Ma continuiamo ad affrontare argomenti di approfondimento

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1 Anno 1, Numero 3 - Gennaio 2011 Editoriale Chi di noi non ha evocato almeno una volta l importanza di veder crescere la cultura e la competenza sul trauma? Quante volte abbiamo invocato l importanza di disporre di dati affidabili con i quali misurare l efficacia dei nostri interventi? Ma chi di noi continua a studiare la fisiopatologia? Quanti di noi raccolgono sistematicamente dati sui traumi maggiori? Quanti perseguono con regolarità una politica di identificazione delle cause di morte attraverso l esame autoptico? La conoscenza dei processi fisiopatologici che si attivano in conseguenza del trauma è essenziale per prevedere l evoluzione del quadro clinico e consentire interventi precoci e mirati che interrompano eventi drammatici e di devastante impatto sugli esiti. Il riferimento è, ad esempio, ai meccanismi con cui si innesca precocissimamente la coagulopatia da trauma, alla correlazione dell ipotensione e dell ipossiemia sulla genesi del danno secondario cerebrale, al ruolo spesso misconosciuto del deficit di pompa cardiaca sull instabilità emodinamica, e così via. L ignoranza circa le modalità di insorgenza dei fenomeni porta inevitabilmente al rischio di intervenire cosmeticamente su un sintomo o su un dato di laboratorio, consentendo che nel frattempo la cascata degli eventi indesiderati prosegua indisturbata, se non addirittura favorita dalle scelte errate. Al contempo, la disponibilità di dati epidemiologici più precisi sui traumi gravi è di fondamentale importanza per ottimizzare le strategie organizzative di azione e innalzare i livelli di cura. prosegue nell obiettivo di portare un piccolo contributo alla crescita delle conoscenze, prendendosi anche la licenza di mettere liberamente in discussione modalità comportamentali e organizzative che sembrano consolidate e non suscettibili di modifiche. In questo numero torniamo ancora sul problema della coagulopatia e cerchiamo di fare il punto sui percorsi del traumatizzato instabile in sala d emergenza. Affrontiamo inoltre da punti di vista diversi i traumi del cuore e dell aorta, apriamo uno spiraglio di interesse sulle conseguenze sistemiche di origine non neurologica del trauma cranico, mettiamo timidamente in discussione alcuni comportamenti consolidati sulla gestione delle lesioni del rachide. Ma continuiamo ad affrontare argomenti di approfondimento della fisiopatologia, anche se apparentemente non correlate al trauma. E rinnoviamo l invito a portare il proprio contributo a chiunque desideri far parte di questo piccolo progetto. Gianfranco Sanson Coordinatore Commissione Trauma IN QUESTO NUMERO Expert opinion - Diagnostica in emergenza: the never ending story Articoli originali - Stone Heart. Trauma cardiaco, fra contusione e commozione. Selezioni dalla letteratura - Lesioni dell aorta toracica da trauma chiuso - Ruolo del fibrinogeno nella coagulopatia da trauma - Impiego dell acido tranexamico nel traumatizzato con emorragia maggiore - Ecografia ed ecodoppler delle grosse vene dell addome in presenza di ipertensione addominale - Iperattività simpatica dopo trauma cranico e ruolo della terapia con beta-bloccanti - Accuratezza diagnostica e utilità dell indice resistivo renale, anche in valore assoluto. - Il perno folle. Efficacia del collare in presenza di lesioni instabili del rachide cervicale

2 EXPERT OPINION Diagnostica in emergenza: the never ending story L analisi delle morti precoci rappresenta forse il più potente strumento a nostra disposizione per verificare la qualità dei percorsi clinici e organizzativi della realtà in cui operiamo e per identificare le a- ree di potenziale miglioramento. Molte delle rivoluzioni introdotte nella gestione clinica negli ultimi anni sono derivate proprio dall analisi dei dati relativi ai decessi potenzialmente evitabili. E sulla base di questi dati abbiamo via via reingegnerizzato i percorsi assistenziali. Non si è trattato di cambiamenti lineari e i sostenitori di scelte contrastanti si sono più volte scontrati in campo aperto dati alla mano. I meeting Trauma Update, incontri itineranti sul trauma grave che da anni promuovono in campo nazionale la diffusione delle conoscenze in questo campo, sono stati l arena ideale del processo di confronto. E la necessità di disporre di dati a supporto delle proprie tesi e di non essere autoreferenziali ha rappresentato per molti versi il motore di un processo di ricerca sul campo che ha portato la traumatologia italiana a sperimentare e proporre percorsi innovativi con anni di anticipo rispetto alla letteratura internazionale. Uno dei settori costantemente al centro del dibattito è stato quello della diagnostica in emergenza. Negli ultimi anni le morti precoci da emorragia hanno superato di gran lunga quelle dovute al trauma cranico. Per questa ragione tutti gli sforzi si sono concentrati nella ricerca della strategia migliore per consentire il più rapido accesso al trattamento chirurgico con gli elementi diagnostici indispensabili a consentire l identificazione rapida della fonte di emorragia e permettere un intervento efficace. Per capire dove stiamo andando e le ragioni delle scelte fatte fino ad oggi, è necessario ricordare quali sono stati i punti di partenza, i dati che hanno spinto a cercare soluzioni migliorative e le modifiche strategiche di volta in volta adottate. Meno di 10 anni or sono veniva pubblicato il lavoro di Osvaldo Chiara 1 sulle morti precoci da trauma in Lombardia. Un lavoro rigoroso che fotografava una realtà drammatica: quasi il 40% dei decessi in fase acuta avrebbero potuto probabilmente essere evitati; la maggior parte erano conseguenti ad emorragia non controllata. Giova ricordare che in quegli anni la strategia di centralizzazione del trauma grave era limitata a pochissime aree del territorio nazionale (fondamentalmente Emilia-Romagna e Friuli) e che i migliori Centri Trauma utilizzavano la diagnostica ATLS come standard. Solo 10 anni or sono la tecnica prevista per la diagnosi di emoperitoneo era il lavaggio peritoneale L introduzione della FAST (intesa allora come ecografia del solo addome) muoveva i primi passi con grande lentezza. In questo contesto con sempre maggior frequenza i traumatizzati gravi venivano portati in TAC. Ci andavano ovviamente i pazienti con trauma cranico, ma anche e in numero crescente, quelli in stato di shock. La TAC assumeva rapidamente un ruolo centrale nel processo diagnostico in emergenza. Le TAC venivano in genere eseguite (lo abbiamo già dimenticato?) lontano dal DEA, dopo trasporti avventurosi anche a mezzo ambulanza interna, utilizzando apparecchiature lente e non progettate per quello scopo; qualcuno ricorda i materassi a depressione che non passavano dal buco, la necessità di legare gli arti sopra la testa, il dramma degli splint e soprattutto le ire dei radiologi che vedevano sporcarsi di sangue il loro regno? Ma non basta: che dire del monitoraggio e dei ventilatori? Eppure la possibilità di identificare il sito di sanguinamento rappresentava per la maggior parte dei chirurghi una ragione ineludibile per affrontare questi viaggi spesso senza ritorno. I pazienti morivano in attesa della TAC, durante il trasporto alla TAC e soprattutto dentro la TAC. Le TAC ci mostravano, spesso con irrimediabile ritardo, l evoluzione di lesioni emorragiche che a- vrebbero già dovuto essere trattate, a volte perfino banali (rotture massive di milza), ma più spesso documentavano la frequenza con cui avevamo omesso di identificare e trattare uno pneumotorace iperteso sulla base dei soli dati clinici, peraltro spesso eclatanti. Eppure, lentamente miglioravamo e la mortalità calava. Tra il 2004 e il 2005 Bologna, Udine e il S. Camillo di Roma partecipavano allo Studio RIT (Registro Italiano Traumi gravi). Per la prima volta in Italia venivano sistematicamente raccolti in modo rigoroso i dati di processo della prima fase del trattamento intraospedaliero. Il RIT ha avuto un impatto enorme nel successivo miglioramento delle strategie di gestione di fase acuta. Ha mostrato il re nudo, le cose come stavano, ogni passaggio oggettivato e misurato. Ha dimostrato a noi tutti quanta distanza 2

