I.I.S.. P. P. PASOLINI Milano FILOSOFIA CLASSI TERZE - INDIRIZZO LINGUISTICO. La filosofia antica

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1 I.I.S.. P. P. PASOLINI Milano FILOSOFIA CLASSI TERZE - INDIRIZZO LINGUISTICO La filosofia antica introduzione, filosofia presocratica, sofisti Socrate, Aristotele cenni sul pensiero ellenistico questionari di ripasso appendice sull Apologia di Socrate (prof. Fabio Maria Pace) anno scolastico

2 PREMESSA La nascita della filosofia e lo thàuma Nel primo libro della Metafisica Aristotele presenta un quadro storico della filosofia, fornendo importanti notizie sui filosofi più antichi. Ma non fa solo questo: spiega anche come e perché (cioè da che cosa ) la filosofia sia nata (e precisa altresì quale sia la finalità, lo scopo della filosofia). Scrive dunque Aristotele: «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (thàuma): Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica» (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale). Aristotele, quindi, afferma che: a) alla base della filosofia c è la meraviglia (thàuma); b) gli uomini hanno iniziato a filosofare al solo scopo di sapere, senza aspirare al conseguimento di nessuna utilità pratica (è questo il carattere teoretico della filosofia, che è infatti un sapere fine a se stesso 1 ). Aggiunge più avanti che che la meraviglia non solo è ciò da cui la filosofia nasce, ma anche ciò da cui essa, nascendo, si libera: sempre nel libro primo della Metafisica, Aristotele precisa infatti che il possesso della filosofia permette all uomo di raggiungere uno stato contrario a quello in cui egli era all inizio della ricerca (cioè allo stato della meraviglia, da cui la filosofia nasce). Quindi, riassumendo: la filosofia ha origine dal thauma, ma con il suo nascere e svilupparsi permette all uomo di liberarsi dal thauma e di raggiungere la condizione opposta al thauma. Per comprendere adeguatamente quello che Aristotele vuole dire, è tuttavia essenziale fare una precisazione lessicale: tradurre con meraviglia il termine greco thauma è improprio, perché rende solo uno dei possibili significati di questa parola, che è invece molto più complessa, come sottolinea Emanuele Severino: «(E ) improprio interpretare il thauma aristotelico come meraviglia. Si perde completamente di vista la tragica grandezza della nascita della filosofia. Thauma è infatti, innanzitutto, l'angosciato stupore, lo stordimento e il terrore dell' uomo dinanzi al divenire della vita, cioè dinanzi al dolore e alla morte. Lo dice la stessa struttura etimologica di questa parola potente e terribile. Solo scorgendone il significato autentico ci si spiega perché Aristotele affermi che il 1 Per questo punto, vedi più avanti la definizione di filosofia di G. Reale. 2

3 possesso della filosofia conduce nello stato contrario a quello costituito da thauma; ossia conduce alla felicità che sorge dal risolvimento dei problemi intorno al senso del mondo 2. Sempre Severino, nella sua opera La filosofia dai Greci al nostro tempo spiega più ampiamente il significato di thauma e quello che Aristotele dice sulla nascita della filosofia «(Il termine thauma) - scrive Severino - indica lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso. Se infatti non si conoscono le cause di ciò che accade - se ciò che accade non rientra nella spiegazione del mondo della quale l'uomo di volta in volta si trova in possesso -, allora l'accadimento delle cose diventa la fonte di ogni terrore e di ogni angoscia. E anche di ogni dolore, perché la sofferenza è insopportabile quando non è spiegabile e si avventa sull'uomo, imprevedibile e senza ragioni. Affermando che la filosofia nasce dalla meraviglia, Aristotele intende dire che la filosofia nasce dal terrore provocato dall'imprevedibilità del divenire della vita. Conoscendo le cause del divenire, la filosofia rende prevedibile l'imprevedibile, lo inserisce nella spiegazione stabile del senso del mondo, e quindi appronta il rimedio contro il terrore della vita. La filosofia greca ( ) è stata il primo formidabile strumento con il quale l'uomo dell'occidente ha proceduto a soddisfare il proprio fondamentale interesse: la liberazione dal terrore della vita» 3. Proviamo schematicamente a spiegare: - la realtà è caratterizzata dal fatto di essere molteplice e mutevole: è molteplice perché è costituita da una pluralità di oggetti e, di conseguenza, possiamo dire che manca di unità ; - è mutevole - e questo ne è l aspetto qui più sconcertante - perché tutto nasce, si sviluppa e muore e, di conseguenza, possiamo dire che la realtà manca di permanenza, nel senso che tutto prima o poi scompare. Quindi, la realtà, proprio per la sua mutevolezza, sembra essere costantemente aggredita dal nulla, anzi assorbita nel nulla: le cose non permangono, niente resta in eterno, niente sfugge alla corruzione: tutti gli esseri appaiono, vivono e scompaiono. Il nulla li risucchia inevitabilmente, li distrugge; - da tutto questo deriva il thauma, lo sgomento dell uomo di fronte al divenire delle cose, al loro continuo scomparire, scivolando ineluttabilmente nel nulla; - l uomo sente perciò il bisogno, di fronte all angosciante molteplicità e mutevolezza della realtà, di trovare una spiegazione, di trasformare questo caos in un ordine, cioè di dare un senso al mondo, di conferirgli un valore; 2 E. Severino, Mito e meraviglia crearono la filosofia, in Corriere della sera, E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, vol 3. La filosofia contemporanea, cap. 1, ed. BUR, Milano

4 - questo è ciò che anche miti e religioni sempre hanno fatto: Aristotele stesso lo dice proprio nel brano che abbiamo letto: i miti danno una spiegazione della realtà, le danno un significato e un valore, mostrandoci innanzitutto che essa è frutto dell azione degli dèi, che impongono con le loro azioni un valore, un ordine e un significato alla realtà 4 ; - tuttavia i miti (e le religioni) non sono verità assolute, almeno non nel senso che il concetto di verità ha per la filosofia: infatti essi vengono accettati e creduti da alcuni uomini, da altri no (infatti le mitologie e le religioni sono tante e differenti, cambiano da una civiltà all altra: popoli diversi hanno miti e religioni diversi). E vengono creduti per rispetto della tradizione o delle sacre scritture, sono accettati per fede, non sulla base di un ragionamento, di una dimostrazione. La filosofia, invece, aspira a raggiungere una conoscenza che sia assolutamente vera, indiscutibile, innegabile, che sia universale, valida per tutti: questa conoscenza non può che derivare dalla ragione. 5 E qui la novità straordinaria della filosofia: la sua volontà di trovare con la ragione le risposte che permettono all uomo di liberarsi dal thauma, lo sgomento che lo assale di fronte al divenire della realtà, alla sua apparente caoticità e mancanza di senso, al suo continuo scomparire nel nulla. In questo modo, pur nascendo da thauma, la filosofia col suo stesso nascere se ne libera e conduce alla condizione opposta a thauma. E questa condizione consiste nella felicità, come Aristotele spiega in un altra sua celebre opera, l Etica Nicomachea: l uomo che si dedica alla filosofia è felice perché contemplare la verità, che è quanto la filosofia consente di fare, porta gioia agli uomini: la filosofia, quindi, nasce dallo sgomento ma conduce alla felicità. 4 «Aristotele - scrive sempre Severino - osserva che anche il philòmythos (alla lettera: "colui che ama il mito", ossia che costruisce i miti e crede e vive in essi) è in qualche modo filosofo, perché anche la costruzione dei miti scaturisce dalla "meraviglia", cioè dal terrore che il divenire della vita produce nell'uomo. Anche il mito, infatti, raccoglie gli eventi del mondo all'interno di una spiegazione unitaria: predispone un'interpretazione stabile dell'universo e attende, preparato da essa, l'irrompere degli eventi, i quali dunque perdono la loro imprevedibilità terrorizzante e si adeguano all'ordine cosmico enunciato dal mito. Anche la conoscenza mitica delle cause e degli eventi è un rimedio contro il terrore dell imprevedibile». 5 Infatti uno dei termini che il pensiero filosofico greco utilizza per definire questa conoscenza indubitabile è epistéme, solitamente tradotto come scienza : etimologicamente esso significa stare sopra, indicando perciò un sapere che stando sopra la molteplicità delle opinioni (che sono tante e diverse), risulta fermo, certo, indiscutibile, si pone cioè al di là e al di sopra di ogni possibile dubbio. Anche lo stesso termine filosofia è interessante sul piano etimologico: esso significa letteralmente, come vedremo, amore del sapere (philo-sophia); tuttavia la parola sophìa si collega molto probabilmente alla radice di phàos, vocabolo che indica la luce: allora filosofia significa amare quel sapere che, proprio perché si trova nella luce, non può essere in alcun modo negato, messo in dubbio. Del resto, la parola greca aletheia, che significa verità, letteralmente indica qualcosa che non è nascosto : la sapienza della filosofia, è certezza assoluta e chiara come la luce: è propriamente un sapere non nascosto, un sapere che da nessuno e in nessun modo può essere negato. 4

