Professor Fabio D Orlando Dispensa di Politica Economica Versione n. 3 del 7 marzo 2015 (versione completa ma ancora da correggere nella forma e in

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1 Professor Fabio D Orlando Dispensa di Politica Economica Versione n. 3 del 7 marzo 2015 (versione completa ma ancora da correggere nella forma e in qualche dato) 1

2 2 Introduzione Credo sia evidente a tutti che l Italia sta attraversando uno dei periodi più critici di tutta la sua storia economica recente. Lo scopo di questo libro è quello di discutere le cause che hanno condotto a questa situazione, l effettiva utilità delle politiche sinora intraprese per risolvere i problemi del nostro Paese, l esistenza di strade alternative più efficaci per conseguire i medesimi risultati nonché la praticabilità di queste strade alternative. Non è mia intenzione svelare subito il nome dell assassino, ossia anticipare le conclusioni cui perverrò, ma poiché questo non è un libro giallo e il sottotitolo dell opera è comunque uno spoiler decisamente esplicito, può essere il caso di chiarire sin d ora che le politiche sinora intraprese non sono le più adatte a risolvere i molti problemi del nostro Paese (cosa che, d altro canto, dovrebbe essere chiaro anche al lettore meno addentro ai fatti dell economia: siamo in recessione praticamente dal 2007 ), e che le politiche alternative, che pure esistono, sono sostanzialmente impossibili da intraprendere per gli elevatissimi costi economici e politici che implicano. Di qui le conclusioni pessimistiche, che comunque vanno interpretate: non significa che torneremo ad esseri poveri; semplicemente, è assai probabile che non diventeremo più ricchi, né recupereremo mai il benessere passato. Poi, naturalmente, tutto può succedere, e magari domani troveremo in Basilicata il più vasto giacimento petrolifero mondiale, ma è assai probabile che ciò non succederà, perché l elenco dei problemi del nostro Paese è talmente lungo e intricato che anche il petrolio potrebbe non essere risolutivo. Anche perché, probabilmente, troveremmo parecchi buoni motivi per non sfruttarlo in maniera efficiente. Per provare a dare una visione leggibile dei problemi del nostro Paese, in quest opera essi vengono distinti in due grandi categorie: quelli relativi alla bassa crescita e quelli relativi alla carenza di domanda aggregata. Semplificando un po tematiche che saranno chiarite nei primi due capitoli, bassa crescita significa che il nostro Paese non riesce a far aumentare la sua capacità produttiva, ossia il numero e la produttività delle sue fabbriche, dei suoi stabilimenti, dei suoi lavoratori; bassa domanda vuol dire invece che già oggi, con impianti che non aumentano in numero né in produttività, non riusciamo a trovare acquirenti sufficienti per comprare tutte le nostre produzioni, e siamo dunque costretti a produrre meno di quanto potremmo, ossia meno della nostra capacità produttiva, con il risultato che un numero crescente di lavoratori si ritrova disoccupato. In genere, o i Paesi hanno un problema di bassa crescita, e quindi intraprendono politiche adatte a favorire la crescita ma dannose per la domanda aggregata; oppure hanno un problema di bassa domanda aggregata, e quindi intraprendono politiche atte a sostenere la domanda aggregata ma che possono essere dannose per la crescita. L Italia, invece, ha entrambi questi problemi. In forma assai grave, soprattutto per quanto concerne la crescita. I nostri problemi sono poi aggravati dal fatto che le politiche per il sostegno della domanda aggregata ci sono quasi precluse sia dal contesto internazionale nel quale ci muoviamo (l Unione Monetaria Europea) sia dai pesantissimi vincoli di finanza pubblica, mentre le politiche per stimolare la crescita sono assai dolorose dal punto di vista sociale, politicamente poco praticabili e, inoltre, costose, ossia di nuovo difficilmente compatibili con i vincoli della finanza pubblica. Come siamo arrivati a tutto ciò? Proverò a raccontarlo nel prosieguo dell opera. Qui posso solo anticipare che, semplicemente, il nostro Paese si è crogiolato nell illusione di poter accrescere costantemente il proprio benessere attraverso l indebitamento, ponendo in secondo piano l ammodernamento della propria struttura produttiva, facendo crescere i salari molto più della produttività del lavoro, mentre gli altri facevano il contrario, e soprattutto, più in generale, non riuscendo a capire quali fossero le implicazioni della globalizzazione, ossia

3 dell ingresso sul mercato mondiale di concorrenti agguerriti che producono le nostre stesse merci con forza lavoro a costo più basso e, purtroppo, oggi anche con tecnologie migliori delle nostre. Con la globalizzazione tutto è cambiato, ma noi abbiamo chiuso occhi e orecchie e invece di darci da fare abbiamo scelto di ignorare il fenomeno e continuare a goderci la vita indebitandoci. Il risveglio è stato brusco: si può vivere a credito solo finché il creditore è disposto a prestarti altro denaro per pagare i debiti accumulati. Ma prima o poi chiede i soldi indietro e, se crede ci sia il rischio che tu non li restituisca, sicuramente non te ne presta altri. E allora come fai? Se nessuno ti presta il denaro per mantenere la tua bella vita, e non sei (più) abituato a lavorare? Certo, puoi cercare qualche espediente per rinviare di qualche anno la resa dei conti, ma poi essa, inesorabile, arriva. Così è arrivata per l Italia, quando la crisi del 2007 ha colpito il mondo. Solo che gli altri Paesi da quella crisi sono usciti (con un paio di rilevanti eccezioni), e infatti il mondo intero cresce; l Italia in quella crisi c è invece rimasta impantanata. Le opinioni sulle cause della crisi e sulle sue conseguenze sono naturalmente molte e diverse, ma in quest opera cercherò di essere realista: troppo spesso si sentono in giro proposte di cure miracolose, semplici, che incrementerebbero il benessere di tutti se solo ci decidessimo a realizzarle. È proprio quello che vorremmo sentirci dire, che dalla crisi possiamo uscire in maniera rapida e indolore, ragion per cui tendiamo tutti ad accettare questa interpretazione, a crederci, perché ci fa comodo, e ad accusare qualcun altro (mai noi stessi) per non voler intraprendere queste semplici e rapide terapie risolutive. Purtroppo la realtà è più complessa, e l aver scelto sempre, in passato, le terapie meno dolorose ci ha lasciati in questa situazione. Stavolta, terapie non dolorose proprio non ci sono. Possiamo continuare a negare il problema, nascondendo la testa sotto la sabbia e accusando qualcun altro (ancora, non noi stessi), ma stavolta gli espedienti sono finiti e siamo alla resa dei conti. Che sarà, inevitabilmente, dolorosa; sarà la somma di tutti i piccoli dolori passati che non abbiamo voluto patire. Soprattutto, stavolta potrebbe non bastare. Almeno, non per noi e per i nostri figli. Nessuna speranza, dunque? No, se continuiamo a voler nascondere la testa sotto la sabbia e a non voler riconoscere la gravità dei problemi, le nostre responsabilità nell averli volutamente ignorati e la necessità di terapie drastiche. Se invece apriamo finalmente gli occhi, superando pregiudizi ideologici e opportunismi personali, se capiamo la reale entità dei problemi e accettiamo le cure necessarie come il male minore, allora una (piccola) speranza c è. Forse non per noi, ma per i nostri figli. E i figli dei nostri figli. Da questo punto di vista il libro, soprattutto nei suoi capitoli conclusivi, può essere considerato come una sorta di menù delle cose che si potrebbero fare, con la chiara indicazione dei risultati che si potrebbero ottenere ma anche l indicazione dei costi, economici, sociali e politici, che saremmo costretti a pagare. Poi ognuno deciderà da sé se i sacrifici valgono il risultato. Quest opera avrà conseguito il suo obiettivo se farà prendere un po più di coscienza a chi lo leggerà dei problemi del nostro Paese, delle loro cause e della necessità e dolorosità dei rimedi da adottare. Poiché il libro è destinato a tutti, e non unicamente agli specialisti (anzi, non è proprio destinato agli specialisti) non userò (quasi) mai il gergo degli economisti e manterrò sempre la trattazione a un livello elementare, senza per questo evitare l esposizione di aspetti problematici e complessi: ritengo infatti che il rigore dell esposizione possa tranquillamente essere compatibile con la leggibilità e comprensibilità dell insieme. Il lettore valuterà, come sempre, la riuscita dell intento. Buona lettura! 3

4 4 PARTE PRIMA CRESCERE NON BASTA, MA SI DEVE.

