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1 REGIONE DELL UMBRIA GIUNTA REGIONALE OSSERVATORIO EPIDEMIOLOGICO REGIONALE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA DIPARTIMENTO DI IGIENE E SANITÀ PUBBLICA Registro Tumori Umbro di Popolazione LA SOPRAVVIVENZA PER CANCRO IN UMBRIA e FRANCESCO LA ROSA, FABRIZIO STRACCI, FAUSTO GRIGNANI, LILIANA MINELLI, CARLO ROMAGNOLI E VITO MASTRANDREA PERUGIA 2003

2 Hanno collaborato alla realizzazione del presente volume: Anna Maria Petrinelli Daniela Costarelli del Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica dell Università degli Studi di Perugia Elena Falsettini Tiziana Cassetti Antonio Canosa Igino Fusco Moffa Ilaria Vescarelli Laura Casciarri del Registro Tumori Umbro di Popolazione

3 Presentazione. L uscita, nell anno 2001, del volume dei casi di tumore in Italia negli anni novanta: i dati dei Registri Tumori edito dall Associazione Italiana dei Registri Tumori, ha messo in evidenza come, nella nostra Regione, i livelli qualitativi dell assistenza oncologica, rispetto al resto dell Italia, siano piuttosto alti. Per la maggior parte delle sedi tumorali, infatti, la sopravvivenza e tra le più alte di quelle riportate dai Registri Tumori italiani. Anche le pubblicazioni effettuate dal Gruppo che gestisce il Registro umbro, e che si riferivano alla sopravvivenza a lungo termine per i casi insorti nel periodo , dimostravano valori che potevano essere confrontabili con quelli più alti delle regioni europee. In questa pubblicazione si valutano le variazioni, dei tassi di sopravvivenza, che si sono verificate da quell ormai lontano quinquennio al più recente periodo ; anche da questo confronto risulta la buona sopravvivenza, specialmente per alcune sedi anche piuttosto frequenti, che caratterizza i dati della nostra Regione. Di tutto ciò bisogna essere grati a tutti gli operatori del Servizio Sanitario Regionale che con la loro attività hanno creato situazioni, anche di eccellenza, per la cura di malattie così gravi. L alto livello degli standard assistenziali, derivanti anche da alti livelli qualitativi della ricerca, l equità di accesso ai servizi da parte di tutta la popolazione umbra e, in generale, la buona efficienza delle strutture oncologiche regionali hanno determinato un grado di efficacia notevole anche quando si confrontano i nostri dati di sopravvivenza con quelli delle altre regioni italiane e di altri Paese europei. Di tutto ciò ne è testimone anche l alto numero di pazienti che, da altre regioni italiane, vengono a curarsi presso i nostri ospedali. Questi risultati devono costituire lo stimolo per un miglioramento dei protocolli di diagnosi e cura, specialmente per quelle patologie che ancora presentano tassi di sopravvivenza piuttosto bassi, e per un ulteriore coordinamento delle diverse competenze che in questi protocolli sono coinvolte. Agli operatori del nostro Registro Tumori un ringraziamento per il lavoro che così egregiamente stanno svolgendo, lavoro che si dimostra di grande utilità, oltre che per l organizzazione e la programmazione dei servizi sanitari, anche per la loro valutazione. Cordialmente. L Assessore alla Sanità Dott. Maurizio Rosi 1

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5 Introduzione Uno dei compiti di un Registro tumori di popolazione è quello di calcolare l indice di sopravvivenza dei pazienti affetti da tale patologia e confrontare i propri dati con quelli di altre popolazioni, al fine di valutare le eventuali differenze di quello che può essere considerato un buon indicatore dell efficacia dei Servizi sanitari preposti al controllo di tale patologia, nell ambito territoriale di riferimento. In questo lavoro si riportano i dati di sopravvivenza elaborati dal RTUP per i casi incidenti nel periodo e si confrontano sia con quelli del periodo , sia con quelli attuali di altri Registri italiani ed europei. Tali studi sono stati resi possibili anche dalla creazione di un Archivio di dati di mortalità, che parte dal 1994 e attualmente comprende i dati riguardanti i decessi avvenuti fino al 31/12/2002. I risultati dello studio sono preceduti, nel presente volume, da una analisi delle attuali conoscenze sulla eziopatogenesi delle neoplasie, da una breve descrizione delle metodologie proposte per la diagnosi precoce delle stesse e delle ultime indicazioni sui protocolli terapeutici. Un ulteriore capitolo riguarda l utilizzazione degli studi si sopravvivenza effettuati dai registri tumori, con un breve accenno alle più comuni tecniche di analisi dei dati che servono a interpretare meglio i risultati che vengono poi riportati. Eziopatogenesi delle neoplasie Negli ultimi decenni si sono verificati importanti progressi nelle conoscenze sulle neoplasie, che hanno modificato il nostro approccio alle cause dei tumori (e quindi alla loro prevenzione), al loro meccanismo di sviluppo, alle procedure diagnostiche, ai provvedimenti terapeutici. In conseguenza di tutto ciò la prognosi delle neoplasie si è profondamente modificata, anche se i maggiori progressi terapeutici sono stati ottenuti quando il trattamento è iniziato nelle fasi precoci. Recentemente, infatti, è stata studiata la sopravvivenza a 5 o a 10 anni in soggetti portatori di carcinomi della mammella, del colon-retto, del polmone e della prostata suddivisi per quinquennio dal 1973 al 1997 e classificati in base alla diffusione della malattia (metastasi a distanza, diffusione regionale, diffusione solo locale). Da queste indagini [1] è emerso che: per il carcinoma della mammella vi è stato un aumento progressivo della sopravvivenza fino al 95% a 5 anni ed al 90% a 10 anni nei gruppi con diffusione solo locale mentre nei gruppi a diffusione regionale la sopravvivenza è aumentata nel tempo dal 60 al 70% a cinque anni. Invece, nei gruppi con diffusione a distanza alla diagnosi, l incremento di sopravvivenza è stato molto modesto (dal 18 al 22%). Analogo comportamento è stato osservato nei tumori del colon retto, nei quali la sopravvivenza a 5 anni non raggiunge il 10% nelle forme metastatiche alla diagnosi. I risultati complessivi sono assai più deludenti nel carcinoma del polmone. Anche in questo caso si osserva un modesto aumento della sopravvivenza nel corso degli anni, ma, anche nell ultimo quinquennio preso in esame, non si raggiunge il 50% a 5 anni, e si rimane al di sotto del 40% a 10 anni. Il progressivo aumento di sopravvivenza con gli anni è particolarmente evidente nel carcinoma della prostata nel quale, nel quinquennio , si è giunti al 100% di sopravvivenza a 10 anni, partendo dal 68% nel quinquennio , per le forme a diffusione locale. Nelle forme con metastasi a distanza la sopravvivenza a 5 anni supera di poco il 30%. 3

