Appressamento alla morte

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1 Registrazione presso il Tribunale di Pavia n. 355 del Sped. in abb. postale - Comma 20/C 2 L. 662/96 - Fil. di Pavia - IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE AL MITTENTE CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TASSA - REINVIARE ALL UFFICIO PAVIA-FERROVIA Infermiere 4/2002 P A V I A a Appressamento alla morte

2 E 2PAGINA Infermiere a Pavia DITORIALE Infermiere a Pavia Rivista trimestrale del Collegio IP.AS.VI. di Pavia Anno XII n. 4/2002 aprile/giugno 2002 Editore Direttore Responsabile Capo Redattore Segreteria di Redazione Comitato di Redazione Collegio Infermiere professionali, Assiatenti Sanitarie, Vigilatrici d Infanzia della Provincia di Pavia Enrico Frisone Giuseppe Braga M. Bergognoni, L. Littarru, A.M. Tanzi M. Bergognoni, G. Braga, M. Cattanei, S. Conca, S. Giudici, R. Rizzini, A.M. Tanzi Hanno collaborato A.M. Bergonzi, P. Ghia, G. Rebolini a questo numero: G. Rovati, R. Verri, Impianti e stampa Gemini Grafica snc - Melegnano (MI) Direzione, Redazione, Via Lombroso, 3/B Pavia Amministrazione Tel. 0382/525609, Fax 0382/ CCP n I punti di vista e le opinioni espressi negli articoli sono degli autori e non rispettano necessariamente quelli dell Editore. Manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non saranno restituiti. Registrazione presso il Tribunale di Pavia n. 355 del Spedizione in abb. postale Comma 20/C 2 L. 662/96 - Fil. di Pavia. La rivista è inviata gratuitamente agli iscritti al Collegio IP.AS.VI. di Pavia. Finito di stampare nel giugno 2002 presso Gemini Grafica snc di S. & A. Girompini, Melegnano (MI) Giuseppe Braga* Parlare della morte non è certo cosa facile, ma è una cosa certa che, quasi quotidianamente, ognuno di noi vede questa compagna così vicina da poterla quasi toccare. In questo numero abbiamo voluto dare delle ottiche trasversali per affrontare con maggior serenità e consapevolezza questa che è l unica certezza della vita. Dove finisce la vita? dove inizia la morte? Due domande strane, perché una potrebbe tranquillamente essere la risposta all'altra e viceversa. Ma la morte esiste? Sicuramente quella fisica, sulla morte dell'anima, dell'essenza vitale, dell'io, del Soffio di vita, chiamiamolo come ci pare, su questa "altra morte" non tutti sono d'accordo. In copertina La scelta di un soggetto religioso per la copertina di questo numero della rivista è legato alla sacralità dell argomento della monografia. L arte pittorica ha spesso esplorato i misteri della morte, riuscendo a rendere in una sola immagine la sua complessità. Questo quadro del XV secolo di Hans Multscher, custodito al museo di Vipiteno, intitolato La morte della Vergine riassume i molteplici atteggiamenti che le persone avevano al capezzale di un morente e che si sono persi nell ultimo secolo, gesti e valori che univano e accompagnavano. Attorno alla figura della Vergine si possono vedere persone che piangono, ma anche amici che pregano, che benedicono, che si prendono cura della Madre di Gesù. È un quadro ricco di pietà umana e religiosa. Il titolo alla monografia Appressamento alla morte è in realtà il titolo di una cantica di Giacomo Leopardi, anche in questo caso la scelta è dovuta ai tanti significati che nella parola appressamento si possono ravvisare. I versi finali della cantica recitano: E si rivolse indietro. E in quel momento Si spense il lampo, e tornò buio l etra, ed acchetossi il tuono, e stette il vento. Taceva il tutto; ed ella era di pietra. Chi non si è mai posto la domanda: "E dopo... cosa c'è?" Le varie Religioni, vi invito a rileggere l'inserto recentemente pubblicato in allegato alla Rivista, danno le loro risposte, molto diverse, ma per un particolare tutte uguali: la Vita non termina con la morte fisica. C'è chi presenta scenari apocalittici, scenari di dannazione o di beatitudine eterna, chi propone un ritorno alla vita fisica ripetuto nel tempo, chi altri scenari: comunque sono tutti concordi che la vita fisica è un mezzo per "andare oltre". Le psicosi collettive sono sempre in agguato e quindi sempre possibili nel nostro mondo, ma una forte come questa, perpetuata nei millenni, in forme diverse, ma con uno stesso scenario finale, in tutte le varie culture, estrazioni sociali, forse tale non è. Da segnalare, nella rubrica L ottavo giorno, la pubblicazione delle fotografie dei nostri bambini adottati tramite il fondo di solidarietà. In Vita di Collegio vengono riproposti il bilancio consuntivo 2001 e il bilancio preventivo 2002 approvati il 17 maggio nell assemblea degli iscritti. Torniamo a ricordare che, nel corso dell'anno, scadrà il mandato dell'attuale Consiglio Direttivo, nonché del Collegio dei Revisori dei conti. Questo, ovviamente, è un invito a cominciare a pensare all'eventuale propria candidatura al fine di rinnovare, integrare, supportare le persone che verranno elette. Le elezioni si terranno nel mese di dicembre... ma non è mai troppo presto per ricordarlo. Questo è un punto che accompagnerà, come avrete già notato, tutti gli editoriali che verranno pubblicati durante tutto l'anno sulla nostra Rivista. L autore * Caporedattore

3 Numero 4/ PAGINA S p a z i o concentrato La morte e il morire Annamaria Tanzi* ( ) Allora Almitra parlò dicendo: Ora vorremmo chiederti della Morte: E lui disse: Voi vorreste conoscere il segreto della morte. Ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della Vita? ( ) Se davvero vorrete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. Poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare. Khalil Gibran Il profeta L obiettivo chi si allontana (nella speranza o nella del lavoro monografico che presentiamo è quello di creare uno spazio di riflessce ad essere di aiuto e a essere terapeu- disperazione) dalla vita, solo un gesto riesione su un evento inevitabile della vita, la tico: nel silenzio della parola e nella luce morte, privata ormai della sua dignità e del gesto, come dicono queste straordinarie parole di Norbert Elias nel suo libro, della necessaria attenzione dall intera società contemporanea ripiegata sulla La solitudine del morente. negazione della morte e del morire. Un processo di assistenza infermieristica che pone l attenzione alla persona ed Uno spazio di riflessione importante per noi infermieri (ma anche per tutti gli operatori della salute), che oggi più che nel sociale e spirituale, non può essere com- alla sua interezza biologica, psichica, passato ci confrontiamo con la morte, non pleto se non comprende la morte e il morire, se non riflette la necessità di umaniz- soltanto quella biologica ma anche quella sociale, psichica e spirituale, e con il tema zare l assistenza al morente e ai suoi familiari, se non insegna al coinvolgimento del sostegno e dell accompagnamento ad essa. con il prossimo ed alla condivisione delle Oggi più di ieri perché oggi si muore emozioni, se non permette di riscoprire il sempre di più nella solitudine e nella lontananza, nel deserto degli ospedali o del- Ciò significa considerare non solo la valore della solidarietà. le case di riposo. La morte è diventata un componente organica e fisiologica, ma oggetto di studio scientifico che bisogna combattere al fine di prolungare la vita e all ospedale I n d i c e è riservata la funzione sociale di Spazio concentrato rendere impersonale la morte, cer- La morte e il morire cando di contrarre il processo del Nascendo diventiamo debitori alla natura di una morte...12 La morte e il morire nell esperienza psicopatologica morire ad un Un mantello per riparare istante, il più breve e indolore pos- Un sottile confine sibile, affinché Culto della morte e riti funebri non vada a turbare la vita ben L ultima iniziazione strutturata della Altri PERCORSI società. Per favore, vuole spiegarmi Sembra non esserci più posto o diritto a ricevere anche un solo gesto, il gesto di stare accanto e il gesto di accarezzare dolcemente il volto, e la mano, di Bambini per un domani Aggiornamento Aggiornamento in Italia Aggiornamento a Pavia Il grado di soddisfazione degli utenti Alimentazione e lesioni cutanee croniche

4 4PAGINA Infermiere a Pavia anche emotiva, psicologica, affettiva, intellettuale, sociale, spirituale ossia tutto ciò che fa di un uomo un essere unico e irripetibile. Forse l attenzione dovrebbe finalmente spostarsi sulla qualità della vita, una medicina che si prende cura della qualità della vita e comprende il diritto di morte del malato con lo scopo di lenire la sofferenza e portare giovamento fisico al morente, ma contemporaneamente portargli un beneficio psicologico, spirituale, in termini di conforto e relazione umana. Questi sono i valori su cui si muove la medicina palliativa, un modo di esercitare l arte terapeutica tra la cura, to cure (aspetti oggettivi del caso) e l aver cura, to care assistere, prendersi cura (riguarda i significati soggettivi dell esperienza malattia trattamento). La monografia affronta il tema della morte e del morire, un tema complesso considerato sotto diversi aspetti per approfondire insieme la realtà storica, psicologica, antropologica, sociologica della morte e del morire perché la morte esiste ed è una parte ineliminabile della vita, un evento naturale seppur disumanizzato non soltanto nella concezione personale e collettiva, ma anche nelle forme assolutamente inaccettabili come l eutanasia (termine utilizzato impropriamente), l assistenza al suicidio e la pena di morte, fenomeni peraltro molto spettacolarizzati nelle civiltà dell Occidente. L auspicio è che la lettura di questo lavoro che non ha pretese di esaustività dell argomento, rappresenti un inizio, un apertura, una riflessione, uno stimolo per una presa di coscienza personale e professionale sulla morte e sul morire, sull accompagnamento e sul sostegno al morente, per rafforzare il nostro ruolo di infermieri all interno di una problematica globale e profonda e per arricchire la nostra umanità e professionalità. Parlare della morte è sempre una sfida al reale, un tentativo di oggettivare il Nulla e che nello stesso tempo lo fa esistere e lo nega. I molteplici modi di rappresentare questa esperienza ultima sono segni che generano e strutturano miti contro il reale, quel reale che si adatta a ciò che gli uomini immaginano e desiderano. Pur vivendo nella consapevolezza della nostra finitudine e sebbene sostenuti dall idea, dalla speranza e dalla certezza che alcune parti di noi resteranno per sempre, oltre la morte, l uomo ha una naturale inclinazione all infinito. Nello Zibaldone Leopardi scrive di questa naturale e necessaria tendenza all indefinito, a un piacere senza limiti, affermando che: indipendentemente dal riscopre, con rammarico, mortale. Con il Rinascimento e fino al Seicento nei confronti della morte si prende una certa distanza ed anche i vecchi atteggiamenti perdono importanza e l arte del morire è sostituita dall arte del vivere. Si cerca di insegnare ai vivi di meditare sulla morte perché una morte bella ed edificante è l epilogo della vita giusta e santa di colui che ha vissuto rettamente. Il Romanticismo accomuna la morte e l amore in un interesse morboso; temi erotico macabri pervadono l arte e la letteratura, insieme ad un estremo compiacimento allo spettacolo della morte, della sofferenza, del supplizio e dell agonia. Nel XVIII secolo, l individuo dà alla morte un senso nuovo: la esalta, la drammatizza, la desidera bella e romantica. La morte in questo periodo è prima di tutto la morte dell altro.un elemento nuovo si introduce nel cordoglio e nel lutto: si piange, si langue, si digiuna, ci si dispera; la separazione è vissuta come strappo lacerante. Solo all inizio del Novecento in tutto l Occidente di cultura latina, la morte di una persona modificava solennemente lo spazio e il tempo di un gruppo sociale, la morte era un avvenimento pubblico. L apice dell evoluzione della morte si ha nel XX secolo: la morte si ritrova cancellata dalla coscienza individuale e scompare diventando oggetto di vergogna e di divieto. Comunque la morte e i morti nella mentalità collettiva, sono una serie di immagini e di atteggiamenti che altro scopo non hanno che collocare in distanza la realtà biologica e sociale del morire. In Occidente dunque muore la morte, la morte come finzione non esiste più perché privata delle metafore, spogliata delle parole e delle immagini atte a raccontarla e a rappresentarla anzi, è diventata innominabile. Non si parla neanche più del Paradiso e sono stati abbandonati atteggiamenti e riti della tradizione antica. La società moderna ha privato l uomo della sua morte e gliela restituisce solo se egli non se ne serve per turbare i vivi da una citazione di Philippe Ariès (storico). Il morire in Occidente è diventato un fatto osceno, asettico, stilizzato e truccato dai mass-media e dalle istituzioni.ormai ignoriamo tutto del morire puro e semplice, questa rinunzia storica di chi sopravvive nei confronti di chi muore, al quale non presta più assistenza, è diventata normale e naturale. L atteggiamento comune è la fuga e la negazione della morte persino da parte del morente che in tempi diversi sapeva che stava per morire e accettava con lucidità il morire attorniato e assistito da tutta la famiglia, alla quale impartiva le sue ultidesiderio del piacere, esiste nell uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. La visione mitica della morte rassicura, permette di avere speranza e fiducia, di allontanare la paura con immagini e supplementi simbolici di continuità e di immortalità. E così consciamente o inconsciamente allontaniamo i pensieri di morte, anche se questo non significa che neghiamo il fatto di essere mortali o che evitiamo tutto ciò che parla della morte e del morire ma di fatto, continuiamo a vivere tenendo emozionalmente lontana la coscienza della nostra finitezza. Judith Viorst, in un libro meraviglioso e di grande sensibilità e portata sulla condizione umana, Distacchi sostiene che è difficile per la maggior parte di noi pensare alla nostra morte senza esserne spaventati. Questo perché abbiamo paura dell annientamento e del non-essere, l ingresso nell ignoto, il terrore dell abbandono. La nostra vita pertanto si costruisce sopra la morte. La morte e il soggetto che deve sperimentarla non si incontrano mai. Pertanto l unica possibilità di conoscenza di essa è quella della morte degli altri. Soltanto così prendiamo coscienza che il nostro corpo che era vita e parola, è ormai inerte e muto. Nella Grecia antica, la morte era un cavaliere nero di nome Caronte e nella Grecia moderna l espressione comune per dire di uno che è in agonia è Charopalevi, che letteralmente significa egli lotta contro Caronte e Caronte è un personaggio inquietante ma con la sua umana compiutezza cela il Nulla. E interessante affrontare l evoluzione (o involuzione) del concetto e della concezione di morte nel corso della storia per comprendere la negazione contemporanea della morte e del morire. Nel Medioevo la morte era considerata un evento collettivo e fortemente socializzato, accettata come parte dell ordine naturale della vita quotidiana, considerata come continuità dell esistenza. Questo ultimo punto si modifica già alla fine del primo medioevo, appare il concetto dualistico e di separazione fra vita e morte e l uomo è rimandato ad interessarsi solo degli aspetti materiali dell esistenza. Tuttavia, si fanno strada le usanze dell epigrafe funeraria che rende onore al morto e a quello che è stato in vita, delle deposizioni testamentarie, delle fondazioni pie, delle messe in suffragio, del corteo funebre e del servizio da parte della chiesa. L Uomo del secondo Medioevo si

