Il paziente terminale in età pediatrica, la sua famiglia, lo staff: quale interazione?
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- Costanza Alfano
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1 Il paziente terminale in età pediatrica, la sua famiglia, lo staff: quale interazione? G.Biondi Servizio Psico-Sociale, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma O.Rossi Servisio Psico-Sociale, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma A. Donfrancesco Divisione di Oncologia, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, n 43 maggio agosto 2001, pagg , Roma La prepotenza dei sentimenti e delle emozioni che l adulto sperimenta di fronte alla conclusione di una storia umana e clinica è decisamente più intensa se riguarda l età pediatrica. Nel bambino e nell adolescente il genitore investe aspettative e speranze future. E difficile comprendere per i genitori il perché di un processo tumorale che devasta il figlio dall interno, del suo doversi adattare a terapie che ne modificano vistosamente l aspetto fisico, del dare l assenso ad interventi radicali, a volte demolitivi ed invalidanti. In quest iter in cui si alternano paure, speranze, delusioni, angosce, la progressione di malattia annulla il valore reale del tempo che molte volte è sospeso, statico, immobile. La fase terminale della malattia oncologica di un bambino diviene la concretizzazione del senso di perdita e dell angoscia della morte sperimentata dalla famiglia e dagli operatori in forme e contenuti diversi, fin dal momento della diagnosi di tumore. L itinerario terapeutico proposto dai sanitari è divenuto palliativo, le informazioni rispetto alle condizioni generali del paziente sono fornite, prevalentemente in età pediatrica ai parenti. La famiglia ricerca con i professionisti strategie di intervento che modulano e filtrano una realtà sentita come angosciosa che non si sa se e come comunicare. Gli operatori che intervengono quotidianamente nell assistenza multidisciplinare di pazienti oncologici in età pediatrica, sperimentano l impotenza ed il limite delle terapie insieme ai genitori. Nel bambino a seconda della sua età, si alternano sentimenti contrastanti che è difficile esprimere apertamente e dove i comportamenti sono spesso agiti per capire meglio o per rimandare la comprensione di quanto sta accadendo. Nella malattia cronica, si osserva spesso la tendenza dell adulto (genitore, parente, medico, infermiere, insegnante, etc.) a mediare la comunicazione con il bambino, attraverso l utilizzo di una propria modalità comunicazionale che è fortemente influenzata dai suoi fantasmi e dalle sue paure di adulto; la relazione, diretta dall adulto, è indirizzata verso argomenti ritenuti da lui rassicuranti per il bambino; non di rado si preferisce interpretare quanto il bambino comunica mettendo in atto delle difese, cercando di negare o utilizzando il silenzio nei confronti di quesiti troppo difficili ed angoscianti. Questi atteggiamenti diventano essi stessi veicolo di sofferenza per il bambino, determinando una relazione che inconsapevolmente lo respinge verso se stesso e verso la sua angoscia (Biondi, 2001).
2 In un contesto più ampio è possibile rilevare come le varie realtà operative di assistenza ai pazienti oncologici in fase terminale si interrogano spesso su che cosa dire se dire.quando dire a chi dire (Morelli, 1999) le informazioni rispetto alle condizioni cliniche del paziente. A tale proposito il Comitato Etico della Fondazione Floriani, ha presentato nel giugno 1999 LA CARTA DEI DIRITTI DEI MORENTI 1. Non si può affrontare un tema così complesso come è quello della fase terminale senza considerare seppure brevemente, l intero percorso che il bambino e la famiglia sono costretti ad intraprendere insieme con il personale di assistenza. Sin dall ingresso in reparto occorre tener conto di quanto la qualità dell informazione e della relazione siano elementi importanti da valorizzare e sostenere in tutte le varie fasi terapeutiche. E ormai riconosciuto che la comunicazione della diagnosi determinerà nei genitori uno stato di shock che limiterà inizialmente la comprensione dell itinerario proposto che nel tempo, andrà più volte ripreso, indicato e spiegato. La necessità di effettuare pratiche invasive per confermare il sospetto diagnostico comporta una