3 ci fosse tra le nostre percezioni dei tempi e dei risultati e la realtà. Ha impedito a tutti noi di raccontarci storie e di sviluppare miti. Se è vero che il RIT ha complessivamente documentato la buona performance dei Trauma Center italiani (la mortalità alla dimissione ospedaliera è stata di pochi punti percentuali maggiore rispetto a quella dei migliori centri americani), ha però permesso di mettere in luce punti di caduta e criticità. Tra le tantissime cose che ci ha insegnato il RIT e che sono state purtroppo solo in parte pubblicate e limitatamente diffuse, alcune vanno sottolineate. - Il tempo necessario per effettuare una TAC urgente in un traumatizzato grave è lungo! Molto più lungo di quanto non ritenessimo allora. Il tempo medio dall accesso in PS all esecuzione della prima scansione (attenzione: non al completamento TAC, solo alla prima scansione) cronometrato su oltre 500 TAC è risultato di 46, con variazioni correlate alla logistica: dai 36 nei centri in cui la TAC era strutturalmente integrata nel PS ai 56 mediamente necessari a chi doveva effettuare un lungo trasporto verso altra area dell Ospedale. Il tempo medio (calcolato su un sub-set di pazienti) tra la prima scansione e l uscita del paziente dai locali della TAC era di 22, da aggiungersi ai precedenti. Pertanto l esecuzione di una TAC rendeva tendenzialmente impossibile l accesso in sala operatoria prima di un ora dall arrivo del paziente in Ospedale Non lo sapevamo. - L ecografia d urgenza era allora impiegata sporadicamente nella diagnostica di emergenza. Mai per il polmone e poco per la ricerca di emorragie intra-addominali. Dichiaravamo a noi stessi e agli altri che l uso dell eco era diffuso, ma non era vero: auspicavamo che lo fosse! - Il tempo medio per eseguire un angiografia con o senza embolizzazione era superiore a 3 ore, con differenze minime tra i Centri. Stentavamo a crederci Il RIT rendeva palese come la scelta prevalente fosse quella di percorsi diagnostici in emergenza che privilegiavano la precisione della diagnosi rispetto al fattore tempo. E il risultato di questa situazione era per molti versi estremamente preoccupante. Nel primo anno del RIT le morti precoci dei pazienti giunti vivi ai DEA erano state 57 su 800 traumi gravi: più del 7%. Un terzo dei decessi totali. Ben 16 pazienti erano morti alla TAC e questo faceva sì che la TAC fosse l area in cui avveniva il maggior numero di morti precoci. Più che in camera operatoria (13). Un dato chiaramente inaccettabile: in ben 16 casi lo sforzo di ottenere una diagnosi aveva di fatto impedito ogni tentativo di terapia chirurgica! Negli anni successivi diversi Autori, soprattutto tedeschi e olandesi, hanno riportato dati sovrapponibili (tempo accesso-fine TAC > 1 ora) proponendo soluzioni TAC oriented tecnologicamente originali 2. Il problema del tempo TAC non è legato alla durata dell esame. Le TAC più moderne sono rapidissime e in molto meno di 10 permettono di eseguire sia l esame standard del cranio che quello con mezzo di contrasto comprensivo di eventuali dettagli. La lunghezza del tempo TAC è legata in massima parte al tempo di posizionamento corretto del paziente sul tavolo, includendo in questo concetto le necessità di corretto monitoraggio, ventilazione e utilizzo delle eventuali pompe infusionali. A questo tempo, se la TAC non è integrata nei locali del PS, va aggiunto il tempo di trasporto. Le strategie proposte dagli Autori tedeschi si basano sull idea di comprimere i tempi di trasporto e posizionamento sia portando la TAC dal paziente, sia gestendo la fase di stabilizzazione direttamente su un particolare tavolo TAC. La prima soluzione, adottata in alcuni ospedali tedeschi e ad Amsterdam, si basa su un modello di TAC mobile su rotaia. La sliding TAC è costruita con tecnologia che la rende in grado di passare direttamente al di sopra della barella dove è avvenuta la stabilizzazione del paziente. La rotaia consente l utilizzo di una sola TAC per due shock room adiacenti. I dati di letteratura documentano una sensibile riduzione dei tempi di diagnosi con questa tecnologia. È in corso uno studio randomizzato con outcome mortalità tra due ospedali di Amsterdam, uno con TAC tradizionale, l altro con sliding TAC. La sliding TAC ha per ora dei limiti legati alla potenza dei modelli adattabili alla tecnologia mobile, ma questi limiti dovrebbero essere superati nell immediato futuro. La seconda rivoluzione tecnologica è molto più semplice da realizzare ed è stata adottata a Monaco di Baviera. Prevede l utilizzo di un tavolo TAC dotato di lettino a caricamento rovesciato (i piedi sono i primi ad entrare e la testa è accessibile per le manovre di rianimazione). Il tavolo TAC, debitamente attrezzato, può assumere le caratteristiche 3

4 di lettino per la stabilizzazione. Il traumatizzato grave accede direttamente alla TAC, senza passare dal PS e viene posizionato con la tavola spinale sul tavolo TAC dove avviene la stabilizzazione. Questa soluzione permette di utilizzare TAC di ultima generazione con buona risoluzione angiografica e di ottenere scansioni che vanno dai piedi alla testa, eliminando di fatto la necessità di eseguire radiografie degli arti in emergenza. È ovvio che l adozione di questa tecnologia impone una rivoluzione nei rapporti tra i radiologi e il Trauma Team. Questa soluzione rappresenta probabilmente la miglior opzione per il futuro delle indagini TAC o- riented. In questo senso è sorprendente vedere che alcuni ospedali, dopo aver acquistato la tecnologia con il letto TAC rovesciato la utilizzino per gli esami di elezione in aree distanti dal PS. Parallelamente allo sviluppo delle nuove TAC si è sviluppata una scuola di Ecografia d Urgenza. Nuovi ecografi portatili ad alta definizione e una innovativa filosofia basata su processi diagnostici rapidi focalizzati sulla ricerca di specifiche sindromi ecografiche possono rappresentare una diversa via per ottenere il risultato cercato: comprimere i tempi della diagnosi di emorragia e diagnosticare con e- strema rapidità uno pneumotorace quantificandone l estensione. Il nuovo concetto di Ecografia d Emergenza guadagna ogni giorno nuovi consensi non solo in campo traumatologico. Si tratta di una strategia che va molto oltre la vecchia FAST addominale e si basa su risposte rapide ad alcuni quesiti semplici: c è o non c è. I dati di letteratura riferiti al trauma sono ancora troppo scarsi ma l evidenza di efficacia nella pratica clinica è lampante. Negli ultimi due anni tutto il team dell UOC Shock e Trauma del S. Camillo ha frequentato un corso di ecografia avanzata di 4 giorni. La strategia proposta è talmente convincente che perfino alcuni radiologi con anni di esperienza in ecografia tradizionale hanno ritenuto di iscriversi a questi Corsi per rendere più efficace la loro collaborazione all interno del Trauma Team e nell emergenza medica. L introduzione delle nuove tecnologie o di una diversa filosofia di utilizzo di quelle già disponibili ha davvero permesso di ridurre i tempi di accesso alla camera operatoria (CO) nei casi più gravi? Per cercare di dare una risposta preliminare a questo quesito abbiamo condotto uno studio retrospettivo su tutti i casi di morte precoce degli ultimi due anni 3. Come morti precoci sono stati definiti i decessi di pazienti giunti vivi in Ospedale, avvenuti durante la fase di stabilizzazione, diagnostica e chirurgia d emergenza, prima cioè dell ingresso fisico del paziente in Rianimazione. Nell arco di tempo considerato (1 gennaio dicembre 2009) si sono registrati 38 casi di morti precoci sui 700 traumatizzati gravi ammessi al S. Camillo di Roma. La nuova legge regionale sulle Reti di Emergenza, attribuisce al S. Camillo un bacino di riferimento di abitanti. Di questi 38 pazienti, 21 sono deceduti in PS immediatamente dopo l ingresso e senza possibilità di accesso alla CO. Uno di questi, giunto in periarresto è stato sottoposto a toracotomia e laparotomia in PS sulla base dei reperti ecografici. Un paziente è deceduto alla TAC e uno in corso di angiografia. Quindici pazienti sono giunti vivi all intervento. Sette di loro sono stati portati in camera operatoria sulla base del solo reperto ecografico. Il tempo medio dall ingresso in PS all ingresso in CO è stato di 23. Un altro paziente, con imponente emorragia dagli arti è stato portato immediatamente in camera operatoria senza effettuare alcun esame. I restanti 7 pazienti hanno effettuato la TAC perché l ecografia non era stata ritenuta dirimente o sufficiente. In questo gruppo il tempo di accesso è stato di 70 malgrado sia stato fatto ogni tentativo per comprimere i tempi. Il ricorso alla TAC si è associato pertanto a un incremento di oltre 3 volte nel tempo medio di accesso in camera operatoria. Questi dati si riferiscono a un gruppo di pazienti con lesioni gravissime (ISS medio 50) giunti in PS con grave instabilità emodinamica e deceduti durante l iter diagnostico e terapeutico iniziale. Non rappresentano pertanto un campione della popolazione generale e non consentono di stabilire se in altri casi l accesso diretto alla camera operatoria senza TAC abbia o meno potuto permettere di anticipare l emostasi chirurgica ed evitare l exitus per emorragia. Sono però indicativi del fatto che anche in una realtà molto organizzata e dotata di una TAC dedicata e strutturalmente integrata nel PS, il tempo TAC comporta un ritardo molto importante. Nella maggior parte dei pazienti sottoposti a TAC questa è stata richiesta perché l ecografia non aveva permesso di identificare con chiarezza la fonte del sanguinamento. La gran parte di questi pazienti presentava un grave trauma del bacino e 4

5 degli arti, associato ad altre lesioni. Un dato significativo emerso a posteriori e che merita di essere segnalato è che tutti i pazienti portati immediatamente in camera operatoria sono stati sottoposti in PS a decompressione toracica con minitoracotomia o drenaggio, permettendo in questo modo di e- scludere uno pneumotorace come causa dello shock. La raccomandazione di non lasciare decedere nessun traumatizzato a torace chiuso, sembrerebbe essere stata rispettata. Purtroppo, nonostante l apparente estrema aggressività del gruppo nel trattare ogni possibile PNX, l unico decesso avvenuto in TAC ha avuto come concausa un PNX iperteso, sfuggito alla diagnosi clinica. In conclusione: malgrado le moderne tecnologie, l esecuzione di una TAC è ancora oggi un esame time consuming. Di questo si deve tener conto non solo a livello di Trauma Center ma anche e soprattutto a livello di ospedali periferici. In molti casi è meglio trasferire rapidamente un paziente senza TAC (avendo comunque escluso un PNX!) piuttosto che in grave ritardo e con la diagnosi fatta. Quella diagnosi risulta in troppi casi ormai inutile. Le nuove tecnologie, ma soprattutto la strategia della Resusci-TAC potranno probabilmente in un futuro non lontano risolvere i problemi che oggi condizionano il tempo TAC. Nel frattempo l ecografia d emergenza, dopo adeguata formazione, può aiutare a risolvere molti quesiti diagnostici e a ridurre i tempi di accesso in camera operatoria. Bibliografia Giuseppe Nardi Direttore Shock and Trauma Unit Ospedale San Camillo Forlanini - Roma 1. Chiara O et al. Trauma deaths in an Italian urban area: an audit of pre-hospital and in-hospital trauma care. Injury. 2002;33: Hilbert P et al. New aspects in the emergency room managment of ritically injured patients. A multi-slice CT oriented care algorithm. Injury. 2007;38: Nardi G, et al. Operating room early trauma deaths. Whole-Body 16-MDCT is associated with a threefold increase in the time interval from hospital access to e- mergency surgery if compared with a US-based protocol. Crit Care (abstract in press) ARTICOLO ORIGINALE Stone Heart. Trauma cardiaco, fra contusione e commozione. Il trauma toracico chiuso può essere il risultato di una svariata serie di meccanismi lesionali: diretti, indiretti, da compressione, contusione, decelerazione o scoppio. Nel medesimo contesto, fratture costali e/o sternali, incrementi della pressione intratoracica e strappamento sono i principali attori del danno degli organi interni. L energia che si scarica su questi ultimi e l entità delle conseguenze dipendono anche dalle caratteristiche meccaniche della gabbia toracica: un alta compliance osteo-articolare (bambini e a- dolescenti) può consentire il trasferimento di grosse onde d urto agli organi interni, in assenza di apparenti danni strutturali a carico di coste e sterno. Nei pazienti più giovani, per esempio, la disarticolazione delle coste è molto più frequente delle fratture, anche se le ripercussioni fisiopatologiche sono analoghe. Le fratture sternali sono frutto di impatti ad altissima energia; non sono di per sé pericolose ma devono fungere da campanello d allarme per lesioni ben più gravi a carico di cuore e bronchi. Globalmente non abbiamo un esatta percezione delle proporzioni del problema cardiaco nell ambito dei traumi toracici, ancor meno del danno cardiaco correlato a traumi di distretti diversi da quello toracico (addome e arti inferiori) in quanto spesso i dati sono pochi. A ciò si aggiunga una difficoltà nella diagnosi, anche per una sintomatologia di presentazione quanto mai eterogenea che può spaziare dallo shock cardiogeno a quadri assolutamente silenti. La varietà nella clinica, in realtà, rispecchia la grande varietà anatomo-patologica del danno e la sua relativa entità. L incidenza della contusione cardiaca nell ambito del trauma toracico chiuso oscilla tra il 5 e il 50%. Il primo grande distinguo va probabilmente operato tra due entità nosografiche profondamente diverse: - Commotio cordis: letteralmente agitazione cardiaca. Può essere definita come una fibrillazione ventricolare e morte improvvisa su cuore sano, in seguito a un trauma chiuso o impatto o 5