5 Numero 4/ PAGINA me raccomandazioni e volontà. Oggi, il morente quasi sempre solo, o non sa che sta per morire (stadio della menzogna) o fa come se non lo sapesse (stadio della dissimulazione). Per tornare sull assistenza al morente, un tempo i vivi assistevano i moribondi, il morire era lì, fatale e naturale. Tra i vicini ci si aiutava a sopportare l esperienza del morire che era pur sempre dolorosa. Insieme si vegliava e si pregava il morente, lo si ascoltava e gli si parlava. Insieme si piangeva, e il dispiacere, il dolore condiviso era meno gravoso da sopportare. La stessa comunità si faceva carico del morire, sostenendo spontaneamente il morente e visitando di frequente la famiglia. Sicuramente, qua e là, nelle comunità piccole e rurali questo appoggio collettivo esiste ancora ma nelle città e nella maggioranza dei casi non è più il tempo della solidarietà. Il morente agonizza quasi clandestinamente, sempre più spesso fuori di casa, in ospedale o nelle case di riposo, abbandonato anche dai parenti. La medicalizzazione della morte ha privato il morire della sua specificità, il morente della sua libertà di individuo responsabile e la malattia stessa non preoccupa più ma rassicura. Il morire è stato preso in carico dalla struttura ospedaliera e dagli operatori della salute (soprattutto dai medici) e non appartiene più a chi sta agonizzando o ai suoi parenti. Al morente, trascinato nel labirinto ospedaliero, più rassicurante per i parenti che per lui, gli viene tutto nascosto con una sorta di complicità tra i parenti ed il medico che spesso attraverso l accanimento terapeutico, alimenta artificialmente la speranza alla guarigione, deprivando così una persona del diritto alla morte. Il medico sembra più occupato o preoccupato di salvaguardare il proprio equilibrio morale (e quello dell ambiente ospedaliero) per cui deve a sua volta negare il morire, e il non riuscire a piegare il corso dell agonia è uno scacco che rimette in causa la fondatezza della scienza medica e il suo potere. Il rifiuto della morte e del morire si proietta sul moribondo con un triplice isolamento: spaziale (lo si colloca in disparte o lo si nasconde dietro un paravento), temporale (si risponde con minor premura alle sue chiamate) e relazionale. Il dolore, soprattutto quello legato al lutto come perdita di una persona cara, è una manifestazione vergognosa, degradante, non più benefica come un tempo. La scomparsa del dolore e del lutto non è priva di conseguenze, tanto che in Occidente essa comporta una vera patologia del lutto che talora può essere di difficile soluzione. E poiché nelle nostre società è stato distrutto il senso della comunità, per sedare questi stati patologici ci sono i terapeuti per cui nessuno si sente responsabile della morte altrui. La morte diventa una distruzione irreversibile di fronte alla quale l uomo è sempre più smarrito e angosciato. Questo uomo nuovo, emerso dalla società mercantile e industriale, sembra un frutto senza nocciolo, attaccato al proprio corpo e al perpetuarsi di questo nel mondo. Bisogna andare ahimè! in quei luoghi che definiamo Terzo Mondo, Mondo Sottosviluppato, Mondo del Paesi Poveri, selvaggi, non democratici e non civilizzati, per ritrovare in parte una collettività solidale e responsabile che si prende in carico il morire, dove l assistenza al morente ed alla sua famiglia è una regola fondamentale, facente parte del costume e delle credenze di un popolo. Caratteristica nel morire contemporaneo è l uccisione della comunicazione fra il morente e i sopravvissuti anche perché a monte, l inibizione a comunicare sulla morte è dominante nella società attuale. Esiste oggi una crisi di valori che ha coinvolto anche i significati simbolici, la morte è rimossa, negata, non pensata, né raccontata. Le origini di tale disfacimento può essere ricercata sempre attraverso la storia dell umanità: l emergere dell individualismo (secolo XII ); l individuo diventa a poco a poco persona e tende ad essere autonomo; lo sfaldamento del dominio feudale (secolo XIII ); la divisione in classi della società e la conseguente lotta individuale per le posizioni di potere che diminuisce le distanze dai padroni. E per questa febbrile affermazione di sé che il morire diventerà sempre più un fatto insopportabile. Nel secolo XVII l angoscia della morte si trasforma in ossessione e disperazione. Altro fenomeno non meno importante quello della scristianizzazione che dilaga nel XVIII secolo. Voltaire nell età dei lumi riabiliterà la morte improvvisa fino ad allora considerata la brutta morte e confermerà che in Occidente gli uomini fuggono sempre più davanti alla morte. Nei secoli seguenti e sin ad oggi ancor di più la bella morte è il morire istantaneo, il morire di sorpresa, il morire inconsapevole, il morire senza accorgersene. Con la morte della morte in Occidente è crollato anche l edificio dell immaginazione e del simbolico che un tempo le faceva da cornice e il morire non si affaccia più su un aldilà o un altrove, ma sul vuoto e sul nulla. Un contributo all allontanamento del morire lo si deve anche all evoluzione dell ambiente sociale: abbattimento di molte malattie, scomparsa di carestie e penurie, diminuzione della mortalità infantile e la speranza di vita che continua a crescere. Il progresso tecnologico, l informazione, il benessere economico, la medicina in Occidente hanno avuto la meglio sulla cattiva salute ma è fuor di dubbio che siamo mortali anche se questo ci spaventa. Ed è così che ci appare il morire, uno spaventoso errore che non appartiene più a colui che muore ma a coloro che occupano posizioni di potere, a coloro che decidono e controllano la vita e la morte altrui. Il potere ha mille volti e così anche la morte ha molte facce: la morte fisica, la morte economica, la morte politica, la morte civile, la morte sociale, culturale, psicologica, spirituale e ancora, gli stermini, i genocidi, la carcerazione, la condanna a morte, la guerra, l alienazione dell uomo, lo stigma sociale fenomeni sempre di moda, prodotti e utilizzati dal potere. Non si può fare a meno di pensare ad un tipo di morte lenta rappresentata in Occidente dalla vecchiaia considerata un problema sociale sia per la società sia per l individuo. Per i vecchi qui da noi non c è posto, è meglio un ospedale o un ricovero e quindi la solitudine, una porta aperta per l A- NOMIA, nel senso dato a questa parola da Emile Durkheim (famoso sociologo): condizione di individui o gruppi nella quale vi è assenza di solidarietà sociale o di legami sociali cioè, la morte sociale e quindi anche psicologica, culturale, spirituale sino alla morte biologica. Tuttavia di fronte a queste forme di morte esiste la ribellione che utilizza gli stessi strumenti contro chi gestisce variamente il Potere (medici, militari, padroni, rappresentanti dello Stato e così via): scioperi della fame e/o della sete, strategie di minaccia di varia natura, tentativi di suicidio, rifiuto delle cure, tutti usi simbolici del morire perché unico linguaggio rimasto a coloro che non sono più capiti. La conclusione di questo percorso storico forse avrà un lieto fine, infatti alla luce del terzo millennio sembra si stia facendo strada la riscoperta della morte naturale e autenticamente vissuta seppur in contraddizione con un tipo di morte non proprio naturale che mette in discussione la dimensione morale, etica e deontologica della vita. Le scienze umane e sociali hanno affrontato il tema della morte e del morire. La filosofia con Heidegger, ( ) contemporaneo e autorevole figura dell esistenzialismo, valorizzò la pura esistenza. Egli affermò che il senso ultimo dell esse-