5 5 I. La crescita: come si cresce I.1 Cos è la crescita economica Come avremo modo di vedere in dettaglio nei capitoli successivi, uno dei (due) principali problemi che affliggono l Italia è quello della bassa (in alcuni anni nulla, in altri addirittura negativa) crescita economica. Prima di affrontarlo è però opportuno chiarire brevemente cosa si intende per crescita economica, perché è importante e da cosa dipende. La locuzione infatti è un po ambigua, e non significa esattamente ciò che molti potrebbero pensare. In generale, con crescita economica si intende un aumento della produzione complessiva potenziale di un Paese, ossia, come si dice in gergo economico, del PIL potenziale (perché il PIL è proprio la produzione complessiva - finale, ossia non destinata a essere usata all interno di altri processi produttivi - di un Paese). In parole povere, significa che la capacità produttiva di una nazione, ossia la capacità di generare produzione dalle sue imprese e reddito per i suoi abitanti, aumenta. Coerentemente con questa definizione, si cresce anche se aumenta la produttività, ossia se riusciamo a produrre di più impiegando la stessa quantità di risorse, ossia sostenendo gli stessi costi, in modo da ridurre il costo per unità di prodotto (se spendendo sempre 100 euro passo da una produzione di 10Kg di gelato a una di 20Kg, il costo di un Kg di gelato, ossia una unità di prodotto, si riduce passando da 10 euro a 5 euro) o, ma è la stessa cosa, se possiamo produrre la stessa quantità di prodotto a un costo inferiore. La crescita riguarda quindi la quantità complessivamente producibile da un Paese, e il reddito complessivo, ma anche la sua produttività e quindi i suoi costi di produzione. In economia si dice il lato dell offerta. Concentrando l attenzione sull incremento della produzione complessiva e del reddito di un Paese, è importante rilevare che stiamo parlando di aumento della produzione e del reddito potenziali, ossia del fatto che il Paese potrebbe produrre di più, perché ha predisposto nuova capacità produttiva per farlo: ha costruito nuove fabbriche, nuovi uffici, nuove macchine agricole, nuovi robot industriali poi, se fabbriche e uffici rimangono vuoti e inoperosi, e i lavoratori restano disoccupati, beh, la capacità produttiva potenziale sarà pure aumentata, c è stata cioè crescita, ma la produzione effettiva è rimasta molto al di sotto di quella potenziale, con le conseguenze negative che si possono immaginare. Quindi, affinché la produzione e il reddito di un Paese aumentino, è non solo necessario che aumenti la capacità produttiva potenziale, il PIL potenziale, ma anche che la produzione effettiva segua l andamento della capacità produttiva potenziale. Il primo è un problema di crescita economica, il secondo un problema di gestione della domanda aggregata. Questi problemi l Italia li ha entrambi. Naturalmente il benessere di una collettività non si può misurare solo con la crescita del PIL, potenziale o effettivo che sia: altre grandezze sono importanti, come la speranza di vita alla nascita (cioè la durata media della vita), la tutela dell ambiente, la sanità, l equità nella distribuzione del reddito, la percentuale di persone al di sotto della soglia di povertà, e il PIL è stato infatti spesso criticato perché sarebbe una misura incapace di dar conto di tutti questi aspetti. È d altro canto assai raro che Paesi con livelli di PIL molto bassi abbiano alti livelli di questi altri indicatori. Insomma, le critiche al PIL come misuratore di benessere hanno un senso, ma sino a un certo punto, anche perché nulla di meglio è stato sinora inventato. Passiamo ora alle strategie che un Paese può realizzare per far crescere il suo PIL potenziale. Ci occupiamo quindi della crescita, lasciando al capitolo successivo il tema della domanda aggregata. Raccomando però al lettore, soprattutto a quello più politicizzato, di non trarre subito conclusioni da questo primo capitolo senza aver letto il secondo: perché, tipicamente, le strategie per la crescita possono essere considerate di destra (facciamo

6 6 favori agli imprenditori), mentre quelle per sostenere la domanda aggregata di sinistra (facciamo favori ai lavoratori). Entrambi i problemi possono essere contemporaneamente presenti in un Paese, ed è quindi necessaria una strategia complessiva, ma non è consigliabile prendere subito una posizione ideologica, tralasciando cioè uno dei due. Bisognerà poi anche considerare quei problemi, e quelle politiche, nei diversi casi concreti prima di poter esprimere una opinione ragionata. In ogni caso, se ce la fate, non indignatevi per il primo capitolo, ma neppure entusiasmatevi: leggete prima il secondo, che giunge a conclusioni opposte! Poi, faremo una sintesi, e con quella potrete essere d accordo o no. I.2 Come si cresce I.2.1 Investimento in capitale fisico Dopo aver definito la crescita come aumento del PIL potenziale, non è particolarmente complicato capire quali siano le strade percorribili per far crescere un Paese: è infatti necessario che aumenti il numero e/o la dimensione delle sue fabbriche, dei suoi uffici, ecc., o il numero dei lavoratori; oppure è necessario che, a parità di numero e dimensione, le sue fabbriche, uffici, ecc., nonché i singoli lavoratori, producano di più, perché è migliorata l organizzazione interna della produzione, perché i lavoratori esistenti lavorano di più a parità di salario o diventano più efficienti, o perché vengono adottate nuove e migliori tecnologie produttive. O, più brutalmente, perché riduco i costi di produzione pagando meno imposte o pagando meno i lavoratori. Iniziamo dall aumento del numero (e/o della dimensione) di fabbriche, uffici, ecc, fenomeno studiato in particolare dai modelli neoclassici di crescita, noti anche come modelli di crescita esogena (e in particolare dal premio Nobel Robert Solow e Trevor Swan nel 1956). In economia si è soliti riferirsi a fabbriche, uffici, robot industriali, trattori, ma anche zappe e martelli, come al capitale fisico (anche detto lo stock di capitale fisico) di un Paese. In economia, infatti, per capitale non si intende un certo ammontare di denaro, bensì oggetti che sono stati prodotti, che entrano nella produzione di altri beni (come ad esempio fa un trattore nella produzione agricola), e che sono anche durevoli, ossia durano nel tempo, entrando in più produzioni (come, appunto e ancora, il trattore). E sempre in Economia si è solito riferirsi all incremento dello stock di capitale fisico di un Paese come Investimento in capitale fisico, anche in questo caso andando lontani dall uso comune del termine investimento. Si noti che solo gli imprenditori (privati o pubblici) possono effettuare un investimento così definito. La prima, più semplice ricetta per incrementare il PIL potenziale sembra quindi facile: effettuare investimenti in capitale fisico. Ossia, aumentare il numero e/o la dimensione delle fabbriche, degli uffici, degli impianti produttivi, dei capannoni industriali, delle acciaierie, dei robot industriali, delle zappe e dei martelli presenti nel Paese, costruendone di nuovi, ingrandendo quelli esistenti o comprandone altri dall estero. È abbastanza evidente che, pur con tempi diversi, tutte le procedure che adottiamo per crescere richiedono parecchio tempo: per questo motivo la crescita è considerata un fenomeno di lungo periodo. Per chiarire la cosa con un esempio, pensiamo ad una gelateria artigianale. La nostra gelateria artigianale realizza un investimento in capitale fisico quando acquista una nuova macchina per produrre il gelato, oppure ne compra una più grande, o aumenta il numero dei tavolini per i clienti. Tutti questi sono investimenti in capitale fisico. Possiamo dire che la nostra gelateria, acquistando una macchina per fare il gelato più grande della precedente, o nuovi tavolini, ha aumentato la sua capacità produttiva potenziale: se tutti gli imprenditori si comportano così, dopo un po di tempo (poco per la gelateria artigianale che compra tavolini, parecchio se devo costruire una nuova acciaieria) il PIL potenziale, la capacità produttiva potenziale dell intera economia aumenta. Stiamo crescendo! Poi naturalmente nulla