6 colpo non penetrante, apparentemente innocuo, inferto ad alta velocità, spesso in maniera involontaria, in assenza di danno organico a sterno, costole, cuore o polmoni. - Contusione cardiaca: quadro acuto di disfunzione cardiaca di variabile gravità, in presenza di danno organico al miocardio (ma anche pericardio, endocardio, vasi) associato o meno ad altre lesioni toraciche, nel contesto di un trauma chiuso ad alta energia, toracico o di altro distretto. La clinica è estremamente eterogenea; la prognosi può essere fatale. La differenza fondamentale che distingue le due forme, pertanto, è la presenza/assenza di danno strutturale (documentabile). Commotio cordis - Non ne è nota la reale incidenza, per la mancanza di registri e report sistematici. Secondo il National Commotio Cordis in Minneapolis questa tipologia di trauma è addirittura la causa di morte improvvisa più frequente tra i giovani atleti, dopo la cardiomiopatia ipertrofica e le anomalie congenite delle coronarie. L evento commotivo è legato principalmente all insorgenza di una grave aritmia ipercinetica correlata, in modo diretto e con rapporto di causa effetto, a un trauma chiuso toracico. Condizioni favorevoli al verificarsi dell evento sono l alta energia concentrata su una piccola superficie e diretta al precordio e l alta compliance della gabbia toracica correlata alla giovane età. Il colpo deve essere sufficiente ad alterare la stabilità elettrica miocardica, tanto da scatenare una fibrillazione ventricolare (FV). L insorgenza del collasso e della morte non è sempre immediata dopo l impatto, spesso l atleta ha una finestra clinicamente silente la cui presenza e durata dipendono probabilmente dalla tolleranza emodinamica individuale alle tachiaritmie. La commotio cordis non è un evento invariabilmente fatale, in gran parte la prognosi è legata al contesto nel quale ha luogo l evento. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito a un netto miglioramento della sopravvivenza per la sempre maggiore presenza nella popolazione laica di competenze nell assicurare il supporto rianimatorio di base e la crescente diffusione degli AEDs. Esistono casi sporadici di recupero spontaneo, sebbene questo, in vivo, sia difficile da documentare e legato probabilmente ad aritmie diverse dalla FV. Verosimilmente si tratta di eventi nei quali il colpo viene inflitto durante il QRS, causando un blocco cardiaco completo o altra bradiaritmia capace di regredire spontaneamente. Fattori determinanti e scatenanti la commotio cordis sono stati ricreati in laboratorio in condizioni rigorose e riproducibili. Perché abbia luogo questa particolare tipologia di trauma cardiaco, è necessario che siano soddisfatti due requisiti: impatto precordiale e incremento della pressione intracavitaria in corrispondenza del periodo elettrico vulnerabile (upstroke dell onda T, subito prima del picco d onda). Da un esperimento condotto su maiali anestetizzati, è stato evidenziato che se l impatto interviene al di fuori di questa finestra elettrica, le conseguenze più comuni sono: blocco di branca sinistro (BBS), blocco atrio-ventricolare completo, sopraslivellamento del tratto ST, ma non la FV. Altre variabili capaci di facilitare l evento sono l energia del proiettile, una piccola superficie d impatto, l orientamento diretto e la già ricordata alta compliance della gabbia toracica. Da un punto di vista fisiopatologico, l evento commotivo scatena un aumento della pressione intracavitaria (da 250 a 450 mmhg) con stretch di membrana e alterazioni dei canali K-ATP dipendenti, attivazione di flusso ionico incontrollato e scatenamento dell aritmia. Contusione cardiaca - Pur riconoscendo, in comune con la commotio cordis, un trauma chiuso del torace come evento scatenante, la contusione cardiaca prevede una dinamica diversa e, soprattutto, che sia presente un danno organico a carico del miocardio, associato o meno a lesioni di altre strutture cardiache e/o del polmone. La contusione cardiaca è certamente la forma di trauma cardiaco chiuso più comune. Prevede un impatto ad alta energia in grado di causare un danno diretto al tessuto miocardico ovvero indiretto, attraverso lesioni coronariche, di apparati valvolari, del pericardio (tamponamento) o dei grossi vasi (rotture, dissezioni). Un trauma chiuso del torace scarica energia contro il cuore e trasmette un improvvisa decelerazione e compressione dell organo tra sterno e colonna. Nel corso di uno studio, a una serie di maiali anestetiz- 6

7 zati è stato provocato un trauma toracico chiuso balistico standardizzato (Behind Armour Blunt Trauma - BABT). Lo studio prevedeva il monitoraggio emodinamico e metabolico-ossiforetico completo (catetere di Swan-Ganz) e seriato per la durata complessiva di 2 ore dopo il trauma, alla fine del quale tutti gli animali esaminati venivano sottoposti ad esame autoptico. I risultati dello studio hanno evidenziato come, dopo un impatto toracico di questo tipo, si verificassero degli eventi in sequenza, alcuni dei quali non attesi. La prima risposta dell organismo è stata l apnea, probabilmente riflesso-mediata, seguita da manifestazioni bioumorali e cardiache. In tre casi si è verificata FV, una dei quali a insorgenza tardiva, convertitasi poi spontaneamente. In altri casi si sono osservate alterazioni elettrocardiografiche compatibili con una marcata i- perkaliemia. Effettivamente, grazie ai prelievi emogasanalitici sequenziali previsti dallo studio in oggetto, è stata documentata un iperkaliemia che si è però e- stinta in 15 minuti, associata ad acidosi metabolica, aumento dei lattati e grave riduzione della SvO 2 da ipossiemia. Dai rilievi emodinamici si è evinto un transitorio incremento delle pressioni di riempimento e delle vie aeree. Dall esame autoptico è emerso quasi in tutti i casi di BABT un quadro di cuore denso (soprattutto a carico del ventricolo sinistro) o stone heart. Non è stato possibile escludere, in questo ambito di osservazione, se il rilievo fosse dovuto all intensa i- possiemia subita nella fase immediatamente precedente il decesso, alla contusione cardiaca per se o, piuttosto, a modifiche post-mortem, poiché sarebbero necessari studi seriati e standardizzati sulle striature fibrillari. Oltre a un trauma diretto sul torace, anche un trauma sufficientemente violento scaricato sugli arti inferiori o sull addome appare in grado di determinare una contusione cardiaca, attraverso i grossi vasi. Nel numero estivo della nostra rivista ci siamo riferiti alla metafora della grande formica, composta da tre cavità montate in serie (testa, torace e addome) che condividono un sistema idraulico comune. Un trauma violento a carico di distretti diversi, anche distanti dalla gabbia toracica, è in grado di trasmettere un onda pressoria sufficiente a incrementare in maniera improvvisa la pressione endocavitaria cardiaca, tanto da determinare contusione subendocardica, piccole lacerazioni, rotture valvolari o miocardiche. Come già detto, non esiste una presentazione clinica univoca, poiché shock cardiogeno, depressione della funzione sistolica, aritmie emodinamicamente significative o, perfino, assenza di sintomi sono tutti quadri possibili in presenza di contusione miocardica. Le lesioni cardiache contusive si concentrano prevalentemente a livello settale e ventricolare destro (caratterizzato da una parete più sottile), pur essendo stati documentati anche danno o rottura di atrio o parete libera ventricolare con tamponamento cardiaco, danno a carico di strutture valvolari (più spesso mitrale e aorta), ma anche dissezioni, rotture o trombosi coronariche con ischemia o necrosi. Diagnosi e monitoraggio - Da quanto detto si evince come sia frequente il riscontro di anomalie ECG in seguito a contusione cardiaca, ma anche che la loro assenza non la esclude in alcun modo. Appare altresì difficile la diagnosi basata sui dati di laboratorio. È dimostrato infatti che gli usuali marker di mionecrosi quali CPK e CK/MB non possiedono praticamente alcun valore nella diagnosi di contusione cardiaca, soprattutto se nel contesto di un politrauma. Di poco superiore appare la troponina T, anche se dotata di bassa sensibilità. Il miglior marker biologico di contusione cardiaca è, ad oggi, la troponina I, anche se la sua negatività, purtroppo, non esclude la contusione. Il motivo principale risiede nel fatto che la quantità di enzimi rilasciati in circolo in seguito a trauma chiuso cardiotoracico non è così elevata perché né la lisi, né la necrosi rappresentano i meccanismi predominanti nella maggior parte delle contusioni cardiache. Di fondamentale importanza ai fini della diagnosi e del follow-up del paziente affetto da contusione miocardica rimane l esame ecocardiografico, che dimostra il frequente riscontro di anomalie della cinesi del setto e della parete ventricolare destra, anche allo scopo di escludere altre cause trauma-correlate possibili responsabili di shock cardiogeno. 7