6 Per le neoplasie in fase avanzata si stanno sviluppando importanti ricerche che, si spera, consentiranno a breve un cambiamento totale nell approccio terapeutico, ma non vi sono evidenze che facciano ritenere possibile, in breve tempo, un significativo aumento della sopravvivenza. Tali ricerche partono da una migliore conoscenza delle cause che conducono all insorgenza dei tumori e del meccanismo con il quale la deviazione neoplastica si realizza. E naturalmente impossibile dar conto in questa sede di tutti i progressi che si sono verificati in questo campo: ci si deve pertanto limitare ad un cenno molto generale che riassuma le principali linee di sviluppo delle nostre conoscenze. La lunga diatriba sul ruolo dei geni e dell ambiente nell eziologia dei tumori si va componendo grazie alle più recenti acquisizioni. E ormai ben riconosciuto che la modificazione di alcuni geni a livello delle cellule germinali provoca una maggiore frequenza nell incidenza delle neoplasie nell età adulta (geni di suscettibilità). Siamo qui in presenza di: a) geni ad alta penetranza, ma assai rari nella popolazione generale che sono responsabili di una elevata incidenza delle neoplasie di riferimento nelle persone portatrici, che peraltro rappresentano una minima percentuale della popolazione che sviluppa quel particolare tumore. L esempio più noto e paradigmatico è rappresentato dalle donne portatrici dei geni BRCA 1 e 2 che, nel corso della vita, ammalano in elevata percentuale (fino al 70% a 70 anni), ma che rappresentano soltanto una piccola percentuale (non più del 5%) di tutte le neoplasie mammarie [2, 3]. Anche in questi casi, tuttavia, l insorgenza del tumore non riguarda il 100% dei soggetti portatori dell anomalia genetica: è quindi necessario che intervenga un ulteriore mutazione somatica, magari favorita dell instabilità genomica indotta dalla mutazione genica a livello germinale, che diventa la causa finale dello sviluppo della neoplasia; un altro esempio di questa situazione è rappresentato dalla mutazione del gene APC, alla base del cancro del colon, che facilita l insorgenza di altre anomalie genetiche acquisite; b) di geni molto più diffusi nella popolazione generale, ma a bassa penetranza, che facilitano la comparsa di neoplasie nell età adulta attraverso una instabilità genomica di grado molto inferiore. Questi geni sono poco noti, ma la presenza di clusters familiari di tumori li rende assai verosimili. Entrambe queste situazioni si inseriscono nel concetto di carcinogenesi a passi multipli sul quale dovremo ritornare più avanti. Esse dimostrano anche che una sola alterazione delle cellule germinali non è in grado di provocare direttamente una neoplasia, ma solo di creare un ambiente favorevole al suo sviluppo [4]. Nell ambito dei tumori acquisiti è sempre più frequente il riconoscimento di alterazioni genetiche importanti dal punto di vista patogenetico. In alcuni casi l alterazione genica è sufficiente a far insorgere la neoplasia (si pensi ad esempio alla translocazione bcr/abl nella leucemia mieloide cronica o a quella pml/rar nella leucemia acuta promielocitica). In altri essa rappresenta solo uno dei momenti patogenetici non sufficienti (si pensi ad esempio alle alterazioni di p53 o del gene RAS così frequenti in molte neoplasie). Analogamente è ben noto che cause ambientali sono in gioco nell insorgenza dei tumori. Senza elencarle tutte, basti ricordare, in generale, che cause chimiche, fisiche, ormonali e virali possono svolgere un ruolo importante nella comparsa di una neoplasia. Tuttavia, per fortuna, la loro azione non è efficace nel 100% dei casi, ma solo in una percentuale di gran lunga inferiore. 4

7 Recenti ed importanti acquisizioni mettono in relazione le alterazioni genetiche e le cause ambientali: risulta infatti sempre più evidente, da un lato che le cause ambientali agiscono attraverso le modificazioni dirette o indirette da esse prodotte sul patrimonio genetico, sia a livello delle cellule somatiche sia di quelle germinali, dall altro che la loro azione è resa possibile o almeno è facilitata da un ambiente genomico suscettibile. La dimostrazione è in alcuni casi evidente, come ad esempio nelle alterazioni di p53 indotte dal tabacco, in altri è più sottile e meno definita (si pensi ad alcune modificazioni geniche indotte dall attività ormonale). In ogni caso però è un fatto ben dimostrato che l ambiente genico è importante nel facilitare l influenza dei fattori esogeni (non tutti i fumatori ammalano di tumore del polmone). Si può quindi affermare che cause esterne sono quasi sempre in azione nel determinismo dei tumori, ma che esse agiscono attraverso influenze dirette o indirette sul patrimonio genetico, il quale, a sua volta, può anche mettere in atto meccanismi favorenti o di difesa e protezione (si pensi ad esempio al controllo del DNA mismatched) contro l insorgenza del tumore [5]. E peraltro possibile che le alterazioni del patrimonio genetico derivino da errori nelle mitosi, senza l intervento di fattori esogeni. Questo fatto può spiegare la frequenza delle neoplasie nei tessuti a più alto tasso riproduttivo e nell età avanzata, quando i meccanismi di controllo e di riparazione del DNA sono meno efficienti. I maggiori progressi scientifici degli ultimi anni si sono verificati nello studio dei meccanismi attraverso i quali le neoplasie si instaurano. Non si tratta di una conoscenza puramente teorica, ma di premesse assai importanti per tentare di stabilire un controllo terapeutico dei tumori o anche ambizione ancora maggiore- di evitarne l insorgenza. La teoria ormai classica, anche se è trascorso poco più di un decennio dalla sua formulazione, prevede che alla base dei tumori si trovi una abnorme attivazione di un oncogene o la mancanza di attività di un gene oncosopressore. Negli ultimi anni è però apparso evidente che il meccanismo non è così semplice, anche perché da un lato sono stati individuati almeno un centinaio di oncogeni ed alcune decine di oncosopressori coinvolti nella genesi dei tumori, dall altro è stato visto, anche nelle linee cellulari umane immortalizzate (e quindi già di per sé non normali), che l inserimento di un oncogene o la eliminazione di un soppressore non sono sufficienti a provocare la trasformazione neoplastica. Secondo alcuni Autori nella trasformazione neoplastica sono in gioco più alterazioni genetiche interessanti oncogeni o soppressori in maniera non schematizzabile per ogni singolo individuo e per ogni singolo tumore. Se questo fosse vero la possibilità di individuare interventi terapeutici basati sulle alterazioni genetiche sarebbe assai difficile per non dire impossibile. Un'altra scuola di pensiero ritiene invece che si possano individuare, anche nelle neoplasie umane, alcune vie generali che, in modo variamente combinato, sono in causa in ogni neoplasia [6]. In particolare, gli avvenimenti potrebbero essere così schematizzati. Le cellule cancerose umane presentano una instabilità genetica a livello del cariotipo in toto o di singole sequenze del DNA, che facilita l acquisizione di altre anomalie cromosomiche o geniche [7, 8]. L instabilità viene acquisita quando sono inattivate o funzionano di meno i geni e le proteine che sono deputati all individuazione e alla riparazione dei difetti di duplicazione del DNA [9]. Questa situazione 5