7 7 garantisce che ci siano clienti sufficienti per comprare la maggior quantità di gelati prodotti dalla nostra gelateria, o per occupare tutti i nuovi tavolini, ma la capacità produttiva potenziale è cresciuta. E il primo passo. I.2.2 Investimento in capitale umano e in Ricerca e Sviluppo Come abbiamo visto nella sezione precedente, si può avere crescita economica, ossia incremento del PIL potenziale di un Paese, non solo se aumenta il numero e/o la dimensione degli impianti produttivi, ma anche se, a parità di numero e dimensione, le fabbriche, uffici, ecc., nonché i singoli lavoratori, producono di più, perché è migliorata l organizzazione interna della produzione, perché i lavoratori si impegnano di più o diventano più efficienti, o perché vengono adottate nuove e migliori tecnologie produttive. Sia chiaro, questi incrementi di produttività possono certamente essere ottenuti aumentando semplicemente lo stock di capitale, perché un lavoratore con un computer produce di più rispetto a un lavoratore che deve condividere un computer con uno o più colleghi, ma possono anche essere ottenuti a parità di stock di capitale fisico. Qui ci occupiamo proprio di questo, ossia dei casi in cui, sebbene non aumenti lo stock di capitale fisico del Paese, aumenta la produttività di quello stock, cioè la quantità di beni (e servizi) che può produrre nell unità di tempo coll impiego di un dato numero di lavoratori o, più in generale, coll impiego di data una quantità di risorse. Per ottenere questo incremento si può procedere in due modi, tra loro collegati ed entrambi studiati dai modelli cosiddetti di crescita endogena (e in particolare, tra gli altri, da Paul Romer nel 1986 e 1990 e da Robert Lucas nel 1988). Innanzitutto, si può migliorare la formazione dei lavoratori, sia attraverso interventi privati sia attraverso interventi pubblici. Ad esempio le imprese private possono far frequentare ai loro dipendenti corsi di formazione e aggiornamento professionale, oppure il Governo può aumentare gli anni di istruzione obbligatoria o modificare i programmi e gli insegnamenti impartiti dalla scuola pubblica. Tutto ciò ha un costo, e queste spese rientrano nella categoria degli Investimenti in capitale umano, perché sono spese sostenute per incrementare, appunto, il capitale umano, ossia la formazione dei lavoratori, la loro preparazione, la loro bravura. Un lavoratore più formato sarà più bravo, più veloce, più produttivo: produrrà cioè più beni in meno tempo, o beni di qualità migliore nello stesso tempo. Fare investimenti in capitale umano vuol dire migliorare la formazione di un lavoratore, rendendolo più produttivo. Non vuol dire, invece, come spesso si sente dire, incrementare l occupazione assumendo altri lavoratori. Soprattutto se dobbiamo modificare l istruzione di base (ad es. aumentare gli anni di scuola o modificare i programmi) gli effetti di queste politiche sulla produttività si vedranno solo dopo molti anni. Il secondo modo per incrementare la produttività riguarda il miglioramento della tecnologia produttiva impiegata. Imprese private e governo possono infatti effettuare investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S), ossia finanziare progetti di vario genere destinati a migliorare le conoscenze scientifiche e tecnologiche del Paese. In genere i privati tendono più a finanziare la ricerca applicata, ossia a migliorare le tecniche produttive esistenti, mentre il Governo finanzia la ricerca di base, ossia quella che non ha ritorni immediati in termini di capacità produttiva ma che, tra tanti progetti che si riveleranno inutili e costosi, può generare le innovazioni più importanti e radicali (ad es. internet, che è il risultato di un progetto di ricerca pubblica). Anche in questo caso, e soprattutto per la ricerca di base, i tempi perché le spese sostenute abbiano un impatto sulla produttività sono molto lunghi. Riassumendo sin qui: crescita vuol dire incremento del PIL potenziale; per far crescere il PIL potenziale è necessario fare investimenti in capitale fisico, in capitale umano, in ricerca e sviluppo. In tutti questi casi occorre parecchio tempo perché gli investimenti abbiano un impatto sulla capacità produttiva, e resta confermato che la crescita è un fenomeno di lungo periodo.

8 8 I.2.3 Politiche demografiche e Riforme istituzionali Oltre agli investimenti in capitale fisico, umano e in ricerca e sviluppo, per far aumentare la produzione potenziale di un Paese potremmo anche, semplicemente, far crescere il numero dei lavoratori (ad esempio favorendo l immigrazione), e finché si parla di PIL potenziale ciò ha certamente un impatto positivo (non lo ha necessariamente per il PIL effettivo: nulla infatti impedisce che quei lavoratori restino disoccupati), perché con più lavoratori la capacità produttiva potenziale del Paese certamente aumenta. Ma poiché se raddoppiano contemporaneamente il PIL (la produzione, il reddito) di un Paese e il numero dei suoi abitanti ciascuno di noi sta come stava prima (se non peggio: congestione delle strade, inquinamento ), in genere per crescita si intende la crescita del PIL potenziale procapite, ossia ottenuto dividendo il PIL potenziale per il numero di abitanti di un Paese: solo così la crescita migliora (sempre potenzialmente, s intende!) il nostro tenore di vita. E per ottenerla, serve dunque un incremento degli investimenti, non basta aumentare il numero degli abitanti/lavoratori. Addirittura, un aumento del numero dei lavoratori potrebbe ridurre il PIL potenziale pro-capite: può ad esempio capitare che se ad esempio il numero dei lavoratori raddoppia, il PIL cresce solo dell 80%, e quindi il PIL pro-capite si riduce. Alternativamente, potremmo realizzare riforme tali da indurre gli abitanti del nostro Paese a lavorare di più. Potremmo ad esempio aumentare l orario di lavoro, eliminare i sussidi di disoccupazione in modo che i lavoratori disoccupati debbano per forza di cose lavorare e non possano anche scegliere di vivere con il sussidio, eliminare i sindacati che tendono a ridurre la lunghezza della giornata lavorativa (avevo anticipato che le politiche per la crescita tendono a essere di destra!). Oppure, poiché non tutti gli abitanti di un Paese fanno parte della forza lavoro (si pensi alle casalinghe), ed anzi quasi la metà (in Italia) non si offre sul mercato del lavoro, realizzare riforme tali da indurre una quantità maggiore di coloro i quali scelgono di rimanere disoccupati a lavorare (nel caso delle casalinghe, si potrebbero creare asili nido gratuiti, o lo Stato potrebbe incentivare economicamente l assunzione delle colf, rendendo più facile per le casalinghe cercare una occupazione). Si tratta delle cosiddette Riforme Istituzionali, in particolare le riforme che interessano le istituzioni del mercato del lavoro. In economia, infatti, per istituzioni non si intendono cose come il Parlamento o la Presidenza della Repubblica, bensì semplicemente quell insieme di regole scritte e non scritte, anche culturali, che determinano il comportamento dei soggetti: le istituzioni del mercato del lavoro sono, appunto, regole scritte e non scritte che hanno un impatto sul comportamento dei soggetti nel mercato del lavoro. L idea in questo caso è modificare queste istituzioni per indurre i lavoratori a lavorare di più. Oltre alle riforme che inducono i lavoratori esistenti a lavorare di più, si possono realizzare anche riforme istituzionali che inducano gli imprenditori ad investire di più: ridurre i controlli, ridurre le imposte, rendere più snella la burocrazia, ridurre gli obblighi nei confronti dei lavoratori. Si tratta però di interventi per favorire gli investimenti, che quindi ricadono nell analisi già sviluppata nei due paragrafi precedenti. Le riforme istituzionali sono quindi un altra strada per incrementare la capacità produttiva potenziale di un Paese ma, come risulta già evidente dalla loro mera enunciazione, molte di loro creano rilevanti problemi di tipo politico; inoltre, se possono avere un senso nel lungo periodo, ossia con riferimento alla crescita, creano comunque problemi nel breve, con riferimento alla domanda aggregata. Ma come sappiamo per parlare di domanda aggregata dobbiamo aspettare il capitolo due I.2.4 Chi può investire? È appena il caso di ricordare che non è assolutamente importante l origine dell investimento, quanto la sua destinazione. Stiamo infatti parlando di accrescere la capacità produttiva del Paese, ragion per cui è irrilevante chi lo fa, alla fine lo stock di capitale (fisico,