5 1 - NOTE INTRODUTTIVE Il vocabolo greco filosofia deriva dai termini greci philêin, amare, e sophía, sapienza : significa dunque amore per la sapienza. La tradizione attribuisce la creazione del termine a Pitagora (VI sec. a. C.): si tratta di un attribuzione verosimile, perché il vocabolo è di certo stato coniato da una personalità profondamente religiosa che presupponeva come possibile solo agli dèi una sophia come possesso certo e totale, mentre rilevava come all uomo sia possibile solo un tendere alla sophia, un continuo avvicinarsi, un amore mai del tutto appagato di essa, donde appunto il nome filo-sophia, amore di sapienza (G. Reale). Caratteristico quindi della filosofia è il ricercare, giacché si cerca quel che si ama (e non si podssiede). Poiché il filosofo ama il sapere, il suo compito è ricercarlo (cosa che non fanno né gli dèi, che non ne hanno bisogno perché possiedono già il pieno sapere, né gli animali, perché non ne sono in grado). Volendo dare una definizione generale della filosofia, che vada al di là della sola etimologia, possiamo riprendere quella formulata da Nicola Abbagnano: indagine critica e razionale intorno agli interrogativi di fondo che l uomo si pone circa se stesso e le realtà che lo circondano ; - il termine critico indica un sapere che nulla dà per scontato, sottoponendo al giudizio della ragione (krìnein = distinguere, giudicare) ogni affermazione e principio; va sottolineato che questo esame riguarda anche gli stessi poteri della ragione, della quale la filosofia vuole definire al contempo i limiti e e le condizioni di validità; - di fondo sta ad indicare problemi e domande che riguardano tutti gli esseri umani, non quindi una particolare categoria di persone, ma l uomo in quanto tale; - razionale ovviamente significa che il solo strumento di cui la filosofia si avvale è la ragione, rifiutando dogmi e imposizioni di qualsiasi genere (diversamente dalle religioni). - Come abbiamo visto, sul piano dell etimologia filosofare significa ricercare la sapienza; ma di quale sapienza si tratta, quali prerogative caratterizzano questo sapere rispetto agli altri? Possiamo schematicamente indicare tre caratteri distintivi della filosofia, precisati fin dal momento in cui nasce, così come li illustra nella sua definizione di filosofia Giovanni Reale. Riguardano: a) il contenuto, b) il metodo, c) lo scopo della filosofia. a) Quanto al contenuto: la filosofia si propone di spiegare tutta la realtà, senza escluderne nessuna parte o nessun momento, distinguendosi in tal modo dalle scienze particolari, che indagano specifici settori del reale, gruppi particolari di cose e di fenomeni. Già il primo dei filosofi, Talete, si propone di ricercare il principio di tutte le cose. Si noti che la realtà totale su cui indaga la filosofia non è la somma delle singole realtà, come se la filosofia non fosse altro che la somma di tutte le conoscenze sulla realtà. La filosofia non è la somma delle conoscenze acquisite dalle scienze particolari, come la fisica, la chimica, l astronomia: si risolverebbe così in una sorta di mare magnum che si occupa di tutto e non approda mai a nulla. La realtà di cui il filosofo si occupa è la totalità delle cose come tale; la filosofia non tratta cioè di 5

6 tutto, ma del tutto. Si tratta dunque non di una universalità di estensione, ma di una universalità di sguardo. b) Quanto al metodo: come abbiamo visto spiegando la definizione di Abbagnano, la filosofia vuol essere una spiegazione puramente razionale di quella totalità che costituisce il suo oggetto di indagine. In filosofia vale dunque soltanto l argomento di ragione, la motivazione logica, il logos. Non le basta accertare dati di fatto, deve andare oltre il dato e l esperienza per ricercare ragioni, cause, principi. In questo è uguale alle altre scienze, che - tutte - ricercano al di là del mero dato il piano dei significato e delle spiegazioni. Le differenzia però dalla filosofia - come detto - la settorialità del loro terreno di indagine: cercano sì cause e significati, ma di realtà particolari, mentre la filosofia indaga la globalità del reale. La filosofia è dunque, come si legge nella definizione di Abbagnano riportata più sopra, indagine critica e razionale, intendendo la criticità come rifiuto di qualsiasi pregiudizio o presupposto di qualsiasi tipo. Analisi critica significa analisi radicale che di tutto può servirsi ma che tutto, senza timori reverenziali, sottopone all analisi e al controllo della ragione, compresi i poteri della ragione. c) Quanto allo scopo: la filosofia ha carattere puramente contemplativo, teoretico 6, cone sottolinea Aristotele, mira cioè alla ricerca della verità per se stessa, prescindendo da tutte le utilizzazioni pratiche (tecniche ed economiche). La ricerca filosofica non tende a nessun vantaggio che sia ad essa estraneo: si risolve nella pura contemplazione della verità. Si spiega così - ci pare - il nome stesso della filosofia, come amore d una sapienza ricercata in quanto tale, una sapienza del tutto fine a se stessa. Scrive Aristotele, che meglio di ogni altro ha definito questo carattere della filosofia: Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica ( ) E evidente dunque che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa 7. Può essere utile a questo punto confrontare la filosofia greca con le sapienze delle antiche civiltà orientali: si è spesso infatti sostenuto che i Greci non sarebbero stati i creatori della filosofia, ma che avrebbero invece recuperato e trasmesso all Occidente un sapere più antico, originatosi nelle civiltà pre-elleniche dell Oriente. E indubbio che, prima del nascere della filosofia in Grecia (VI secolo a. C.) si siano sviluppate in Oriente - India, Cina, Persia - esperienze di straordinaria ricchezza culturale e spirituale, ma la tesi che fa derivare da queste (in particolare da quelle indiane) la filosofia non regge, per diversi motivi: 6 Il filosofare - scrive Di Napoli - è nobile azione dello spirito umano, che vuol comunque penetrare se stesso nella realtà, anche se non muove di un dito le cose della natura e non fornisce le comodità della vita Carattere essenziale del filosofare è la teoreticità come puro e indipendente sguardo sulla realtà. In tal senso la filosofia è teoria (= concezione universale e critica) della realtà nei suoi princìpi supremi. 7 Metafisica, A2, 982b 11 ss. 6