8 porta anche, con frequenza, all incapacità della cellula di arrivare all apoptosi, quando il danno al DNA è troppo cospicuo. I danni più frequenti che portano a conclusioni di questo tipo sono rappresentati dalla alterazione di geni che codificano per proteine ad attività oncosopressiva. Alcuni esempi fondamentali meritano di essere ricordati: innanzitutto le alterazioni del primo gene oncosopressore che è stato individuato, il gene del Retinoblastoma (RB) [10]. L attività della proteina del retinoblastoma (prb) è fondamentale, in condizioni normali, per consentire la progressione della cellula verso la fase G1 del ciclo cellulare. Alterazioni di questa proteina sono state osservate in un gran numero di neoplasie. Più precisamente: in molti tumori, quali il retinoblastoma, l osteosarcoma, il tumore a piccole cellule del polmone, la prb è assente per una mutazione che rende funzionalmente inattivo il gene RB che la codifica; in altre circostanze (carcinoma della cervice uterina) la prb è sequestrata e degradata da specifiche oncoproteine; in altri casi ancora viene inattivato il gene che codifica per la p16 che è necessaria per l attività fosforilante della prb e la cui assenza conduce ad una inattivazione funzionale della prb; infine nel cancro della mammella l iperespressione della ciclina D1 o E inattiva funzionalmente la prb. Come si vede numerose situazioni, diverse fra loro, conducono al medesimo risultato: all incapacità funzionale della prb e, di conseguenza, al mancato controllo del passaggio delle cellule dalla fase Go alla fase G1 del ciclo cellulare. Il secondo esempio da ricordare è rappresentato dalle modificazioni della proteina codificata dal gene TP53 (p53) [11, 12]. Come è noto la p53 agisce normalmente bloccando la proliferazione di cellule variamente danneggiate nel loro DNA al fine di riparare il danno. Qualora il danno non sia riparabile, la p53 avvia un processo di apoptosi eliminando definitivamente la cellula danneggiata. Il gene TP53 che codifica per la proteina p53 è mutato in maniera diversa (sono state documentati alleli mutati di TP53) in almeno il 50% dei tumori umani. Inoltre, si possono osservare inibizioni funzionali della p53, pur in presenza di un gene TP53 perfettamente normale che possono essere dovute ad un antagonista della p53, cioè alla proteina umana analoga alla proteina murina minuta doppia 2 (phdm2, human double minute 2 protein). In altri tumori è deleto il gene che codifica per un antagonista della phdm 2, la p19, con il risultato finale di una inibizione funzionale della p53 [13, 14]. Oltre a prb e p53 sono stati documentati una quindicina di altri geni con attività oncosopressiva. Di alcuni abbiamo fatto cenno come ad esempio i geni BRCA dei soggetti suscettibili al tumore della mammella. Ma ne esistono altri molto noti come il gene APC coinvolto nell insorgenza del tumore del colon. In linea di massima si ritiene che i geni oncosopressori siano recessivi, per cui è necessario la perdita di entrambi gli alleli perché la riduzione della loro attività sia significativa. Tuttavia si sta facendo strada l ipotesi della cosiddetta aploinsufficienza, secondo la quale i geni coinvolti non sono necessariamente deleti, ma possano essere semplicemente incapaci di far sintetizzare una quantità sufficiente di proteina inibitoria. Un secondo meccanismo fondamentale nella patogenesi dei tumori è rappresentato dal mantenimento dei telomeri [15]. Come è noto i telomeri sono sequenze, poste alla fine dei cromosomi, che vengono consumate ad ogni mitosi. Essi costituiscono una importante barriera alla proliferazione continua della cellula che non può più riprodursi quando tutti i telomeri sono consumati. Tuttavia l accorciamento dei telomeri è un momento critico per la cellula perché produce instabilità genomica che, come abbiamo 6

9 visto, è una premessa per la trasformazione neoplastica. L intervento della telomerasi è in grado di diminuire questa instabilità, ma è a sua volta la causa di una continua capacità di proliferazione cellulare. In effetti, in oltre il 90% dei tumori, la telomerasi, soppressa nelle cellule normali, è mantenuta attiva. Pertanto la cellula tumorale non ha limiti alla sua capacità proliferativa e, con stimoli opportuni, può essere immortalizzata. La continua presenza di telomeri attivi è un altra causa di instabilità genomica. L attivazione degli oncogeni, che comporta una stimolazione mitogenica continua, costituisce un altro fondamentale meccanismo patogenetico delle neoplasie. In condizioni normali la proliferazione cellulare è regolata dall attività dei protooncogeni che sono sotto il controllo di fattori di crescita, prodotti da vari sistemi cellulari a seconda delle necessità dell organismo ospite. Nelle neoplasie, le cellule sono largamente indipendenti dalla presenza di fattori estrinseci di controllo, in quanto alcuni oncogeni sono perennemente attivati, indipendentemente dalla presenza di fattori di crescita. Un esempio di particolare importanza è rappresentato dalla superfamiglia dell oncogene RAS, che si trova al centro della catena proliferativa e che merita di essere descritto con qualche dettaglio perché sul blocco di questo oncogene nelle neoplasie si sta producendo un grande sforzo nell ambito della terapia molecolare dei tumori [16]. Tre membri della famiglia RAS e precisamente H-RAS, K-RAS e N-RAS possono essere perennemente attivati nelle neoplasie per mutazione o mediante altri meccanismi. Per essere attivato RAS deve essere posizionato in aderenza alla membrana cellulare e non disperso nel citoplasma, dove, invece, sono localizzate le molecole di RAS al momento della loro sintesi iniziale; l aggancio di RAS alla membrana avviene grazie all attività di una farnesil transferasi che trasferisce una apposita catena dal farnesilpirofosfato al residuo cisteinico di RAS in vicinanza del carbossile terminale; ciò ancora la molecola di RAS ai gruppi farnesilici della membrana cellulare. Va sottolineato che gli inibitori della farnesil transferasi bloccano questa catena di reazioni, così che RAS rimane disciolto nel citoplasma e pertanto inattivo. Purtroppo la farnesilizzazione, che è stata considerata un buon bersaglio per la terapia, non è l unico meccanismo che ancora RAS alla membrana. Per lo meno per talune forme di RAS entra in gioco anche una geranilgeranilizzazione che permette a RAS di sfuggire al blocco della farnesilizzazione. Oltre che dalla sua localizzazione all interno della cellula lo stato di attività di RAS dipende dal legame con la GTP, piuttosto che con la GDP. Tale legame è in relazione con la presenza di fattori di scambio nucleotidici guaninici (guanine nucleotide exchange factors GEF), mentre l idrolisi del nucleotide è determinato dalla attività di proteine attivanti la GTPasi (GTPase activating proteins GAP). L oncogene RAS è mutato in circa il 25% delle neoplasie nelle quali mantiene, indipendentemente dai fattori di crescita, la sua azione mitogenica. A valle di RAS la catena mitogenica comporta l attivazione di MEK, di ERK e delle MAP Kinasi (MAPK), le quali, a loro volta, si spostano nel nucleo dove modulano l espressione di numerosi geni responsabili della sintesi di proteine coinvolte nel ciclo mitotico. Di particolare importanza, anche per i riflessi terapeutici, è il ruolo delle protein-kinasi (PK) che svolgono un ruolo centrale nella trasduzione del segnale [17]. Nella cellula esistono numerosissime PK (fino a 550), oltre a un centinaio di fosfatasi, che regolano l attività delle kinasi. Si distinguono tre tipi di PK: quelle che hanno come substrato esclusivo la tirosina (TK), quelle che agiscono sulla serina e sulla 7