6 6PAGINA Infermiere a Pavia re è l esserci (il Da-sein in lingua tedesca). L essenza dell uomo per questo filosofo è la sua esistenza e niente altro. Di conseguenza, la filosofia ha la funzione di analizzare l individuo concreto e la sua condizione di essere stato gettato nel mondo, in un epoca, in una cultura, in una lingua e in una località che egli non ha scelto, ma con le quali deve entrare in un rapporto attivo, angosciosamente consapevole delle infinite possibilità che gli si offrono e dell unico destino che lo attende: la morte. La morte per Heidegger è il momento non solo conclusivo, ma costitutivo della vita. Tutta l esistenza dell uomo, è un esser per la morte e pertanto una vita autentica è quella che accetta la dimensione dell angoscia, che non cerca di dimenticare la propria finitezza nella cura del mondo. Nel pensiero di Heidegger dunque l esistenza autentica è precorrere la morte, rappresentarsela. Soltanto attraverso l accettazione della morte, l esserci perviene alla sua compiuta totalità. La morte ci si presenta come un evento estraneo posto al di fuori di noi, essa ci è tanto estranea che matura inconsapevolmente il convincimento interiore, contrario ad ogni riconoscimento razionale, del suo non verificarsi per noi. La morte viene concepita come qualcosa di indeterminato che un giorno o l altro finirà pur di accadere per noi. Il si muore, con l anonimo si, ci tranquillizza nei riguardi della morte e invece nell esperienza del sentirsi morire, il senso della morte diviene immanente alla vita individuale, e il grande salto esistenziale consiste nel passaggio dal si muore all io muoio, ossia dal riferimento ad una indeterminatezza del dramma, al personale e drammatico vissuto. La psicologia si è interessata al tema della morte e del morire soprattutto attraverso l analisi del profondo affermando che la paura dell uomo di fronte alla morte è la paura del mistero della morte che in realtà è la paura dell annientamento dell Io, dell essere e della propria identità. E l impossibilità di riconoscere la propria non-esistenza, di immaginarsela, di prefigurarsela. Freud sosteneva: in fondo nessuno crede alla sua morte, o, il che è lo stesso, ognuno di noi è inconsciamente convinto della propria immortalità. Non è possibile rappresentarsi la propria morte : Jung ha proposto una visione della vita e della morte da un punto di vista finalistico: il morire come un fine e non come una fine. Secondo Jung se la nascita dell Uomo è densa di significato perché non dovrebbe essere altrettanto per la sua morte? Per questo è importante per l Uomo ricominciare a riflettere su se stesso, sul senso della sua vita, mettersi in relazione con la propria morte e prendere coscienza che nella società occidentale l approccio proposto all individuo come rappresentazione della vita e della morte è diversificato rispetto agli stadi evolutivi: - Infanzia (fino a circa 6 anni), si passa da una totale incomprensione del fenomeno morte, alla comparsa di immagini concrete relative ai cimiteri e ai cadaveri. - Adolescenza, il processo cognitivo relativo alla morte contempla la capacità di apprendere ed elaborare le componenti emozionali. E il rifiuto degli adulti a parlare della morte che non facilita una sufficiente elaborazione ideale e verbale del concetto di morte; nella tarda adolescenza possono comparire meccanismi razionali di rassicurazione forniti dalla tabuizzazione sociale della morte. - Età Adulta, i significati della morte vengono connessi alla situazione ambientale e sociale di vita. La paura della morte si identifica quasi sempre con la paura del morire che comporta paure di malattie e mutilazioni, del dolore, dell isolamento e dell abbandono, nonché della perdita del controllo. Dal punto di vista sociologico, nella società moderna, legata al mito della produttività, i problemi sociali relativi alla morte sono spesso quelli della vecchiaia. Sicuramente una analisi sociologica espone alla paura della morte proprio la società occidentale, una società che manipolando, rimuovendo, mercanteggiando e subordinando la morte alla legge del profitto, ha smarrito il senso della vita sprofondando nell angoscia. L antropologia culturale insegna che l accettazione della morte come unico vero evento ineluttabile dell esistenza non è mai stata, in nessuna cultura e in nessuna epoca storica, un fatto naturale. Dalla mitologia della reincarnazione al transito in una beatitudine eterna o in un mondo infernale che alimenta paura e disperazione, sono molti i sistemi creati dall uomo per sottrarsi in qualche modo al dramma della morte biologica e questi sistemi sono al centro di comportamenti e sentimenti propri tanto del singolo quanto della collettività. Le norme e consuetudini del lutto, la dinamica e le tecniche del cordoglio, i sistemi rituali, le strutture del lamento, le forme di tabuizzazione, il banchetto funebre, i comportamenti intorno al cadavere sono atteggiamenti simbolici attraverso cui le culture hanno creato gli espedienti più singolari per sottrarre l uomo all angoscia della fine. La monografia presenta nelle pagine seguenti un approfondimento sulla concezione della morte e del morire nelle diverse culture e uno schema sul significato delle usanze relative alla morte nelle diverse confessioni. La morte, è sicuramente un evento che riguarda tutti, un evento a cui è necessario dare il suo giusto posto e la sua dignità. Parlare di questo evento è fondamentale non per moda, ma perché sia un momento di verità in cui approfondire la propria concezione, arricchire il proprio sapere ed iniziare un percorso di crescita personale prima e successivamente professionale per assistere con dovizia il momento della morte di una persona. E fuor di luogo che oggi si muore molto in ospedale, si va spesso a morire in ospedale e spesso la morte in ospedale è sinonimo di abbandono. Si pone quindi un problema per noi professionisti della salute. E allora, noi operatori della salute siamo veramente preparati a stare accanto alla persona morente, per aiutarlo umanamente a morire e cioè comprendere ciò che avviene dentro di lui, ascoltarlo e comprenderlo quando vuole comunicare con parole, gesti, silenzi? Ancora Norbert Elias, nel suo saggio intitolato La solitudine del morente scrive: mai come oggi i morenti sono stati posti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita sociale, per sottrarli alla vista dei vivi. L esigenza funzionale delle questioni di igiene in realtà nascondono la negazione della morte. L accompagnamento al morente nel pensiero di molti studiosi deve partire da un presupposto, che è quello di considerare il morente come persona umana, capace in quanto tale di relazione. In questa relazione è necessario lasciare esprimere il morente, offrire ad esso la possibilità di manifestare i suoi sentimenti anche negativi e mettersi in atteggiamento di ascolto per imparare direttamente da lui la situazione che vive. Un opera di rilievo nello studio del morire e dell accompagnamento al morente è quella della Kubler Ross che ha consolidato una notevole esperienza con i malati terminali, ha individuato cinque livelli di sentimenti esternati dai morenti che non hanno necessariamente una successione sistematica ma possono emergere anche con tempi diversi. Questi sentimenti sono: il rifiuto e la negazione della morte che possono creare illusioni o false convinzioni se non la rimozione totale del problema;

7 Numero 4/ PAGINA la collera, l invidia e il risentimento che possono generare una rabbia nel morente che viene proiettata verso gli altri e cioè medici, infermieri, familiari. E una rabbia che sottende un bisogno, il bisogno di non essere lasciato da solo; il patteggiamento è la fase in cui si cerca un compromesso. Ad un atteggiamento di insicurezza subentra una fase in cui il malato comincia a fare delle promesse a se stesso per cui diventa disponibile alla cura, a qualsiasi cura. Da un punto di vista psicologico le promesse si possono collegare a qualche vissuto di colpa; la depressione, quando il malato diventa consapevole della sua malattia e dell inutilità delle cure che riceve, il corpo comincia a rinunciare e a diventare più debole. Il malato ora si trova di fronte alla più radicale delle separazioni, quella dalla sua vita. Si rende conto che non serve più aggredire o patteggiare, prende coscienza della serie di perdite che sta subendo e potranno scattare diversi tipi di paure: la paura dell ignoto, paura della solitudine, paura della perdita della sua immagine, paura di perdere il controllo di sé, paura del dolore e della sofferenza, paura della perdita di identità, paura della regressione Una volta intuita la causa della depressione, è possibile fare un tentativo per mitigare questo senso irrealistico di colpa o di vergogna, attraverso una relazione improntata su sincerità, dolcezza e realismo. Ci può essere anche una depressione di tipo reattivo generata dalla paura della morte ma che non dipende dalla morte in sé ma da altri motivi: la dipendenza dagli altri, la consapevolezza soprattutto se si è giovani e se si ha una famiglia di essere utile e di aiuto, la paura della solitudine, i sensi di colpa del passato, la paura per le sofferenze indicibili, questioni della propria vita irrisolti o incompiuti e così via. Piuttosto che immaginare di comprendere l ansia e la depressione potrebbe essere più incisivo farsi spiegare dal morente le motivazioni del suo stato; l accettazione, è l ultima tappa, in un vuoto di sentimenti il malato abbandona la lotta per il riposo finale prima del lungo viaggio. Può accadere in questa fase che il malato non abbia più voglia di parlare ma è importante che lui senta la vicinanza di qualcuno. Ci sono comunque persone che lottano sino alla fine conservando un attaccamento alla vita tale da non raggiungere la fase dell accettazione. In questa fase il personale curante deve aiutare la famiglia per far comprendere i bisogni ultimi del loro caro. Il nocciolo della teoria della Kubler Ross può essere così formulato: se si deve evitare che i malati muoiano da soli, per strapparli alla solitudine c è un solo mezzo, la possibilità offerta di condividere tutti i loro sentimenti. Questo aiuto può garantirlo solo chi ha stabilito in qualche modo un rapporto sereno con la propria morte, diversamente si presenteranno grosse difficoltà a rimanere efficacemente presenti accanto al letto del morente. E allora diventa necessario per un operatore sanitario cercare di chiarificare i propri sentimenti verso la morte ed il morire nel tentativo di sviluppare il proprio sistema di sostegno, acquisire consapevolezza dei propri meccanismi di difesa e dell effetto che essi possono avere nei rapporti con il morente e assumere l impegno a condividere con l équipe curante le proprie paure e le proprie difese per elaborarle e superarle. L accompagnamento dell uomo che muore è sicuramente un compito difficile e angosciante, la prossimità alla propria morte comporta angoscia dell ignoto, perdite e separazioni. Subentra un sentimento di inutilità della vita, il malato sperimenta la dissoluzione di se stesso e della propria dignità, la vita gli diventa un peso. Assistenza e accompagnamento rispondono ad una profonda necessità

8 8PAGINA Infermiere a Pavia dell essere umano che è primariamente quella di essere riconosciuto nella sua sofferenza ed essere apprezzato, ma anche quella di essere trattato come persona viva fino alla morte, nel rispetto della propria dignità. Assistenza e accompagnamento devono riguardare la dimensione fisica, psichica, sociale e spirituale della persona morente e devono essere estese alla sua famiglia tenendo conto che la perdita di una persona cara è uno dei più terribili eventi che capitano ad un essere umano. E fondamentale supportare i familiari nel momento delle cure, anche in vista della perdita futura e delle reazioni successive alla nuova realtà. L esperienza del lutto è stata presa in considerazione da autorevoli studiosi appartenenti a scuole di pensiero psicologiche diverse. Esistono più fasi di elaborazione del lutto, dalla fase di torpore e stordimento a quella di struggimento, poi di disperazione sino all accettazione e alla riorganizzazione della propria esistenza (dai risultati di ricerche condotte da Bowlby e Parkes). Il lutto quale processo fisiologico e naturale ha i suoi ritmi di sviluppo e di guarigione. Le reazioni al lutto possono riguardare il livello fisico, emotivo, mentale, spirituale e sociale, le reazioni possono essere normali o diventare patologiche sino all autodistruzione. Il processo interpersonale del lutto può anche rimanere bloccato. Il lutto (latino lugere cioè piangere) è il cordoglio (latino cordolium composto da cor (cuore) e dolere (provar dolore) per la morte di una persona cara ossia la risposta emotiva alla perdita di qualcuno o qualcosa. Il cordoglio è una dinamica umana che è inevitabile, comporta sofferenza, è portatore di crescita. Per concludere a proposito della morte la psichiatra Kubler Ross ha detto: ciascuno di noi vorrebbe evitare questo passo, eppure presto o tardi ciascuno di noi deve affrontarlo. L autore * Infermiera SPDC - A.O. Pavia Bibliografia Giulia Baraldi, La qualità promessa Viaggio di un assistente sociale nelle cure palliative. Eugenio Borgna, L arcipelago delle emozioni, Edizioni Feltrinelli. Alfonso M. Di Nola, La nera signora, Newton & Compton Editori. Corrado Viafora, Fondamenti di Bioetica, Casa Editrice Ambrosiana Milano. Enciclopedia Einaudi, Morte Volume Il nostro Collega Peppino Rosselli, dopo quasi quarant anni di attività avverte il desiderio di tracciare un solco di riflessioni, scrivendo un libro per ripercorrere il suo cammino professionale fatto di scelte, di convinzioni, di disponibilità, Ho avuto l'opportunità di conoscerlo personalmente a Pavia e nella nostra conversazione, durata circa quindici minuti, con la sua persona semplice, con il suo linguaggio essenziale e ricco di emotività, è riuscito a trasmettermi fiducia e profondo orgoglio per tutto quello che ha saputo realizzare. La promozione per l'acquisto di questo libro, risulta dovuta, infatti sottolineo che l'intero ricavato delle vendite sarà destinato ad opera di beneficenza. Segue una breve presentazione dell'autore e dei suoi progetti presenti e futuri; il nostro augurio, più sincero, è quello di poterli realizzare pienamente: Peppino vogliamo congratularci con te per il tuo impegno di infermiere e di uomo al servizio della vita. Laura Lavezzi Vicepresidente Peppino Rosselli, L'infermiere, un uomo a servizio della vita - riflessioni su una scelta - Editur Calabria, Editrice Un'iniziativa editoriale al servizio della vita Peppino Rosselli, infermiere professionale, caposala dirigente da quarant anni, ha voluto raccontare in questo libro la sua esperienza umana e professionale. Per proseguire, al di là della professione, il suo impegno di uomo al servizio della vita, ha voluto devolvere in beneficenza, il ricavato delle vendite del libro. Così dal mese d'agosto 2001, cioè da quando è stato stampato il libro, Peppino Rosselli ha incominciato a girare in lungo ed in largo la Calabria per presentare il libro e venderlo "porta a porta. In meno di sei mesi, due ristampe e migliaia di libri venduti, con un ricavato di oltre 40 milioni, tutti devoluti in beneficenza. Le tappe dell iniziativa 16 ottobre 2001: Rosselli consegna L a Padre Fedele Bisceglia, segretario delle Missioni estere dei Frati Minori Cappuccini di Cosenza. La somma servirà per la realizzazione di un orfanotrofio per i bambini abbandonati dell'africa, Pointe Noire, Congo Brazzaville. Novembre 2001: Un assegno di L viene consegnato a Luigi De Luca, Presidente dell'associazione Progetto Oasi" di Belvedere Marittimo. Gennaio 2002: Rosselli consegna a Don Ermanno Raimondo la somma di L per una famiglia di calabresi bisognosi, residenti in Argentina. Gennaio 2002: La somma di L viene consegnata alla sig.ra Stella Marconi, Presidente dell'associazione "Crescere insieme" di Fuscaldo Marina. L impegno futuro È in tipografia la terza ristampa del libro con una tiratura di copie e subito dopo ce ne saranno altre. Peppino Rosselli intende arrivare ad un ricavato di almeno 100 milioni, tutti da devolvere in beneficenza. Dopo le associazioni per disabili, l'attenzione di Rosselli è adesso rivolta ai bambini orfani di Kabul che saranno l'oggetto delle prossime beneficenze. A tal fine Rosselli ha già chiesto ad Emilio Fede la collaborazione dei TG4. Recapito: Peppino Rosselli c\o Casa di cura Tricarico Marina di Belvedere Marittimo (CS) - tel