8 La gestione clinica della contusione miocardica è di supporto, anche ricorrendo precocemente a contropulsazione aortica. A seconda del tipo di danno subito e dell entità del derangement cardio-circolatorio il trattamento può essere medico, radiologico interventistico o cardiochirurgico. In alcuni casi può rendersi necessaria una decompressione in emergenza dello spazio pericardico. Nel caso in cui il danno sia coronarico è perentorio l accesso immediato alla sala di emodinamica. La prognosi e il recupero della funzione cardiaca sono strettamente dipendenti dalla tipologia di lesione e dalla tempestività dei trattamenti. Bibliografia Roberta Ciraolo U.O. Anestesia e Rianimazione Ospedale S. Vincenzo Taormina - DeBerry BB, Lynch JE, Chernin JM, et al. Successful management of pediatric cardiac contusion with extracorporeal membrane oxygenation. J Trauma 2007;63: Goarin JB, Riou B, Coriat P, et al. Circulating cardiac troponin t in myocardial contusion. Chest. 1997;111; Holanda MS, Domınguez MJ, Lopez-Espadas F, et al. Cardiac contusion following blunt chest trauma. Eur J Emerg Med. 2006;13: Marini JJ, Wheeler AP. Critical Care Medicine. The essentials. Lippincott, Williams & Wilkins Maron BJ, Estes NAM. Medical Progress: Commotio cordis. NEJM 2010; 362(10): Rocksen D, Gryth D, Druid H, Gustavsson J, Arborelius UP. Pathophysiological effects and changes in potassium, ionised calcium, glucose and haemoglobin early after severe blunt chest trauma. Injury [Epub ahead of print]. - Rodríguez-González F, Martínez-Quintana E. Cardiogenic shock following blunt chest trauma. J Emerg Trauma Shock. 2010;3(4): SELEZIONE DALLA LETTERATURA Lesioni dell aorta toracica da trauma chiuso Teixeira PGR, Inaba K, Barmparas G, et al Blunt thoracic aortic injuries: an autopsy study J Trauma. 2011;70: Introduzione - Le lesioni dell'aorta toracica da trauma chiuso continuano a costituire una sfida per i sistemi trauma. Una serie di importanti e relativamente recenti cambiamenti nelle strategie di diagnosi e di trattamento di tali lesioni ne hanno cambiato radicalmente la gestione. Una percentuale significativa di pazienti con lesioni dell'aorta toracica non raggiungono vivi l'ospedale. L'obiettivo di questo studio è stato di analizzare i risultati autoptici di una serie di decessi da trauma chiuso per individuare l'incidenza di lesioni toraciche aortiche e descrivere i pattern delle lesioni associate. Metodi - Si tratta di uno studio retrospettivo sulle autopsie complete effettuate su tutti i pazienti deceduti per trauma chiuso nel corso del 2005 al Los Angeles County Coroner, centro che sottopone ad autopsia completa tutti i traumi le cui cause di decesso non sono chiare o in cui il trauma è avvenuto in corso di un intervento della polizia, sia che il decesso sia avvenuto sulla scena che in ospedale. La popolazione in studio è stata successivamente divisa in due gruppi in base alla presenza o meno di una lesione dell'aorta toracica; sono state effettuate ulteriori analisi per sottogruppi in base al meccanismo di lesione. Risultati - Durante il periodo di studio, il 35% (304) degli 881 deceduti per trauma chiuso è stato sottoposto ad autopsia completa. Il 69% (210) dei decessi si è verificato sulla scena. L'età media della popolazione inclusa è stata di 43 anni, la maggior parte dei pazienti erano uomini (71%). Il meccanismo più comune di danno è stato l incidente stradale (50%), seguito dall investimento di pedone (37%) e dagli incidenti di moto (8%). Nel 34% di questi pazienti è stata evidenziata una lesione dell'aorta toracica. Il decesso sulla scena è stato significativamente più frequente nei pazienti con una lesione aortica toracica rispetto ai pazienti senza tale lesione (80% vs 63%, p=0.002). I siti di lesione più frequenti sono 8

9 risultato l istmo e l aorta toracica discendente (66%), a prescindere dal meccanismo. In tutti i pazienti sono state identificate lesioni associate, con il 96% di localizzazioni extratoraciche. Nei pazienti con lesioni dell'aorta toracica è stata dimostrata una probabilità significativamente maggiore di lesione cardiaca associata (44% vs 25%; p<0,001), di emotorace (86% vs 56%; p <0,001) e di fratture costali (86% vs 72%; p=0.006) rispetto ai pazienti privi di lesione aortica; la correlazione della lesione aortica con la frattura sternale non ha invece mostrato differenze significative nei due gruppi. Lesioni associate intra-addominali sono state identificate nel 74% dei pazienti con lesione aortica toracica, tasso significativamente superiore rispetto ai pazienti senza lesione aortica (49%; p<0,001). Le lesioni addominali associate più frequenti sono state e- videnziate a carico di fegato (55% vs 34%, p<0,001), milza (36% vs 22%, p=0,009), rene (18% vs 9%, p=0,023) e mesentere (14% vs 5%, p=0,004). Significativamente più frequenti anche le rotture diaframmatiche (14% vs 5%, p=0,013) e le fratture pelviche (40% vs 26%, p=0,014). Le lesioni della testa, invece, erano significativamente meno frequenti nei pazienti con lesione aortica (52% vs 66%, p=0,019). Sebbene l 80% dei pazienti con lesione aortica deceda sulla scena, per coloro che giungono vivi all ospedale i progressi nelle tecniche di imaging, l'ampio utilizzo della TAC come strumento di screening, la gestione clinica con controllo aggressivo della pressione sanguigna, l utilizzo sempre più frequente di tecniche endovascolari per la riparazione delle lesioni aortiche e il trattamento chirurgico posticipato rispetto alla stabilizzazione delle lesioni critiche associate hanno profondamente modificato le modalità di gestione. Negli ultimi dieci anni, la mortalità per i pazienti con lesioni dell'aorta toracica che giunge viva all'ospedale si è ridotta dal 22% al 13% (p=0,02); tuttavia, nonostante il miglioramento delle misure di sicurezza negli autoveicoli, l'incidenza di lesioni aortiche in incidenti stradali mortali è rimasta invariata; in questo studio, l'incidenza di lesioni toraciche aortiche tra i morti dopo un incidente automobilistico è stato superiore al 35%, mentre i dati rilevati da altri studi variano fra il 19 e il 72%. Il presente studio ha individuato l istmo/aorta come sede più frequente di lesione aortica, in due casi su tre. Numerosi studi hanno evidenziato, tuttavia, che le lesioni non istmiche dell'aorta possono essere più letali. Nel 44% delle vittime oggetto dello studio le lesioni dell'aorta toracica erano associate a lesioni cardiache, dato di riscontro comune in questi pazienti. Inoltre, i pazienti con lesioni dell'aorta toracica avevano una probabilità significativamente maggiore di avere una vasta gamma di lesioni associate rispetto a quelli che non subiscono lesione aortica, lesioni che spesso contribuiscono in modo determinante al decesso. Il limite principale di questo studio è il fatto che l autopsia non sia stata effettuata per tutti i decessi verificatisi durante il periodo di studio. Tale bias di selezione potrebbe aver identificato un campione non rappresentativo dell'intera popolazione di pazienti deceduti dopo un trauma chiuso. Commento - Lo studio esaminato ha il pregio di valorizzare il ruolo dell esame autoptico nell analisi dei decessi da trauma, alla ricerca di risposte che purtroppo, con poche eccezioni, spesso non arrivano a causa delle enormi e diffuse difficoltà a ottenere la collaborazione degli anatomo-patologi o a superare barriere legate alle indagini della magistratura. Vale probabilmente la pena di richiamare in estrema sintesi una serie di note operative relative alla gestione del paziente con possibile lesione aortica. Le lesioni traumatiche dell aorta rappresentano in ordine di frequenza la seconda causa di morte da trauma chiuso, con decessi che nella grande maggioranza dei casi avvengono sulla scena o durante il trasporto. Il numero di feriti con lesioni aortiche che giungono vivi in ospedale è dunque limitato e, proprio per questo, la percezione da parte degli operatori della reale incidenza delle lesioni aortiche è sottovalutata. Le possibilità di sopravvivenza di questi pazienti dipendono invece dalla qualità e dalla rapidità dell iter diagnostico e terapeutico: in assenza di immediato riconoscimento e di trattamento adeguato, le lesioni aortiche sono spesso mortali entro tempi molto brevi e anche nei centri più organizzati la mortalità intraospedaliera supera il 30%. I pazienti che giungono vivi in ospedale possono presentare un ampio range di segni e sintomi clinici, tra i quali i più frequenti sono dati dal murmure intrascapolare e dall asimmetricità dei polsi periferici. Il rilievo di una transitoria ipotensione sulla scena dell incidente che risponde al trattamento di reintegro volemico, può far sospettare una dissezione dell arco aortico; in tali pazienti, l espansione volemica indiscriminata e il conseguente aumento della pressione arteriosa può determinare, anche in tempi molto brevi, la rottura 9