10 treonina e quelle che agiscono su tutti e tre i substrati. In particolare le TK si distinguono a loro volta in kinasi con un dominio extracellulare capace di legare il ligando (recettore) che vengono chiamate RTK ed altre senza recettore extracellulare (NRTK). Per il loro significato nella genesi delle neoplasie meritano particolare attenzione le RTK. L esempio più caratteristico è rappresentato dalla RTK ABL che viene costantemente attivata nella LMC. In questo caso l attivazione di RAS è dovuta ad una translocazione dei cromosomi 9 e 22 che comporta la formazione di un gene di fusione BCR/ABL che possiede una attività tirosinochinasica continua. Ciò comporta l invio di un costante segnale mitogenico a RAS, che lo trasmette alla catena MAPK già ricordata. In altre neoplasie, come in alcuni casi di tumori della mammella particolarmente aggressivi, il recettore tirosinchinasico HER/2 neu è iperespresso e determina una eccessiva stimolazione di RAS, mentre in altre neoplasie è il recettore di membrana per i fattori di crescita ad essere sovraespresso. Infine merita di essere ricordata la mutazione di pbraf, che si trova a valle di RAS nella catena che conduce alla stimolazione delle MAPK. Questa mutazione è presente in oltre il 60% dei melanomi. Come si vede la stimolazione di RAS, dovuta a meccanismi diversi, è presente in un gran numero di neoplasie e costituisce un ottimo bersaglio per interventi terapeutici mirati. Gli ammassi di cellule neoplastiche che si siano formati dopo la deviazione neoplastica non possono crescere al di là di pochi millimetri di diametro senza che si formino nuovi vasi in grado di fornire alle cellule tumorali un sufficiente nutrimento. Uno dei meccanismi generali che consentono la crescita delle neoplasie è quindi rappresentato dalla capacità delle cellule tumorali di produrre sostanze che stimolino la neoangiogenesi. Le modalità con cui questo fenomeno, denominato angiogenic switch, si verifica sono diverse a seconda del tipo di tumore, ma sono una manifestazione obbligatoria [18]. I vasi neoformati che sono molto diversi dai capillari normali, si devono ovviamente connettere con la circolazione già esistente per consentire l afflusso di sostanze nutritizie alla massa neoplastica. In effetti pressoché tutti i tumori solidi probabilmente grazie all impulso delle proteine mutate di RAS, sono in grado di produrre sostanze pro-angiogenetiche ed in particolare il fattore di crescita vasculo-endoteliale (VEGF, vascular endotelial growth factor) ed fattore di crescita dei fibroblasti (BFGF, basic fibroblast growth factor). Nel contempo vengono prodotte altre sostanze in grado di downregolare l espressione di proteine anti-angiogenetiche, quali la trombospondina I. Naturalmente quella esposta è una versione semplificata dei fenomeni pro-angiogenetici che si svolgono al livello della massa tumorale iniziale: ma può essere sufficiente a indicare l importanza del fenomeno nella genesi dei tumori. La neoplasia non è veramente pericolosa per la vita dell ammalato se non è in grado di dare metastasi [19]. La diffusione del tumore che mette in pericolo la vita dell ammalato, avviene infatti a distanza e le caratteristiche delle cellule in grado di lasciare la massa tumorale di partenza per localizzarsi in altri tessuti sono diverse da quelle del tumore di partenza. Si sta facendo strada l ipotesi che la massa neoplastica non sia formata da cellule monoclonali, come il dogma della tumorigenesi richiede, ma al contrario contenga cellule geneticamente diverse per alterazioni geniche successive. Solo alcune di queste cellule potrebbero essere in grado di dare metastasi e quindi costituire il principale nucleo della neoplasia. E evidente che un intervento terapeutico prima della formazione di queste cellule è fondamentale il controllo del tumore (vedi avanti).le caratteristiche biologiche delle cellule capaci di dare 8

11 metastasi non sono ancora del tutto conosciute, ma da alcune indagini sembra che le prime modificazioni riguardino la capacità di mobilizzazione attraverso la matrice extracellulare grazie all attività di GTPasi della famiglia RHO. Altre caratteristiche di queste cellule riguardano la loro capacità di migrare e sopravvivere nel torrente circolatorio e di riprodursi in un tessuto diverso. Perché si formi un tumore non è sufficiente che uno o due dei cinque meccanismi sopra indicati siano operativi. Abitualmente, salvo eccezioni riguardanti principalmente le neoplasie ematologiche ed in particolare le leucemie, è necessario che più anomalie (da 4 a 10) si sommino nel tempo (carcinogenesi a passi multipli, multiple step carcinogenesis). Questa modalità di insorgenza si osserva anche quando il soggetto è portatore di anomalie genetiche nelle cellule gonadiche. Anche in questo caso, dunque, l anomalia, come è stato sottolineato precedentemente, non basta a determinare l insorgenza del tumore, ma facilita più o meno grandemente l instabilità genomica e quindi la comparsa di anomalie aggiuntive. Va anche sottolineato, in generale, che l anomalia genica non è necessariamente frutto di una mutazione. Spesso anzi l inattività o l iperattività di un gene dipendono da sostanze stimolanti o inibenti che agiscono su geni importanti, come ad es. RAS; altre volte un intero cromosoma o una sua porzione sono alterati (delezione, translocazione, raddoppio); questi fenomeni hanno dato origine ad una estensione del concetto di aneuploidia che oggi si tende ad attribuire a tutte quelle situazioni nelle quali una parte o tutto un cromosoma sono in qualche modo alterati. Tutto ciò determina quella instabilità, più volte ricordata, dell intero genoma che favorisce l insorgenza di alterazioni specifiche proneoplastiche. Secondo alcuni Autori dunque alla base del cancro vi sarebbe una situazione caotica del patrimonio genetico che precede alterazioni specifiche. Questa opinione, che renderebbe più difficile un intervento terapeutico mirato, non è peraltro condivisa da tutti. Il problema non è di poco conto perché la moderna terapia del cancro mira ad intervenire a livello delle alterazioni geniche e non è ininfluente sapere se esistano una o più alterazioni fondamentali. Al momento attuale, comunque, sembra che, almeno in alcuni casi, sia sufficiente interrompere la catena delle anomalie agendo ad un qualsiasi livello per ottenere risultati terapeutici significativi. Diagnosi precoce dei tumori e del rischio di tumore. Non vi è alcun dubbio che un efficace controllo delle neoplasie passa per un precoce riconoscimento dell affezione. Una diagnosi eseguita quando la neoplasia è asportabile e non è ancora andata incontro alle alterazioni citologiche, che sono la premessa per una metastatizzazione, permette un efficace e definitiva terapia chirurgica, ma anche radiante o medica. Purtroppo, anche se sono stati realizzati notevoli progressi nella terapia delle neoplasie avanzate, il miglioramento della sopravvivenza è ancora molto scarso. Ancor oggi, dunque, per ottenere una più lunga sopravvivenza è necessaria una diagnosi estremamente precoce o, per evitare la malattia, un riconoscimento del rischio neoplastico insito nel genoma, nella biologia o nel comportamento di ciascun individuo. A questo scopo, negli ultimi anni, la ricerca si è indirizzata in due direzioni: la standardizzazione di procedure diagnostiche preventive per talune più frequenti neoplasie con metodologie tradizionali e la ricerca di mezzi diagnostici molecolari, basati sulle conoscenze patogenetiche che abbiamo in precedenza illustrato, al fine di individuare 9

12 modificazioni cellulari a livello del genoma o del proteoma. Questo approccio ha consentito di evidenziare la notevole eterogeneità genetica e proteomica di neoplasie apparentemente simili. L organizzazione sanitaria più capillare consente oggi tests di screening standardizzati, almeno nei paesi più sviluppati, per i seguenti tumori: 1) I tumori della cervice uterina. Non vale la pena di fornire dettagli su questo argomento ormai ben standardizzato da diversi decenni. IL PAP-test eseguito periodicamente è ormai una prassi molto diffusa nel nostro paese ed ha permesso di ridurre notevolmente, se non di annullare, la mortalità per questo tumore. 2) I tumori della mammella. Anche se non esiste una completa concordanza nei dettagli degli esami suggeriti, è però ormai da tutti accettato che la mammografia permette di individuare la neoplasia in uno stadio in genere suscettibile di intervento chirurgico. Non è questa la sede per entrare nei dettagli delle procedure suggerite dalle varie Associazioni Oncologiche internazionali. 3) I tumori del colon retto. Per questa affezione il suggerimento della maggior parte delle Associazioni Oncologiche è l esecuzione di una esplorazione rettale e di un esame delle feci per il sangue occulto a partire dal 50 anno di età. Alcuni aggiungono una valutazione endoscopica ogni due anni dell intero colon. 4) I tumori della prostata. L esame di screening considerato è una esplorazione rettale ed un dosaggio del PSA ogni anno a partire dal 50 anno di età. 5) I tumori della cute, compresi i melanomi: autocontrollo annuale della cute, con segnalazione al medico curante di qualsiasi variazione sospetta. 6) Più controverse sono le indicazioni per le altre neoplasie: in questa sede sembra opportuno valutare solamente le nuove tecniche, basate sulle più recenti conoscenze patogenetiche e sul progresso tecnologico. Le ricerche di screening di popolazione hanno un notevole limite nel costo, che talora impedisce una loro applicazione alla popolazione generale [20]. Altri limiti sono rappresentati dal fatto che non necessariamente un tumore piccolo è asportabile senza pericolo di metastasi. Anzi talora un piccolo tumore è notevolmente aggressivo per cui anche una sua evidenziazione precoce può non portare a grandi benefici nel sottogruppo di ammalati che sono portatori di un tumore aggressivo. Un tipico esempio di questa situazione è rappresentato dai tumori del seno nelle donne portatrici di BRCA 1 o 2; in questo caso la mammografia, anticipata al 40 anno di età, può mettere in evidenza un tumore che, per la sua aggressività, non è già più controllabile. In queste circostanze può essere utile ricorrere ad altri accertamenti diagnostici, per esempio la risonanza magnetica nucleare che può avere una maggiore sensibilità e specificità. Poiché però l esame è notevolmente costoso è impensabile utilizzarlo come screening della popolazione generale. Un altro limite è costituito dalla eterogeneità della neoplasia, che può contenere, accanto a cellule neoplastiche poco aggressive, altri elementi fortemente atipici ad alta attività metastatizzante. Si va facendo strada pertanto il concetto che sia più efficace, per una diagnosi precoce, stratificare la popolazione secondo fattori di rischio sulla base di parametri genetici, biologici o ambientali, individuati con altri mezzi rispetto a quelli usati per lo screening di popolazione. Si arriva così ad uno screening per il rischio, anziché per il cancro. Al momento attuale lo 10