7 a) il pensiero indiano appare concentrato soprattutto su problematiche di tipo esistenziale e religioso, mentre la filosofia greca, al suo primo apparire, ha come oggetto primario di ricerca la natura, il cosmo e i loro princìpi. b) La conoscenza orientale è concepita non come sapere fine a se stesso (teoretico) ma in funzione della salvezza o della liberazione dell uomo (per. es. dal ciclo delle rinascite); il filosofo orientale, se così vogliamo chiamarlo, è un illuminato, in santo che segue un itinerario di salvezza e non un disinteressato e scientifico ricercatore della realtà. c) La tesi della derivazione orientale della filosofia greca non è affermata da nessun autore di età classica. Sono sì menzionate le conoscenze matematiche o astronomiche di Egizi e Babilonesi, ma nessuno mai sostiene che quelle civiltà abbiano influito in modo decisivo sulla nascita della filosofia greca. d) E pressoché certo che i primi filosofi greci non abbiano avuto nessuna conoscenza delle dottrine orientali e nessun contatto con le civiltà che le hanno sviluppate; solo con la spedizione di Alessandro Magno l Occidente si apre alle civiltà della Persia e dell India. Prima di allora i greci hanno contatti soprattutto con le culture dell Egitto e della Mesopotamia, le quali avevano tuttavia una tradizione di sapienza mitico-religiosa lontana dal pensiero filosofico. e) Infine, il sapere orientale pre-ellenico, di carattere, come detto, essenzialmente religioso, si esprime attraverso un linguaggio mitico, facendo ampio uso di elementi fantastici e simbolici. Fin dal suo esordio, invece, la filosofia si struttura come sapere razionale fondato unicamente sulla forza del pensiero, come indagine critica e argomentata, libera da ogni vincolo di tradizione o sacralità e utilizza un linguaggio di tipo scientifico, assai diverso da quello del mito e della poesia. Va peraltro segnalato che temi di natura mitica relativi all origine del mondo sono sicuramente transitati dal mondo vicino-orientale a quello greco: se ne trovano chiare tracce, per esempio, nella Teogonia di Esiodo e nei poemi omerici. Peraltro, anche ammettendo che dall Oriente la Grecia abbia tratto qualche dottrina o qualche tema mitico, questo non significa evidentemente che la filosofia greca abbia origine orientale. Al contrario, proprio il confronto con la sapienza orientale evidenzia le caratteristiche peculiari della filosofia greca: le dottrine orientali sono infatti di tipo religioso e tradizionalistico, sono privilegio di caste sacerdotali, sono ritenute sacre e di conseguenza immutabili. La filosofia invece, in quanto ricerca razionale, nasce e si sviluppa proprio da un essenziale atto di libertà di fronte alla tradizione e ad ogni credenza accettata come tale. Dunque la filosofia è una creazione originale della cultura greca, una peculiarità di quella civiltà e di quel popolo. Viene quindi spontaneo chiedersi quali condizioni storiche, politiche, culturali abbiano favorito il nascere della filosofia in Grecia. Va tuttavia premesso che non è corretto 7

8 pensare che una serie di cause, per il fatto stesso di esistere, avrebbero necessariamente determinato la nascita della filosofia: si tratta piuttosto di condizioni, di elementi che hanno favorito e permesso (non determinato automaticamente ) questo particolare evento. Possiamo schematicamente indicare due di queste condizioni: a) le civiltà pre-greche e orientali sono nella quasi totalità monarchie stataliste e accentratrici, con un carattere decisamente statico: tendono a conservare la cultura in modo immutabile, presentando la tradizione come sacra e perciò intoccabile. E chiaro che società di questo tipo non presentano un quadro favorevole per la nascita di una indagine libera, critica e razionale come è quella filosofica. Si tratta di regimi assoluti, dove il singolo è tenuto alla cieca obbedienza al potere politico e religioso. In Grecia la situazione è diversa: innanzitutto, manca uno stato accentratore: in sua vece si ha una molteplicità, estremamente diversificata, di città-stato. Inoltre, già in epoca omerica le monarchie antiche lasciano il posto a regimi aristocratici in uno sviluppo che prosegue (non uniformemente e senza travagli) verso forme di organizzazione democratica dello stato, che sono le più antiche nella storia. Ebbene, democrazia significa scambio di idee ed opinioni, dibattito, confronto: questo sviluppa progressivamente una mentalità libera, non disposta ad accettare passivamente il dettato della tradizione, ma propensa a ricercare attivamente idee e modelli di comportamento convincenti sul piano intellettuale, imparando a distinguere ciò che appare ragionevole da ciò che non lo è. In una situazione di questo tipo, dinamica, libera, aperta al futuro e capace di critica nei confronti del passato si verificano le condizioni più favorevoli per la nascita del pensiero filosofico. b) In Grecia manca una casta sacerdotale depositaria d un sapere tradizionale dogmatico e immutabile. Il sacerdote è considerato in Grecia un servitore del proprio dio, collegato strutturalmente al tempio in cui officia, senza mai conseguire prerogative di sacerdozio universale, senza cioè acquisire una vera e propria condizione sacerdotale. Non gli viene nemmeno richiesta una formazione teologica o dottrinale specifica: è essenzialmente un esecutore degli atti di culto, non il depositario d una dottrina codificata. Si tratta, se così si può dire, d una sorta di tecnico della religione, al quale tanto lo stato quanto le famiglie si rivolgono quando devono offrire sacrifici o celebrare riti. Nulla di paragonabile alle potenti caste sacerdotali di molte civiltà pre-elleniche orientali e non. In Grecia mancano poi libri sacri: non c è nessuna codificazione scritta (come non c è orale) della religione, che definisca dogmi e credenze, che fissi una ortodossia assoluta e imprescindibile. Mancano cioè le formulazioni di carattere dottrinale, morale e rituale che caratterizzano le religioni fondate (per esempio il cristianesimo) ed anche religioni etniche (come, per esempio, quella dell India antica) 8. E ovvio che anche questo elemento configura condizioni favorevoli allo sviluppo della ricerca e alla libera espressione del pensiero. 8 La religione greca è caratterizzabile come etnica e non fondata, perché non deriva la sua origine da un fondatore storico, come, invece, accade per il cristianesimo o l islamismo. 8

