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1 Rivista Il Fisioterapista Perché pensare a una Slow Medicine? Silvana Quadrino psicologa, psicoterapeuta, cofondatrice di Slow Medicine Curioso destino, quello della parola slow. In un linguaggio internazionale sempre più anglicizzato (solo i francesi eroicamente resistono, ma cominciano a dare i primi segni di cedimento) questa parola si è affermata, a partire dalla fine degli anni 70, con un significato assai lontano da quello stabilito dal dizionario. Colpa (merito) di Slow Food, che con un intuizione geniale contrappose al dominante Fast food qualcosa che non esisteva ancora: lo Slow Food. Che nulla aveva a che fare con la lentezza cronologica, ma evocava già quella preziosa lentezza mentale di cui molto più tardi avrebbe scritto Daniel Kahneman 1. Per Kahneman, come per Slow Food, è fast tutto ciò che procede in modo veloce, istintivo, ma proprio per questo facilmente influenzabile e poco riflessivo. Slow, al contrario, è la parola della riflessività, del pensiero apparentemente meno efficace e brillante, ma capace di proteggerci dai rischi delle false scelte e delle decisioni poco consapevoli. E fast un modo di alimentarsi che non riflette sulla provenienza di ciò che si mangia, sui suoi contenuti e sulle possibili nocività, sui costi umani e ambientali che ha richiesto; un modo che ha smarrito la capacità di differenziare i gusti, di riconoscere ciò che è buono da ciò che, semplicemente, mangiano tutti. Trasportato due anni fa nel mondo della medicina, il termine Slow non ha mancato di produrre qualche ironia: più slow di così? Liste di attesa più slow, interventi di emergenza più slow scherziamo? Ma bisogna invece partire da cosa Slow Medicine considera Fast. Cominciando dal decalogo che Antonio Bonaldi, Presidente di SM, ha messo alla base del pensiero slow in medicina (figura 1) Ha scritto Giorgio Bert, un altro dei fondatori di Slow Medicine: 2 Il medico slow non confonde la fretta (spesso necessaria) con la frettolosità, la tecnologia con la scienza, la iperprescrizione di farmaci meglio se di ultima generazione con la competenza. Il medico slow sa che l ascolto non è (solo) un problema di buona educazione ma la base di una valida relazione terapeutica. Il medico slow sa che esistono aspetti importanti, forse i più importanti, del benessere che non possono esse valutati su base epidemiologica statistica ma non possono tuttavia essere ignorati o scaricati su altri professionisti. 1 Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori G. Bert, Slow Medicine non vuol dire medicina lenta, rivista PSICOGERIATRIA Anno VIII - Numero 1 - Gennaio - Aprile 2013 pag. 27

2 Il medico slow insomma, al di là della competenza clinica (obbligatoria!), recupera quel che era stato il suo specifico per secoli: la dimensione della cura, che non coincide con la terapia ma tiene conto della persona nella sua interezza e in quanto elemento di sistemi, a cominciare da quello familiare Figura 1 Recentemente, suscitando non poche reazioni, il BMJ ha pubblicato un editoriale dal titolo provocatorio: Let the patient revolution begin 3. Rivoluzione intesa non come azione violenta contro qualcuno ( i medici??) ma piuttosto come cambiamento profondo. E in effetti proporre una modalità slow, nell alimentazione prima, come è stato per Slow Food, nella cura ora, con Slow Medicine, significa innanzitutto proclamare che un cambiamento è possibile, e urgente. Non è casuale che il termine slow sia entrato nel mondo della medicina a partire da contesti diversi, ma sempre come risposta all esigenza di cambiare qualcosa che stava stravolgendo la realtà della cura, avviando una sorta di corsa in continua accelerazione nella direzione del fare di più. Ha parlato per primo di una Slow Medicine Alberto Dolara, primario di cardiologia all Ospedale Careggi di Firenze, nel Alberto Dolara, Invitation to "slow medicine", Ital Heart J Suppl 3:

3 Ne ha parlato, a partire dall interventismo esasperato nelle cure dei vecchi, Dennis McCullogh, medico di medicina generale e geriatra nel Nello stesso anno Roberto Satolli, medico e giornalista, scriveva sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo Cresce il bisogno di una Slow Medicine Un vigoroso uomo di 80 anni scopre di avere un cancro alla prostata. Il chirurgo lo vorrebbe operare subito, ma lui prende tempo, si consulta e alla fine decide per una cura ormonale, che non promette di eliminare su due piedi il malanno, ma non comporta i rischi immediati e lo stress dell' intervento chirurgico. Per scelte di questo genere, che si fanno tutti i giorni, è stato lanciato ora il termine azzeccato di "slow medicine", che mette bene a fuoco come si tratti di una diversa filosofia di cura, non di rinuncia. E concludeva Chissà che parlare di "slow medicine" non sia la giusta maniera per farci riflettere sul modo migliore di affrontare consapevolmente le scelte di salute, a tutte le età della vita. Nel dicembre 2012, a meno di due anni dalla fondazione di Slow Medicine, Richard Smith, già direttore del British Medical Journal, scriveva: ho pochi dubbi che la slow medicine, così come lo slow food e lo slow lovemaking, sia il miglior tipo di medicina per il 21 secolo! 6 Il cambiamento necessario, indispensabile e non rinviabile di cui parlava Dolara e di cui parla Richard Smith si incrocia con quella rivoluzione dei pazienti a cui allude l editoriale del BMJ: non coincide con una sterile e generalizzata critica alla medicina scientifica e tecnologica, quella che dovrebbe essere umanizzata quasi che utilizzare le tecnologie e i progressi scientifici dovesse portare a una sorta di inumanità. Consiste invece in un cambiamento di atteggiamento mentale, che deve coinvolgere allo stesso modo professionisti sanitari e malati, cittadini e manager, giornalisti e ricercatori. Sono essenzialmente due gli elementi che possono attivare questo cambiamento; il primo è il recupero di quello che Gianfranco Domenighetti definisce un sano scetticismo nei confronti della medicina: basato 5 Dennis McCullough,My Mother, Your Mother, Harper Richard Smith: The case for slow medicine, 17 Dec, 12 by BMJ Group, smith- the- case- for- slow- medicine/

4 sulla convinzione che la medicina è ben lungi dall'essere una scienza esatta, e che pretendere una infallibilità che coincide con la certezza di non morire e di guarire completamente da ogni tipo di male è irrealistico e pericoloso innanzitutto per il malato. Il secondo cambiamento, collegato strettamente al primo, è l assunzione da parte di tutti i protagonisti della realtà della cura del principio che fare di più non significa fare meglio. La corsa al fare di più rappresenta il maggiore segnale di pericolo e di disfunzionalità dell attuale sistema della cura: figlia dell entusiasmo tecnologico- scientifico degli ultimi 50 anni, la richiesta di pazienti e familiari di pazienti di avere il massimo di trattamenti, di farmaci, di innovazione è una delle componenti principali del fenomeno noto come medicina difensiva: farmaci, esami, trattamenti vengono prescritti non sulla base di una effettiva necessità ma per proteggersi dalla possibile accusa di non avere fatto tutto il possibile ; convalidando così la convinzione dei cittadini che solo se si insiste si ottiene ciò che si vuole, e che se alla fine si ottiene significa che ciò che si chiedeva era buono e giusto. Di questa pericolosa distorsione del percorso diagnostico- terapeutico parla un libro recente, When doctors don t listen 7 : la medicina difensiva e la pressione sociale nei confronti dell errore medico, visto sempre e comunque come una negligenza o una violazione del diritto del paziente ad avere tutto il possibile porta i professionisti a scelte orientate prevalentemente al d escludere quello che Wen e Kosowsky definiscono lo scenario peggiore. E qui il cerchio si chiude e si trasforma in circolo vizioso: i professionisti aumentano le richieste di esami e interventi anche quando lo scenario peggiore è improbabile, o potrebbe essere escluso semplicemente ascoltando un po di più il paziente e la sua descrizione dei sintomi; i cittadini imparano a giudicare il valore di un professionista o di una struttura sulla base della quantità di prestazioni e interventi che sono stati loro offerti, invece che sulla qualità della relazione di cura, qualità che dovrebbe anche comprendere la protezione del paziente da esami, farmaci e interventi non necessari, e la condivisione con lui delle informazioni sui possibili rischi ed effetti negativi di farmaci, esami, interventi. Slow Medicine scommette sulla possibilità di spezzare questo circolo vizioso, per riportare la relazione di cura alla sua dignità di intervento basato sulla scienza e coscienza del professionista, ma declinato all interno di una relazione di ascolto e di condivisione attiva delle proposte e delle scelte con il malato e con la sua famiglia. La via che abbiamo scelto, oltre alla diffusione e alla trasposizione all interno dei diversi ambiti della cura del nostro Manifesto ( fig. 2), è l attivazione del progetto Fare di più non significa fare meglio, che in analogia con l iniziativa Choosing Wisely 8 già in atto negli Stati Uniti, attraverso il coinvolgimento diretto dei professionisti sanitari e con la partecipazione attiva dei pazienti si propone di migliorare la qualità e la 7 Leana Wen, Joshua Kosowsky, When doctors don t listen, ST Martin s Press