13 screening per il rischio è basato sulla ricerca di: a) inusuale esposizione a carcinogeni ambientali; b) profilo ormonale ad alto rischio; c) predisposizione genetica; d) stili di vita pericolosi. Anche questo approccio non garantisce ovviamente risultati di alta sensibilità e specificità, soprattutto per il fatto che non siamo ancora attrezzati per individuare con precisione questi sottogruppi di soggetti. Le nuove metodiche biologiche e genetiche possono però fornire per lo meno una indicazione di percorso. Già da tempo reperti di laboratorio caratteristici erano stati utilizzati per la diagnosi di alcune affezioni neoplastiche. Tuttavia ad oggi i risultati non sono del tutto soddisfacenti. Perché un test possa essere considerato pratico ed efficace è necessario che possieda le seguenti caratteristiche: a) una notevole sensibilità e specificità nella distinzione fra soggetti sani ed ammalati; b) la possibilità di porre la diagnosi quando l affezione è ancora in fase iniziale; c) la capacità di differenziare fra forme aggressive e forme indolenti, che possono non richiedere terapia; d) un costo non troppo elevato per il servizio sanitario. Pochissimi esami possiedono tutte queste caratteristiche. Valgano ad esempio le seguenti osservazioni: la determinazione del PSA per la diagnosi precoce del carcinoma della prostata, che pure è uno dei tests più significativi ed importanti proposto negli ultimi anni, presenta rischi non piccoli di diagnosi esagerate, non potendo distinguere fra forme aggressive e indolenti e spesso anche fra lesioni infiammatorie e neoplastiche; il dosaggio del CA 125 nel tumore dell ovaio presenta un elevato tasso di falsi positivi che conducono alla chirurgia casi che potrebbero non essere trattati; tests elaborati per il tumore del polmone, come ad esempio la rilevazione della mutazione di p53, dell alterazione di p21, dell iperespressione di erb B 2 o delle mutazioni puntiformi di RAS, mostrano una sensibilità e specificità del tutto insoddisfacenti. In altre neoplasie il dosaggio di componenti del siero raggiunge invece una significativa, anche se non assoluta, accuratezza diagnostica: si pensi ad esempio al dosaggio delle immunoglobuline nella diagnosi di mieloma multiplo. Anche in questo caso, tuttavia, sono necessari altri parametri clinici o laboratoristici per differenziare il mieloma da altre affezioni non neoplastiche. Del tutto recentemente sono state introdotte nella diagnostica due nuovi approcci che potranno condurre, nel giro di qualche anno, a risultati molto significativi: l analisi della espressione genica e la proteomica. L analisi dell espressione genica consiste nella misurazione simultanea, tramite microarrays, dell espressione di migliaia di geni in ogni singolo tumore. In questo modo si può mettere in evidenza una situazione genica specifica per ciascuna neoplasia e arrivare, da una parte alla riclassificazione dei tumori su base molecolare, dall altra alla diagnosi precisa per ogni ammalato, che può riguardare anche l andamento clinico. Con le tecniche più recenti di serial analysis of gene expression (SAGE) tramite micro-arrays si può arrivare all analisi simultanea dell attività del DNA, della trascrizione nell RNA e della sintesi di proteine specifiche. E ovviamente necessario che tutte queste metodiche siano sottoposte a controlli molto rigorosi sia dal punto di vista della metodologia di analisi che da quello delle correlazioni cliniche [21]. La proteomica consiste nella caratterizzazione e nella quantificazione delle proteine elaborate dalle neoplasie a livello cellulare o anche a livello dei fluidi organici (siero, urine ecc.). Al momento attuale, con le tecnologie che abbiamo a disposizione, l analisi dei trascritti è più rapida e più comprensiva della proteomica; tuttavia importanti differenze fra le proteine elaborate dal tumore e dalle cellule normali 11

14 potrebbero essere individuate in futuro e fornire indicazioni relative, ad esempio, all angiogenesi o alle reazioni immunologiche collegate al tumore. Terapia delle neoplasie. La filosofia terapeutica dei tumori ha subito negli ultimi decenni profonde modificazioni di paradigma. Tuttavia, come abbiamo ripetutamente ricordato, non abbiamo raggiunto uno standard tale da consentire un significativo prolungamento della sopravvivenza nelle neoplasie avanzate. Questo fatto non fa meraviglia se si tiene conto della grande differenza biologica della cellula di un tumore in fase avanzata rispetto alla cellula normale. I risultati notevolmente migliori che sono stati raggiunti nelle prime fasi della malattia non dipendono soltanto da una maggiore possibilità di asportare chirurgicamente il tumore, ma anche da una minore distanza fra la cellula neoplastica e quella normale dal punto di vista funzionale. Questo consente una maggiore efficacia dei farmaci a nostra disposizione. Sul piano generale possiamo distinguere almeno sei fasi nella terapia antineoplastica, partendo dalla metà del secolo scorso. 1. La prima fase è stata puramente chirurgica. Laddove era tecnicamente possibile si procedeva all asportazione della massa neoplastica. 2. Nella seconda fase i risultati ottenuti con l intervento chirurgico sono stati consolidati con la radioterapia, che in un primo tempo veniva somministrata con finalità essenzialmente palliative. 3. In una terza fase hanno fatto la loro comparsa i farmaci chemioterapici. Anch essi furono dapprima usati solo a scopo palliativo. In talune forme peraltro i farmaci hanno dimostrato un attività insperata fino all induzione di remissioni complete e talora anche di guarigioni. Basti ricordare le leucemie infantili e talune neoplasie testicolari. 4. La quarta fase è stata caratterizzata dalle terapie combinate, chirurgiche, mediche e radioterapiche, Possiamo includere in questo paradigma le grandi sofisticazioni dei protocolli che sono stati via via proposti e l analisi dettagliata del meccanismo d azione dei farmaci. Lo scopo era quello di aggredire il tumore da diversi punti d attacco, sia riducendo la massa neoplastica prima dell intervento chirurgico (terapia neoadiuvante), sia utilizzando i farmaci per completare l asportazione chirurgica del tumore agendo sulle eventuali micrometastasi (terapia adiuvante), sia infine procedendo alla asportazione chirurgica di un eventuale tumore residuo (second look chirurgico). 5. Possiamo includere in una quinta fase l approccio che utilizza alte dosi di chemioterapici, associato al trapianto di cellule staminali come salvataggio dai danni indotti dalla chemioterapia sulle cellule normali proliferanti. Questo approccio, che è stato utilizzato specie nelle neoplasie ematologiche, è stato reso possibile dalla disponibilità di farmaci di induzione particolarmente efficaci, dalla possibilità di utilizzare fattori di crescita, dallo sviluppo notevole della terapia di supporto e soprattutto dalle tecniche di prelievo di cellule staminali dal midollo osseo dapprima e dal sangue periferico successivamente. 6. Dalla fine del secolo scorso e all inizio del terzo millennio l approccio terapeutico dei tumori si sta spostando da una aggressione indiscriminata di tutte le cellule proliferanti, normali o neoplastiche ad un tentativo molto più sofisticato di colpire esclusivamente le cellule neoplastiche e di personalizzare quanto più possibile la terapia basandosi sulla migliore conoscenza del singolo tumore da trattare. E 12