9 Appare opportuno a questo punto proporre qualche annotazione sulle forme religiose che caratterizzano la civiltà greca antica, perché molti temi della filosofia sono caratteristici anche del pensiero religioso e perché alcune dottrine religiose hanno certamente influenzato la filosofia. Nella religione greca, considerata come complesso di credenze, istituti, mentalità, atteggiamenti religiosi, si riscontrano due tendenze fondamentali, storicamente non separate né separabili, anzi diversamente intrecciate, ma pur fornite ciascuna di un suo particolare timbro (Ugo Bianchi). Queste due tendenze possono essere definite rispettivamente olimpica e misterica (o mistica ). Caratteristico della prima è il netto distacco che separa - pur nella somiglianza evidente delle forme esteriori 9 - il mondo degli dèi da quello degli uomini: gli dèi sono immortali, felici, dotati di vita e potenza al massimo grado; gli uomini, al contrario, sono per definizione i mortali soggetti alle pene della vita, estrema e più caratteristica delle quali è la morte, con il soggiorno tenebroso e vacuo nell Ade (ivi). Tra i due ambiti, quello umano e quello divino, separati da tanto netta differenziazione, non v è possibilità di contatto intimo e permanente, per quanto gli dèi intervengano nelle vicende umane: anzi, l uomo che in un modo o nell altro pretenda di ridurre la distanza che lo separa dagli dèi si macchia della colpa peggiore, resa dal termine greco, hybris, difficilmente traducibile ( tracotanza, superbia ). A questa religiosità si affianca, spesso nei medesimi ambiti, una serie di forme religiose strutturalmente differenti, definibili come mistiche o misteriche, il cui carattere essenziale è proprio la possibilità per l uomo di stabiire un contatto diretto con il divino. Per avere un idea generale del primo tipo di religiosità si pensi alla poesia di Omero ed Esiodo, dove costantemente viene ribadita la precarietà della condizione umana e sottolineata la distanza che separa il mondo degli dèi da quello degli uomini. L altra dimensione della religiosità greca, quella mistico-misterica, appare invece incentrata sull idea che l uomo possa accedere al contatto diretto con il divino, concezione questa del tutto estranea al mondo omerico. Un esempio può essere dato dai culti dionisiaci, nei quali veniva indotta dalla danza, dall ebbrezza e dal delirio collettivo, una condizione di estasi, vale a dire un essere fuori di-sè (ek-stasis), che significava proprio il superamento dei limiti normali della dimensione umana, in una comunione totale con il divino: l uomo e il divino si congiungono. Tra le forme della religiosità mistica greca una riveste particolare rilievo in relazione alla storia della filosofia: l orfismo. Orfeo è una figura molto nota del mito greco, che ne celebra la straordinaria capacità di ammaliare gli animali e perfino le pietre con la poesia e la musica: riesce ad ammansire le belve e perfino alberi e pietre si muovono per seguirlo, incantati dalla melodia. Si tratta dunque di un eroe assai diverso dagli altri, che sono quasi tutti guerrieri, protagonisti di 9 Come è noto, infatti, gli dèi greci sono in tutto e per tutto simili agli uomini, sia nell aspetto fisico, sia nel carattere e nel comportamento. 9

10 straordinarie lotte e drammatici combattimenti: il valore di Orfeo è diverso, risiede tutto nell interiorità, nello spirito e trova espressione nell arte 10. A questo eroe fa riferimento, come al proprio fondatore, la corrente religiosa detta appunto orfismo, nella quale, come vedremo, il ruolo dell interiorità e della spiritualità è decisivo. Il mito centrale dell orfismo non ha tuttavia Orfeo come protagonista, ma il dio Dioniso: è un mito essenziale per gli orfici, perché definisce gli elementi di base della loro dottrina, fonda l etica e le norme rituali che essi seguono. In questo mito, Dioniso, figlio illegittimo di Giove, è talmente amato dal padre da suscitare l ira della moglie Hera, che lo fa uccidere dai Titani. Essi ne fanno a pezzi il corpo e poi lo divorano. Segue la rinascita del dio, le cui membra sono ricomposte da Rea (o da Demetra) e resuscitate. Con le ceneri dei Titani Zeus crea il genere umano: negli uomini si associano quindi una componente dionisiaca, divina e immortale, e una titanica, malvagia e negativa. Su questo mito si fondano le verità essenziali della religione orfica, al centro della quale sta certamente la promessa d un destino beato dopo la morte, destino riservato però solo agli iniziati, ai membri della confraternita. Centrale nell orfismo è quindi la sua antropologia dualistica 11 : l uomo è composto di due parti antitetich, opposte: l anima, di natura divina, e il corpo, fatto di materia e quindi malvagio. Pper via d una colpa primordiale l anima precipita nel corpo, dove giace imprigionata come in una tomba (sóma, corpo, séma, tomba ). L uomo deve quindi liberare la sua parte spirituale (il daimon, lo spirito ) dal carcere del corpo. E questo il fondamentale concetto orfico della purificazione (kátharsis): l anima deve purificarsi, se vuole essere liberata. Se non lo fa, la attende la reincarnazione in corpi inferiori (il cosiddetto ciclo delle rinascite, che gira inesorabile come una ruota, simbolo orfico per eccellenza). Qual è la strada che conduce invece alla salvezza, che opera la purificazione? La via da percorrere è quella della cosiddetta vita orfica (orphiké biós), caratterizzata dal rispetto di rigide norme di comportamento e divieti rituali. L orfico non può uccidere animali né cibarsi della loro carne, perché nel ciclo delle rinascite essi possono essere anime reincarnate. E altresì proibito avere qualsiasi contatto con cadaveri e cimiteri e - più in 10 l più conosciuto mito di Orfeo è senza dubbio quello del suo amore per Euridice. La vicenda è notissima: nei pressi di Tempe, in Tracia, Euridice viene insidiata da Aristeo e, mentre fugge per evitarlo, inciampa ed è morsa da un serpente. Il morso si rivela mortale e la giovane viene condotta agli inferi. L amore spinge Orfeo a tentare la più disperata delle imprese: strappare Euridice al suo destino di morte. E la sua arte a venirgli in soccorso: riesce infatti ad incantare il traghettatore Caronte, il cane Cerbero e i giudici dei morti; le torture dei dannati sono sospese e perfino il terribile Ade, signore dell oltretomba, e la sua consorte Persefone sono mossi a commozione. Concedono così ad Orfeo di riavere la moglie, a condizione, che - sulla via del ritorno - non si volti a guardarla finché non siano giunti alla luce del sole. Quando però i due sposi sono prossimi a raggiungere la superficie della terra, Orfeo non sa resistere alla tentazione e, spinto dall amore, si gira per accertarsi che Euridice lo segua. Questo gesto sciagurato produce subito il suo effetto ed Euridice di colpo piomba al suolo, ineluttabilmente prigioniera della morte. 11 Il termine antropologia significa concezione dell uomo, indica cioè il particolare modo che una dottrina, religiosa o filosofica, ha di concepire la realtà umana; per dualismo si intende invece ogni concezione filosofica o religiosa che affermi l esistenza, nel cosmo o nell uomo, di due princìpi opposti, uno benefico e l altro malvagio. Nel primo caso (cosmo) si parla di dualismo cosmologico, nel secondo (uomo) di dualismo antropologico. Nell orfismo troviamo un chiaro dualismo antropologico. 10

11 generale - con tutto ciò che attiene al mondo dei morti: così l orfico non può mangiare legumi, che sono l offerta specifica che si fa ai morti, e deve mantenersi lontano da tombe e sepolcri. Non è inoltre consentito indossare abiti di lana, perché essa è stata il mantello di un animale ed è prescritto di fuggire la generazione di mortali, cioè il parto, ritenuto fonte di impurità. Nelle sepolture sono collocate vicino al morto piccole laminette d oro che servono da amuleto e lasciapassare per il viaggio nell aldilà. L iniziato che rispetta questo complesso insieme di norme, ottiene la completa purificazione ( puro fra i puri è l espressione caratteristica che si incontra sulle laminette) e vede dischiudersi un destino privilegiato dopo la morte. Fonti essenziali per la ricostruzione della dottrina orfica sono proprio le laminette d oro ritrovate in varie zone di influenza greca: queste lamelle, lunghe pochi centimetri, contengono formule brevi che esprimono la fede e la speranza d immortalità degli orfici in termini spesso oscuri e di difficile interpretazione. Schematizzando, le dottrine orfiche possono essere riassunte come segue: - nell uomo ci sono un principio divino, lo spirito, e uno malefico, il corpo; lo spirito, preesistente al corpo, viene in esso rinchiuso come in un carcere per espiare una colpa primordiale (dualismo antropologico); - il fedele deve purificarsi per potere liberare lo spirito dal carcere corporeo; la purificazione è ottenuta attraverso il rispetto di rigide regole di vita e, verosimilmente, la partecipazione a riti e sacramenti; - se la purificazione è realizzata, l orfico dopo la morte può liberare la sua componente divina e vivere la vita perfetta e beata degli dèi; - se questa purificazione non viene ottenuta, lo spirito è costretto a reincarnarsi, cioè ad essere nuovamente incarcerato in un corpo. Con l orfismo viene capovolta la tradizionale concezione greca dell uomo, per la quale il destino umano si gioca tutto nell aldiqua: nella religione omerica l aldilà è infatti un regno desolato di tenebra, dove ai morti, ridotti a misere ombre, tocca un triste destino di sofferenza e privazioni (si legga, per esempio, il celebre canto XI dell Odissea). In una prospettiva di questo genere i valori primari non possono che essere quelli della vita presente: bellezza, valore, amore, piacere. Radicalmente diversa è, come abbiamo visto, la concezione dell orfismo. 2 - LA FILOSOFIA JONICA Premessa: presocratici e presofisti - Si definiscono abitualmente presocratici i filosofi che - pur proponendo dottrine anche molto diverse tra loro - concordano nel soffermare l attenzione sul problema della natura e della realtà fisica, diversamente da quanto farà in seguito Socrate, che concentrerà il suo pensiero sull uomo 11

