DIRITTO PRIVATO I PROF. ROBERTO CARLEO

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1 DIRITTO PRIVATO I PROF. ROBERTO CARLEO 1

2 CASO 1: ANATOCISMO BANCARIO E USI CASO 2: ABUSO DEL DIRITTO CASO 3: SULLA LEGITTIMITÀ DELL ART C.C. 2

3 ANATOCISMO BANCARIO E USI Cass. Sez. Unite, n

4 In tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 76 Cost., l'art. 25, comma 3, D.Lgs. n. 342 del 1999, il quale aveva fatto salva la validità e l'efficacia - fino all'entrata in vigore della delibera Cicr di cui al comma 2 del medesimo art delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'art c.c., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest'ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico ("opinio iuris ac necessitatis"); infatti, va escluso che detto requisito sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell'esistenza del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l'esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione "medio tempore" di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l'avrebbero creata. 4

5 ABUSO DEL DIRITTO Cass. Civile, sez. III, 18/09/2009 n

6 Qualora un contratto preveda il diritto di recesso "ad nutum" in favore di una delle parti, il giudice del merito non può esimersi, per il semplice fatto che i contraenti hanno previsto espressamente quella clausola in virtù della loro libertà e autonomia contrattuale, dal valutare se l'esercizio di tale facoltà sia stato effettuato nel pieno rispetto delle regole di correttezza e di buona fede cui deve improntarsi il comportamento delle parti del contratto. La mancanza della buona fede in senso oggettivo, espressamente richiesta dagli art e 1375 c.c. nella formazione e nell'esecuzione del contratto, può rivelare, infatti, un abuso del diritto, pure contrattualmente stabilito, ossia un esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito. Conseguenzialmente, accertato l'abuso, può sorgere il diritto al risarcimento dei danni subiti. Tale sindacato, da parte del giudice di merito, deve pertanto essere esercitato in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale la quale, relativamente al contratto di concessione di vendita intercorrente tra una nota casa automobilistica e i suoi numerosi concessionari, aveva erroneamente ritenuto che l'espressa previsione contrattuale del recesso "ad nutum" in favore della casa automobilistica non potesse consentire al giudicante nessun sindacato sull'esercizio di tale facoltà, non essendo necessario alcun controllo causale circa l'esercizio di un potere che rientrava nella libertà di scelta dell'operatore economico in un libero mercato). 6

7 ABUSO DEL DIRITTO Cass. Civile, sez. III, 31/05/2010, n

8 In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase; pertanto, l'apprezzamento della slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per inadempimento si ripercuote sulla valutazione della gravità dell'inadempimento stesso, nel caso in cui tale soggetto abusi del suo diritto potendo comunque realizzare il suo interesse senza ricorrere al mezzo estremo dell'ablazione del vincolo. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato risolto per morosità un contratto di locazione, senza tener conto che il locatore avrebbe potuto compensare il suo credito con il maggior debito esistente nei confronti del conduttore). 8

9 SULLA LEGITTIMITÀ DELL ART.1385 C.C. Corte Costituzionale, 24/10/2013, n. 248 Corte Costituzionale, 2/04/2014, n. 77 9

10 È manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione, sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza, la q.l.c. dell'art. 1385, comma 2, c.c., censurato, in riferimento all'art. 3, comma 2, cost., "nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi in cui se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra - il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove [...] sussistano giustificati motivi". 10

11 È manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, la q.l.c. dell'art. 1385, comma 2, c.c., censurato, in riferimento all'art. 3 cost., nella parte in cui, nel disciplinare la caparra confirmatoria, non prevede che in caso di inadempimento il giudice possa ridurre equamente la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o qualora sussistano giustificati motivi. Questione identica, infatti, è già stata dichiarata manifestamente inammissibile con sentenza n. 248 del 2013 per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza, in quanto il rimettente aveva omesso di considerare che nel recesso disciplinato dall'art c.c. a venire in rilievo è un inadempimento gravemente colpevole, cioè imputabile (ex art e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art c.c.) ed aveva trascurato di indagare la reale portata dei patti conclusi nella specie dalle parti contrattuali, non tenendo conto dei margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte (sent. n. 248 del 2013). 11

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