15 evidente che un approccio del genere dipende essenzialmente dal miglioramento delle nostre conoscenze patogenetiche e da una tecnologia molto avanzata che permette di colpire le cellule neoplastiche nei loro meccanismi molecolari alterati. Non è possibile qui riferire dei risultati attenuti con i primi quattro approcci, che costituiscono la storia della terapia antineoplastica ed anche una parte della sua realtà presente. E sufficiente accennare ai dati concreti e alle speranze che hanno suscitato gli ultimi due approcci. Il razionale che sta alla base della chemioterapia ad alte dosi è legato al rapporto che esiste fra dose del farmaco utilizzato e capacità di uccisione delle cellule proliferanti. Questo rapporto non è tuttavia assoluto per diversi ordini di motivi. Innanzi tutto molti farmaci sono attivamente trasportati all interno della cellula e l aumento efficace delle dosi ha un suo limite nella saturazione delle vie di trasporto dal mezzo extracellulare all interno della cellula. Le neoplasie solide inoltre sono costituite da cellule in diversa fase proliferativa: alcune di esse sono in fase G0 e pertanto non sono sensibili alla maggior parte dei farmaci utilizzati. Anche i farmaci che diffondono liberamente nelle cellule non sono in grado di eliminare tutte le cellule neoplastiche; infatti pur proseguendo la terapia in modo tale da reclutare in ciclo cellule inizialmente in G0 colpendole con la chemioterapia al momento del loro passaggio in fase G1 o successive, urta contro la tossicità non tollerabile verso le cellule normali. Non fa meraviglia quindi che le terapie ad alte dosi seguite da trapianto di cellule staminali abbiano riscosso successo specie nelle neoplasie ematologiche o in quelle neoplasie solide con frazione in crescita molto elevata. In ogni caso uno dei maggiori limiti di questo tipo di approccio è la sua relativa aspecificità e di conseguenza la tossicità molto elevata verso tessuti normali con cellule in proliferazione. Le speranze per il futuro e l orientamento della ricerca oggi sono orientate a personalizzare il più possibile le terapie, risparmiando le cellule normali. A.Farmaci e sostanze attive a livello della superfamiglia di RAS [22, 23]. 1. Farmaci inibitori della farnesil-transferasi (FTI). Numerose case farmaceutiche sono impegnate a produrre molecole di questo tipo, che assai spesso sono attive su culture cellulari, ma non sono in grado di condurre a significativi risultati in clinica. E verosimile che questa mancanza di attività in vivo dipenda, almeno in parte, dalla capacità di alcune forme di RAS di utilizzare la geranilgeranillizzazione in sostituzione alla farnesilizzazione per l ancoraggio alla membrana. Nonostante queste limitazioni, i FTI sono stati utilizzati, con moderato successo, in alcune forme di leucemia (in particolare la Leucemia mieloide cronica e la leucemia acuta promielocitica). 2. Nucleotidi antisenso per bloccare le proteine di RAS e di RAF. Numerosi composti sono stati elaborati e due di essi, uno attivo contro RAS e l altro contro RAF sono giunti alla fase 2 nella sperimentazione. E troppo presto per trarre conclusioni definitive sull efficacia di queste molecole. 3. Inibitori delle chinasi della catena di RAS. Sono prodotti ormai ampiamente utilizzati in clinica. In particolare va ricordato l imatinib che inibisce la tirosinchinasi BCR/ABL nella leucemia mieloide cronica (LMC) ed in alcuni tumori stromali dello stomaco. Questo farmaco ha cambiato la storia naturale della LMC ed è divenuto il farmaco di prima scelta in questa malattia. Si discute ormai se nella LMC sia ancora indicato il trapianto allogenico che fino ad ieri aveva costituito la pietra miliare nel suo trattamento. L imatinib è di particolare importanza perché dimostra in modo inequivocabile che, se si 13

16 riesce ad individuare il punto preciso d attacco e se si trova il farmaco giusto, la terapia molecolare dei tumori è la strada vincente. Altri farmaci che bloccano le chinasi attive nella catena a valle di RAS sono entrate nella fase di sperimentazione clinica, ma non hanno raggiunto la specificità e l efficacia dell imatinib. Nei tumori che iperesprimono il recettore per l EGF (EGFR) è possibile intervenire con piccole molecole inibitorie, la cui efficacia non è ancora stata compiutamente dimostrata. 4. Interazione fra oncogeni e p53. Interessanti prospettive sono state suggerite dal tentativo di bloccare l attività dell oncogene MDM2 che mantiene p53 allo stato inattivo. Anche se ancora non ci sono applicazioni clinica di questo approccio, esso è tuttavia molto interessante e promettente. P53, non più inibita da MDM2 potrebbe infatti esplicare di nuovo la sua attività pro-apoptotica [24]. 5. Anticorpi monoclonali umanizzati. Fra questi composti sono di particolare rilievo quelli capaci di bloccare il recettore extracellulare di RAS in alcune neoplasie (Linfomi, Mammella). Bersaglio specifico è il recettore per l EGF. Sono state elaborate numerose molecole (Erceptin, Cetuximab ecc) che costituiscono oggi un armamentario molto importante nella terapia di quei tumori della mammella che iperesprimono ERB B e di quelle malattie linfoproliferative che esprimono l antigene CD 20. Il limite di questi farmaci è rappresentato dal costo notevolmente elevato, specie a paragone delle piccole molecole inibitrici. Siamo comunque in una fase di ricerca estremamente stimolante, che promette un nuovo orientamento terapeutico assai interessante. B. Terapia differenziativa. In questo settore l esempio più importante, anche perché è stato uno dei primi, è l uso dell acido retinoico (AR) nella terapia della Leucemia Acuta Promielocitica [25-28]. L introduzione di questa sostanza ha radicalmente cambiato la prognosi della malattia che ora viene considerata guaribile almeno nell 80% dei casi. L AR agisce sbloccando la differenziazione, ripristinando una normale apoptosi delle cellule leucemiche e interferendo in senso negativo sulla loro proliferazione. Queste attività sono mediate da un azione assai complessa dell AR a livello della proteina di fusione che si forma a seguito della traslocazione 15/17 e alla conseguente formazione del gene PML/RAR alfa. Analoghi tentativi sono in fase di elaborazione con altri farmaci differenziativi in alcuni tipi di Leucemia Acuta Mieloblastica (LAM) [29]. La terapia differenziativa è stata studiata anche in altre neoplasie solide, ma i risultati non sono, fino a questo momento, significativi. C. Immunoterapia attiva delle neoplasie [30]. L approccio non è nuovo, ma è stato rilanciato da studi recenti. Il punto di partenza è rappresentato dalla nozione che ogni tumore è antigenico, anche se scarsamente immunogenico. Il tentativo è la somministrazione di un vaccino sotto forma di un antigene in una formulazione che ne migliori la presentazione al sistema immune, stimolando così meccanismi effettori che possano portare al rigetto del tumore. La procedura che viene messa in atto nei principali laboratori consiste nel prelievo di un campione bioptico di neoplasie con uno specifico assetto HLA, nell isolamento di peptidi, nella somministrazione all ammalato di questi peptidi associati ad opportuni adiuvanti. Fino a questo momento le principali indagini sono state condotte sui melanomi, ma sono in corso protocolli di ricerca nei tumori del polmone non a piccole cellule sia in fase avanzata che adiuvante e nel tumore della mammella con iperespressione di HER2 in fase adiuvante. 14