12 e i suoi problemi 12. A dire il vero, la più recente storiografia, preferisce parlare di presofisti piuttosto che di presocratici, perché i primi pensatori che hanno spostato l interesse della filosofia dal cosmo all uomo sono stati appunto i Sofisti. Si dovrebbero quindi definire gli autori di cui di seguito ci occuperemo presofisti, ma la tradizionale dicitura presocratici è talmente entrata nell uso che la si più comunque mantenere. - I filosofi presocratici fioriscono dal sesto secolo avanti Cristo in avanti e non costituiscono un insieme compatto e omogeneo, ma si distinguono in numerose scuole e tendenze: a) la scuola jonica di Mileto, i cui principali esponenti sono Taléte, Anassimándro e Anassímene; b) la scuola pitagorica (Pitagora e seguaci); c) la scuola eraclitea (Eráclito e seguaci); d) la scuola eleatica, che ha come fondatore Parménide e come esponenti più significativi, oltre a lui, Senófane e Zenóne; e) i fisici pluralisti : Empédocle, Anasságora, Demócrito. - Questi autori - va sottolineato - operano in una primo periodo nelle colonie greche dell Asia Minore (Jonia) e dell Italia meridionale (Magna Grecia); solo con Anassagora la filosofia arriva ad Atene. I fisici pluralisti vivono più tardi, sono contemporanei dei Sofisti e di Socrate. La scuola di Mileto - Come detto, questa prima scuola filosofica si sviluppa nella zona costiera dell Asia Minore colonizzata dagli Joni, dove fiorisce una civiltà ricca e raffinata, i cui centri principali sono Mileto, Efeso, Colofone, Clazomene, Samo e Chio. In queste città domina una intraprendente classe di mercanti che, alla ricerca di sbocchi commerciali e di materie prime, crea potenti flotte mercantili, il cui raggio d azione si estende dal Mar Nero all Egitto, dalla Magna Grecia alla Spagna. - Siamo di fronte a una civiltà molto dinamica, che offre condizioni estremamente favorevoli al nascere del pensiero filosofico, come sottolinea Nicola Abbagnano: «Infatti, il rapido sviluppo di forme politiche democratiche, il rigoglio delle tecniche, i contatti con le civiltà del Vicino Oriente, l allargarsi della mentalità media delle popolazione, abituata all estrema varietà delle usanze e delle credenze, sono tutti fattori che, sommandosi fra di loro, contribuiscono all elaborazione di una nuova cultura, impegnata a liberarsi delle credenze magiche, mitiche e religiose, e tesa ad un osservazione più attenta e razionale dei fenomeni naturali. Da ciò l emergere, nella Jonia, di una figura di intellettuale che ha in sé i tratti del filosofo, dello scienziato e del tecnico» Si parla a questo proposito di un passaggio dalla problematica cosmologica (cioè relativa al cosmo) a quella antropologica (cioè relativa all uomo). Va detto, comunque, che anche questi primi autori manifestano interesse per ll mondo dell uomo, pur privilegiando il tema cosmologico. 13 N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, 1, Torino ,

13 - Questi autori, che la storia della filosofia tradizionalmente presenta come i primi filosofi, concentrano la loro attenzione sul problema della sostanza primordiale. Ai loro occhi il mondo in cui viviamo si presenta come una realtà che: A) cambia in continuazione (è mutevole); B) si compone di un infinità di cose diverse (è molteplice). Questi due caratteri, la mutevolezza e la molteplicità, richiedono per questi filosofi una spiegazione (si ricordi quanto scritto nella premessa sul nascere della filosofia da thauma): deve dunque esistere una realtà che sia immutabile ed unica, di cui quanto vediamo nel mondo è la manifestazione esteriore e provvisoria. In altre parole: il mondo in cui viviamo e che i nostri sensi ci fanno percepire è mutevole e molteplice, quindi privo di stabilità e permanenza (cioè di senso) ma alla sua base c è una sostanza prima che - al contrario - è immutabile e unica. Si tratta quindi di ricondurre ad un unico principio di spiegazione e d ordine l apparente caoticità del mondo. - Questa sostanza unica e immutabile che sta alla base della realtà è chiamata dai filosofi jonici arché, che in greco significa principio. Secondo Abbagnano esso è «la materia da cui tutte le cose derivano e la forza o legge che spiega la loro nascita e morte» 14. Giovanni Reale ne propone la seguente definizione: (Il principio) è una realtà che permane identica nel trasmutarsi delle sue affezioni, cioè una realtà che continua ad esistere immutata, pur attraverso il processo generativo (cioè il mutare) di tutte le cose. Quindi l arché è: a) fonte o scaturigine delle cose; b) foce o termine ultimo delle cose; c) permanente sostegno delle cose, ciò che le alimenta e le fa vivere. In breve, è ciò da cui le cose vengono, ciò per cui sono, ciò in cui vanno a finire 15. TALETE di Mileto è il fondatore della scuola jonica; vive tra la fine del VII secolo a. C. e la metà del VI; è uomo politico, matematico, astronomo, fisico e viene solitamente considerato il primo filosofo della storia; di lui non ci restano scritti e la sua dottrina è menzionata da Aristotele, che scrive: «Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall umido e vive nell umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l acqua è il principio della natura delle cose umide». Dunque Talete identifica l arché, la sostanza primordiale, nell acqua, forse perché vede che soltanto dove c è acqua c è vita. Si tratta, occorre sottolinearlo, di un idea antichissima, che ricorre nei miti e nelle credenze di molti popoli. Anche i miti greci più antichi pongono l acqua all origine della realtà: Teti e Oceano - due divinità acquatiche sono, per esempio, presentati da 14 Ivi. 15 Cfr. G. REALE, Storia della filosofia antica, 1, Milano ,