9 Numero 4/ PAGINA La morte e il morire nell esperienza psicopatologica Annamaria Tanzi* "... Mi sento morire. Morivo ieri mattina. Mi sento morire. Mi sento in un clima di tragedia. Non solo, sogno di dormire sempre, e sogno infine di morire, ma quest'ultimo sogno è turbato dal fatto di sapere che la mia morte farebbe del male ai miei familiari. Così non penso mai seriamente al suicidio. Non è facile morire. Cerco disperatamente di non lasciarmi sommergere... Non ho voglia di vivere perchè vivere significa morire". (Il grido di dolore di Maria Teresa, una paziente. Tratto da "Malinconia" di Eugenio Borgna, Edizioni Ferltrinelli) Alcune considerazioni generali. Non c è solo la morte biologica, la più radicale conclusione della vita, ma ci sono anche la morte psicologica e quella biografica. La morte psicologica si ha quando una persona non intende più vivere, non ha più gioia della vita; la morte biografica si ha invece quando non vi sono più motivi perché valga la pena di vivere. In tutti i disturbi psichici, dalle nevrosi alle psicosi, è determinante la presenza e la paura della morte. Se nelle nevrosi la morte è contenuta e concentrata, nelle psicosi si ha prevalenza della morte a livello mentale e nella depressione non si muore, la vita non si spegne e nondimeno in essa si è già alla fine: si è nel deserto di un vuoto indicibile che si realizza nel vissuto di un essere morti interiormente. Nello psicotico la carica della morte non è isolabile e concentrabile, né vi è la possibilità di distanziarla nel tempo e nello spazio interni e la sopravvivenza è legata a meccanismi di difesa dalla morte che a loro volta sono patologici: la dissociazione, la fuga, la non percezione che vengono continuamente esternalizzati. Altro meccanismo protettivo è la passività. Si tratta di tentativi di disintossicazione che consistono talvolta nel somministrare agli altri la morte dalla quale ci si sente invasi. Nella psicosi vi è alterazione dei concetti e delle percezioni di spazio e tempo, ciò è dovuto all impossibilità di distanziare la morte e di creare ritmi reattivi nei suoi confronti. Il delirio è in parte effetto di proiezione della morte interna, ma è in parte effettiva percezione della fragilità dello psicotico e del fatto che egli suscita nell ambiente la tendenza a distruggerlo. Diverse sono le modalità psicotiche di ri-vivere la morte: la morte come liberazione, la morte accettata con rassegnazione, la morte temuta, la morte dimenticata, la morte nutrita di angoscia, la morte frantumata. La depressione è la percezione dolorosa della morte a livello mentale, la morte è percepibile a vario livello. Nei livelli biologici può divenire dolore fisico, nei livelli coscienti può divenire idea di morte, la mente ha sempre in sé la rappresentazione della morte. Questa carica mortifera può provenire oltre che dall interno anche dall esterno. Il depresso, anche grave, conservando una certa capacità di soffrire e quindi di reagire, è oppresso dalla morte ma non mescolato con essa. Può venir ucciso dall interno ma conserva un certo grado di coscienza di questo. La depressione viene percepita drammaticamente nella mezza età, nella quale il tempo da vivere diviene progressivamente minore di quello già vissuto, e ciò significa che la morte ha preso effettiva prevalenza su di noi. "L'estromissione dalla vita sociale e familiare, è vissuta dall'anziano come una sorta di condanna a morte e la disperazione, il marasma, la morte cui fanno seguito realizzano il trauma personale..." In un altra esperienza psicopatologica, la malinconia, non c è una sola esperienza della morte: alla morte possibile (la morte volontaria che è la più frequente) si accompagna talora, la morte impossibile cioè la morte che si dissolve e si fa inafferrabile. Alla metamorfosi della morte si possono associare due esperienze atroci: la nientificazione del corpo e la sopraffazione del demoniaco. Non poter più vivere la morte come realtà possibile non spegne l angoscia della morte: la differisce nel tempo dilatandola senza fine. Il suicidio. Un fenomeno complesso, di notevole rilevanza sociale, angosciante e misterioso, possibile in molti e differenti disturbi psichiatrici, è rappresentato dalla morte volontaria, il suicidio. Il fenomeno del suicidio è ubiquitario, si ritrova in ogni cultura e società. L incidenza del suicidio varia però nei diversi Paesi nel senso che è più elevata nei Paesi nordeuropei, in Canada, Australia e USA rispetto ai Paesi latino-americani e ai Paesi arabi. Il suicidio si impone all'attenzione generale e reca problemi di ordine individuale, sociale, psicologico ed etico.

10 10 PAGINA Infermiere a Pavia Il problema del suicidio si propone in particolare all'attenzione degli operatori sanitari, sia perchè talvolta chiamati a prestare cura e assistenza a persone ospedalizzate in seguito a tentativo di suicidio, sia perchè propositi di suicidio e/o condotte autolesive sono manifestati alle volte da pazienti che si trovano in condizioni di profonda sofferenza psichica. "Nelle psicosi l'attacco aggressivo del malato verso se stesso rimane sovente un gesto unico, espressione di una determinazione autosoppressiva radicale o di un impulso di estrema intensità... Si possono osservare comportamenti di feroce accanimento sul proprio corpo, che viene mutilato o deturpato ora nel corso di un raptus confusionale ora sotto la spinta di un impulso irresistibile, dal quale lo stesso malato si sente minacciato e chiede di essere protetto". Nei confronti delle persone ricoverate in seguito a tentativo di suicidio, le cure e l'assistenza riguardano il ripristino dell'integrità fisica ma anche, predisporre una serie di iniziative per un recupero psicologico ed umano. Questo perchè il tentativo di suicidio, anche quando non lascia nel corpo menomazioni o conseguenze ineliminabili, finisce sempre per accrescere i problemi di ordine umano, psicologico e sociale della persona. Nel passato, le origini del suicidio o malamorte risalgono all'antica Grecia, nei confronti della persona suicida, vi era una totale condanna, persecuzioni, severo giudizio e privazione di diritti; oggi, sebbene si considera il problema con un approccio più completo e moderno che comprende una migliore conoscenza dei condizionamenti e delle motivazioni inconsce dell'animo e dell'agire umano, il suicidio comporta la paura dello stigma sociale per chi non ha portato a compimento il gesto autolesivo e per familiari (per questi ultimi anche quando l'atto è compiuto senza ritirno). La società "civile" di cui siamo parte integrante è sempre più incline a giudicare che a comprendere il disagio umano, psichico e sociale di una persona e dopotutto, la comprensione deve necessariamente passare attraverso l'assunzione delle responsabilità che si hanno nei confronti della comunità che ci accoglie. Verso l'assistito, possono aiutare sentimenti di umanità e comprensione affinchè esso possa recuperare la necessaria stima di se stesso e la fiducia verso il futuro. Un maggiore rischio di suicidio si ha tra i soggetti affetti da disturbi psichiatrici, tra le persone di età avanzata, tra i divorziati o i vedovi. Altri fattori di rischio possono essere: perdita dei genitori in età infantile, un lutto recente, un anamnesi familiare positiva per suicidio, l instabilità familiare, comportamenti ad alta emotività o forte inibizione, la disoccupazione, la scarsa integrazione sociale, la deprivazione economica, la migrazione, la detenzione in carcere, il ricovero ospedaliero, le malattie fisiche specie se croniche. Questi fattori di rischio elencati sono espressione di una casualità multidimensionale, non riconducibile in alcun modo ad un semplice meccanismo causa-effetto. I rapporti tra suicidio e psicopatologia sono stati estesamente indagati in letteratura e c è accordo fra i vari autori nel ritenere il disturbo mentale un indice di aumentato rischio autolesivo. Un ipotesi etiopatogenetica del suicidio interessante è quella che fa riferimento alla teoria psicosociale sugli atti autosoppressivi, che ebbe origine con la pubblicazione, nel 1897, del saggio Il suicidio del sociologo francese Emile Durkheim. Punto centrale dell ipotesi di Durkheim è che l incidenza di suicidio in una determinata popolazione risulta inversamente proporzionale al grado di coesione della società e al grado di integrazione dell individuo nella stessa. Quando la società si disgrega e perde la sua azione di sostegno e di regola nella vita dei singoli, mancano le ragioni per vivere. Nella parte introduttiva della monografia è stato già citato Durkheim e la condizione di anomia, questa condizione di disgregazione sociale si può verificare nei momenti di crisi ma anche nei momenti di floridezza economica, che rappresentano rotture di equilibri, mutamenti dell ordine collettivo durante i quali la società non è in grado di esercitare un azione di controllo sulle aspirazioni dei singoli individui. Durkheim riconobbe che l anomia è un fattore regolare, specifico e costante del mondo moderno. Questa ipotesi fu ripresa successivamente da altre correnti di pensiero sociologiche, Merton (funzionalista) sostenne nel 1949 che l'anomia è una caratteristica stabile e costante del sistema sociale americano, responsabile della genesi di comportamenti devianti, tra cui il suicidio. L'integrazione sociale è considerata l'elemento principale nell'analisi delle condizioni sociali e culturali che possono influenzare l'incidenza del suicidio. Un'area importante da considerare è fuor di dubbio quella della prevenzione (secondaria), attuabile in un ottica multidimensionale considerando le possibili variabili sul piano bio-psico-sociale ed i fattori di rischio relativi. I risultati dell'intervento preventivo possono diventare concreti se si pensa il suicidio come: sintomo aspecifico di una malattia umana aspecifica. Un approccio è quello basato sulla valutazione clinica per cui possono essere prese in considerazione le esperienze di vita del soggetto, la struttura del carattere, il meccanismo di adattamento agli eventi e allo stress. Secondo alcuni autori, i pazienti con idee autolesive attualizzerebbero sempre i loro fantasmi di morte agli interlocutori, attivando meccanismi di difesa quali: la negazione, banalizzazione, razionalizzazione e fatalismo. Il colloquio dovrebbe essere di tipo supportivo e centrato sull'ascolto per valutare: le idee di suicidio, il loro carattere ossessivo, impulsivo e organizzato, la loro ambivalenza. Importante è anche la valutazione dell'intensità e grado di elaborazione del desiderio di morte e le ripercussioni sulla vita relazionale e professionale del soggetto. Nella valutazione della crisi che può indurre il suicidio è necessario considerare: - motivi addotti dal soggetto - sue reazioni affettive (colpa, rimorso, distacco, iperemotività, impulsività, risoluzione apparentemente lucida) - modalità di rapportarsi all'interlocutore (frequente l'assenza di contatto per esempio sguardi, tensione muscolare ansiosa) - condotte considerate come equivalenti del suicidio (alcolismo, tossicomanie, automutilazioni) - capacità di proiettarsi nel futuro - qualità dell'autostima, degli investimenti affettivi, dell'integrazione relazionale - capacità di elaborazione della situazione attuale. Una profonda conoscenza del paziente potrebbe recare ad una corretta valutazione del rischio di suicidio per la prevenzione.

