parlare libero e 16

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