5 sicurezza delle cure evitando le prestazioni di uso corrente che vengono prescritte in modo inappropriato o non sono supportate da valide prove di efficacia. 9 A questo scopo, come già avvenuto negli Stati Uniti, ognuna della Società Scientifiche e delle Associazioni professionali che hanno aderito e aderiranno al progetto individuerà una lista di 5 test diagnostici o trattamenti di uso corrente nella pratica clinica che possono procurare più danni che benefici alla salute dei pazienti, e che i professionisti che aderiscono al progetto si impegneranno a non prescrivere e a non consigliare ai loro pazienti. Elemento essenziale del progetto di Slow Medicine sarà l attenzione alle modalità con cui i diversi professionisti sanitari coinvolgeranno i pazienti e i familiari nelle scelte basate sulla riduzione degli eccessi inutili, sulla consapevolezza dei rischi di trattamenti eccessivi e inappropriati, sull acquisizione condivisa del principio che fare di più non significa fare meglio : la formazione dei professionisti alla comunicazione educativa, alla negoziazione, alla motivazione, alla riduzione della conflittualità rappresenterà un momento qualificante del progetto, e consentirà a nostro avviso una attuazione più piena dei principi del nostro Manifesto. La medicina sobria di cui parliamo nel Manifesto è sicuramente quella che sta alla base del principio che fare di più non significa fare meglio. Ma solo se questo principio viene applicato con una modalità rispettosa delle aspettative e dei desideri delle persone si eviterà il rischio che la sobrietà venga percepita unicamente come una spinta al risparmio e una limitazione del diritto dei cittadini ad avere tutto ciò che il mercato della cura mette a disposizione, per quanto scarse siano le possibilità che quella cura serva a qualcosa. Rispettare le aspettative del paziente non significa, come temono molti professionisti, accettare qualsiasi richiesta: significa ammettere che il paziente possa farla, quella richiesta, tenerne conto e orientarlo con competenza e autorevolezza a vedere possibilità diverse e ad ammettere a sua volta che la sua richiesta non venga accolta. Significa, in estrema sintesi, saper comunicare in modo competente e professionale. Significa anche introdurre nella relazione di cura e nelle comunicazioni che avvengono al suo interno il terzo principio del nostro manifesto: il principio di giustizia, che ancora richiama ai temi dell appropriatezza su cui si basa il progetto fare di più non significa fare meglio, e introduce nell idea di cura l attenzione al contrasto delle diseguaglianze e al diritto di tutti di accedere alle cure più appropriate. Sobrietà, rispetto e giustizia costituiscono il fondamento di un idea di cura che vorremmo vedere condiviso da professionisti, cittadini, politici, amministratori, ricercatori e responsabili dell informazione. Una Slow Medicine per il 21 secolo, come ci augura Richard Smith. 9 Sandra Vernero, Choosing Wisely: Il progetto Fare di più non significa fare meglio

6 Figura 2

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