sofferenza medica e psicologica nel bambino, che aumenta per il carattere di urgenza degli accertamenti e per l improvviso trovarsi in un ambiente sconosciuto ed ansiogeno. Non dovrà essere sottostimato poi l incontro con il bambino o l adolescente che dovrà affrontare questo processo. La comunicazione/informazione dovrà tener conto della sua età, di quanto e quale sia il suo desiderio di sapere, ed andrà aiutato ad esprimere la sua angoscia, paura, solitudine per recuperare una progettualità nonostante la malattia (Masaglia, Bertolotti, 1998). La realtà della vita di reparto, per la sua strutturazione logistica, e pur con tutte le possibili attenzioni alle diverse esigenze psicosociali, fa incontrare molte storie: il bambino all esordio di malattia, l adolescente in chemioterapia, altri pazienti in progressione di malattia nonostante le terapie e anche il bambino o l adolescente giunto alla fase terminale. In concreto, i genitori si trovano a vivere la realtà e la dimensione di quella che potrà essere l evoluzione della malattia del proprio figlio. Il nostro intervento psicologico con gli operatori è rivolto ai genitori e il bambino/adolescente ed ha l obiettivo di ricercare la riduzione di un carico emotivo angoscioso da vivere da soli, attraverso vari strumenti di supporto indicati nella tabella 1. 2 L esperienza ha evidenziato che l applicazione di un protocollo, pur nella sua utilità, non può divenire un regolamento con un rigido alternarsi di fasi: i vari momenti di intervento vanno rivisitati dagli operatori in un confronto dinamico ed attento. Nei vari incontri di gruppo ci siamo chiesti spesso che cosa dovesse intendersi per condivisione di un itinerario terapeutico. Di volta in volta si notava che parlando di un piccolo paziente la condivisione poteva essere intesa come una comunicazione chiara, una partecipazione attiva soprattutto nel tempo non occupato dalle terapie del paziente. Oppure ci si chiedeva se essa dovesse essere solo un ascolto silenzioso degli operatori o all opposto, una verifica attenta di quello che il paziente sapeva e voleva conoscere. Al di là di tutte le possibili definizioni, si è osservato come vi sia la necessità di non negare le proprie emozioni ed angosce, così come la propria originale capacità di interazione con l altro e le proprie esperienze legate alla morte. Per brevità di esposizione in questo lavoro abbiamo cercato di individuare solo alcune parole chiave comuni al paziente, ai genitori, agli operatori, che ci consentissero di presentare il nostro modello di intervento operativo psicologico in un reparto di Oncologia Pediatrica. 3 Esse sono la paura, il tempo, il luogo. La prima parola chiave è la paura. Tutti, dai medici agli infermieri ai genitori hanno difficoltà a pensare che la storia clinica e personale del bambino si stia avviando a conclusione. E difficile parlarne o, se lo si fa, si è portati ad essere evasivi o all opposto molto tecnici, come per schermarsi dalla propria angoscia ed emozione.
3 Il come avverrà la morte e se avrà dolore e quale sarà il livello di coscienza del bambino, sono alcune delle domande più frequenti che i genitori rivolgono ai medici. La famiglia richiede agli operatori di farsi carico di un loro concreto e personale disagio emotivo nella ricerca di un ipotetico modo giusto di morire per il proprio bambino. Per i genitori la loro consapevolezza della fase terminale si incontra con quella più impercettibile ed incomunicabile percezione della fine che a secondo dell età il figlio vive. I vari contesti istituzionali sempre più si interrogano sulla correttezza e sulla necessità di individuare in questa fase terminale, un adeguato supporto interdisciplinare. La scelta e l applicazione per esempio, di un idonea terapia del dolore è un tema molto dibattuto dove gli operatori devono necessariamente considerare la famiglia ed il paziente ed il loro diritto all informazione rispetto alle varie fasi terapeutiche. La lunga sopravvivenza in fase terminale rende necessario il mantenimento di una buona qualità di vita che sappiamo, non è solo collegata al benessere fisico e all integrità corporea, ma anche, e soprattutto, alla possibilità di affrontare adeguatamente sul piano mentale le proprie esperienze, conservando la capacità di pensare e di comprendere. La vita mentale del bambino può essere