14 Omero come i princìpi della generazione 16. Analoghe personificazioni acquatiche caratterizzano i miti delle origini di altri popoli dell antichità: dalla Mesopotamia all Egitto, dalle culture della costa siro-palestinese e quelle dell Asia Minore il tema delle acque primordiali è costantemente attestato. Va rilevato, tuttavia, che Talete, pur proponendo un tema noto, abbandona il linguaggio simbolico del mito adottando termini e concetti razionali. ANASSIMANDRO è concittadino e contemporaneo di Talete e come lui si dedica non solo alla filosofia, ma anche all astronomia e alla politica. E lui, stando alla tradizione, che adotta il termine arché per definire la sostanza primordiale. - Per Anassimandro l arché non può consistere in una sostanza definita, come l acqua, l aria o il fuoco, perché, se così fosse, non si spiegherebbe come da essa derivi l infinita complessità del reale. In altre parole, dato che l arché è il principio di tutte le (diversissime) cose che esistono, non può essere qualcosa di specifico: come potrebbe, infatti, una realtà umida derivare dal fuoco o una secca dall acqua? Per risolvere questa difficoltà, Anassimandro afferma che il principio, l arché, è una sostanza indefinita, indeterminata: solo ciò che è indeterminato può infatti acquisire tutte le determinazioni. Con termine greco, essa si chiama ápeiron: che letteralmente significa senza confine, cioè indefinito. Da questo principio primo indeterminato traggono origine, secondo Anassimandro, tutte le cose; in esso tutte si dissolvono quando si conclude il tempo loro assegnato dalla legge suprema e immutabile che governa la realtà del cosmo. - Anassimandro si è anche posto il problema di come la realtà derivi dall arché, cioè di come vada concepito il processo di generazione di tutte le cose dal principio primo. E, secondo lui, un processo di separazione di contrari : dall unica sostanza originaria, l ápeiron, si distaccano coppie di contrari (caldo e freddo, secco e umido, ecc.) dalle quali trae progressivamente origine tutta la realtà. Si generano così mondi infiniti che si succedono in un ciclo eterno. Ogni mondo nasce, dura un certo tempo e quindi muore: tutto è definito da una legge cosmica immutabile. Anassimandro, in un suo celebre e misterioso frammento, parla di una colpa che tutti gli esseri devono espiare: «Tutti gli esseri devono, secondo l ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio (che significa espiare la colpa ) della loro ingiustizia». Di quale ingiustizia e di quale colpa parla qui Anassimandro? Qual è l ingiustizia che tutti gli esseri commettono e devono perciò espiare? E probabile che essa si colleghi alla nascita stessa degli esseri, che, come abbiamo visto, avviene per separazione di contrari dalla sostanza primordiale: «Evidentemente - scrive Abbagnano - 16 Omero chiama Oceano «origine degli dèi» (Iliade, 14, 201) (ovvero «che di tutti i numi fu origine», ivi, 246). Oceano era concepito come un fiume, che, situato agli estremi confini della terra, rifluisce su se stesso, in un cerchio ininterrotto, alimentando tutti i fiumi e tutti i mari. Ad Oceano Omero affianca Teti, che chiama «madre» (ivi, 201): è la sua compagna, madre dei suoi figli (i tremila fiumi e le tremila oceanine; cfr. ESIODO, Teogonia, 337; 367); cfr. K. KERENYI, Gli dèi e gli eroi dei Greci, 1, tr. it. Milano 1963; ,

15 questa separazione è la rottura dell unità, che è propria dell infinito; è il subentrare della diversità, quindi del contrasto, là dove erano l omogenità e l armonia» Anassimandro propone anche alcune dottrine sulla natura del cosmo curiose ma interessanti: innanzitutto afferma l infinità dei mondi, non solo nel tempo (infiniti mondi si susseguono in un ciclo eterno), ma anche nello spazio (essi sono infiniti anche contemporaneamente nello spazio); dice che la terra è di forma cilindrica e sta sospesa nel mezzo dell universo senza nessun sostegno che la regga; pensa infine che gli uomini non siano gli esseri originari della natura, perché - diversamente dagli animali - quando nascono non sono autosufficienti: traggono quindi origine da altri animali, in particolare dai pesci (una sorta di anticipazione della dottrina dell evoluzione delle specie ); si vedano a questo proposito i testi citati nell appendice. ANASSIMENE di Mileto, forse discepolo di Anassimandro, vive verso la metà del VI secolo a. C. Secondo lui, come già per Talete, l arché è una sostanza determinata e specifica: non si tratta però dell acqua, ma dell aria. Spiega Anassimene: «Come la nostra anima, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l aria circondano il mondo intero». Come l ápeiron di Anassimandro, l aria di Anassimene è infinita e in perenne movimento. Il mondo appare quindi come una sorta di grande essere vivente. Dall aria traggono origine tutte le cose che esistono e questo avviene attraverso un duplice processo di rarefazione e condensazione: la prima dà luogo al fuoco, la seconda al vento, poi alle nuvole e quindi all acqua, alla terra, alle pietre. Come Anassimandro, anche Anassimene ritiene che il mondo segua un processo ciclico di nascita, morte e rinascita: periodicamente esso si discioglie nel principio originario - l aria - da cui ha tratto origine, dal quale poi nasce un altro mondo e così via in eterno. 3 LA SCUOLA PITAGORICA - E difficile, per non dire impossibile, distinguere Pitagora dai pitagorici, cioè dalla sua scuola, innanzitutto perché egli non scrive nulla e di lui non sappiamo quasi niente di preciso; le notizie che abbiamo, infatti, sono in gran parte tarde e condizionate dal fatto che, dopo la sua morte (e forse già negli anni conclusivi della sua vita), viene venerato dai suoi seguaci quasi come un dio e questo fa fiorire intorno alla sua figura leggende, per esempio quelle dei suoi viaggi in paesi lontani (soprattutto in Egitto) presso i saggi di vari popoli Cit. 36. E bene sottolineare che qui il concetto di colpa non ha nulla a che fare con l uomo, come noi siamo abituati a ritenere quando lo utilizziamo (per esempio nel racconto biblico del paradiso con il peccato, quindi la colpa, di Adamo ed Eva): si dovrebbe piuttosto intendere questa colpa nel senso di evento negativo, dato che l esistenza delle cose è possibile sono se si frantuma l originaria unità dell apeiron, che, come abbiamo detto, era concepita da Anassimandro (e dal pensiero greco antico in generale) come perfezione. In sostanza, il mondo esiste solo perché qualcosa di perfetto (il principio, l apeiron) che esisteva, unico e completo, all origine è venuto meno, si è spezzato nelle coppie di contrari, che, al contrario, non possiedono la caratteristica dell unicità (e quindi della perfezione). 18 Scrive in proposito Diogene Laerzio: «Essendo giovane ed amante dello studio, emigrò dalla patria e fu iniziato in tutti i misteri greci e barbari. Fu in Egitto [...]. e poi presso i Caldei ed i Magi. Poi a Creta, con 15