9 umano, tecnologico) del nostro Paese sarà comunque aumentato e la produzione potenziale sarà cresciuta. Ciò nonostante, il tipo di investimenti è in genere legato alla tipologia dell investitore, con le imprese più interessate a una resa immediata e i Governi più interessati a interventi di maggior respiro, che avranno un impatto solo a lunghissimo termine. È però importante rilevare che, se l investimento è effettuato da imprese private, la collettività non dovrà partecipare alle spese sostenute per realizzarlo, sebbene questi investimenti facciano crescere la capacità produttiva potenziale del Paese, generando cioè un effetto positivo per tutti (più produzione, più occupazione, più reddito). È chiaro però che i privati investiranno solo se riterranno di poter realizzare un profitto, nel senso che si aspettano di guadagnare: confrontano costi e ricavi attesi e investono solo se i ricavi attesi sono maggiori dei costi. Al contrario il Governo può realizzare investimenti anche nel solo interesse della collettività finanziandoli però a spese della collettività, con l imposizione fiscale o l indebitamento pubblico. In situazioni particolarmente critiche, soprattutto nel caso di Paesi molto poveri dove né gli imprenditori nazionali né il Governo sono in grado di finanziare rilevanti investimenti, o nel caso di Paesi (e imprenditori) molto indebitati, può essere utile che siano gli imprenditori stranieri a realizzare gli investimenti. Si tratta dei cosiddetti Investimenti Diretti Esteri (IDE), con i quali un impresa straniera costruisce impianti nel nostro Paese, assume e forma i lavoratori che le servono, introduce nuovi criteri produttivi e nuove tecnologie. Anche in questo caso l impresa estera che investe ha una finalità di profitto, non viene certo per farci un favore, vuole cioè guadagnarci, ma se ben gestito l investimento diretto estero è un ottimo affare per il Paese ricevente. Gli IDE infatti non solo generano un incremento nello stock di capitale fisico del Paese (e sono quindi coerenti con i modelli di crescita esogena di Solow e Swan), ma incrementano anche il livello tecnologico del Paese ricevente, con l introduzione di nuove tecnologie produttive, così come il capitale umano, con la formazione dei lavoratori (e sono quindi coerenti con i modelli di crescita endogena di Romer e Lucas). Se infatti consideriamo una impresa che realizza un nuovo impianto produttivo con nuove tecnologie in un Paese, o in una zona del Paese, che ha un basso livello di istruzione/formazione, sarà costretta ad istituire dei corsi di formazione per i lavoratori; inoltre, i lavoratori impareranno facendo (learning by doing), nel senso che man mano che diventano pratici di una attività lavorativa la loro efficienza migliora. In seguito, quegli stessi lavoratori, ormai formati e molto più produttivi di prima, potranno essere impiegati in altre imprese o mettersi in proprio, accrescendo la produttività del Paese. Gli IDE tendono dunque a generare quelli che sono noti come spillover, effetti esterni di accrescimento della produttività e della competitività. La Cina è diventata la Cina anche grazie agli IDE: non aveva tecnologia, né lavoratori formati, né fabbriche all avanguardia, se le è fatte costruire dagli stranieri. È il caso di ricordare che la produzione in Cina delle aziende straniere è produzione cinese, i lavoratori assunti sono cinesi, le eventuali esportazioni sono cinesi, e spesso anche i profitti restano in Cina e non rientrano nel Paese di origine degli IDE (in genere, per motivi fiscali). Nulla quindi distingue questa attività di investimento da quella di un privato residente, se non l alto livello di tecnologia. E non pensiate che per attrarre gli imprenditori servano bassi salari e sfruttamento dei lavoratori: negli Stati Uniti anche la Silicon Valley attira molti investimenti esteri, che cercano un ambiente favorevole per produrre. Poi, certo, c è l ideologia: le imprese straniere vengono per sfruttarci. Ma, appunto, è solo ideologia: se non abbiamo il denaro o la tecnologia necessari, l alternativa è incentivare gli IDE in ingresso o rassegnarci a decrescere. La più compiuta teoria che si è occupata di Investimenti Diretti Esteri è il cosiddetto approccio OLI (Ownership, Location, Internalization: Proprietà, Localizzazione, Internalizzazione), dovuta a John Dunning (1977). Poiché una multinazionale è una impresa che possiede impianti produttivi in più di un Paese, per definizione gli IDE sono realizzati 9