pienamente conservata in fase terminale se si stabilisce intorno a lui una rete di contenimento, garantita dai genitori e dagli operatori del Centro, oltre che da un intervento di sostegno psicologico. Proprio in una situazione in cui il carico di angoscia può favorire l isolamento reciproco è importante rinforzare i legami relazionali: certamente non è possibile per nessuno evitare il dolore della morte, ma se si riesce a conservare la comunicazione, la separazione è meno disperata (Masaglia, Bertolotti op. cit. pp ). Va denunciato il silenzio, il disconoscimento, le lusinghe con le quali l adulto costruisce un muro: fra il bambino e la morte, in verità fra la morte e se stesso (Raimbault, 1978). La seconda parola chiave è il tempo. Fin dal momento della comunicazione della diagnosi il tempo del paziente e dei suoi genitori esce fuori dai normali parametri e diviene cristallizzato ed immobile. Questa cristallizzazione e questa immobilità temporale rappresentano solo alcuni dei possibili meccanismi difensivi che una famiglia può sperimentare nel tentativo di controllare l angoscia di morte. Questa angoscia nella fase terminale non si può più non vivere e non appartiene solo alla famiglia ma anche al gruppo degli operatori. Le scansioni temporali normali, come l inizio della scuola o le vacanze, ad esempio, vengono sostituite dai cicli di terapia, dalle indagini strumentali, dall intervento chirurgico, dall inizio della radioterapia. La concretizzazione del lutto anticipato già presente al momento della diagnosi, diviene ancora più forte al momento della comunicazione del passaggio alla fase terminale. Vi può essere il rischio di attendere così la morte, rischiando di lasciare il figlio solo con le sue paure, pur cercando di proteggerlo vivendo e soffrendo un atteggiamento di ambivalenza marcata. Molti genitori ci riferiscono il loro desiderio contrastante di voler avere anche così il figlio ancora che stride con il desiderio che speriamo che al più presto possibile smetta di soffrire. Soprattutto si ritiene che dopo la morte del figlio non possa più esserci un tempo futuro sia personale, sia di coppia, sia con gli altri figli dove presenti. Il personale sanitario può fare ancora una volta da specchio a questi vissuti, pieni di angoscia, gestendo con un notevole personale dispendio emotivo i propri vissuti. Durante il percorso terapeutico possono esservi state, infatti molteplici e frequenti identificazioni degli operatori con il bambino/adolescente Ha la stessa età di mio figlio oppure Io senza una gamba non vivrei. Molte volte il personale sanitario si sente impotente ed impreparato di fronte ai ripetuti e ravvicinati decessi che possono avvenire in un breve arco temporale nel reparto ed il rischio del burn-out è molto alto e frequente (Biondi, Costantini, Grassi, 1995).
4 L ultima parola chiave che vorremmo considerare è il luogo dove il piccolo paziente o l adolescente e la famiglia sceglierà, se le condizioni cliniche lo consentiranno, di morire: il reparto o l assistenza domiciliare. E importante sottolineare la possibilità di scelta reversibile, comunque e sempre (il ritorno in reparto o a casa a secondo della situazione stessa). Al di là delle parole utilizzate dagli operatori nell indicare questa proposta di scelta di assistenza domiciliare, i genitori possono viverla, lì dove non sia da loro esplicitamente richiesta, come un allontanamento fisico e un abbandono da parte degli operatori. Non ci posso credere che non ci sia più veramente nulla da fare e devo solo riportarlo a casa a morire, sintetizza la solitudine e la disperazione di questa fase clinica ed umana. Questi vissuti vanno accolti, ripresi e sostenuti. Il passaggio terapeutico, clinico e psicologico che gli operatori del reparto fanno ai colleghi dell assistenza domiciliare deve considerare soprattutto, i possibili vissuti di abbandono che i genitori possono facilmente vivere. Le percezioni emotive che le famiglie ci trasmettono non vanno lasciate inespresse: la loro ripresa e riflessione realizzata nei specifici gruppi di lavoro, può permettere a tutti gli operatori di elaborare meglio le varie dinamiche vissute e di rendere più efficace l intervento di assistenza. Alcune note conclusive Molte volte ci siamo chiesti se il nostro lavoro psicologico non dovesse concludersi al momento