16 Pitagora nasce a Samo verso il 570 a. C. e l apogeo della sua vita si ha verso il 530; emigra poi in Italia meridionale dove fonda (Crotone, Locri, Taranto, Metaponto) delle scuole che non hanno come scopo principale la ricerca filosofico-scientifica, ma l insegnamento di una dottrina di salvezza, rispetto alla quale scienza e filosofia sono non il fine ma il mezzo; la scuola pitagorica appare dunque come una vera e propria confraternita di tipo religioso, obbligata al rispetto di precise regole di convivenza e di comportamento, simile quindi alle associazioni degli orfici; le dottrine che vi vengono insegnate sono segrete, fatto questo che ne impedisce la divulgazione e la conoscenza (diversamente da quanto accade per le altre scuole filosofiche). - Il principio che i filosofi ionici avevano identificato nell acqua, nell aria o nell ápeiron viene identificato dai pitagorici nel numero e negli elementi che lo costituiscono: «Pensarono - scrive Aristotele - che gli elementi del numero fossero gli elementi di tutte le cose, e che tutto l universo fosse armonia e numero»; questa affermazione si collega al fatto che i Pitagorici sono stati i primi cultori della matematica (possiamo dire gli inventori della matematica come scienza): ecco perché sono stati anche i primi a notare che un amplissima serie di fenomeni e realtà naturali sono riconducibili a rapporti numerici e perciò esprimibili in linguaggio matematico. Notano in primo luogo come la musica sia traducibile in matematica (e la coltivano come strumento di purificazione) quindi evidenziano l incidenza del numero in molti fatti naturali: l anno, le stagioni, i giorni, i ritmi della natura, ecc. Ma ascoltiamo la testimonianza di Aristotele: «Poiché i numeri sono per natura primi nelle matematiche, e nei numeri essi credevano di trovare, più che nel fuoco e nella terra e nell acqua, somiglianze con le cose che sono e che divengono, e poiché inoltre vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi numerici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, ed i numeri apparivano primi tra tutto ciò che è in natura, così pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono e che il mondo intero fosse armonia e numero» 19. Riassumendo, i pitagorici, cultori della matematica, poiché avevano notato che molti aspetti della realtà sono riconducibili al numero, ritengono che esso sia l arché. - Va però precisato a questo punto, per comprendere appieno la dottrina pitagorica, che il numero veniva concepito diversamente da come lo concepiamo oggi: per noi esso è infatti un astrazione mentale, frutto delle operazioni della nostra mente; per i pitagorici è invece qualcosa di reale, di concreto e proprio per questo può essere - come l acqua di Talete - il principio di tutte le cose; - Tuttavia, per i Pitagorici, il numero non è il principio primo assoluto: deriva infatti da qualcosa di più primario, da princìpi più elementari: gli elementi costitutivi del numero. Secondo la testimonianza del pitagorico Filolao (V secolo a. C.), i principi supremi del numero sono l illimitato (o indeterminato) e il limitante (o determinante); dato che, come detto, il numero è ritenuto dai Epimenide [...] e in Egitto conobbe gl impenetrabili (misteri) e fu istruito nei segreti circa gli Dei» (Vite dei filosofi, VIII, I, 1-3). 19 Citato in M. DAL PRA, Sommario di storia della filosofia, 1, Firenze , 9. 16

17 pitagorici il principio primo e della realtà, questi elementi, che stanno all origine del numero, sono i princìpi supremi di tutte le cose. - Dunque il numero è generato dal combinarsi di una componente indeterminata e da una determinante; si tratta cioè, come dice Reale, di un «imbrigliamento dell illimitato o indeterminato nei confini del limite e della determinazione»; I due elementi sono presenti in ogni numero, ma nei numeri pari prevale l elemento illimitato, nei dispari il limitante; - Questa affermazione può essere compresa se si pensa al modo in cui venivano rappresentati i numeri, cioè come insieme di punti disposti in modo geometrico; se infatti rappresentiamo in questo modo un numero pari vediamo come il processo di divisione non incontra nessun limite: invece rappresentiamo i numeri dispari, la divisibilità incontra un punto di arresto. Si vedano in proposito i disegni riportati sul libro di testo a pag Dunque illimitato e limitante sono i princìpi primi della realtà; da essi tra origine il numero che è proprio una sintesi dei due elementi, sintesi che vede prevalere nel pari l elemento illimitato, nel dispari il limitante - La concezione pitagorica del numero come essenza delle cose conduce a concepire l universo in un modo del tutto nuovo rispetto alla scuola di Mileto: si tratta infatti d un universo in cui gli elementi contrastanti si pacificano in una superiore armonia; è infatti un universo costituito secondo armonie numeriche; in questo universo, interamente dominato dal numero, regna il più perfetto ordine (è un vero e proprio cosmo, secondo il significato greco del termine kosmos, che significa, appunto, ordine ); il mondo non è dunque governato da forze oscure e misteriose, e nemmeno è il campo d azione del cieco e indecifrabile destino: è un ordine razionale, che la mente umana, razionale anch essa, può serenamente indagare; «l ordine dice numero e numero dice razionalità, conoscibilità e permeabilità al pensiero» (Reale); qui vediamo uno degli aspetti storicamente più importanti del pitagorismo: molti secoli dopo, la scienza moderna riprenderà l idea che l universo sia nella sua struttura più profonda governato da leggi matematiche e che pertanto l uomo possa, attraverso la matematica, comprenderlo. - Come si diceva, per i pitagorici, la scienza non è concepita come fine per l uomo, ma come mezzo in vista di ulteriori fini; occorre ora spiegare quali fini. E opportuno a questo proposito ricordare che Pitagora insegnava - come gli orfici (dai quali la riprende) - la dottrina della metempsicosi: lo spirito deve, come punizione di una colpa originaria, incarnarsi più e più volte in differenti corpi, non solo umani, ma anche animali; lo spirito dunque esiste prima del corpo e continua a vivere dopo la morte di quest ultimo (è cioè immortale); la sua unione al corpo non è però conforme alla sua natura, ma è, al contrario, è la punizione di una misteriosa colpa originaria. Bisogna perciò vivere non in funzione del corpo (come pensavano tradizionalmente i Greci) ma dello spirito: questo significa che, nel corso della vita, bisogna impegnarsi per purificare lo spirito, cioè per scioglierlo dal legame che lo incatena al corpo, in modo che, alla morte, esso possa liberarsi e vivere nella beatitudine senza più reincarnarsi. 17

18 - Si tratta di dottrine che certamente il pitagorismo riprende dall orfismo; la differenza sta nel fatto che per gli orfici la via che conduce alla purificazione (e liberazione) dello spirito è costituita da riti, pratiche religiose e norme rigorose di vita; i pitagorici invece, pur avendo anch essi regole rigorose di condotta (il vegetarianismo, per esempio) ritengono che lo strumento primario di purificazione-liberazione sia la conoscenza: sono dunque la scienza e la filosofia la via principale che permette all uomo di liberare il suo spirito, la strada primaria della purificazione; - Le pratiche pitagoriche di purificazione dello spirito pongono al primo gradino la musica, che (come detto) è l espressione più immediata dell armonia numerica che costituisce il cuore stesso della realtà; in sostanza, se la realtà è armonia di numeri, la musica è il modo più semplice, immediato ed efficace per percepire questa armonia, e quindi per avviarsi alla piena comprensione delle cose. Non è un caso che i novizi, appena ammessi nella scuola pitagorica, debbano tacere ed ascoltare, considerate come le cose più difficili da imparare; solo in un secondo tempo è loro concesso fare domande sulla musica, poi sull aritmetica e la geometria, infine sul cosmo e le realtà naturali; il maestro parla loro nascosto dietro una tenda, per separare il più possibile il sapere, la verità, dalla persona che la comunica fisicamente; di qui la celebre formula autòs éfa (ipse dixit, l ha detto lui ): Pitagora è l autorità assoluta, il depositario del sapere supremo. 4 - ERACLITO - Eraclito nasce ed Efeso, nella Jonia, intorno al 540 a. C., da una famiglia di nobili origini. Scrive un opera composta di aforismi di tono misterioso e oracolare, che è difficile interpretare con certezza: di qui il soprannome l oscuro che sin dall antichità è associato al suo nome 20. Della sua vita si sa pochissimo: legato alle tradizioni aristocratiche della sua famiglia, entra in conflitto con la città, che non riconosce più il diritto dei re e dei nobili e sviluppa forme di organizzazione democratica. Contro i democratici e il popolo, Eraclito polemizza, con tono superbo e altezzoso: disprezza la gente comune, il démos e lo fa oggetto di ironia e scherno spesso assai aspri A suo avviso, gli uomini comuni non sanno elevarsi fino alla verità: vagano nell errore e, anche quando la verità viene loro indicata, si comportano come se non la conoscessero. La massa, i più, gli appare come composta di dormienti, cioè di uomini incapaci di andare oltre le apparenze e di capire le leggi autentiche del mondo. Solo ai filosofi, agli svegli, è concesso accedere al nucleo più profondo delle cose, alla verità che sta al di là della apparenze. - Il vero filosofo sa superare le idee comuni, le false certezze e, scandagliando in solitudine la propria anima, riesce a scoprirne l infinita complessità ( Tu non troverai i confini dell anima - scrive Eraclito - per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione ). E proprio l infinità dell anima 20 Secondo la tradizione, Eraclito depositò il suo libro nel tempio di Artemide, chiedendo che non fosse reso pubblico prima della sua morte. 21 Si narra che, ammalatosi gravemente, Eraclito rifiutò le cure dei medici profani e, cosparsosi il corpo di sterco, si lasciò sbranare dai cani sulla piazza centrale. 18