10 10 dalle multinazionali, e dunque studiare gli IDE vuol dire studiare le multinazionali. Secondo l approccio di Dunning la scelta di una impresa di diventare una multinazionale realizzando un investimento diretto estero e dunque costruendo un proprio impianto in un altro Paese, invece di far produrre su licenza il proprio prodotto da una impresa estera, non dipende solo dai vantaggi che il territorio di destinazione fornisce in termini di costo del lavoro, vicinanza ai mercati di sbocco, imposizione fiscale, fonti di materie prime, ecc. Certo, questi elementi sono importanti, e sono inclusi da Dunning nella componente Location, ma potrebbero essere sfruttati benissimo anche accordandosi con una impresa locale per farla produrre su licenza. L elemento cruciale risulta invece la possibilità di sfruttare il vantaggio di Proprietà (Ownership), ossia il fatto di disporre di una tecnologia produttiva, un assetto organizzativo, un marchio, ecc., che può essere replicato a costo ridotto o senza costi in più unità produttive locali, senza correre il rischio che esso sia espropriato. Infatti far produrre su licenzia espone a una serie di rischi, principalmente che il prodotto, l assetto organizzativo o la tecnologia produttiva vengano copiati dall impresa locale o dai suoi lavoratori. Ragion per cui quando questo rischio è elevato appare preferibile la scelta di produrre in una propria unità produttiva locale (internalization), mentre se il rischio è basso si può anche far produrre su licenza. In sostanza, le ragioni che spingono le multinazionali a realizzare Investimenti Diretti Esteri non sono da ricercare solo nel costo del lavoro, nel regime fiscale favorevole o nella vicinanza ai mercati, ma in un insieme più ampio di motivazioni che arrivano a includere la tutela dei diritti di proprietà intellettuale. I.3 E se decrescessimo? Recentemente ha acquistato parecchia importanza, soprattutto nei mezzi di comunicazione di massa, la teoria della decrescita. Si tratta di un approccio eterogeneo, nato essenzialmente in ambito filosofico, che a partire dalla constatazione (corretta) che il PIL sarebbe un cattivo indicatore del benessere della collettività, e che dunque un aumento del PIL non implica necessariamente un aumento del benessere, giunge alla conclusione (non corretta) che una sua riduzione, accompagnata tra le altre cose da una più equa distribuzione del reddito e da una migliore gestione delle tematiche ambientali, incrementerebbe il benessere. A partire da queste basi viene quindi criticata l impostazione consumistica attuale, fondata su un aumento indiscriminato dei consumi, e viene proposto un approccio più intimista, fondato su maggiore morigeratezza, su consumi che devono essere limitati a quelli indispensabili, su un ritorno alla natura. Non dovremmo dunque perseguire un incremento meramente quantitativo delle grandezze a nostra disposizione, ma un loro incremento qualitativo; non devono essere valori come produttività e reddito gli elementi più importanti, ma concetti di benessere più ampio che considerino anche i rapporti sociali e la tipologia di consumi come indicatori di benessere. Non quantità, ma qualità. L approccio della decrescita, è bene chiarirlo subito, non propone certo la recessione come soluzione dei problemi, poiché la vede come una riduzione di reddito incontrollata e non strutturalmente capace di salvaguardare i consumi necessari rispetto a quelli voluttuari e, soprattutto, certamente incapace di dar luogo a minori diseguaglianze sociali e minor impatto ambientale, che sono altri due capisaldi della teoria. Ciò nonostante se si smette di considerare il PIL come un indicatore di benessere, la sua riduzione non sarebbe in geenrale un grave problema, perché non sarebbe necessariamente associata ad una riduzione di benessere. L obiettivo politico della teoria della decrescita sarebbe l abbandono dell enfasi posta sulla crescita del PIL e della produttività, incentivando una riduzione volontaria dei consumi,

11 soprattutto di quelli considerati voluttuari, riducendo l orario di lavoro e incrementando il tempo libero e la qualità della vita. Non è sorprendente che sostanzialmente nessun economista sia tra i teorici della decrescita. Si tratta infatti di un interessante dibattito filosofico che ha però poco a che fare con la scienza economica, e soprattutto poco a che fare con tutti i principali risultati del moderno approccio teorico che va sotto il nome di economia della felicità, happiness economics. Gli economisti sono d altro canto perfettamente consci della debolezza del PIL come misuratore di felicità: quando il premio Nobel Simon Kuznets contribuì, negli anni 30, alla creazione del PIL, intendeva solo trovare un modo per scoprire se la produzione di un Paese stava aumentando o diminuendo, senza dover ricorrere, com era stato sino ad allora, a misure indirette come il volume dei trasporti ferroviari, ecc. Lui stesso era assai scettico sulla possibilità di utilizzarlo come indicatore di benessere. Nonostante ciò: 1) allo stato attuale non esiste un indicatore migliore del PIL per misurare il benessere, perché la maggior parte delle altre grandezze (non tutte, ma la maggior parte) sono correlate al PIL; 2) c è enorme evidenza empirica che quando aumenta il reddito (e il PIL) la felicità, il benessere, prima aumenta poi smette di aumentare e si stabilizza a un livello costante, il che appunto costituisce il paradosso della felicità, o paradosso di Easterlin, dal nome dell autore che più lo ha studiato, ma questo non vuol certo dire che se si riduce il reddito la felicità aumenta, tutt altro, perché è comunque sempre vero che i più ricchi non sono mai meno felici dei più poveri; 3) c è ulteriore evidenza, stavolta sia empirica sia teorica (si vedano i lavori del premio Nobel Daniel Kahneman), dell esistenza di effetti di dotazione, ossia della circostanza che un soggetto attribuisce un valore maggiore a un oggetto che possiede rispetto a quanto sarebbe disposto a pagare per acquistarlo se non lo possedesse, il che implica che ridurre il proprio tenore di vita finisce necessariamente per avere effetti psicologici dannosi; 4) altrettanta evidenza empirica e teorica si trova per la cosiddetta avversione alla perdita (sempre Kahneman), ossia per la circostanza che i soggetti associano una riduzione di benessere molto maggiore alla perdita di una certa somma di denaro rispetto al guadagno di benessere associato al guadagno della stessa somma, dal che deriva che il danno psicologico causato da una riduzione del reddito sarebbe rilevante anche se (cosa che non è) la felicità si riducesse all aumentare del reddito; 5) la disoccupazione ha un impatto psicologico negativo sui soggetti anche quando si viene interamente sussidiati con un importo uguale al salario perso; 6) chi decide quali siano i consumi virtuosi da eliminare e quali quelli non virtuosi da conservare? 7) infine, ma potremmo continuare, se si diffonde un atteggiamento parsimonioso nella collettività, non si pone un problema di crescita ma di domanda aggregata, nel senso che i minori consumi implicano minore domanda aggregata e, almeno nel breve periodo, disoccupazione e licenziamenti: se molti cominciano a farsi i maglioncini da soli, i lavoratori (italiani, indiani o pachistani che siano) che producono maglioncini nelle imprese tessili vengono licenziati, anche se loro non avevano nessuna intenzione di decrescere (e il danno che subiscono, per i punti precedenti, è assai rilevante). In sostanza, la teoria della decrescita non tiene conto della maggior parte dei progressi ottenuti dall economia della felicità negli ultimi decenni, economia della felicità che è certamente critica nei confronti della ricchezza come determinante del benessere, ma non arriva mai a trovare alcune relazione negativa tra ricchezza e felicità: nel senso che migliorare la distribuzione del reddito, l impatto ambientale delle produzioni, l equità, sono obiettivi il cui perseguimento è prioritario, ma contestualmente a un aumento del reddito, non certo a una sua riduzione. E la diffusione di simili idee, qualora messe in pratica, avrebbero la spiacevole conseguenza di diffondere anche ulteriore recessione a causa del crollo di domanda aggregata che generano. 11

12 12 I.4 Perché crescere non basta? Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, crescere non basta. Potrebbe infatti benissimo accadere che un Paese abbia fatto tutti gli investimenti necessari ad incrementare il suo PIL potenziale, ma poi si ritrovi con tutti quei bei macchinari nuovi inutilizzati, la forza lavoro disoccupata, l economia depressa. Perché? Perché la crescita è crescita del PIL potenziale, ossia della capacità produttiva disponibile, della quantità di beni che potrebbe essere prodotta, ma non implica necessariamente che gli imprenditori vogliano produrre effettivamente tutti quei beni: li produrranno, infatti, solo se credono di riuscire a venderli. Se la mia gelateria artigianale, dopo tutti i miei bravi investimenti, ha una capacità produttiva potenziale di gelati al giorno, ma i miei clienti mi domandano solo 500 gelati, beh, io avrò anche una capacità produttiva stratosferica, ma produrrò solo i gelati che mi vengono domandati dalla clientela, cioè 500. Per il resto del tempo i miei begli impianti rimarranno inutilizzati. Il problema cruciale è proprio qui: la crescita del PIL potenziale è il prerequisito perché aumenti anche la produzione effettiva e il reddito, ma non è sufficiente: se voglio impiegare tutta la capacità produttiva installata devo avere una domanda almeno equivalente alla mia capacità produttiva, altrimenti quest ultima rimarrà in parte inutilizzata. Questo è appunto il ruolo della domanda aggregata, e soprattutto delle politiche per la gestione della domanda aggregata: far sì che la domanda di beni sia tale da permettere il pieno utilizzo della capacità produttiva installata e la piena occupazione di tutti i lavoratori.