11 Numero 4/ PAGINA Non è un facile compito per chi opera soprattutto nell'ambito della salute mentale/psichiatria. Non è facile affrontare il tema della morte nelle istituzioni psichiatriche forse perchè continuamente a contatto con il fantasma della morte psichica. Il suicidio come atto portato a compimento lascia sempre un "vuoto" negli operatori della salute mentale; lascia attoniti, muti e scoperti emotivamente e il vuoto viene riempito da sentimenti di fallimento (anche sensi di colpa), dubbi, incertezze e nuovi interrogativi sulla persona sofferente indagabile sempre fino ad un certo punto, su se stessi e sulla propria operatività con un grande rischio di demotivazione e di burn-out. La morte naturale in psichiatria. Per ritornare al tema della morte e al morire nella psicopatologia, un altra domanda può essere: di malattia mentale si può morire? "L'idea che elementi di ordine affettivo (come il dolore morale) o squisitamente psicologici (come le rappresentazioni individuali o collettive e le credenze) possono essere vere e proprie cause di morte naturale in psichiatria non ha trovato posto in nessuna nosografia. Sono altresì questi stessi fattori considerati ovviamente importanti nella genesi della morte violenta. La catatonia acuta, l'anoressia mentale, il delirium tremens, la sindrome neurolettica maligna sono alcuni esempi di come possa sopraggiungere la morte naturale per cause esclusivamente psichiatriche. Questi decessi a differenza di una morte naturale in senso stretto, creano sconcerto nell'èquipe curante, uno scacco terapeutico, incidenti di percorso possibili ma per i quali si mette in discussione il proprio operare anche se in questi casi, non si rende accessibile una spiegazione etiopatogenetica sufficientemente valida. Solo ipotesi vaghe e contraddittorie, tentano di definire le modalità con cui una patologia inizialmente solo psichica, possa evolvere in una "catastrofe corporea" capace di condurre a morte un paziente malgrado i cospicui interventi rianimatori. La maggior parte di questi casi di morte naturale, si collocano sulla linea di continuità fra la patologia psichiatrica e quella somatica. Nella pratica clinica emergono difficoltà per formulare una diagnosi differenziale fra malattia psichica primitiva e alterazione organica delle funzioni nervose quando esse si manifestano, entrambe, con una destrutturazione della personalità o del campo di coscienza. E' proprio in questa area di ambiguità del sintomo che trovano spazio il pregiudizio e la stigmatizzazione sociale del malato di mente. In altri casi può verificarsi che un paziente assuma una modalità psicopatologica (dolore morale, delirio ipocondriaco, vissuti di depersonalizzazione) che può nascondere malattie organiche potenzialmente letali. A prescindere dal tema del suicidio, anche in psichiatria è possibile morire di morte naturale anche se il numero di tali decessi è veramente esiguo. Nelle situazioni sopra citate: catatonia acuta, anoressia mentale, sindrome neurolettica maligna, delirium tremens, l'infermiere si deve completamente sostituire al paziente per tutti i bisogni di assistenza infermieristica nella fase acuta e se non vi è un exitus, gradualmente si può condurre il paziente verso l'autonomia possibile. Tutto il lavoro infermieristico impone una sorveglianza continua nelle ventiquatttro ore e controllo dei parametri vitali accompagnati dal sostegno psicologico e dalla prossimità e vicinanza al paziente allo scopo di non alimentare vissuti di paura, solitudine e profonda angoscia. E' sempre auspicabile un lavoro d'équipe perchè il carico emotivo è veramente straordinario. Bibliografia Eugenio Borgna, "Malinconia", Edizioni Feltrinelli Petrella, "Sulla morte psicogena", Edizioni Raffaello Cortina - Milano Eugenio Borgna, "L'arcipelago delle Emozioni", Edizioni Feltrinelli De Martis - Petrella, "Sul significato dell'iterazione di condotte autolesive", Rass Studi Psichiatrici 1968 Ignazio Majore, "Morte Vita e Malattia", Casa Editrice Astrolabio Romolo Rossi, Giuseppe Cartelli, Maurizio Bucca, "Igiene Mentale" - Psichiatria e prevenzione, Edizioni La Nuova Italia Mosè Furlan, "Etica Professionale per Infermieri", Edizioni Piccin Alfonso M. Di Nola, "La Nera Signora", Newton & Compton Editori Per l'argomento sulla MORTE NATURA- LE IN PSICHIATRIA, è stato utilizzato un lavoro mato all'interno di un'ampia ricerca che si proponeva di verificare l'esistenza in vita e di riflettere sulle cause di morte per i pazienti che in passato erano stati ricoverati presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Pavia. Il lavoro dal titolo "Qualche parola sulla morte..." - Considerazioni sul decesso di alcuni pazienti psichiatrici è stato condotto dal Dott. P. Politi (Medico Psichiatra nel SPDC di Pavia) e dalla Dott.ssa A. Giroletti (Specializzata in Psichiatria presso l'università degli Studi di Pavia). L autore * Infermiera SPDC - A.O. Pavia

12 12 PAGINA Infermiere a Pavia Nascendo diventiamo debitori alla natura di una morte (Sigmund Freud) Rosalba Verri* Uno studioso francese sostiene che l'arte in generale, ma anche la poesia, il gioco infantile e il cinema nascono dal "complesso della mummia", cioè dal terrore nel guardare la "morte in faccia". Tutte queste espressioni culturali nascerebbero, quindi, secondo questa interpretazione, dall'angoscia della morte e ne rappresenterebbero lo "strumento" per il suo superamento. Per me non è facile parlare della morte nel bambino, dal momento che, troppe volte, l'esperienza professionale mi ha purtroppo messo di fronte a questa cruda realtà; così, per poter affrontare questo argomento difficile, misterioso e impenetrabile, mi sono affidata alla poesia di un giovane adolescente scritta nel cammino della sofferenza della sua malattia oncologica. Alessandro nella prospettiva della morte scrive: La meta Avrei voluto arrivare ma arrivare dove non so?, avrei voluto arrivare là! dove la mia mente è già là! così lontano, così vicino da poterci andare. Il concetto di "morte" è correlato all'età del bambino ed è diverso a secondo delle capacità intellettive e dello sviluppo; esso si organizza attorno a due punti essenziali: la percezione dell'assenza e l'integrazione della permanenza dì questa assenza. Quattro fasi permettono di ritrovare le tappe principali: - fase di non comprensione totale (da 0 a 2 anni); - fase astratta di percezione mitica della morte (dal 2 al 4-6 anni); - fase concreta di realismo e di personificazione (fino ai 9 anni); - fase astratta di accesso all'angoscia esistenziale (a partire dai anni). Solitamente si ritiene che durante i primi due anni di vita non vi sia nel bambino un concetto di morte vero e proprio, ma sia costantemente presente il timore di separarsi dalla protezione e dall'affetto delle persone. Verso i tre anni rimane ancora intensamente presente il "timore della separazione" e la morte non costituisce ancora un momento della vita che il bambino si prospetta. Tra i tre e i cinque anni molti bambini cominciano a percepire il momento della morte ma come qualcosa che accade agli altri; il concetto di morte è ancora vago. È associato al sonno, all'assenza di luce e di movimento. La morte non è ancora considerata come un evento irrevocabile, ma come un evento accidentale che non potrà mai coinvolgerli direttamente. Gli atteggiamenti ed i pensieri dei bambini non cambiano improvvisamente col progredire dell'età, ma evolvono gradualmente e in maniera diversa da soggetto a soggetto. Questo aspetto va considerato quando si parla del concetto di tempo, di spazio o di morte. Dall'età di circa sei anni, il bambino si mostra a poco a poco convinto che la morte sia un evento terminale, inevitabile, universale, che lo può riguardare direttamente. Molti bambini di 6-7 anni iniziano a sospettare che i loro genitori un giorno moriranno e che essi stessi pure possono morire ma solo in un futuro molto lontano. All'età di anni diventano comprensibili l'universalità e l'irreversibilità della morte. Nel momento in cui i bambini raggiungono l'adolescenza vengono a possedere le capacità intellettive necessarie a capire il concetto di tempo, spazio, vita e morte in modo logico. Quello appena descritto è il normale sviluppo delle capacità dei bambini di acquisire il concetto di morte. Un più rapido processo si verifica quando il bambino è gravemente malato. Le conseguenze della sua grave malattia che egli vive ogni giorno, i cambiamenti spesso radicali della sfera emotiva, potrebbero fargli avvertire la minaccia alla sua vita prima dei suoi coetanei sani, pur non arrivando a comprenderla completamente. Recenti studi su bambini tra 6-10 anni affetti da una grave malattia, dimostrano che, malgrado gli sforzi dei genitori e del personale di assistenza di impedire che il bambino si renda conto della prognosi,

13 Numero 4/ PAGINA egli in qualche modo riesce ad intuire che la sua non è una malattia banale. Il bambino si forma un'idea sempre più chiara della sua morte man mano che gli si avvicina. L'esistenza di una malattia ad evoluzione fatale, inoltre, mette anche la famiglia di fronte all'evento morte: la maggior parte delle persone si preoccupa non tanto di cosa sia la morte, quanto di come affrontarla. Per chi è a contatto con i genitori di un bambino affetto da una malattia che ne minaccia la vita, è difficile avere la pazienza, la capacità e la preparazione, di aiutare i genitori a divenire consapevoli del loro atteggiamento e delle loro reazioni di fronte alla morte. Bisognerebbe innanzitutto avere delle conoscenze e delle informazioni precise su questa famiglia, su come in passato abbia già eventualmente affrontato questo problema. Ci si dovrebbe quindi porre le seguenti domande: - la famiglia ha avuto una precedente esperienza con la morte? - cosa ha significato la morte di un nonno, di una zia, di un caro amico o di un vicino? - qual'è stata la reazione dei genitori? - hanno sofferto in modo diverso? - hanno condiviso il dolore tra loro e con gli altri componenti della famiglia o hanno sofferto in silenzio, chiusi in se stessi? - hanno coinvolto i figli? - a che età? La conoscenza dell'approccio emotivo con il concetto di morte che la famiglia ha manifestato nel tempo costituisce un requisito importante per capire come approcciarsi al bambino e per parlare a lui della sua malattia grave. È fondamentale, quando si affronta un problema così umanamente importante, comprendere quale sia la richiesta dei genitori e quale sia il ruolo critico svolto dalla famiglia come ambiente primario, emotivo e razionale del bambino. La concezione del mondo, le convinzioni religiose, la filosofia della vita e della morte della famiglia, costituiscono la sorgente da cui il bambino trarrà il suo significato di vita e la sua forza. È indispensabile che l'operatore sanitario comprenda il pensiero del bambino e dei genitori: egli deve aiutare la famiglia a trovare in se stessa le forze necessarie a fronteggiare la situazione, soprattutto per la vita che attende i genitori e gli eventuali fratelli dopo la morte del bambino. I fratelli possono reagire sia con manifestazioni sintomatiche (ansia, depressione, fobia scolare), sia con una apparente ipermaturità e una saggezza che esigono un prezzo da pagare, spesso durante l adolescenza (sentimento di essere stato abbandonato, difficoltà a separarsi dal genitori, ect.). Senza avere coscienza della sua prossima morte ( e quale adulto ne ha pienamente coscienza?) il bambino può percepire acutamente l improvviso malessere degli adulti che gli stanno attorno. Nei miei vissuti personali (Maurizio, Lucilla, Roberto, Chiara. Emanuele, Silvia, Giuseppe, Antonio, Paolo, Danilo, Daniele, Laura, Alice, Mattia, Andrea, Nilde, Gaetano, Valentina, Fabio...), la morte è un evento triste, brutale, imprevedibile, che lascia secondo la circostanza in cui avviene: sconcertati, delusi, amareggiati, arrabbiati, incapaci a reagire, feriti nei sentimenti più profondi, perdenti e portatori dì pesanti sensi di colpa che ci porteremo sulle spalle e nel nostro cuore per il resto della vita. Nella fisiologia umana, la morte è l'evento finale che chiude il ciclo della vita di ogni essere vivente, per vecchiaia, per incidenti vari o per malattia. Per l infermiere che lavora in Oncologia Pediatrica la morte è l'evento più cattivo, frustrante, terribile, demenziale, inaccettabile e indegno che possa capitare. LA MORTE DEL BAMBINO NON SI ACCETTA MAI! Qualunque sia la strada tortuosa e insidiosa della malattia oncologica, la sofferenza fisica e psicologica che il bambino deve sopportare, c'è da parte di tutti coloro che ruotano attorno al bambino, la volontà ferrea, di allontanarla il più possibile, quando arriva è una tragedia incommenensurabile! LA MORTE DEL NEONATO è triste e tenera contemporaneamente: sfiorando