10 completa del vaso e un quadro di shock intrattabile. La maggioranza dei pazienti, però, può non presentare segni clinici rilevanti e, malgrado l elevato impatto in termini di energia applicata alle strutture mediastiniche, meno della metà dei feriti ha segni visibili di trauma della parete toracica. Il sospetto di lesione a- ortica deve dunque sempre considerare il meccanismo di lesione e, negli incidenti con dinamica maggiore o caratterizzati da brusche decelerazioni, è necessario sospettarla ed escluderla accuratamente. Nonostante il segno radiologico caratterizzato dallo slargamento del mediastino sia un affidabile indice di allarme, lesioni aortiche possono essere presenti anche con RX torace normale. Il golden standard per la diagnosi delle lesioni aortiche è rappresentato dall angio TAC, che raggiunge valori predittivi positivo e negativo prossimi al 100%, riservando l angiografia ai pazienti in cui sussistono dubbi interpretativi. Le opzioni terapeutiche sono diverse e correlate al tipo di lesione e alle condizioni cliniche del traumatizzato. Lesioni limitate (es. ematomi intramurali, piccoli flap dell intima) possono giovarsi del solo trattamento conservativo, anche dilazionato. Nelle lesioni istmiche, che lo studio sopra esaminato ha confermato come le più frequenti, il trattamento che offre oggi i migliori risultati è il posizionamento di uno stent intravascolare che, poiché non prevede una scoagulazione particolarmente aggressiva, può essere effettuato anche in pazienti con lesioni emorragiche coesistenti. L intervento chirurgico classico è invece gravato da elevata mortalità e importanti esiti invalidanti e sarebbe comunque inattuabile nei pazienti con gravi lesioni emorragiche di altri distretti, soprattutto se intracraniche, nei quali è controindicato il ricorso alla circolazione extracorporea; l opzione chirurgica è pertanto da riservare solamente ai casi di rottura completa del vaso o, per particolari indicazioni, alle lesioni sopra istmiche. Nel paziente che giunge in extremis, le possibilità di sopravvivenza sono correlate alla capacità del team di emergenza di effettuare una toracotomia resuscitativa direttamente in sala d emergenza, senza alcun accertamento diagnostico; tuttavia la tecnica, che costituisce un efficace manovra nei pazienti con trauma penetrante, risulta poco efficace nel paziente agonico a seguito di trauma chiuso. Revisione e commento di Gianfranco Sanson SS Sistema Trieste Azienda per i Servizi Sanitari n 1 Triestina SELEZIONE DALLA LETTERATURA Ruolo del fibrinogeno nella coagulopatia da trauma Fries D, Martini WZ. Role of fibrinogen in trauma-induced coagulopathy. Br J Anaest. 2010;105(2): Introduzione - La presenza della coagulopatia indotta dal trauma (CIT) riflette l estensione e la severità dello stesso e si correla con la mortalità; il sanguinamento è la principale causa di morte del paziente traumatizzato anche in centri specializzati. Nella CIT, diversamente da quanto accade nella coagulopatia disseminata intravascolare, i responsabili sono danno tissutale e shock attraverso l attivazione della via della proteina C. Il potenziale procoagulante è poi diluito dalla somministrazione di cristalloidi e colloidi che possono disturbare la polimerizzazione della fibrina. L emostasi è ulteriormente compromessa dall aumento del potere fibrinolitico, dall ipotermia, dall acidosi e dall anemia stessa. Lo scopo di ogni terapia emostatica è minimizzare la perdita di sangue e ridurre la quantità di emoderivati trasfusi ma, per ottenere una emostasi adeguata, è necessario che siano disponibili trombina e substrati della coagulazione. In aggiunta alle piastrine, sulla cui superficie è formata la maggior parte della trombina, il fibrinogeno è il substrato primario della coagulazione. Se è formata sufficiente trombina, essa converte il fibrinogeno a fibrina stabile, il che determina la consistenza e lo sviluppo del coagulo in presenza del fattore XIII. Effetti del rimpiazzo volemico sulla coagulazione: coagulopatia diluizionale - Dopo un trauma e un sanguinamento massivo è importante raggiungere la normovolemia per prevenire lo sviluppo di shock e acidosi, che sono direttamente correlati alla coagulopatia e all outcome. Tuttavia, la scelta della migliore soluzione di rimpiazzo rimane controversa. I cristalloidi compromettono la coagulazione principalmente attraverso la diluizione, ma non hanno effetto sul metabolismo del fibrinogeno. Le gelatine hanno un effetto diluizionale e compromettono la polimerizzazione della fibrina con conseguente diminuzione delle proprietà viscoelastiche del coagulo. Le soluzioni a base di idrossietilamidi (HES), particolarmente quelli ad alto peso molecolare e ad alto grado di sostituzione, possono aumentare la tendenza emorragica: cau- 10

11 sano infatti ipocalcemia, blocco dei recettori del fibrinogeno, disfunzione piastrinica, disfunzioni della polimerizzazione della fibrina anche superiori gli effetti anticoagulanti della gelatina. Iperfibrinolisi - La presenza di iperfibrinolisi in un trauma non può essere prevista ma sembra essere correlata alla gravità dello stesso e agli organi interessati (es. SNC). Nell iperfibrinolisi la tendenza emorragica può essere trattata solo somministrando antifibrinolitici prima della somministrazione del fibrinogeno. Effetti dell acidosi sul metabolismo del fibrinogeno - L acidosi può svilupparsi come conseguenza del trauma e della perdita di sangue ed è uno dei più importanti fattori predittivi di coagulopatia nel politrauma, con una mortalità direttamente proporzionale alla gravità della stessa. Gli effetti dell acidosi sulla coagulazione sono ben noti. L acidosi sembrerebbe non avere effetto sulla sintesi del fibrinogeno, ma ne aumenterebbe di 1,8 volte la degradazione. Effetti dell ipotermia sul metabolismo del fibrinogeno - La relazione tra ipotermia e problematiche coagulative è ben conosciuta, con una correlazione con la mortalità molto importante. L ipotermia causa un difetto di sintesi del fibrinogeno, con nessun effetto sulla sua degradazione. Interazione con le piastrine - Le linee guida internazionali suggeriscono, in caso di sanguinamento chirurgico o trauma-correlato, la somministrazione di piastrine quando esse siano inferiori ai µl -1. La piastrinopenia causa una ridotta consistenza del coagulo, fenomeno che è influenzato anche dai livelli plasmatici di fibrinogeno. L analisi della consistenza del coagulo al tromboelastogramma (TEG) dimostra come la quantità di fibrinogeno possa compensare una carenza di piastrine. Somministrazione di fibrinogeno nella CIT - Si potrebbe pensare che i disturbi della coagulazione non debbano essere corretti fino a che non è corretta la causa chirurgica del sanguinamento. Tuttavia questo ritardo di trattamento potrebbe contribuire a rendere meno rapida e risolutiva l emostasi chirurgica. Come conseguenza della perdita ematica, della diluizione, dell ipotermia e dell acidosi, il fibrinogeno può arrivare precocemente a livelli critici. Anche piccole quantità di cristalloidi (>1000 ml), possono compromettere la polimerizzazione del fibrinogeno. Quale sia il livello critico di fibrinogeno è molto dibattuto; a peggiorare le cose sta il fatto che la misurazione del fibrinogeno non è standardizzata e che può essere compromessa dalla presenza di colloidi, in particolare gli amidi. Dati clinici provenienti dalla chirurgia ginecologica, neurochirurgia e cardiochirurgia mostrano che la tendenza emorragica è aumentata quanto il livelli di fibrinogeno siano inferiori a mg dl -1. L analisi TEG dimostra come la somministrazione di fibrinogeno migliora la consistenza del coagulo. In uno studio retrospettivo su 252 soldati con trauma severo è stata trovata correlazione tra quantità di fibrinogeno somministrata e sopravvivenza. In altri 4 studi prospettici che hanno valutato l impatto della somministrazione di fibrinogeno, si è dimostrata una ottimizzazione della coagulazione, la riduzione del sanguinamento del 32% e una significativa riduzione del fabbisogno trasfusionale. L utilizzo del TEG semplifica e migliora il monitoraggio e il controllo della coagulazione. In presenza di sanguinamento attivo che richiede trasfusione, il fibrinogeno va somministrato se la massima consistenza del coagulo (MCF - Maximum Clot Firmness) nel FIBTEM è inferiore a 10-12mm o inferiore a 7 a 10 minuti. Se non è possibile eseguire un TEG, sono da mantenersi concentrazioni superiori a mg dl -1. Commento - In questi ultimi anni, la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della coagulazione e l affermarsi di uno strumento utile come la tromboelastografia, hanno confermato il ruolo critico del fibrinogeno nella bilancia dell emostasi. Il fibrinogeno rappresenta il substrato fondamentale per la formazione del coagulo. Chiunque abbia a che fare con un sanguinamento massivo ed esegua un TEG si accorgerà di quanto spesso la consistenza massima del coagulo sia condizionata principalmente dalla carenza di fibrinogeno e quindi di come esso sia, o almeno dovrebbe essere, il primo fattore da correggere (una volta esclusa o trattata l eventuale fibrinolisi). Nelle ultime linee guida europee sulla gestione del sanguinamento del politrauma (vedi recensione su TJC anno 0 numero 1, NdR), viene ora consigliato di mantenere un target di mg dl -1, rispetto ai 100 mg dl -1 del passato, qualora non si abbia la possibilità di eseguire un TEG. Il rinnovato interesse verso il fibrinogeno, essendo prodotto all estero e importato in Italia con il nome commerciale di Haemocomplettan P, ci pone di fronte anche a un problema di costi. Un flacone da 1g costa circa 400 euro e le linee guida europee ci dicono di somministrarne 3-4 grammi. Ciò spaventa non poco la farmacia o- 11