della morte del bambino che avevamo seguito e con la discussione del caso tra i vari operatori per meglio comprendere i punti forti o deboli del nostro intervento interdisciplinare. Al presente, riguardo ad un eventuale assistenza da offrire alla famiglia di un bambino oncologico deceduto non si è ancora in grado di dare una risposta strutturata. Le pressioni non solo emotive ma anche terapeutiche ed organizzative di una realtà complessa come l assistenza psicologica in un reparto di oncologia pediatrica, possono divenire un alibi per non soffermarsi a pensare in termini strutturati, a questa importante domanda del dopo la morte. E sicuramente gratificante per gli operatori, elaborata l emotività legata al ricordo di tutto un itinerario condiviso, veder partecipare spontaneamente ad iniziative del reparto i genitori dopo la morte del figlio, quando apparentemente non vi è più nulla che li lega ad esso. Non meno importante e significativo come riscontro del lavoro fatto insieme, è l incontrare alcuni genitori che ci ricercano dopo, per un confronto rispetto a difficoltà personali o educative degli altri figli o perché vogliono riverificare le proprie potenzialità per andare avanti. Oggi la nostra operatività è questa. Abbiamo sempre presente nel lavoro interdisciplinare con gli operatori del reparto, cosi come succede negli altri centri di assistenza oncologica, l importanza dell irripetibilità di ogni storia individuale e familiare che ci troviamo a conoscere e ad assistere. Sul tema della morte è necessario creare sempre più un intervento sinergico tra più realtà. Infatti, nel rispetto di ogni dimensione culturale e religiosa, è fondamentale favorire al massimo una migliore qualità di morte così come all opposto, vi dovrebbe essere sempre, in ogni campo, la ricerca di una migliore qualità di vita. La filastrocca di S. di nove anni ci sembra riassumere appieno il senso di un ciclo che inizia e termina per poi purtroppo, a volte, ripetersi. S. l ha scritta di getto al computer della maestra della scuola elementare dell ospedale, in uno degli ultimi day hospital prima del suo decesso che la famiglia ha voluto vivere con lui in una dimensione di assistenza domiciliare. Filastrocca Ogni mattina il sole si alza, si fa la barba, si gratta la panza. Il pomeriggio rosso diventa e dietro il bosco per un giorno si assenta, infine la sera va dietro la luna a dare la luce..e. buona fortuna! (S. 9 anni)
5 Note 1. Il CEFF è stato istituito nel 1991: persegue con attenzione, competenza e con un approccio interdisciplinare il processo di formazione, informazione e di sensibilizzazione delle istituzioni pubbliche e private. Rif. Comitato Etico Fondazione Floriani Piazza Castello, Milano 2. Il servizio Psico-Sociale ha una collaborazione quindicennale con il reparto di Oncologia. Dal 1994 il protocollo di intervento psicologico si è sempre più articolato in momenti di lavoro interdisciplinari strutturati. 3. Altre possono essere l età, la storia familiare, la cultura, le emozioni, le paure, le identificazioni, il senso di e del limite, la capacità di far fronte allo stress dei genitori e degli operatori. Bibliografia Biondi G., Il bambino di fronte alla morte, In via di pubblicazione. Biondi M., Costantini A., Grassi L., I problemi psicologici dello staff. Il burn-out nella pratica dell oncologia, diffusione del fenomeno e strumenti di valutazione, in Biondi M., Costantini A., Grassi L., La mente e il cancro: insidie e risorse della psiche nelle patologie tumorali, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1995 Masaglia P:, Bertolotti M., Psicologia e gestione del bambino portatore di tumore e della sua famiglia in R. Saccomani (a cura) Tutti bravi; Associazione di Ematologia ed Oncologia Pediatrica pp Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998 Morelli G., Il dilemma della comunicazione di diagnosi e prognosi al paziente oncologico: malattia e morte si possono dire?, INformazione Numero monografico sulla morte e sul morire, 10, 36-37, 1999 pp Raimbault G., Il bambino e la morte, La Nuova Italia, Firenze, Altre possono essere l età, la storia familiare, la cultura, le emozioni, le paure, le identificazioni, il senso di e del limite, la capacità di far fronte allo stress dei genitori e degli operatori.
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