14 14 PAGINA Infermiere a Pavia con delicatezza quel batuffolo inerte, si spera che non diventi mai freddo e bluastro; si vorrebbe solo affrettare i tempi e immaginarlo già un angioletto salito in cielo. LA MORTE DEL BAMBINO IN ETÀ PRESCOLARE è molto triste e prematura: non gli viene offerta nessuna possibilità di vivere e di conoscere tutte quelle cose che la sua curiosità gli avrebbe permesso di fare se solo avrebbe avuto un po' più di tempo. LA MORTE DEL BAMBINO IN ETÀ SCOLARE è anch'essa molto triste e precoce. Vedi in un attimo scorrere le immagini di quel ragazzino mancato che lascia tutto quello che aveva appena imparato a conoscere e che forse incominciava a comprendere e ad assaporare. LA MORTE DELL'ADOLESCENTE è tristissima, ingiusta, ti lascia interdetto, non puoi e non vuoi fartene una ragione, è un giovane che ha lottato per uscire indenne dall'età più difficile, più complessa e quando forse c'era riuscito perde tutto in quell'attimo fuggente! In quel momento cerchi di immaginare come in un film, quale sarebbe stato il suo futuro, quali sogni avrebbe potuto e voluto realizzare: invece sei costretto a tornare alla cruda realtà e a vedere quel giovane corpo ormai senza vita che ci ha lasciato per sempre senza mai diventare uomo o donna! Comunque, al di là delle considerazioni legate all'età del bambino e alla malattia oncologia, la morte di per sé è un evento crudele che porta con sé dubbi e contraddizioni forti, di carattere religioso, sociale, etico e morale a cui nessuno riuscirà mai a dare riposte accettabili. Solo il tempo forse riuscirà forzatamente ad allontanare l'evento, ad attutire il dolore che purtroppo non ci abbandonerà mai! Per concludere, assistere con il massimo impegno umano e professionale alle reazioni dei genitori di fronte al verificarsi di un evento così grave e senza ritorno è impossibile! La disperazione raggiunge livelli disumani, il pianto spesso si trasforma in urla strazianti, il cuore dei genitori è ferito mortalmente e quella ferita così profonda non è destinata a rimarginarsi facilmente. Lo sconforto, la tristezza e la solitudine interiore, la stanchezza fisica e psicologica di chi ha lottato duramente e si ritrova perdente, lasciano col passare del tempo lo spazio alla rabbia, ai rimorsi, ai sensi di colpa per una sconfitta tremenda che ti colpisce alle spalle, ti logora il cervello come un tamburo battente che ti impone con violenza di cercare risposte immediate a quella tragedia che stai vivendo, risposte che forse non si troveranno mai... Altre volte, invece, il pianto lascia spazio ad un "silenzio terrificante, a sguardi impietriti che parlano da sé ed esprimono il massimo livello del dolore umano. In questo dolore si legge tutta l'amarezza e la delusione del genitore sconfitto, insicuro e convinto forse di non aver fatto abbastanza, di aver forse perso tempo prezioso, di aver sottovalutato i problemi, di non aver colto in anticipo il cambiamento nel proprio figlio e allora si è pronti ad autoprocessarsi. La conclusione di questo triste argomento voglio lasciarla ancora ad Alessandro che attraverso un profonda riflessione nel testo: "Se non dovessi vivere" ci lancia un forte messaggio di speranza e di CRE- DO nel futuro e nell'aldilà. Se non dovessi vivere quando vengono i pettirossi, date a uno di essi una briciola in memoria. Se non potessi ringraziarvi essendomi appena addormentato pensate che tenterò di farlo con le mie labbra di granito. Io sono convinta che le riflessioni di questo giovane, adolescente possano diventare per noi Infermieri, uno stimolo a promuovere nuove ricerche su questo tema che purtroppo, fa parte quotidianamente della nostra vita personale e professionale. Ci deve aiutare a capire una cosa fondamentale, vale a dire che "la peggior esperienza di morte è quella vissuta nella fredda solitudine dell'abbandono". Infine, un messaggio ai giovani Infermieri che si troveranno ad affrontare questa triste realtà: presenza, silenzio, rispetto sono le tre parole chiave per svolgere al meglio il nostro ruolo in queste tristi circostanze. Il viale del tramonto che segna la fine della nostra esistenza su questa terra è molto triste per tutti, ma se questo tramonto non è accompagnato da un contatto umano diventa più crudele della morte stessa! Bibliografia PSICOPATOLOGIA DEL BAMBINO di Daniel Marcelli. Ed. Masson QUEL CHE RESTA DEL VIAGGIO di Alessandro Manini, raccolta di poesie con presentazione di Federico Bonetti. BOOKS Comunicare con i bambini affetti da una grave malattia cronica di John e Patricia Spinetta, Psicologi americani, università statale San Diego, California. L autore * Infermiera Il Gruppo per i rapporti tra la collettività Infermieristica è lieto di invitarti al Caffè Infermieristico una serata informale, tra colleghi ed esperti L appuntamento è fissato per venerdì 28 giugno 2002 alle ore presso la sede del Collegio, via Lombroso, 3/B a Pavia. Il tema di questa serata sarà L OSS: figura di supporto all attività infermieristica Vista la capienza ridotta della sala è fondamentale la prenotazione telefonica presso la segreteria del Collegio al n Ti aspettiamo!!

15 Numero 4/ PAGINA Un mantello per riparare Cure palliative, hospice, assistenza domiciliare ai malati terminali: la situazione italiana e pavese Maura Cattanei * Giovanna Rebolini ** Riesce sempre più difficile accettare l ineluttabilità della morte, questo atteggiamento e la nostra cultura c impediscono di avere un rapporto chiaro, basato sulla realtà, con la persona morente, di solito al malato sono nascoste le sue condizioni, è perciò molto difficile effettuare un accompagnamento alla morte dignitoso e corretto nei confronti della persona. Così non è nei paesi anglosassoni dove si va creando una rete di servizi volti a sostenere il malato terminale. In Inghilterra, in Canada, negli Stati Uniti d America, in Australia il concetto di cure palliative ha dato vita a studi, ricerche e strutture volte ad aiutare il paziente e la sua famiglia a mantenere la qualità del percorso di vita che rimane a livelli accettabili e dignitosi, inoltre, in seguito allo stimolo intuitivo di una persona, Cecily Saunders, da circa vent anni si stanno diffondendo quelle particolari strutture, pensate per l accoglienza del malato in fase terminale, denominate Hospice. In Italia sempre più sono le strutture ospedaliere che si stanno dotando di un servizio di cure palliative, nel 1997 gli hospice erano solo tre e tutti situati nelle regioni del nord del Paese. Le difficoltà che incontra questo settore sono prevalentemente culturali, chi tra noi infermieri e men che meno tra i medici è disposto ad accettare la propria fallibilità, chi è in grado di orientare il proprio intervento non più verso il debellare la malattia, ma verso il miglioramento delle condizioni di vita, chi accetta di smettere di curare per cominciare a prendersi cura? Eppure il grande incremento delle malattie degenerative, prime fra tutti il cancro e l AIDS e i continui tagli nella spesa sanitaria, che obbligano gli ospedali a dimettere in breve tempo il malato, non più in fase acuta, ma comunque in cattive condizioni, ci stanno costringendo ad un cambiamento di rotta che deve essere supportato da una mentalità diversa e, conseguentemente, da un adeguata formazione. Il movimento delle cure palliative in Italia, perché tale deve essere chiamato, è nato in forma di volontariato. Le Cure palliative non esistono come disciplina istituzionale, le unita operanti sono costituite da medici, soprattutto terapisti del dolore ed oncologi, infermieri e volontari, riuniti in associazioni o fondazioni per sopperire alla necessità di garantire un assistenza, erogata prevalentemente a domicilio, al malato terminale che, dimesso, non trova sul territorio un adeguato seguito alle cure ospedaliere. La filosofia che anima le unità di Cure Palliative e gli Hospice non è facile da attuare: aiutare il malato in fase terminale a mantenere una buona qualità di vita non significa solo praticare una buona terapia antalgica che sia in grado di lenire i sintomi più invalidanti, significa anche facilitare il paziente nell elaborazione dei propri bisogni in relazione alla malattia, siano essi fisici o psicologici, significa aiutare tutta la famiglia a gestire le dinamiche che si vengono a creare, significa formare operatori consapevoli. Ed è proprio la complessità dell obiettivo a renderne difficile l attuazione. Per ottenere risultati accettabili gli operatori che lavorano in queste Unità sono costretti a mettersi costantemente in gioco. Medici, infermieri, O.T.A., volontari devono trovare tra loro una grande coesione, devono imparare a lavorare insieme ponendo, più che mai, il malato e la sua famiglia al centro del loro operato. L approccio umanistico necessario ad una visione corretta dell assistenza costringe ad un capillare lavoro d equipe dove il confronto e lo scambio tra operatori sia continuo. Dalle esperienze italiane e anglosassoni si deduce l assoluta necessità di una supervisione esterna che possa supportare e sostenere in questo difficile compito le persone che operano nella realtà delle Unità di Cure Palliative, in Italia sono rare le realtà che possono