12 spedaliera, dimentica però del costo di una unità di plasma (circa 250 euro) che invece continua ad essere tradizionalmente infuso con grande generosità. Recentemente Schöchl e colleghi hanno presentato una analisi retrospettiva (Schöchl H, et al. Crit Care 2010;14(2):R55) che ha coinvolto 131 pazienti politrasfusi, nei quali la terapia trasfusionale, guidata dall analisi TEG, prevedeva l utilizzo di alte dosi di fibrinogeno e complesso protrombinico come terapia di prima linea. La mortalità osservata è risultata essere inferiore a quella predetta da TRISS e RISC; drastica è stata la riduzione del consumo di plasma. Ci troviamo dunque vicini ad una rivoluzione in campo trasfusionale? Le premesse ci sono tutte. Revisione e commento di Alberto Grassetto UOS Assistenza al Trauma Maggiore Ospedale dell Angelo di Mestre SELEZIONE DALLA LETTERATURA Impiego dell acido tranexamico nel traumatizzato con emorragia maggiore Shakur H, Roberts I, Bautista R, et al. Effects of tranexamic acid on death, vascular occlusive events, and blood transfusion in trauma patients with significant haemorrhage (CRASH-2): a randomised, placebo-controlled trial Lancet. 2010;376(9734):23-32 Introduzione - L acido tranexamico è un derivato sintetico dell aminoacido lisina e inibisce la fibrinolisi bloccando i siti di legame della lisina sul plasminogeno. Cinquantatre studi hanno evidenziato in passato la capacità dell acido tranexamico di ridurre di un terzo il bisogno di trasfusioni su pazienti sottoposti a chirurgia elettiva pur senza evidenziare una diminuzione della mortalità. Basandosi sul presupposto fisiopatologico che la risposta emostatica al trauma e alla chirurgia sia simile, lo studio CRASH 2 si è proposto di valutare l efficacia della somministrazione precoce di acido tranexamico nel ridurre il sanguinamento e la mortalità nei pazienti vittime di trauma. Metodi - CRASH-2 (Clinical Randomisation of an Antifibrinolytic in Significant Haemorrhage 2) è uno studio randomizzato placebo - acido tranexamico, che ha coinvolto 274 ospedali in 40 paesi, iniziato nel Lo scopo dello studio è stato di valutare l effetto dell infusione precoce di acido tranexamico sulla mortalità, sull incidenza di eventi vascolari occlusivi e sul consumo di unità di emazie nei pazienti traumatizzati. Erano elegibili per l inserimento e la randomizzazione pazienti traumatizzati adulti con emorragia in atto (pressione sistolica<90 mmhg, FC>110/min o entrambe) o che erano considerati a rischio significativo di emorragia, entro 8 ore dal trauma. Dopo l inclusione nello studio i pazienti venivano randomizzati per ricevere una dose carico di 1g di acido tranexamico in 10 min seguita da una infusione di 1g in 8 ore, oppure una dose di soluzione fisiologica in simile somministrazione. L outcome primario dello studio era la mortalità o- spedaliera entro 4 settimane dal trauma. Gli outcome secondari erano: 1) eventi ischemici vascolari quali infarto miocardico, stroke, embolia polmonare e trombosi venosa profonda, 2) interventi di neurochirurgia, chirurga toracica, addominali e pelvica, 3) unità di emazie trasfuse. Sono stati randomizzati pazienti, con assegnazione a uno dei due bracci dello studio (ac. tranexamico o placebo). Risultati - La mortalità, indipendentemente dalla tipologia di trauma, è risultata significativamente ridotta nel gruppo che ha ricevuto acido tranexamico, con un Relative Risk di 0,91 (95% CI 0,85 0,97; p=0,0035). Il rischio di morte da sanguinamento è risultato significativamente ridotto (4,9% vs 5,7%; RR 0,85, 95% CI 0,76 0,96; p=0,0077). Riguardo gli eventi trombotici non vi è stata differenza significativa tra due gruppi: 1,7% di eventi (infarto miocardico, stroke, embolia polmonare, trombosi venose profonde) nel gruppo che ha ricevuto acido tranexamico, 2% nei pazienti del gruppo di controllo. Sono state trasfuse unità di emazie nel 50,4% dei pazienti del gruppo dell acido tranexamico contro il 51,3% del gruppo controllo (differenza non significativa). L incidenza di interventi chirurgici è stata del 47,9% nel gruppo dell acido tranexamico contro il 48% del gruppo controllo (differenza non significativa). Discussione - I risultati dimostrano che la somministrazione precoce di acido tranexamico nei pazienti vittime di trauma con sanguinamento in atto o a e- levato rischio di emorragia reduce il rischio di morte senza incrementare eventi trombotici vascolari. 12

13 L acido tranexamico reduce significativamente la mortalità qualsiasi sia la tipologia di trauma. Permane ancora incertezza su come effettivamente l acido tranexamico agisca nei pazienti emorragici. La coagulopatia precoce è frequente nel trauma grave ed è associata ad un rischio di morte elevato; nei pazienti che sviluppano tale coagulopatia l iperfibrinolisi è un reperto comune. Se somministrato precocemente per via endovenosa, l acido tranexamico potrebbe bloccare proprio l insorgere o il progredire dell iperfibrinolisi. Sebbene tale meccanismo sia plausibile, nello studio CRASH l attività fibrinolitica non è stata misurata direttamente e non c è certezza che l acido tranexamico agisca bloccando l iperfibrinolisi piuttosto che un altra via metabolica. Nei due gruppi non sono state riscontrate differenze significative nella quantità di sangue trasfuso e nell incidenza di interventi chirurgici. Sebbene non vi siano dati relativi a una possibile variazione dell impatto del farmaco sulla mortalità in base al tempo di somministrazione dall ora del trauma, dato che la maggior parte delle morti da sanguinamento avvengono nelle prime ore, l infusione di acido tranexamico dovrebbe essere iniziata più precocemente possibile. In base ai dati dello studio l acido tranexamico dovrebbe essere incluso nel trattamento del trauma grave emorragico. Commento - Nelle riflessioni sugli argomenti traumatologici ci troviamo spesso a concludere che le evidenze della letteratura sono scarse e che servirebbero studi più ampi e ben disegnati per avere certezze. Lo studio CRASH 2 rappresenta una pesante eccezione. Il numero di pazienti randomizzati in questo studio multicentrico è enorme se si considera che la maggior parte degli articoli pubblicati prende in considerazione spesso poche decine di pazienti o al massimo qualche centinaio. Le conclusioni di uno studio così vasto non possono essere ignorate e devono trovare immediata applicazione clinica nel nostro approccio al trauma in emergenza. L attivazione del sistema fibrinolitico è parte integrante della risposta emostatica. La fibrinolisi è attivata dalla conversione del plasminogeno (substrato inattivo) in plasmina, un enzima capace di frammentare la fibrina. Tra i molti meccanismi responsabili dell attivazione della plasmina, nel trauma quello principale è il rilascio di attivatori del plasminogeno tissutale dalle zone di lesione. La risposta fibrinolitica è limitata da sistemi inibitori quali l inibitore dell attivatore del plasminogeno o l α2 antiplasmina. Nel trauma grave, l estensione delle lesioni tissutali, aggravata spesso dall aggressione chirurgica, sposta l equilibrio verso la fibrinolisi determinando un peggioramento del sanguinamento e della coagulopatia. Numerosi studi clinici in ambito chirurgico avevano documentato l efficacia degli agenti antifibrinolitici nel ridurre il sanguinamento. Tra gli agenti antifibrinolitici sono stati studiati l acido tranexamico e l acido ε-aminocaproico, che interferiscono con il legame tra plasmina e fibrina, e l aprotinina, che inibisce direttamente la plasmina. Lo studio CRASH 2 prende in considerazione unicamente l acido tranexamico senza però fornire certezze sul suo meccanismo di azione, sebbene l azione antifibrinolitica sia probabilmente il principale meccanismo fisopatologico. L inibizione dell azione plasminica può indurre riduzione della coagulopatia e del sanguinamento anche per altre vie, quali l attivazione della trombina a partire dalla protrombina e la liberazione dei recettori di aggregazione piastrinica. La plasmina inoltre esercita un azione proinfiammatoria tramite il suo legame e l attivazione di monociti, neutrofili, piastrine e cellule endoteliali, azione che può peggiorare l evoluzione verso l insufficienza multiorgano. Molti di noi, pur conoscendo probabilmente la fisiopatologica della coagulazione, hanno sottostimato l importanza di questa classe di molecole riservando loro una efficacia prevalentemente in vitro piuttosto che clinica. Lo studio CRASH 2 con la sua impressionante mole di pazienti arruolati impone una immediata modifica dei nostri protocolli clinici. Confrontato con il placebo, l acido tranexamico è infatti capace di ridurre la mortalità precoce delle vittime di trauma. Sottolineo altri due punti di rilievo dello studio. Il primo è correlato alla significativa riduzione della mortalità ottenuta tramite una procedura semplice quale l infusione endovenosa di 2 g di acido tranexamico in otto ore. Il secondo deriva direttamente dal primo ed è di carattere economico, considerato che il costo per grammo di acido tranexamico in fiale è di circa 1,2. Revisione e commento di Emiliano Cingolani Shock and Trauma Unit Ospedale San Camillo Forlanini - Roma 13

14 SELEZIONE DALLA LETTERATURA Ecografia ed ecodoppler delle grosse vene dell addome in presenza di ipertensione addominale Cavaliere F, Cina A, Biasucci D, et al. Sonographic assessment of abdominal vein dimensional and hemodynamic changes induced in human volunteers by a model of abdominal hypertension Crit Care Med. 2011;39(2): Questo lavoro affronta il tema dell ipertensione addominale attraverso la creazione di situazioni simulate, in volontari sani, mediante l applicazione di uno stabilizzatore pelvico del tipo T-Pod. L ipertensione addominale, come abbiamo visto anche nel precedente articolo La grande formica: testa-torace-addome (al quale si rimanda), è condizione spesso trascurata e motivo di incremento di mortalità e morbilità nel paziente critico. Infatti, come è noto, l incremento pressorio di un compartimento si ripercuote inesorabilmente sugli altri spazi in comunicazione idraulica, creando conseguenze clinicamente rilevanti: peggioramento dello stato neurologico (aggravamento della pressione endocranica), alterazioni emodinamiche con modifiche di precarico, postcarico e gittata cardiaca, ridotta perfusione di organi e tessuti (cuore compreso), innesco o peggioramento di danno renale e polmonare. Sappiamo che il tempo per intervenire non è molto prima che si instaurino danni irreversibili con evoluzione in insufficienza multiorgano (MOF), eppure spesso la misurazione della pressione addominale viene trascurata. Esistono segni radiologico-strumentali che possono fornire informazioni utili in presenza di ipertensione addominale, quali la risalita del diaframma (visibile sia con TC che con ecografia), l aspetto rotondeggiante della parete addominale, la perfusione epatica a mosaico, l incrementato enhancement di parete per intestino e stomaco, alterazioni caratteristiche dell emodinamica. L elegante simulazione in oggetto dimostra come, ancora una volta, l ecografia e l ecodoppler possano rivelarsi di estrema utilità per riconoscere precocemente stati di ipertensione addominale, sempre nell ottica di un monitoraggio integrato. Lo studio è consistito nel creare artificialmente uno stato di moderata ipertensione addominale in 16 volontari sani, dei quali 8 hanno accettato la misurazione della pressione gastrica a mezzo di un cateterino a palloncino normalmente utilizzato per le valutazioni della meccanica respiratoria. Tutti i soggetti sono stati valutati in posizione supina, in head up position a 30, e sono stati studiati con eco addome in 4 situazioni successive: 1. condizioni basali: respiro spontaneo e pressione addominale (IAP) normale 2. ipertensione addominale (moderata: mmhg, nella maggior parte dei soggetti controllati) e respiro spontaneo 3. ipertensione addominale e NIV (maschera facciale; impostazione Ps 10 mmhg, PEEP 5 mmhg, FiO 2 21%) 4. NIV e normale pressione intraddominale I rilievi di cui ai punti 2, 3 e 4 sono stati eseguiti in sequenza random. In ogni diversa simulazione, sono stati raccolti, in fase telespiratoria, i seguenti dati: - vena cava inferiore visualizzata subito al di sotto delle vene renali: diametri antero-posteriore (AP) e laterale (LA) e, al Doppler pulsato, velocità di flusso media e massima - vena sovraepatica destra, 2 cm prima della sua confluenza in vena cava inferiore (VCI), per determinare la velocità massima di flusso - vena porta (VP) vicino alla sua biforcazione (diametro e velocità di flusso media e massima) - vena iliaca esterna destra, determinando le velocità di flusso media e massima - arteria renale destra, determinando le velocità di picco sistolico e diastolico e l indice resistivo (vedi articolo a pag. 18, NdR). Emodinamica e flussi venosi in presenza di ipertensione addominale - La VCI è un grosso vaso venoso dalla sezione ellittica. Quando si verificano aumenti delle pressioni atriali ovvero intratoraciche, si osserva una riduzione del ΔP utile al ritorno venoso e la sezione cavale tende a diventare circolare (stasi). In presenza di ipertensione addominale invece essa tenderà a diventare più eccentrica, in virtù dell effetto spremitura tra peritoneo e colonna vertebrale, ovvero tra peritoneo e muscolo psoas destro. La compressione cavale determina conseguenze emodinamiche diverse secondo le variabili in causa. - Con la riduzione di diametro interno si verifica un aumento delle resistenze al flusso. Aumentare le resistenze significa incrementare la pressione vasale interna e determinare un nuovo equilibrio tran- 14