17 di popolazione e Registro tumori. La sopravvivenza di popolazione è un indicatore complessivo della qualità dell assistenza oncologica ed è misurata a partire da tutti i casi di tumore insorti in una data popolazione, di solito rilevati da un Registro tumori. La sopravvivenza di popolazione può essere utilizzata per confrontare aree geografiche, sorvegliare trend temporali e per la valutazione degli interventi nelle condizioni di attività del servizio sanitario. Questo contesto applicativo, se da un lato appare particolarmente utile per le prospettive di valutazione dei servizi sanitari, dall altro pone grosse difficoltà interpretative perché numerosi sono i fattori che possono influire sul tempo di sopravvivenza (tabella A) [31, 32]. Tra i numerosi determinanti del tempo di sopravvivenza alcuni rappresentano solo errori di misura o variabili di disturbo, altri invece costituiscono fattori in grado di determinare reali differenze di sopravvivenza e che possono essere modificati in modo da migliorare il valore dell indicatore [31]. Il disegno dello studio e le convenzioni adottate possono influenzare i valori di sopravvivenza e rendere difficoltoso il confronto tra i tassi. Verosimilmente questi fattori metodologici non hanno grande rilievo quando la sopravvivenza è calcolata nel contesto dei registri tumori di popolazione che hanno sviluppato regole uniformi e raggiunto un elevato grado di standardizzazione delle procedure [33-35]. Tuttavia alcune differenze tra registri possono sussistere e altre essere conseguenza della difformità tra le fonti (archivi sanitari) sulle quali i registri stessi si basano. Dati di sopravvivenza di popolazione ottenuti da indagini ad hoc possono essere diversi rispetto a quelli ottenuti in aree dove la rilevazione continua dei casi è assicurata da un registro tumori. In particolare i dati forniti dal registro potrebbero essere più completi in ragione del maggior numero di fonti acquisite. Più importante appare, invece, l effetto del mutamento dell accuratezza delle fonti dei dati. Ad esempio nel corso dell ultimo decennio si è osservata una netta riduzione dei casi di tumori dell utero ad origine imprecisata. In Umbria, in un indagine ad hoc relativa al quinquennio , erano stati registrati 65 casi di tumore dell utero non meglio definiti, mentre i casi incidenti nel , forniti dal Registro Tumori Umbro di Popolazione, sono stati solo 12 [34-35]. Questi casi, avendo una sopravvivenza inferiore (sopravvivenza osservata a 5 anni 3, relativa 0.52) rispetto a corpo dell utero (sopravvivenza osservata 9, relativa 0.79) e cervice (sopravvivenza osservata 0.58, relativa 4) hanno verosimilmente determinato nel una qualche sovrastima della sopravvivenza osservata per le sedi specificate. Le differenze esistenti tra registri tumori nella definizione della data di prima diagnosi (alcuni adottano la data della prima diagnosi istologica, altri quella del primo ricovero) non sono in grado di distorcere in misura rilevante il tasso di sopravvivenza [31]. Egualmente, l esclusione dei casi noti dalla sola certificazione di causa di morte (DCO) non influisce sensibilmente sul tasso di sopravvivenza, purché la proporzione sia contenuta al di sotto del 5% [31]. I casi DCO sono esclusi dal calcolo della sopravvivenza in quanto hanno data di diagnosi ignota e quindi tempo di sopravvivenza indefinito. L esclusione dei DCO introduce un bias di selezione a causa della maggior frequenza nelle classi d età più anziane e perché i casi con evoluzione rapidamente fatale hanno maggiore probabilità di sfuggire alla registrazione dando luogo a casi DCO. Quest ultima caratteristica spiega perché l esclusione dei DCO causa generalmente una sovrastima della sopravvivenza. 15

18 Tabella A. Fattori in grado di influenzare la sopravvivenza di popolazione. 1. DISEGNO DELLO STUDIO Adozione di convenzioni diverse (diversa definizione della data di prima diagnosi; diversa definizione di caso) Diversa completezza della registrazione. (diversa percentuale di casi DCO* esclusi dall analisi; diverso metodo di follow-up passivo/attivo) Adozione di metodi di calcolo diversi 2. FATTORI INDIPENDENTI DALLA PATOLOGIA IN STUDIO Esposizione della popolazione dei casi ad una più elevata mortalità per cause diverse dalla patologia in studio. 3. FATTORI CHE AGISCONO PRIMA DELLA DIAGNOSI E CURA. Diversa esposizione a fattori di rischio associati a tumori con prognosi peggiore (diversa distribuzione per sottosedi o tipi istologici o grado di differenziazione determinata da fattori di rischio) Presentazione dei casi ad uno stadio più avanzato (diversa possibilità di accesso alle cure per fattori economici, per la distanza dai centri diagnostico terapeutici, per insufficiente disponibilità di strutture sanitarie; mancata introduzione di uno screening di popolazione o diffusione di procedure in grado di rivelare la malattia in fase precoce; differenze culturali che condizionano la frequenza e tempestività di accesso al servizio sanitario) 4. FATTORI DIPENDENTI DAL SERVIZIO SANITARIO Diverso servizio di diagnosi e terapia (mancata introduzione di protocolli efficaci; risorse limitate) Diversa organizzazione del servizio sanitario (insufficiente disponibilità di centri specializzati; trattamento in strutture non appropriate; carenza dell assistenza territoriale) *DCO (Death Certificate Only) sono i casi noti dal solo certificato di morte per i quali il tempo di sopravvivenza è indefinito, essendo ignota la data di prima diagnosi. La definizione dei criteri di inclusione dei casi può influire sulla sopravvivenza. Particolare attenzione deve essere posta al trattamento di tumori per i quali è difficile stabilire la malignità, come i tumori microinvasivi della mammella, i tumori a malignità borderline dell ovaio, i tumori a cellule transizionali della vescica e altri [36]. Un altra fonte possibile di distorsione è legata alla modalità di follow-up dei casi, cioè all accertamento periodico dello stato in vita. Registri con follow-up esclusivamente passivo, che controllano lo stato in vita basandosi unicamente sui certificati di morte, possono classificare erroneamente una frazione di casi come osservazioni incomplete e sovrastimare il tasso di sopravvivenza [31-32]. La modalità attiva di accertamento dello stato in vita, che prevede la ricerca di informazioni per ogni caso, ad esempio presso le anagrafi municipali, offre maggiori garanzie di accuratezza. Particolare attenzione bisogna porre al ruolo che la mortalità per cause diverse dalla malattia in studio riveste quale determinante della sopravvivenza di popolazione [31-32]. Per eliminare l effetto di questo fattore di disturbo è stata sviluppata nell ambito dei registri tumori una metodologia specifica, diversa da quella diffusa negli studi clinici. Il confronto tra i tassi di sopravvivenza per una neoplasia maligna osservati in luoghi o tempi diversi può risultare poco informativo se non si tiene conto della forza di mortalità per cause diverse dalla malattia in studio [37]. Un individuo ammalato di cancro rimane a rischio di morte per altre patologie. Il rischio di morte per cause competitive è particolarmente rilevante nel caso di età con elevato rischio di morte (ad esempio anziani) e di tumori a lunga sopravvivenza (ad esempio cancro della mammella). In ambito clinico, per stimare la quantità ipotetica definita sopravvivenza netta, quella sopravvivenza al tempo t che osserveremmo se la coorte fosse sottoposta alla sola mortalità per la 16