16 16 PAGINA Infermiere a Pavia disporre di strutture logistiche e di figure professionali atte a sostenere il lavoro di tutti rendendolo sereno e veramente efficace. Il compito principale che svolgono gli operatori delle unità di Cure Palliative è il controllo del dolore e dei sintomi connessi alla malattia, ma per raggiungere questo scopo l esperienza ha insegnato che il fattore umano è più importante dei farmaci. Il riuscire a creare un ambiente coeso in cui tutte le figure lavorano insieme, il tenere conto dei bisogni, anche banali, della persona malata, il rendersi conto che non è possibile fermarsi al corpo ma che bisogna andare oltre, rende necessaria la presenza delle figure di psicologi, counselor, religiosi e, più importanti, dei familiari. Questo stravolge la normale gestione del malato ospedalizzato, non è più possibile mantenere i normali ritmi di reparto, né la sua struttura ambientale. Se si ritiene opportuno consentire ai famigliari di restare vicino al malato è necessario disporre di spazio per un letto in più, se si consente al malato di portare in ospedale oggetti che gli rendano più famigliare l ambiente occorre avere camere singole, se si è convinti dell importanza della relazione con le persone assistite è necessario che tutti abbiano il tempo di soffermarsi a parlare con il paziente e la sua famiglia. Queste, ed altre di natura economica, sono le ragioni per cui è così difficile organizzare un reparto di Cure Palliative o un Hospice all interno degli ospedali ed è per questo che le Unità presenti nel panorama italiano si sono orientate verso una gestione domiciliare del paziente spesso gestite e/o supportate da organizzazioni no-profit di volontariato. La prima realtà a nascere è quella della Domus Salutis di Brescia, sorta quindici anni fa vive il privilegio e l onere della primogenitura, primogenitura che diventa scomodità e imbarazzo di essere quasi sola. L organizzazione della Domus Salutis si articola organicamente in servizio ambulatoriale, assistenza domiciliare ed in degenza con l obiettivo di fornire al malato una reale libertà di scelta riguardo al setting, adattandolo ai suoi bisogni effettivi. La Casa di Via Natale 2 di Pordenone è attiva dal 1996, i riferimenti reperiti (risalenti al 1997) la descrivono organizzata in 12 mini appartamenti autonomi dotati di cucina, camere con un letto attrezzato e un letto per l ospite, bagno, una zona comune, ambulatorio, servizi. La struttura è sorta grazie all associazione no-profit Via di Natale, essa sostiene parte dei costi supportata da una convenzione con la Regione Friuli Venezia Giulia. La Casa di Cura Capitanio, a Milano, gestita dalle Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, meglio note come Suore di Maria Bambina, ha creato un Unità di Cure Palliative nel 1990, purtroppo per vari motivi, anche burocratici, nel 1996 si è determinato un cambiamento che ha riportato gli spazi per i malati terminali in un piano di degenza che assiste malati di varie patologie. Questo cambiamento però non ha impedito il proseguimento della formazione e la produzione di nuove tesi da parte degli operatori (ne potrete trovare alcune nella biblioteca del Collegio I.PA.S.V.I. di Pavia). Un discorso a parte merita il progetto di Hospice approntato nel territorio della ASL MI2 di Melegnano. Lo studio del progetto, iniziato diversi anni fa, ha visto la partecipazione di un equipe che comprendeva tutte le figure sanitarie, alcuni familiari e architetti che, toccati dal problema, hanno pensato spazi e strutture in modo da garantire una buona assistenza ai malati terminali, coniugandola in spazi rasserenanti. Come sappiamo nel corso di questi ultimi anni la sanità in Lombardia ha visto vari cambiamenti in corso d opera, tanto che il territorio di Melegnano ha visto il succedersi di tre diverse amministrazioni. A causa di questi cambiamenti, purtroppo, la struttura è rimasta completamente inutilizzata ed è un vero peccato perché il lavoro compiuto è stato capillare, basato su interviste formulate per conoscere le esigenze delle famiglie e dei malati, tenendo conto dell idea che i possibili fruitori del servizio e gli operatori avevano dell hospice, il progetto, che è stato tradotto in un libro che troverete segnalato nella bibliografia, è stato ampiamente condiviso e accettato da tutti. Ho chiesto ad un medico anestesista, partecipante al progetto se mi dava spiegazioni in merito ai ritardi nell apertura dell Hospice. Purtroppo, soprattutto per chi potrebbe usufruire della struttura che è pronta, non ha voluto scrivere nulla, la sua risposta è stata: È una ferita troppo fresca che non amo riaprire, è incomprensibile che una struttura così bella non sia ancora funzionante dopo tutti gli sforzi effettuati e gli investimenti messi in campo per costruirla. Grazie, comunque, per avermelo chiesto. A Pavia la situazione si sta evolvendo proprio in questi giorni. Già da qualche anno è attiva l Associazione pavese Lino Sartori per la cura del dolore, i membri di questa associazione, infermieri, medici e volontari, operano nel territorio della città e della provincia di Pavia rivolgendosi domiciliarmene ai pazienti terminali quando questi non possono recarsi presso le strutture sanitarie predisposte. Come supporto ospedaliero, ambulatoriale e di ricovero, è attivo presso la Fondazione Maugeri Clinica del Lavoro un servizio di Terapia del dolore e Cure Palliative e sempre presso la Clinica si stanno ora approntando quattro posti letto in Hospice. Da una relazione congressuale relativa al lavoro dell associazione è possibile desumere alcuni dei problemi che gli operatori e i volontari incontrano nello svolgimento della loro opera, il rischio di born-out è molto alto e i volontari incontrano molte difficoltà a farsi accettare dalle famiglie. Nella stessa relazione sono presi in considerazione alcuni degli aspetti più problematici della relazione d aiuto con il malato e la famiglia, i bisogni dell operatore e l influenza che possono avere all interno dell equipe.

17 Numero 4/ PAGINA Il problema del silenzio Il dilemma è: parlare o tacere. L operatore si trova di fronte alla parola o al silenzio come scelta di evitare o instaurare e in che modo la relazione: se tace e sceglie di essere vicino al malato dovrà contenere l ansia data dal silenzio; se parla dovrà scegliere cosa dire e a chi dirlo. Nella pratica si troverà in una posizione di terzo tra malato e famiglia, tra malato e fantasmi di morte, senza poter agire liberamente. La posizione genitoriale Un altra situazione problematica si ha quando l operatore si pone in una posizione genitoriale, esso adotta il malato, ma rischia di trovarsi a fronteggiare richieste che oltrepassano la propria disponibilità. Le motivazioni dell operatore possono essere esplicite o implicite. Quelle esplicite sono generalmente legate al ruolo professionale e sostenute dal concetto di competenza. Quelle implicite sono frequentemente non chiare, ma sono comunque in gioco e determinano un vincolo che lega l operatore al malato. Incorrere in questo atteggiamento porta persone preparate, a rischiare una svalutazione di sé, a rabbia verso il malato e la sua famiglia e a generare ansia o confusione. Di fronte alle difficoltà della situazione e alle sofferenze che essa porta con sè, l operatore tende ad assumere una posizione da genitore onnipotente (penserò a tutto io), in questo modo non vede le risorse presenti nella famiglia e nel malato e rischia di non lasciarle sviluppare, il malato accetta questo messaggio nascosto e aumenta le sue richieste instaurando una specie di sfida (hai detto che potevi e allora fammi vedere: se non riesci significa che i genitori e tutti gli adulti sono inaffidabili e incompetenti). Ma le risorse dell operatore non sono infinite, questo può determinare delusione e senso d impotenza che vanno ad inficiare una relazione sana e costruttiva, i soggetti coinvolti si vengono a trovare in una relazione simbiotica che svaluta le risorse e i bisogni di tutti. Relazione simbiotica tra operatore e malato e tra equipe e operatore Quando l operatore entra in relazione simbiotica con il malato rinuncia a soddisfare i propri bisogni emotivi e li proietta sul malato (questo bambino non ce la fa, devo farcela io per lui, se io non ce la faccio sono una cattiva mamma). Non potendo scambiare queste emozioni negative con il malato, l operatore si propone, all interno dell equipe, come bisognoso, attribuisce al team un ruolo genitoriale più competente, ma allo stesso tempo, lo squalifica se non riceve abbastanza aiuto e protezione. Ideale è passare dal fare per al fare con Per compiere questo passaggio è necessario che l operatore possa disporre di una supervisione e di una formazione continua, in questo modo può sperimentare la possibilità di vivere la sua richiesta di aiuto rispetto al gruppo con la totalità della sua persona, ha la possibilità di riconoscere le sue emozioni, valutarle come risorse da attivare nella relazione e di valutare positivamente quello che prova. Questo si rispecchierà nella relazione con il malato, l operatore potrà riconoscergli risorse emotive, fisiche e mentali che gli restituiranno la possibilità di vivere a suo modo la propria esperienza all interno di una relazione d aiuto corretta. È indubbio che il lavoro svolto all interno delle unità di Cure Palliative e degli hospice è estremamente coinvolgente, esso chiede all operatore di mettere in gioco se stesso nella propria totalità, il lavoro, per chi sceglie di svolgere l assistenza al malato terminale, diventa uno dei momenti più alti nella formazione sia come operatori sia come persone. In questo momento storico, dove pare emergere una sorta di volontaria solitudine di fronte alla morte, dove i riti legati a questo evento vanno progressivamente scomparendo e la fede è una convinzione sempre più intima e personale, le persone che si occupano di assistenza ai malati terminali hanno bisogno di essere supportate da una formazione che comprenda l aspetto relazionale, psicologico, etico e morale della vita e se questo comporta l onere di prendere coscienza di Sé in prima persona, significa anche avere l onore di diventare persone migliori. Chi volesse prestare la propria opera come volontario presso l associazione Lino Sartori può contattare la Sig.ra Giovanna Rebolini al n Bibliografia G. Mola (a cura di): Cure Palliative, approccio multidisciplinare alle malattie inguaribili, ed Masson 1988 S. Nicosia: Il movimento Hospice in Italia, un decennio a fianco del malato e del morente, ed C.E.L.I 1997 A.Calducci, P. Ielasi, E. Ranci Ortigosa: Ci sarà una casa, la progettazione di un hospice nella Ussl di Melegnano, ed Franco Angeli 1995 Per conoscere in dettaglio le realtà operanti sul territorio italiano regione per regione: ib/frameset.asp L autore * Infermiera Poliambulatorio A.O. Pavia ** Infermiera Coordinatrice volontari Associazione Lino Sartori

18 18 PAGINA Infermiere a Pavia Un sottile confine Eutanasia, suicidio assistito, accanimento terapeutico Maura Cattanei* EUTANASIA: dal greco buona morte, 1) nel pensiero filosofico antico, la morte bella e tranquilla e naturale, accettata con spirito sereno e intesa come il perfetto compimento della vita, 2) con altro senso a) la morte non dolorosa, procurata o affrettata mediante l uso di farmaci atti a sollevare le sofferenze di un malato in agonia (attiva) b) la sospensione del trattamento terapeutico ad un malato agonizzante e senza speranza di guarigione, attuata dal medico dietro richiesta del malato stesso o di una persona legalmente investita (passiva). L antico dibattito etico, religioso, medico e giuridico (alla quale si sono sempre drasticamente opposte tutte le chiese cristiane e altre confessioni religiose) si è particolarmente vivacizzata alla fine del 1991 quando una proposta di legge per legalizzare l e stessa è stata approvata di stretta misura alle camere dello stato di Washington (ora ridiscussa) e una analoga è approdata al parlamento olandese (ora approvata), il codice penale italiano non prevede espressamente l omicidio per eutanasia. Di conseguenza il caso rientra a seconda del suo atteggiarsi in concerto nella figura dell omicidio volontario (art. 575) o in quello dell omicidio consenziente (art. 579) spesso aggravate dalla premeditazione (art.577). il rigore di questo trattamento, sia pure attenuato dalla circostanza di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62,n 1) ha suscitato proposte di legge dirette a prevedere un reato autonomo con pena minore e a scriminare l eutanasia passiva. (da: Enciclopedia Treccani). Come, in Olanda, si è arrivati alla legge Già dal XIX secolo la morte ha perso gran parte della sua valenza culturale e sociale, le sempre più raffinate terapie rischiano di prolungare l agonia e il dolore che malattia porta con sé, la perdita di questa connotazione induce a parlare di eutanasia in relazione alla possibilità da parte dei medici di porre fine in modo attivo alla vita di un paziente. La storia delle proposte di legge a favore dell eutanasia si apre nel 1969 con una proposta di legge presentata alla Camera dei Lord in Gran Bretagna che viene bocciata con 61 voti contro 40. Nel 1991 viene presentata la relazione Schwarztenberg (La relazione Schwarztenberg: I punti controversi) La relazione Schwarztenberg sull'assistenza ai pazienti terminali contiene dei punti interessanti e condivisibili: l'esigenza di combattere il dolore, la necessità delle cure palliative, la responsabilità e l'importanza della famiglia, degli amici e della società nell'assistenza globale del malato. Nella relazione si sottolinea adeguatamente l'esigenza di formare gli operatori sanitari ad una presenza premurosa e attenta presso i pazienti all'avvicinarsi del momento della scomparsa. I punti che caratterizzano la relazione e che portano alla legittimazione dell'eutanasia sono però ben diversi; li riportiamo integralmente per maggiore chiarezza: B) considerando che la morte di un individuo e' definita in funzione dell'arresto delle funzioni cerebrali, anche nel caso in cui continuino le funzioni biologiche, C) considerando che le funzioni cerebrali determinano il livello di coscienza e che il livello di coscienza definisce un essere umano, G) considerando che il dolore e' inutile e nefasto e che può rappresentare un attentato contro la dignità umana, L) considerando che l'aspirazione ad un sonno definitivo non costituisce una negazione della vita, ma rappresenta una richiesta d'interruzione di un'esistenza a cui la malattia ha tolto ogni dignità, La relazione ritiene che, mancando qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative correttamente impartite sul piano tanto psicologico quanto medico e ogni qualvolta un malato pienamente cosciente chieda, in modo insistente e continuo che sia fatta cessare un'esistenza priva per lui di qualsiasi dignità e un collegio di medici, costituito all''uopo, constati l'impossibilita' di dispensare nuove cure specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta senza che, in tal modo, sia pregiudicato il rispetto della vita umana.