15 smurale (pressione interna vs IAP). Questo meccanismo di compenso ha termine quando la pressione interna non può più aumentare e la pressione addominale determina il collasso del vaso. - La spremitura cavale (in presenza di ipertensione addominale moderata) di per sé potrebbe portare a un incremento del ritorno venoso, tuttavia il risultato finale emodinamico è dettato dalle pressioni dell atrio destro (vedi curve del ritorno venoso di Guyton): Se IAP < pressione atriale destra l aumento della pressione addominale è ininfluente ai fini del ritorno venoso (potrebbe aumentare in virtù dello shift di sangue dall addome al torace) Se IAP > pressione atriale destra (generalmente ciò accade quando IAP >15 mmhg) la VCI si comporta come un resistore e il ritorno venoso non dipenderà più dalle pressioni atriali ma dalla pressione addominale. Se è chiara l emodinamica, sarà chiaro il perché dei risultati ottenuti dagli autori dell articolo: un grado moderato di ipertensione addominale eccede la pressione interna cavale e di conseguenza genera un aumento delle resistenze al flusso. La NIV attenua gli effetti della IAP sulla VCI (incrementa le pressioni intratoraciche). Gli autori hanno osservato che l incremento della pressione addominale esita in una riduzione costante e statisticamente significativa dei diametri della VCI (10%), riduzione della sezione traversa (25%) e deformazione (riduzione del rapporto AP/LA). Il valore di cut-off per il diametro cavale è di 1 cm 2 /m 2, un valore più basso è in grado di discriminare un ipertensione addominale con una sensibilità del 65.6% e una specificità dell 87.5%. Anche le velocità di flusso si modificano ma, almeno nelle simulazioni, non raggiungono la significatività statistica. Il diametro della VP non si è rivelato più informativo di quello cavale e, essendo più complesso da rilevare, può essere tralasciato. La NIV da sola non altera diametri e flussi venosi. L RI, che si modifica in presenza di patologia renale acuta e cronica, è espressione anche della pressione intrarenale e rappresenta un indice precoce di disfunzione d organo causata da ipertensione addominale. In questo studio, l RI, pur modificandosi in presenza di ipertensione addominale, non ha mai superato il valore massimo di normalità (0.8), dimostrandosi più utile come trend di valori e nel contesto di un monitoraggio integrato (aumento della pressione addominale = aumento della pressione intrarenale) che come valore assoluto. I dati, raccolti da sperimentazioni animali, dimostrano un alterazione di questo parametro proporzionale alla severità del quadro ipertensivo addominale. Take home messages - Mantenere sempre alto il sospetto di ipertensione addominale nel paziente critico e ricorrere a misurazioni frequenti, con tecnica standardizzata: considerare la misurazione della pressione addominale come parte integrante del monitoraggio emodinamico in area critica. - Osservare con attenzione la clinica, alla ricerca di segni e sintomi precoci di sindrome compartimentale. - Prendere sempre visione di tutta l imaging toraco-addominale (tradizionale compresa) con attenzione alla ricerca di segni indiretti di sindrome compartimentale o di ipertensione addominale. - Ricorrere, in maniera complementare, a tecniche ecografiche-ecodoppler alla ricerca di una riduzione del calibro VCI inferiore a 1 cm 2 /m 2 e di un incremento progressivo del RI (meglio come trend che non in valore assoluto). - Mantenere la perfusione di organi e tessuti, ossia l emodinamica nel senso più ampio del termine (meccanica e metabolismo), perché da questo dipende l outcome del paziente: pressioni atriali / intratoraciche ΔP per il ritorno venoso (pressione atriale pressione VCI IAP). N.B. un idea della pressione transmurale di riempimento (PVCtm) può essere ottenuta con la formula: PVCtm = PVC telespiratoria IAP/2. scovare l intruso : monitorizzare la pressione addominale e calcolare la pressione di perfusione (MAP-IAP) mantenendola > 65 mmhg. - Ricordare che l ipertensione addominale è definita come una pressione del compartimento addominale stabilmente superiore a 12 mmhg: Grado I: IAP mmhg. Grado II: IAP mmhg Grado III: IAP mmhg Grado IV: IAP >25 mmhg Revisione e commento di Roberta Ciraolo U.O. Anestesia e Rianimazione Ospedale S. Vincenzo Taormina 15

16 SELEZIONE DALLA LETTERATURA Iperattività simpatica dopo trauma cranico e ruolo della terapia con beta-bloccanti Heffernan DS, Inaba K et al. Sympathetic hyperactivity after traumatic brain injury and the role of beta-blocker therapy. J Trauma : Il trauma cranico rimane la principale causa di morte tra i pazienti traumatizzati e da solo causa un terzo di tutte le morti da trauma; fra queste, il 75% si verifica nei primi 3 giorni. Nei pazienti che sopravvivono a questo periodo la causa di morte è la risultante di disfunzioni d organo non neurologiche (NNOD: Non Neurologic Organ Dysfunction) tra cui l insufficienza respiratoria e le disfunzioni cardio-vascolari sono le più importanti. Partendo da queste considerazioni, in questa review gli autori sottolineano come ci sia uno stretto legame tra il trauma neurologico e il verificarsi delle NNOD, che sembrerebbero il risultato dell iperattività adrenergica. Storicamente un sacco di termini sono stati utilizzati per descrivere questo fenomeno: tempesta simpatica, brainstorming, instabilità ipotalamica acuta, convulsioni diencefaliche, ma forse la definizione di tempesta parossistica simpatica o PSS (Paroxysmal Sympathetic Storm) è quella che meglio descrive l insieme delle complicanze post trauma cranico severo caratterizzate da agitazione intermittente, diaforesi, ipertermia, ipertensione, tachicardia, tachipnea e postura in iperestensione. Dal primo caso clinico descritto nel 1929, le pubblicazioni che hanno descritto l iperattività simpatica dopo trauma cranico sono progressivamente aumentate e molti autori hanno focalizzato l attenzione sul ruolo potenziale dei farmaci betabloccanti. L eziologia e la fisiopatologia della PSS non sono a tutt oggi completamente chiare: il trauma cranico severo determinerebbe l eccessiva attivazione del sistema simpatico con un grosso aumento delle catecolamine circolanti, centrali e periferiche, che provocherebbe il quadro clinico di tachicardia, tachipnea, sudorazione, ipertensione, midriasi. La PSS non sembrerebbe di origine epilettogena quanto piuttosto legata alla disconnessione cerebrale. Le teorie della disconnessione cerebrale affermano che la dis-autonomia è il risultato della perdita di controllo delle strutture superiori su uno o più centri eccitatori. Le teorie della disconnessione convenzionale ipotizzano che, quando le vie di connessione tra corteccia cerebrale e strutture profonde sono danneggiate, vengono persi la regolazione e il controllo corticale sui centri autonomici del midollo allungato e dei centri diencefalici (talamo o ipotalamo). Un altra teoria della disconnessione è quella del rapporto tra centri eccitatori e inibitori in cui il danno alle strutture profonde cerebrali o ai centri diencefalici limiterebbe le capacità inibitorie e modulatorie del midollo spinale sul bombardamento del sistema simpatico agli organi bersaglio. Si verificherebbe, così, una condizione di sovrapposizione con iperattività simpatica (tachicardia, ipertensione, ipertermia, tachipnea e sudorazione profusa) e iperattività motoria (rigidità, spasticità, distonie). La diagnosi di PSS è clinica e un alto indice di sospetto andrebbe mantenuto in tutti i pazienti con trauma cranico severo, dopo aver escluso altre cause come infezioni, scarsa analgesia, embolia polmonare, ipovolemia, disturbi idro-elettrolitici. La PSS andrebbe diagnosticata in presenza di: - trauma cranico severo - T > 38,5 - FC > 130 b/min - FR > 30/min - agitazione - diaforesi - distonia (rigidità o postura in decerebrazione) Non tutti i segni devono essere presenti per la diagnosi, tuttavia devono manifestarsi per almeno 3 giorni. Durante la prima settimana post trauma cranico l aumento dell attività simpatica è stata correlata con un aumento di 5-7 volte dei livelli di adrenalina e noradrenalina circolanti, tuttavia non è necessario il loro dosaggio per la diagnosi di PSS. Non esiste un quadro di imaging specifico per la PSS; la TAC potrebbe descrivere un quadro di danno assonale diffuso o danno cerebrale specifico, la 16