19 rende senza fine la ricerca del filosofo, che è ricerca della verità. Il vero filosofo sa giungere ad una visione globale della realtà, mentre i cultori delle discipline specialistiche e delle tecniche non sanno uscire da un ottica settoriale e quindi parziale. Il vero filosofo sa definire e seguire un codice di comportamento e di vita indipendente, spesso divergente dai gusti e dalle inclinazioni della massa; disprezza per es., i piaceri del corpo, che giudica propri degli animali e non dell uomo. - Nella storia della filosofia Eraclito è celebre come il filosofo del divenire : per lui la realtà è infatti caratterizzata dal perenne fluire, dal continuo, incessante cambiamento, proprio come un fiume, le cui acque sono sempre diverse («Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato»). Dunque tutto cambia, (pánta réi, tutto scorre, è la celebre affermazione di Eraclito), tutto è in perenne mutamento, perché tutto è soggetto al tempo e al divenire; anche ciò che appare statico, fermo, è in realtà dinamico perché immerso nello scorrere del tempo. - Immagine per eccellenza del divenire universale è il fuoco, che di tutti gli elementi naturali è l unico incessantemente in movimento. Ecco perché Eraclito afferma che proprio il fuoco è il principio di tutte le cose: vuole indicare con ciò che questo elemento, distruttore e trasformatore per eccellenza, rappresenta in modo esemplare la natura più profonda della realtà, caratterizzata prorio dal continuo mutamento, dalla perenne trasformazione. - Questo incessante cambiare delle cose, questo loro divenire, è, secondo Eraclito, frutto della contrapposizione dei contrari: tutta la realtà è infatti caratterizzata dalla presenza di elementi opposti, in conflitto permanente tra di loro. Ecco cosa intende Eraclito quando afferma, in un altro celebre frammento, che pólemos, la guerra, è padre di tutte le cose: «La contraddizione, il divenire, il mutamento universale - scrive F. Vegetti - vanno riconosciuti come caratteri essenziali e insopprimibili del mondo in cui viviamo. La realtà è in perpetuo fluire e trasformarsi, nel reciproco conflitto di tutte le cose; la Guerra, dice Eraclito, è il padre del mondo. C è conflitto tra gli uomini, e c è conflitto nella natura, i cui elementi - acqua, aria, terra, fuoco - lottano per la supremazia, si trasformano l uno nell altro, si sottomettono a vicenda ( ) In ogni cosa, in ogni fase ed aspetto della realtà si cela la lotta implacabile degli opposti, che premono incessantemente verso la trasformazione degli equilibri raggiunti» 22. Tutto quindi cambia, tutto diviene e questo è determinato dall opposizione dei contrari, che è il cuore stesso della realtà. - I contrari, però, che sono il motore del divenire universale, sono sì opposti tra di loro, ma anche complementari, cioè incapaci di esistere l uno senza l altro: lottano quindi fra di loro, ma ognuno ha bisogno dell altro, si completano e si integrano a vicenda. Emerge così un quadro armonico della realtà: essa può apparire caotica e disordinata, dato che è lotta di tutto contro tutto, ma, guardata in profondità, rivela un perfetto ordine interiore, in cui tutti gli elementi hanno la loro ragion d essere, in cui ogni cosa non può esistere senza il suo contrario. 22 M. VEGETTI, Filosofia e sapere della città antica, in AA.VV., Filosofie e società, 1, Bologna 1975,

20 - Eraclito afferma quindi che c è nel mondo, al di là del suo perenne e conflittuale divenire, una profonda razionalità, che determina la superiore armonia del tutto. Il fatto che ovunque nella realtà dominino lotta e scontro non significa perciò che il caos sia signore del mondo, anzi, è vero il contrario: in questa lotta ogni elemento è indispensabile, tutto segue un ordine definito in una superiore, perfetta armonia In uno dei suoi più celebri (e discussi) frammenti Eraclito afferma: «Il tempo della vita (= la realtà) è un fanciullo che gioca, gioca con le tessere (della scacchiera): è il regno di un fanciullo». E possibile che il fiosofo voglia qui affermare che nella realtà, come nel gioco di un bambino, non c è un fine, non c è uno uno scopo. Il gioco del bambino è fine a se stesso e così è la realtà dell universo, casuale e priva di finalismo. Il che, ovviamente (come si è spiegato sopra) non significa che la realtà sia caos, ma soltanto che essa non attua alcun piano, alcun progetto. 5 - PARMENIDE - Con la scuola eleatica, che deve il suo nome alla colonia greca di Elea, in Campania (presso Paestum), la filosofia intraprende un indagine diversa da quella che caratterizza la scuola jonica di Mileto: gli Jonici, infatti, avevano ricercato la sostanza primordiale, il principio fisico (arché) capace di spiegare la complessità mutevole e molteplice della realtà naturale; gli Eleati, invece, incentrano la loro riflessione sulla ricerca dell essere vero, della realtà perfetta che sta dietro quella - ingannevole - che ci mostrano i sensi 24. Infatti, i sensi non ci presentano la realtà vera, ma un apparenza falsa e ingannevole; solo la ragione è in grado di condurre alla verità. - Fondatore della scuola eleatica è Parmenide di Elea, vissuto tra il 550 e il 450 a. C. Illustrò la sua dottrina in un opera in versi intitolata Intorno alla natura, il cui proemio (ne restano 154 versi) è certamente una delle più famose e discusse pagine dell intera storia della filosofia. Esaminiamone brevemente I temi principali: - Parmenide immagina di trovarsi in compagnia di fanciulle divine, le figlie del sole, su un carro trainato da cavalle focose. Le ragazze indicano la via da seguire, una via che conduce alle case della notte e di qui verso la luce, fino a raggiungere una misteriosa porta, dalla quale si dipartono gli opposti sentieri della notte e del giorno. La porta, munita di architrave, ha una soglia di pietra ed è chiusa da grandi battenti: le chiavi che li aprono sono nelle mani della dea Giustizia (Dike), che molto punisce. A lei le figlie del sole rivolgono parole soavi, convincendola ad aprire la porta. Il carro può allora procedere e così Parmenide giunge al cospetto d una 23 Eraclito esprime questo fondamentale concetto con un altra celebre metafora: gli opposti che sono presenti nella realtà sono sì l uno contro l altro, ma il loro contrapporsi genera una sostanziale armonia, proprio come accade nell arco e nella lira, strumenti in cui il contrasto degli elementi genera l armonico funzionamento del tutto. 24 La domanda di fondo della filosofia jonica è: qual è il principio che permette di spegare la realtà naturale? La domanda dei filosofi di Elea è invece: come si caratterizza l essere vero? Qual è il vero essere: quello che ci mostrano i sensi o quello che ci presenta la ragione? 20

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