19 Numero 4/ PAGINA Su questa relazione si innesta la discussione sull'assistenza ai pazienti terminali alla Commissione per la protezione dell'ambiente, sanità pubblica e tutela dei consumatori del Parlamento Europeo ed approvata definitivamente il 30 aprile Il Comitato Italiano di Bioetica ha espresso un parere molto critico intorno a questa relazione con un documento del 6 settembre Nel 1993 viene modificata una legge olandese sul trattamento dei cadaveri: seguendo un protocollo il medico non può essere legalmente perseguito se procura la morte di un soggetto colpito da un male incurabile, con dolori insopportabili e che richieda esplicitamente e ripetutamente di morire. Di fatto, se non de jure, si depenalizza l'eutanasia attiva. Dal 1 giugno 1994 l'olanda e' l'unico paese al mondo nel quale esiste il fondamento giuridico ad effettuare l'eutanasia. Nel dicembre 94 Nel J.Med Ethics compare un articolo dove viene criticata la nuova legge non ritenuta in grado di proteggere effettivamente la vita dei pazienti. Nel novembre 94 un altro articolo pubblicato negli Annali di medicina Interna (USA) sottolinea come i problemi etici dell'eutanasia risalgono al mondo greco e romano e che l'interesse pubblico nell'eutanasia non e' tanto legato al progresso biomedico, quanto ai momenti di recessione economica nei quali l'individualismo e il darwinsmo sociale sono invocati per giustificare le scelte di politica pubblica, altro importante fattore e' il cambiamento del rapporto medico paziente. Nel Codice deontologico dei medici italiani del giugno 95 compare espressamente l'articolo 35 denominato Eutanasia divieto nel quale: "Il medico anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomare la integrità psichica e fisica e ad abbreviare la vita o a provocarne la morte." Nei primi mesi del 2002 il Parlamento olandese sancisce definitivamente la depenalizzazione dell eutanasia, una legge simile esisteva nel Northern Territory dell Australia, ma una legge federale l ha annullata, nella Svizzera tedesca e in Germania è consentito il suicidio assistito, mentre nel 1997 la Corte Suprema degli Stati Uniti emette una decisione a favore delle leggi che proibiscono il suicidio assistito negli Stati di Washington e New York. Il suicidio assistito è un altro dei temi discussi in merito alla terminalità, qual è la valenza etica del fornire al paziente i mezzi e gli insegnamenti che gli permettano si suicidarsi? Dal 27 marzo 1999 è entrato in vigore in Oregon il Death with Dignity Act che consente il suicidio assistito mentre negli Stati della Carolina del Sud, in Utah e nel Wyoming la legge non vieta esplicitamente questa pratica, il Canada invece, l ha assolutamente vietata. Un altra sentenza che fa discutere è quella emanata nel mese di aprile del 2002 dal Parlamento inglese in merito alla richiesta di una paziente di interrompere le terapie che la mantenevano in vita. Decretare il permesso di interrompere tali terapie ha rinfocolato la discussione sull accanimento terapeutico. Anche il comitato di Bioetica Italiano, attraverso un suo componente, ha affermato che sotto questo punto di vista l Italia è allineata all Inghilterra e riconosce le linee guida che limitino l accanimento terapeutico che travalica e snatura i benefici delle cure. Anche il nuovo Codice Deontologico della professione infermieristica prende in considerazione questo aspetto, l articolo 4.15 recita: L infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione clinica e fino al termine della vita, riconoscendo l importanza del conforto fisico, ambientale, psicologico, relazionale, spirituale. L infermiere tutela il diritto a porre dei limiti ad eccessi diagnostici e terapeutici non coerenti con la concezione di qualità della vita dell assistito. I fattori che determinano una buona qualità della vita sono molteplici, sono state redatte molte tabelle e linee guida che possono aiutare gli operatori, sanitari e non, a modellare gli interventi atti a migliorare le condizioni delle persone affidate alle loro cure, le discriminati maggiori si possono riassumere in due aspetti: la totale mancanza di autonomia e la presenza del dolore. E quest ultimo è sicuramente il fattore che più di ogni altro destabilizza e mette in crisi l equipe curante e i famigliari del malato. Vedere un altro modo La prima parte della definizione data dal dizionario è quella che Patch Adams definisce una morte divertente, ovvero il morire nell ambiente che ci è più famigliare attorniati dalle persone che amiamo, in pace con sé stessi e il mondo, consapevoli della vita che ci è stato dato di vivere. Questa visione della morte, e della vita, trova concorde Marie de Hennezel e chi scrive. La de Hennezel ha dedicato il suo ultimo libro, La dolce morte, al problema dell eutanasia, ne fa una tagliente e condivisibile analisi che evidenzia una situazione molto simile alla nostra. Sull onda delle decisioni prese dal Parlamento inglese e da quello olandese, il dibattito sull eutanasia, sull accanimento terapeutico e sul suicidio assistito si va ampliando, coinvolge più figure: filosofi, teologi, scienziati, psicologi, sociologi, mass-media; questa pletora di discussioni e teorie, anziché approfondire l argomento, rischia di banalizzarlo, le troppe parole non lasciano più spazio alla elaborazione intima delle coscienze. Uscire dai confini che impongono i dibattiti televisivi è indispensabile per riuscire a restituire al processo del morire la dignità e la sacralità che la cultura del secolo, attraverso la negazione del dolore e della morte stessa, sta cercando di nascondere e soffocare. Occorre fare chiarezza sui termini usati per definire il problema: aiutare a morire non significa praticare l eutanasia o consentire il suicidio assistito, significa accompagnare la persona morente in modo efficace. Eutanasia significa morire bene, non si può continuare a designare con questa parola l azione che mette fine, deliberatamente, alla vita di una persona, questo atto è assimilabile all omicidio e crea fraintendimento, allo stesso modo si alterano i termini del problema quando si vuole associare l eutanasia con l astensione dal prolungare la vita attraverso l accanimento terapeutico. La filosofia che anima i fautori delle Cure Palliative è rivolta invece a dare un sostegno, sia tecnico che umano al paziente; l esperienza di chi lavora in modo attento in questo settore mette in evidenza che la richiesta di farla finita da parte del paziente nasconde sempre la perdita dell autostima, la paura di essere abbandonato a se stesso, la paura di essere un peso per i propri familiari, la paura del dolore fisico. Difendere il paziente da queste paure significa anche difendere gli operatori dalla pressione morale che subiscono quando viene loro chiesto di commettere un omicidio per compassione. Le eutanasie clandestine o inconsapevoli sono più numerose di quanto si pensi, una legge volta a depenalizzare questa azione è pericolosa, il rischio non è lasciare o negare la libertà della decisione ultima al paziente, ma negare una tutela alle persone più deboli e/o più influenzabili. Quali sono i meccanismi che stanno

20 20 PAGINA Infermiere a Pavia spingendo le società occidentali verso questa estrema snaturalizzazzione dell atto del morire? Le ragioni sono tante, sociali e personali. La formazione di medici e infermieri è sempre più una corsa verso un tecnicismo che sta diventando francamente eccessivo, l educazione che tutti noi operatori riceviamo è volta al guarire e non al prendersi cura, la morte è un fallimento, una palese incapacità, è molto più facile affrontarla usando la tecnica piuttosto che la relazione. Noi infermiere siamo le persone più vicine al malato, quelle più esposte alla marea dei sentimenti e delle domande che si pone la persona malata e ognuno di noi ha potuto verificare che in questi frangenti siamo le più sole. Sono poche le infermiere che ammettono la loro difficoltà nella relazione con il paziente, difficoltà che nasce non solo da una impreparazione personale, ma anche dai ritmi dell ambiente ospedaliero. Ci sono alcune domande che dovremmo farci in modo consapevole se vogliamo evitare il rischio, sempre più consistente, del born-out. Sono domande semplici, umane, ma che possono creare l impressione di minare la nostra professionalità mettendo a nudo il nostro modo di essere come persone. Ed è proprio per salvaguardare noi stessi come persone che è necessario chiederci perché non possiamo smettere di negare le sofferenza che accompagna il nostro lavoro, perché non siamo capaci di uscire dalle risposte preconfezionate, dall illusione del controllo, dal senso di onnipotenza, perché non siamo capaci di vivere l affettività? La quotidianità degli infermieri è lontana dall affettività, è fatta di umiliazioni, di compiti ingrati essenzialmente tecnici, la nostra parola non viene ascoltata, abbiamo smesso di fare da tramite tra i bisogni del malato e l apparato sanitario. La paura del transfert e la sofferenza diminuirebbero se fosse possibile parlarne in un gruppo, avere la possibilità di lasciar cadere le barriere, condividere con i colleghi e gli altri operatori quello che ci spaventa; ma anche le nostre riunioni di reparto sono solo tecniche, vengono fatte solo per essere più efficienti, non più sereni. Spesso è la pausa per il caffè l unico momento in cui si possono scambiare sentimenti e impressioni, ma questo momento non può sopperire ai compiti che spetterebbero ad una condivisione o ad una supervisione esterna, questi momenti aiuterebbero a far fronte ai dubbi e al dolore e ci proteggerebbero dalle tentazioni dell eutanasia. In una società asettica, ipertecnologica, che rifiuta lo spettacolo del degrado fisico, della malattia, della vecchiaia, dell handicap si perdono sempre di più i valori dell abnegazione, della pietà, della carità; questi valori, specie per noi, educati in una società fortemente cattolica, per ripulsa sono stati snaturati e rifiutati, ma essi possono essere sostituiti da valori più laici come la tenerezza, la presenza attiva, l ascolto, la consapevolezza, l essere, essi porterebbero gli infermieri ad una crescita personale profonda; il prendersi cura dell altro, che è l essenza del nostro lavoro, non può essere solo una tecnica fatta di gesti rigorosi e di sapere, bensì un occasione di imparare a prendersi cura di noi stessi, prendendosi cura dell altro. Se la preparazione degli operatori sanitari, di tutti gli operatori, tornasse ad avere connotazioni più umanistiche l attenzione si sposterebbe dall eutanasia all ampliamento delle cure palliative. La Francia sta cercando di andare in questa direzione. Il Parlamento francese ha decretato il diritto di accesso per tutti alle Cure Palliative ed ha istituito il congedo d accompagnamento che consente ai familiari di assentarsi dal lavoro per stare accanto al proprio caro. Ma per compiere un inversione di rotta occorre essere in grado di uscire dai luoghi comuni e affrontare la gestione del paziente terminale in tutt altro modo mettendo in atto una visione del lavoro, da parte di medici, infermieri, operatori che ci porterebbe a mettere in gioco il ruolo assegnatoci: dovremmo smettere di essere solo tecnici, per diventare persone. Sono soprattutto i medici ad essere spaventati da questa eventualità, pochi accettano che le cure palliative non siano fatte solo di terapie farmacologiche ma anche di relazioni, sempre più essi si affidano alle indagini strumentali e delegano a noi infermieri il rapporto con il malato. Ma quanti di noi hanno la possibilità di relazionarsi con il malato? E quanti sono preparati a farlo? I ritmi dell ospedale sono spersonalizzanti, l efficienza prevale sull ascolto, la logica dei D.R.G., della produttività, della competitività, della commercializzazione dei servizi sta uccidendo lo spirito del nostro lavoro. Il confine Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico non può essere determinato da una legge, esso è segnato dall intento e dall etica. Il problema non sussisterebbe se venisse ampliata la pratica delle Cure Palliative e la società cambiasse i suoi parametri. La società degli anestesisti e rianimatori si è data un codice deontologico e delle linee guida che descrivono i parametri per evitare l accanimento terapeutico, ma sono pochi i medici che le mettono veramente in atto. Le sicurezze, in questo campo non esistono, ognuno deve misurarsi con la sua competenza e la sua coscienza; perché avvenga un cambiamento di rotta, anche nei Paesi che hanno già effettuato scelte precise, occorre cambiare l uomo, non la legge. Accettare la morte non significa arrendersi, significa accettare l impermanenza di tutte le cose, i nostri limiti, la nostra umanità. Significa accettare il momento in cui il nostro corpo non ha più risorse, comprendere il momento in cui la tristezza, la depressione data dalla consapevolezza di essere vicini alla morte viene sostituita dalla serena certezza di aver fatto il nostro tempo e che della candela rimane solo il moccolo e quando noi o qualcuno dei nostri cari arriverà a questo punto sarà necessario avere il coraggio di compiere l ultimo passo: dare a noi stessi e ai nostri cari il permesso di morire. Bibliografia P. Adams: Salute! Ed. Urrà, Milano, 1999 M. de Hennezel: La dolce morte, Ed. Sonzogno, Milano, 2002 G. Dworkin, R. G. Frey, S Bok: Eutanasia e suicidio assistito, pro e contro Edizioni Comunità, Torino, 2001 C. Tromba: Suicidio per i più decisi, il primo studio sulla dolce morte in Oregon fornisce un ritratto del candidato tipico e smentisce luoghi comuni, Tempo Medico n 624 del 10/3/ etica/eut.html L autore * Infermiera - Poliambulatorio - A.O. Pavia

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