13 13 II. La domanda aggregata: come si incrementa? II.1 Cos è la Domanda Aggregata Qualunque sia il livello della capacità produttiva installata, gli imprenditori produrranno solo quello che pensano verrà loro domandato, e se si accorgono di essersi sbagliati, correggeranno subito i loro comportamenti, producendo di più o di meno a seconda del fatto che si sono accorti di aver prodotto troppo poco o troppo. Se invece si accorgono che la loro capacità produttiva potenziale è insufficiente perché la domanda è molto più alta di quello che si aspettavano, e molto più alta di quello che i loro impianti possono produrre, faranno investimenti, compreranno cioè nuove macchine, e allora saremo nel regno della crescita. Purtroppo, però, non è questo il problema del nostro Paese: la capacità produttiva è infatti bassa, e si sta pure riducendo, ma la domanda è ancora più bassa. Se per un gelataio la domanda rilevante, per i ragionamenti appena fatti, è la domanda di gelati, per un venditore di souvenir quella di souvenir, e per un impresa automobilistica quella di automobili, per il sistema economico nel suo complesso conta la domanda totale, che altro non è se non la somma in valore (in soldi) di tutte le domande rivolte alle singole imprese (di gelati, souvenir, automobili, ecc.). Per semplicità può essere utile ricomprendere le singole voci di questa domanda in ampi aggregati omogenei, definiti a partire dalle categorie di acquirenti dei beni e dei servizi: semplificando un po, la domanda di beni e servizi è esercitata dai consumatori privati, che domandano beni e servizi finali di consumo; dalle imprese, che domandano beni di consumo intermedi e servizi intermedi, ossia necessari per il processo di produzione (elettricità per far andare le mie macchine che producono gelati, latte per produrre i gelati, cioccolata, nocciole, pistacchi di Bronte, il servizio del commercialista ) e beni di investimento (nuove macchine per fare il gelato); dal Governo, che domanda sia beni di consumo e servizi intermedi sia beni di investimento; dagli stranieri. Considerando infine solo la domanda di beni e servizi finali, ossia sottraendo dalla domanda totale la domanda di beni e servizi intermedi, otteniamo la domanda aggregata. II.2 Come si stimola la domanda aggregata Se c è un problema con la domanda aggregata, ossia se è troppo bassa, e gli imprenditori producono poco e assumono pochi lavoratori, è possibile operare su una delle diverse categorie di acquirenti affinché aumentino i loro acquisti. Ricordando sempre che se non hanno un reddito sufficiente per farlo è cosa buona e giusta finanziare gli acquisti con l indebitamento. In questo modo infatti avremmo una spesa aggiuntiva non limitata dal reddito a disposizione. E tale spesa avrebbe un effetto moltiplicativo sul reddito: ad esempio il Governo (ma vale anche per i privati) spendendo più di quanto incassa, ossia appunto indebitandosi, domanda maggiori quantità di beni e servizi alle imprese private, le quali a loro volta, in presenza di una domanda ampliata, aumentano la produzione. Ma per produrre di più devono assumere, e retribuire, un numero maggiore di lavoratori, che ottengono quindi un reddito che non avrebbero ricevuto in assenza della spesa del Governo, e spendono a loro volta questo reddito aggiuntivo domandando beni e servizi alle imprese private, le quali quindi devono ancora aumentare occupazione e produzione per soddisfare la maggior domanda; e così via. Tutta questa analisi, e in particolare il principio dell effetto moltiplicativo che ha un incremento di spesa sul reddito, è ispirata all opera del più importante (e controverso) economista del XX secolo, John Maynard Keynes, che con la sua opera del 1936, La Teoria Generale dell occupazione, dell interesse e della moneta, ha rivoluzionato la teoria economica contemporanea.

14 14 Ma, concretamente, in presenza di una crisi economica su quali categorie di operatori possiamo agire per indurli a incrementare la propria domanda? II.2.1 I Consumi La prima categoria di operatori sulla quale possiamo operare per incrementare la domanda aggregata è costituita dai consumatori. Il problema è però che i consumatori acquisteranno più beni solo se il loro reddito aumenta, e il loro reddito aumenta solo se l economia va bene e tutti hanno un impiego (e un reddito); se invece l economia va male, e gran parte della forza lavoro non percepisce un salario, o percepisce solo un sussidio di disoccupazione di pochi euro, non possiamo contare molto su di loro come acquirenti delle nostre produzioni. Insomma, il consumo è, come si dice, prociclico: segue il ciclo economico, l andamento dell economia. Se l economia va bene, il consumo aumenta; se va male, si riduce. Quindi, quando l economia va male non solo il consumo non ci aiuta, ma ci tira giù. Operare su questa variabile in recessione è quindi difficile, a meno che qualcuno (il Governo?) non regali ai consumatori parecchi soldi da spendere, oppure che sia in qualche modo possibile indurli a indebitarsi massicciamente per consumare: due cose che, come vedremo, sono state entrambe tentate, con diverso successo. II.2.2 I Consumi intermedi e gli Investimenti La seconda categoria di possibili acquirenti è costituita dagli imprenditori che acquistano beni e servizi intermedi e beni capitale per le loro imprese. L obiettivo degli imprenditori, lo sappiamo, è il profitto, ossia ottenere, con la loro attività, una differenza positiva tra quanto incassano (i ricavi) e quanto spendono per finanziare la produzione (i costi). Poiché i ricavi attesi crescono se aumenta la quantità di beni che si aspettano di vendere, anche qui abbiamo un problema simile al precedente, anzi anche più grave. Infatti, se l economia va male, e soprattutto se gli imprenditori pensano che continuerà ad andar male, compreranno pochi beni di consumo intermedi perché vorranno produrre pochi beni. E se pensano che continuerà ad andar male anche in un futuro più remoto, certamente non compreranno nuova capacità produttiva, nuove macchine, nuovi impianti, ossia non investiranno. A meno che non abbiano per qualche motivo una visione meravigliosa su come andrà il futuro (voi ce l avete, in Italia, una visione meravigliosa di come andrà il futuro?), anche tutte queste spese sono procicliche. Inutili, per il nostro problema. Addirittura, anche se il Governo regala loro denaro per realizzare gli investimenti è assai difficile che gli imprenditori lo usino, ritenendo che la eventuale maggiore capacità produttiva installata resterebbe inutilizzata per carenza di domanda. Così come è difficile che, se la crisi è profonda, gli imprenditori siano particolarmente influenzati dalle politiche della Banca Centrale che rende più facile l indebitamento, chiedendo ad esempio meno garanzie, o abbassando il tasso di interesse, ossia il costo del denaro per le banche (e, indirettamente, per gli imprenditori: se le banche ordinarie possono prendere a prestito dalla banca Centrale a poco interesse, presteranno agli imprenditori a poco interesse). È infatti probabile che la riduzione di quelle che per le imprese sono costi non sia sufficiente se i ricavi attesi si riducono ancor di più. Se invece l economia non va tanto male, una riduzione del tasso di interesse può incentivare gli imprenditori a fare investimenti, perché magari i costi scendono più dei ricavi attesi e dunque i profitti attesi salgono. Ma se va male male, non c è riduzione dell interesse che tenga. II.2.3 La Spesa Pubblica La terza categoria di potenziali acquirenti è un solo soggetto, il Governo, che realizza la spesa pubblica. Il Governo può spender denaro traendolo da due fonti: le imposte e tasse che incassa, e i prestiti che contrae. Poiché le imposte e tasse sono anch esse procicliche (il loro