19 malattia in studio, si ricorre di frequente al calcolo della sopravvivenza causa-specifica: le osservazioni che si concludono con un decesso attribuito a cause competitive sono considerate alla stregua di osservazioni incomplete, come quelle che si concludono con l uscita del soggetto dallo studio quando è ancora in vita (osservazione censurata) [38]. Negli studi di popolazione per stimare la sopravvivenza netta si ricorre assai più frequentemente al calcolo della sopravvivenza relativa, un metodo di correzione matematica che serve a stimare la proporzione di casi che sarebbe sopravvissuta almeno fino al tempo t se l unica causa di morte fosse stata la malattia in studio [39]. Due ragioni di questa scelta sono la mancanza di informazioni sufficientemente accurate sulla causa di morte per tutti i registri tumori e la difficoltà di attribuire i decessi ad una causa piuttosto che ad un altra [38-39]. Il tasso di sopravvivenza relativa cumulata è il rapporto tra la sopravvivenza osservata ed una sopravvivenza attesa al tempo t dalla diagnosi [40]: Srel(t)=Sobs(t)/Sexp(t). Per stimare la sopravvivenza attesa, Sexp, si ricorre comunemente alla tavola di sopravvivenza dell intera popolazione. Questa misura esprime l eccesso di mortalità dovuto alla malattia rispetto alla popolazione generale, evitando il problema dell attribuzione della causa di morte (ad esempio decessi attribuiti al trattamento, suicidio in pazienti terminali). Il fatto che la misura sia uno stimatore della sopravvivenza netta al tempo t dipende dall assunto di indipendenza tra la mortalità per la causa in studio e le altre cause di morte [41-42]. Ad esempio se studiamo la sopravvivenza di pazienti affetti da tumore della laringe, il confronto con la sopravvivenza attesa ricavata dalla popolazione generale misurerà l eccesso di mortalità non solo dovuto alla malattia ma anche ad altre cause di morte associate al fumo di tabacco e la sopravvivenza relativa sottostimerà la sopravvivenza netta. Una tavola di sopravvivenza per fumatori avrebbe fornito un gruppo di confronto migliore per stimare l eccesso di mortalità dovuto al solo cancro della laringe. Diversi metodi sono stati proposti per il calcolo della sopravvivenza relativa. Il più semplice, detto Ederer I, ricava la probabilità di sopravvivenza al tempo t per ogni individuo presente nella coorte all inizio dello studio dalla tavola di sopravvivenza della popolazione [40]. La somma delle probabilità di sopravvivenza fornisce il numero di sopravviventi attesi al tempo t dalla diagnosi. Quest ultima quantità viene divisa per la dimensione iniziale della coorte per ottenere la sopravvivenza attesa, Sexp(t). Questa procedura risente dell eterogeneità della distribuzione delle covariate che influiscono sulla sopravvivenza nella coorte in studio e dei cambiamenti che si verificano in tale distribuzione via via che la coorte si assottiglia in seguito ai decessi per la malattie e per altre cause [41]. Ad esempio, per l età alla diagnosi, la sopravvivenza relativa stimata con questo metodo è una media ponderata della sopravvivenza relativa, con pesi proporzionali al numero atteso di sopravvissuti al tempo t in base alla tavola di sopravvivenza della popolazione. Quindi considerando tempi di osservazione progressivamente più lunghi la stima rispecchia progressivamente la sopravvivenza relativa del gruppo con la speranza di vita più elevata. Il fatto che per diversi tumori maligni l età abbia un valore prognostico indipendente, cioè la sopravvivenza è migliore per tumori insorti in giovane età, rende ragione dell osservazione comune di sopravvivenze relative maggiori di 1, inizialmente attribuite ad una sopravvivenza migliore rispetto alla popolazione generale per gli 17

20 individui guariti dal cancro. Altri metodi per il calcolo della sopravvivenza relativa sono stati proposti dallo stesso Ederer, da Hakulinen e da Estève [38,43-46]. Il calcolo della sopravvivenza relativa, tuttavia, non ci esime dal tener conto della distribuzione per età dei casi nelle popolazioni a confronto, ad esempio ricorrendo alla standardizzazione diretta [38]. Se infatti calcolando la sopravvivenza relativa eliminiamo l effetto delle cause di morte diverse dalla malattia in studio la nostra stima della sopravvivenza netta può ancora dipendere dalla distribuzione per età delle popolazioni a confronto quando l età ha valore di fattore prognostico indipendente dalle cause competitive e, in effetti, vi sono evidenze che l età abbia rilievo prognostico per questo tumore [47-48]. Altri fattori sono in grado di influenzare la prognosi dei casi al momento della diagnosi. Questo gruppo eterogeneo include determinanti della sopravvivenza osservata come l azione di particolari fattori di rischio, l accessibilità da parte dell intera popolazione ai servizi di diagnosi e cura o l introduzione di uno screening di popolazione di efficacia dimostrata. Alcuni dei precedenti fattori possono essere modificati al fine di migliorare il controllo della patologia. In alcuni casi particolari è la distribuzione di fattori di rischio per la malattia che condiziona anche la prognosi. Un esempio frequentemente riportato a questo proposito riguarda i tumori maligni della testa e del collo. La sopravvivenza più bassa osservata in alcuni registri francesi rispetto ad altri registri europei è stata associata al maggior consumo di alcool che, a sua volta, determina una maggior frequenza di tumori in sottosedi a prognosi sfavorevole, come l ipofaringe [49]. L osservazione di un aumento della sopravvivenza in seguito all introduzione di uno screening è condizione necessaria ma affatto sufficiente per la dimostrazione di efficacia dello screening. Infatti un aumento della sopravvivenza può risultare dalla sola componente di anticipazione del tempo di diagnosi, senza che la diagnosi precoce si traduca in un mutamento del corso della malattia. Screening che si basano sulla rimozione di lesioni premaligne, come quello per la prevenzione del cancro della cervice uterina, possono avere effetti più complessi sulla sopravvivenza di popolazione. In Umbria, per esempio, lo screening di popolazione per il cancro della cervice uterina è stato introdotto solo di recente (1998), ma il test di Papanicolau è stato offerto gratuitamente fin dagli anni 80. E probabile che questa attività di diagnosi precoce, rimuovendo lesioni premaligne prima della comparsa di infiltrazione, abbia contribuito alla sensibile riduzione dell incidenza registrata tra (11.6 per 1000 abitanti) e (7.2 per 1000 abitanti). L attività di diagnosi precoce è testimoniata dalla rilevazione da parte del registro tumori di 292 casi di neoplasia cervicale intraepiteliale (CIN) di grado II e III negli anni La sopravvivenza registrata nel (sopravvivenza osservata a 5 anni 0.58, sopravvivenza relativa 4) potrebbe essere molto influenzata dai casi a prognosi peggiore, insorti in donne che non hanno effettuato test per la diagnosi precoce. Un trend simile, con tassi di sopravvivenza stabili o in lieve miglioramento, è stato riportato anche da altri registri europei caratterizzata dalla stessa diffusione del pap-test al di fuori di programmi organizzati di screening [47]. Riuscire a distinguere l effetto dell anticipazione diagnostica dal miglior successo terapeutico conseguente all intervento curativo precoce richiede un analisi della sopravvivenza per stadio della malattia [31]. Quest analisi, tuttavia, come tutte le analisi che implicano lo stadio della malattia alla 18

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