15 15 volume complessivo aumenta quando l economia va bene e tutti dichiariamo al fisco un sacco di soldi, si riduce quando l economia va male, le imprese falliscono, i lavoratori finiscono licenziati e non pagano le imposte), da qui ricaviamo poco. Più interessante e utile la seconda strada: la spesa che il Governo effettua in deficit, ossia quando ha entrate inferiori alle uscite, e quindi non ha denaro da spendere, ma se lo fa prestare, indebitandosi. Si parla in questo caso di politica fiscale espansiva, o politica di bilancio espansiva, e non ci si riferisce alle imposte o alle tasse, ma alla spesa pubblica: politica fiscale è una cattiva traduzione del termine inglese fiscal policy, che indica generalmente tutte le politiche che incrementano la spesa del Governo o riducono le imposte). A differenza di consumatori e imprenditori, che devono essere convinti a spendere di più indebitandosi, e in tempi di crisi convincerli è parecchio difficile, il Governo si convince da solo (tanto mica sono i politici poi che devono restituire i prestiti ). Dal punto di vista pratico, per procurarsi il denaro il Governo emette titoli del debito pubblico, ossia particolari obbligazioni pubbliche: chi le acquista presta denaro allo Stato il quale dopo un po glielo restituirà (a seconda della durata del titolo, tra sei mesi, un anno, due anni anche trent anni, in alcuni casi), e riceve ogni anno dal Governo un interesse su quel prestito. Esempi di titoli del debito pubblico sono i BOT (a breve termine), i CCT, i BTP (a lungo termine). Con questo denaro il Governo può incrementare la spesa pubblica. Naturalmente, maggiore è il deficit di bilancio dello Stato, ossia le spese fatte prendendo denaro a prestito, maggiore è la crescita della domanda aggregata ma anche del debito pubblico. Un debito che, almeno in teoria, prima o poi il Governo dovrebbe restituire. II.2.4 Le Esportazioni (nette) L ultima categoria di acquirenti che possiamo influenzare in qualche modo sono gli stranieri, che acquistano le nostre esportazioni, ossia le merci che vendiamo all estero. Le cose sono in realtà un po più complicate, perché da ciò che vendiamo all estero dovremmo sottrarre ciò che dall estero compriamo per vedere l impatto sulla domanda aggregata italiana, ma per ora tralasciamo questo aspetto (che però è importante: l Italia, ad esempio, compra all estero grandi quantità di petrolio e gas naturale). Ma insomma, non andiamo molto lontano dalla realtà concentrandoci solo sulle esportazioni. Se volete essere sofisticati, usate la locuzione esportazioni nette (esportazioni meno importazioni) al posto di esportazioni : nulla di sostanziale cambia e fate un ottima figura! Come fare per far crescere la domanda di merci del nostro Paese fatta dagli stranieri? In vari modi. Riducendone il prezzo, aumentandone la qualità, concentrandoci sulla produzione di beni che nessun altro produce. Poiché aumentare la qualità dei beni o produrre beni che nessuno produce è complicato e richiede tempo, oltre che profonde trasformazioni del sistema produttivo, ricadendo quindi nelle problematiche relative alla crescita, la cosa più rapida e facile è ridurne il prezzo. E per ridurne il prezzo o i lavoratori si accontentano di un salario più basso, o gli imprenditori di meno profitto, o la produttività del lavoro aumenta (ogni lavoratore produce di più) a parità di salario e di profitto, o il Governo fa pagare meno tasse e contributi alle imprese. Oppure, a parità di prezzo nella nostra valuta, gli stranieri riescono a comprare le merci spendendo di meno nella loro valuta: questo accade in presenza di un deprezzamento del tasso di cambio. Servono sempre 20 euro per comprare un chilo di gelato, ma mentre prima il tasso di cambio tra euro e dollaro era uno, ossia serviva un dollaro per comprare un euro, e dunque a un americano un chilo di gelato italiano costava 20 dollari, perché con 20 dollari comprava i 20 euro necessari per acquistare il chilo di gelato, adesso se il tasso di cambio è sceso a 0,5, come si dice in gergo si è deprezzato, serve cioè mezzo dollaro per comprare un euro, un americano può comprare un chilo di gelato italiano (che sempre 20 euro costa) con soli 10 dollari, perché con 10 dollari compra i 20 euro necessari per comprare il chilo di gelato. Come conseguenza, tenderà a comprarne di più, magari riducendo la domanda di gelato inglese o

16 turco. Un deprezzamento del cambio, dunque, incrementa le nostre esportazioni e fa quindi crescere la nostra domanda aggregata. Può forse essere importante chiarire il ruolo cruciale che hanno le esportazioni per la stessa sopravvivenza di un Paese. Ci sono infatti Paesi, anche nell Eurozona, che per il proprio sostentamento di base (cibo, energia) devono importare ingenti quantità di beni e servizi dall estero. Ora, se questi Paesi hanno qualcosa da offrire in cambio, ossia producono beni (o hanno risorse) desiderati dalle altre nazioni, bene, importeranno ciò che gli serve esportando ciò che serve agli altri. Ma se non hanno nulla di desiderabile da offrire, se non producono niente da esportare, o se quello che producono è di bassa qualità o troppo costoso, non potranno cederlo in cambio di ciò che serve loro per il sostentamento e sono destinati alla miseria. È il caso, ad esempio, della Grecia: produce poco o nulla di beni esportabili, mentre le sue importazioni sono ingenti ed essenziali per la sopravvivenza e il benessere dei residenti. Finché sarà così, dentro o fuori l Eurozona, il Paese è destinato alla povertà. E non si pensi che il problema si possa risolvere dando moneta in cambio delle importazioni: un non residente accetterà moneta greca in cambio solo se sa che con quella moneta potrà comprare qualcosa in Grecia; se sa di non poter comprare nulla di utile, perché la Grecia non produce nulla di utile, non la accetterà in pagamento, o le darà un valore prossimo allo zero. Naturalmente, se la moneta che la Grecia dà in cambio sono euro, le cose cambiano, perché con gli euro posso comprare beni anche in Germania, Francia, ecc., quindi li accetto più volentieri. 16

17 17 III Quindi: crescere non basta, ma si deve. Alla luce di quanto abbiano visto sinora, un Governo accorto dovrebbe dunque progettare una strategia capace non solo di creare i presupposti perché il Paese cresca, ma anche fare in modo che la capacità produttiva così generata sia effettivamente utilizzata, ossia scegliere politiche in grado di generare una domanda aggregata sufficiente ad utilizzare tutta la maggiore capacità produttiva disponibile. Ad occupare, soprattutto, tutti i lavoratori che desiderano lavorare al salario corrente. Purtroppo, porre in essere le giuste strategie non è semplicissimo, e in alcuni casi è anche politicamente problematico. Infatti (sebbene con una rilevante eccezione) le manovre volte a sostenere la crescita di lungo periodo sono in genere poco utili per ottenere consenso elettorale, perché i loro effetti benefici si vedranno solo tra qualche anno, dopo le prossime elezioni: non a caso vengono considerate politiche di lungo periodo, mentre quelle volte a sostenere la domanda aggregata sono considerate di breve periodo. Una circostanza che, per motivi intuibili, rende i governi poco incentivati a realizzarle. Inoltre, spesso le politiche per la crescita sono anche fortemente avversate da una parte del corpo elettorale: perché ad esempio mirano ad ottenere maggior efficienza dall apparato produttivo implementando misure che vanno contro l interesse di breve periodo dei lavoratori, come richiedere un incremento dell orario lavorativo o minori sussidi di disoccupazione. Succede così che spesso i Governi pongono in essere solo strategie di breve periodo, cercando di sostenere la domanda aggregata. Il problema è che, a forza di perseguire strategie di solo breve periodo per motivi essenzialmente elettorali, il Paese smette di crescere. Poi possiamo spingere quanto vogliamo sulla domanda aggregata, ma se la produzione potenziale non cresce anche la produzione reale finirà col non crescere. Inoltre, c è un preciso legame tra crescita e domanda aggregata: come sappiamo crescere vuole anche (soprattutto) dire incrementare la produttività e ridurre i costi di produzione investendo in capitale fisico, ricerca e sviluppo, formazione dei lavoratori; ciò rende, nel lungo periodo, i miei prodotti di qualità migliore e meno costosi, ossia maggiormente domandati dai residenti e dai non residenti. In sostanza, gli effetti della crescita sono anche di stimolo alla domanda aggregata. Se invece non investo e non cresco, i miei prodotti diventeranno di qualità peggiore e più cari rispetto a quelli dei miei concorrenti, e non saranno domandati né dai residenti né dai non residenti, deprimendo la domanda aggregata. Quindi le due politiche andrebbero intraprese assieme, ma spesso i Governi prediligono le politiche di breve periodo ed evitano quelle di lungo. L unica eccezione, ragionevole e importante, riguarda gli investimenti pubblici. Un Governo che effettua investimenti pubblici per incrementare la capacità produttiva del Paese, ad esempio nei settori della formazione, della ricerca e sviluppo, dell istruzione, del miglioramento tecnologico, delle infrastrutture, da un lato sostiene la domanda aggregata, quindi realizza politiche valide per il breve periodo, dall altro sostiene la crescita potenziale futura del Paese, e quindi realizza politiche di lungo periodo. Il problema, naturalmente, è che per farsi amico l elettore è meglio garantirgli un posto pubblico dove lavora poco e guadagna tanto, oppure un sussidio pubblico dove lavora nulla e guadagna abbastanza, piuttosto che fare investimenti che nel breve periodo hanno solo effetti indiretti su di lui, perché lo fanno lavorare di più per produrre di più e guadagnare di più. Quindi se i fondi disponibili sono scarsi, la maggioranza parlamentare debole e la classe politica poco lungimirante, la strada peggiore vince spesso siu quella migliore. Nella realtà, pochi sono stati infatti i Paesi sviluppati che hanno fatto scelte valide (anche) per il lungo periodo. La maggior parte dei Paesi, una volta raggiunto il benessere, si è

18 adagiata, si è accontentata della capacità produttiva potenziale installata e ha mirato, in vari modi, non a farla crescere ma a portare la domanda aggregata al livello necessario per impiegare tutta la capacità produttiva esistente. Con la conseguenza che altri Paesi, più affamati, più disposti a sacrificare il benessere presente (che non avevano) per il benessere futuro, hanno sorpassato i vecchi Paesi sviluppati. Ma cerchiamo adesso di individuare quali siano state le scelte poste concretamente in essere dai diversi Paesi, e dall Italia, nell affrontare il complicato rapporto tra crescita e gestione della domanda aggregata. 18

19 19 PARTE SECONDA COMBATTENDO LA BASSA DOMANDA: L ECONOMIA PRIMA DELLA CRISI

20 20 IV. Bolle, debiti e NeoMercantilismo IV.1 Diverse strategie per sostenere la domanda aggregata Come sappiamo, diverse sono le variabili sulle quali si può intervenire per sostenere la domanda aggregata. In particolare, si può puntare sul sostegno alle esportazioni nette, sulla spesa privata per consumi e investimenti, o sulla spesa pubblica. Le ultime due strategie implicano indebitamento, privato o pubblico, se vogliono essere realmente efficaci. Questo in generale. Con riferimento all Europa, l evoluzione della situazione rende per alcuni Paesi le scelte quasi obbligate. Prima dell introduzione dell Euro i principali Paesi europei erano in un regime a cambi fissi, il Sistema Monetario Europeo. In un regime di cambi fissi il Paese che ha il tasso di inflazione più basso, ossia quello che ha una crescita dei prezzi dei beni che produce inferiore rispetto a quella degli altri Paesi, accumula progressivamente un vantaggio competitivo: anche una piccola differenza annuale nel tasso di crescita dei prezzi, già su un intervallo temporale relativamente breve, implica infatti un vantaggio competitivo difficilmente colmabile. Nel caso dell Europa, ad esempio, il Paese con il tasso di inflazione più basso è sempre stato la Germania, che ha orientato la sua politica monetaria in modo da combattere l inflazione, ragion per cui un regime a cambi fissi conveniva sostanzialmente ai tedeschi. Per chiarire questo concetto, ipotizziamo che le biciclette italiane costino 100 lire, le biciclette tedesche 100 marchi, e il tasso di cambio (fisso) tra lira e marco sia pari a 1, ossia un marco si scambia con una lira e viceversa. Con un tasso di inflazione pari al 4% in Italia e al 2% in Germania, semplificando un po i conti, dopo dieci anni il prezzo delle biciclette di produzione italiana vendute in Italia è pari a 140 lire, quello delle biciclette di produzione tedesca vendute in Germania è pari a 120 marchi; se lire e marchi si scambiano ancora alla pari, in Italia le biciclette tedesche costano 120 lire, mentre in Germania le biciclette italiane costano 140 marchi: è evidente che l Italia ha problemi a vendere le sue biciclette, sia in Germania sia in Italia. Fino al 1985, il regime di cambi fissi vigente in Europa, noto come Sistema Monetario Europeo (SME), era però tale solo in parte. Infatti, quando per un Paese la perdita di competitività diventava troppo rilevante, proprio a causa del differenziale inflazionistico, e quel Paese si trovava a fronteggiare problemi insormontabili nel vendere all estero le sue produzioni, il tasso di cambio della sua valuta veniva svalutato, facendo recuperare competitività alle sue merci. Nel caso del nostro esempio, se il cambio della lira viene svalutato, e passa ad esempio a 2 lire per un marco, in Italia le biciclette italiane costano sempre 140 lire, ma quelle tedesche passano a 240 lire, mentre in Germania le biciclette tedesche costano sempre 120 marchi, ma quelle italiane costano solo 70 marchi. Una svalutazione del cambio ha dunque un impatto cruciale sulla competitività estera, ed è perfettamente in grado di controbilanciare un differenziale inflazionistico tra i diversi Paesi. Se vogliamo utilizzare il gergo degli economisti, possiamo dire che la Germania praticava una politica di disinflazione competitiva, perché teneva il suo tasso di inflazione più basso rispetto a quello dei concorrenti, ma era esposta alla reazione di altri Paesi, come l Italia, che praticavano una politica di svalutazione competitiva, perché ribassava il suo tasso di cambio quando la perdita di competitività era eccessiva. In qualche modo, questo strano regime a cambi fissi teneva in equilibrio i diversi Paesi e il sistema nel suo complesso. Però, dopo il 1999, con l adozione dell euro, ossia di un unica moneta per tutti i Paesi europei, le svalutazioni competitive sono diventate impossibili: se infatti i singoli Paesi che compongono l eurozona condividono la stessa valuta, tra di loro non c è alcun tasso di cambio e quindi nulla da poter svalutare; mentre tra l Europa e il resto del mondo un tasso di cambio c è, ma il suo livello non dipende tanto dalle scelte di politica economica dei diversi Paesi

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