17 RM potrebbe rivelare una emorragia intraventricolare o ventricolomegalia. La PSS non è associata a convulsioni e quindi non è necessario l EEG per la diagnosi. L insorgenza di PSS dopo trauma cranico può contribuire all aumento della mortalità e della morbidità, essendo essa associata a ipermetabolismo, necrosi miocardica, ipertensione polmonare ed e- dema polmonare. Tra i segni clinici più frequenti ci sono le modificazioni dell ECG secondarie a uno squilibrio autonomico, di cui la tachicardia sinusale è la più frequente. Una serie di altre alterazioni ECG quali bradicardia, modifiche del tratto ST, inversione dell onda T e aritmie ventricolari fatali si verificano nel 5% dei pazienti con PSS. Inoltre l iperattività simpatica può determinare: - effetti nocivi sulla contrattilità miocardica con severa depressione (fino al 50%) della funzione contrattile; - un sovraccarico acuto della circolazione polmonare con danno all endotelio capillare e alla membrana basale; - un aumento della pressione intracranica (PIC) secondario all aumento del volume cerebrale; - un aumento importante delle richieste metaboliche dell organismo, con uno stato ipermetabolico che appare resistente al supporto nutrizionale con grossissima perdita di peso dei malati; - una modulazione della risposta infiammatoria/immunitaria. Escluse tutte le altre condizioni cliniche che si possono manifestare con il quadro clinico della PSS, il suo trattamento si basa su tre principi basilari: eliminare la causa, ridurre la frequenza degli eventi, ridurre l intensità degli eventi. I farmaci a disposizione sono gli alfa-2 agonisti e gli antagonisti beta adrenergici. L utilizzo dei primi, clonidina e dexmedetomidina, sarebbe supportato dalla loro azione centrale e quindi neuro protettiva. La clonidina avrebbe mostrato di ridurre l attività simpatica e di migliorare l outcome in modelli animali di ischemia cerebrale incompleta. Il ruolo dei beta-bloccanti, derivato da studi effettuati in pazienti con emorragia sub-aracnoidea non traumatica, è stato poi esteso al trattamento delle disfunzioni d organo non neurologiche post trauma cranico severo. Se, infatti, i pazienti sopravvivono al trauma cranico severo e molti di questi sviluppano e muoiono per disfunzioni d organo non neurologiche post trauma soprattutto cardiache e respiratorie, allora gli autori ipotizzano che bloccando lo stato iperadrenergico sia possibile ridurre la mortalità. Su questo presupposto, il lavoro recensito ha analizzato 6 studi retrospettivi pubblicati tra il 2007 e il 2008 che hanno valutato l associazione tra l utilizzo di beta-bloccanti e l aumento della sopravvivenza. In sintesi, tutti i dati retrospettivi e osservazionali disponibili sostengono fortemente un ruolo protettivo dei beta-bloccanti nei pazienti con trauma cranico. Dall analisi cumulativa dei dati non emerge un indicazione uniformità su quale beta-bloccante utilizzare e, anche se il propanololo assicura la migliore penetrazione attraverso la barriera ematoencefalica, gli effetti osservati sembrano essere indipendenti dal tipo di farmaco utilizzato. In definitiva gli autori concludono che il trauma cranico rimane la causa principale di morte nei pazienti traumatizzati. Escludendo i traumi cranici che non sopravvivono, la causa di morte è spesso dovuto a disfunzioni non neurologiche soprattutto cardiache. La PSS è determinata da disturbi ipotalamici o da uno squilibrio del rapporto tra risposte eccitatorie e inibitorie nel midollo allungato. Il blocco della risposta iper-adrenergica con i betabloccanti è associato a un significativo miglioramento della sopravvivenza, soprattutto nei pazienti più anziani e più gravi. Molte domande rimangono senza risposta, soprattutto sul dosaggio, sul timing in base a un effetto specifico, sul tipo di beta-bloccante da utilizzare. Solo futuri trial clinici prospettici potranno chiarire questi aspetti. Commento - Come spesso accade, l approfondimento del tema e la scelta di recensire e commentare questo articolo è stata dettata dall esigenza di capire cosa accadeva a un paziente ricoverato presso la nostra rianimazione. Si trattava di un giovane di 30 anni con trauma cranico severo e GCS sulla strada di 5 (V1-M3- E1), con un quadro TAC di focolai lacerocontusivi diffusi ed edema ingravescente, trauma toracico con frattura composta di sterno senza 17

18 contusione miocardica, frattura scomposta di femore (trattamento con il posizionamento di un chiodo endomidollare) e di tibia e perone (trattamento con fissatore esterno). In settima giornata, in una situazione di apparente normalità clinica, il paziente ha presentato un improvvisa grave anomalia dell ECG, con sopraslivellamento del tratto ST su tutte le derivazioni e un importante instabilità emodinamica. Sono stati effettuati dosaggi seriati della troponina ogni 4 ore, ma il test ha dato sempre esito negativo; è stato ripetuto l esame ecocardiografico che però è risultato sostanzialmente sovrapponibile a quello dell ingresso. Seguendo un ordine logico è stata valutata l efficacia della sedazione, il quadro infettivo, il quadro cranico (lieve aumento dell edema cerebrale), toracico e addominale (angio-tac toracica e addominale negativa), l eventuale insorgenza di una sindrome compartimentale a carico della gamba fratturata (negativo). Agli esami di laboratorio, l unico dato era un aumento non spiegabile della potassiemia che tuttavia non ha mai superato i 6 meq/l. Il sospetto diagnostico si è dunque concentrato sulla PSS e ciò ha imposto un lavoro collettivo di revisione della letteratura per avere conferma del sospetto ed eventualmente indicazioni sulla terapia. L approfondimento ha consentito di fare diagnosi differenziale, escludendo la PSS e portando l attenzione sull alterazione elettrolitica: la correzione della potassiemia ha portato alla rapida scomparsa delle alterazioni elettrocardiografiche e alla normalizzazione del quadro e- modinamico. La review qui presentata esamina e mette in ordine una serie di concetti noti in letteratura, partendo dal quadro clinico e invitando a mantenere alto l indice di sospetto in caso di trauma cranico severo. Le conclusioni sono lontane dal fornire indicazioni definitive sul farmaco da scegliere, sul dosaggio e sul timing. Purtroppo, sul tema la letteratura è ancora estremamente carente. Revisione e commento di Concetta Pellegrini UOC Anestesia e Rianimazione AORN G. Rummo - Benevento SELEZIONE DALLA LETTERATURA Ancora Ecodoppler. Accuratezza diagnostica e utilità dell indice resistivo renale, anche in valore assoluto. Darmon M, Schortgen F, Vargas F, et al Diagnostic accuracy of Doppler renal resistive index for reversibility of acute kidney injury in critically ill patients Int Care Med. 2011;37:68-76 Sull ultimo numero di Intensive Care Medicine è apparso un articolo originale che dimostra la capacità dell indice resistivo renale (RI, citato anche in un altro articolo di questo numero) di discriminare le patologie renali acute del paziente critico (Acute Kidney Injury - AKI) fra transitorie, ovvero funzionali (insufficienza renale prerenale) e persistenti (danno organico). L insufficienza renale acuta, come è noto, rappresenta un fattore indipendente di mortalità e si sviluppa in circa il 50% dei pazienti critici. Se si escludono le insufficienze ostruttive, le cause principali di AKI sono l insufficienza renale prerenale da ipoperfusione (reversibile se viene ripristinato un flusso sufficiente) e l insufficienza renale persistente su base organica, nella maggior parte dei casi dovuta a necrosi tubulare acuta. Le forme persistenti di AKI hanno un outcome favorevole solo nel caso in cui si ricorra tempestivamente a restrizione di liquidi e terapia di supporto dialitica (Renal Replacement Terapy - RRT). L RI misurato con l ecodoppler delle arterie renali è un indice di resistenza al flusso distale al punto di campionamento: un basso RI equivale a basse resistenze renali al flusso. RI = Vel. di picco sistolico - Vel. di picco diastolico Velocità di picco sistolico L RI sembrerebbe in grado di differenziare, anche in valore spot, le forme prerenali da quelle organiche persistenti (necrosi tubulare acuta). I 51 pazienti studiati erano tutti ventilati meccanicamente, nessuno di loro presentava stenosi renale, aritmie, patologia ostruttiva o terapia diuretica, tutti erano di età maggiore ai 18 anni e nessuno presentava insufficienza renale preesistente alla data del ricovero. 18

19 È stata definita AKI transitoria una disfunzione in regressione entro 3 gg, mentre per AKI persistente è stata intesa una disfunzione di durata superiore ai 3gg. Il ripristino funzionale per tutti è stato definito come normalizzazione dell output urinario e/o riduzione della creatinina plasmatica. Basandosi su questi criteri, il 26% dei pazienti in esame ha presentato una disfunzione prerenale e il 43% una forma persistente. Nei pazienti che hanno sviluppato AKI persistente, oliguria e rialzo della creatinina non erano necessariamente presenti in contemporanea. Il valore mediano per l RI è stato di 0,77: 0,71 per i pazienti senza AKI o con forma prerenale e 0,82 nei pazienti con AKI persistente. Sebbene non facesse parte dello studio, gli autori hanno notato che l infusione continua di vasocostrittori non ha influenzato l attendibilità del dato. Probabilmente il motivo risiede nel fatto che la pressione arteriosa e l indice di pulsazione hanno il maggior impatto sull indice di resistività, per tale motivo nei pazienti che ricevono noradrenalina in infusione continua l RI correla negativamente con la MAP ma non con la dose di vasocostrittore impiegata per raggiungere quel target pressorio. In altre parole: migliore è la perfusione, più basso è l indice di resistività, indipendentemente dal tipo e dose di vasocostrittore impiegato. In questo studio, un RI > ha presentato una sensibilità dell 82% e una specificità del 92% nel discriminare forme funzionali da forme organiche. La clinica e gli esami di laboratorio, in atto a disposizione, sembrano meno sensibili e specifici, compreso il rapporto azotemia/creatinina che si attesta su una sensibilità del 65% e una specificità del 50%. L unico indice dotato di buona affidabilità è risultato essere un rapporto tra azotemia plasmatica e azotemia urinaria < 10, che raggiunge una sensibilità di 89% e una specificità del 79% per la diagnosi di AKI persistente. Va notato che, sebbene alti valori plasmatici di creatinina non siano considerati marker di AKI persistente, lo studio in esame ha messo in evidenza un aumento di urea e creatinina plasmatiche maggiore nelle forme persistenti che nelle transitorie, soprattutto se vengono presi in considerazione valori di cut-off ottimali: creatinina > 140 μmol/l (sensibilità di 81%, specificità di 79%). L indice di resistività appare comunque più specifico, a parere degli autori, nel discriminare le forme funzionali dalle persistenti, anche quando si utilizzino definizioni diverse di AKI (Risk, Injury, Failure, Loss and End stage kidney disease criteria). L indice di resistività renale, pur influenzato da variazioni emodinamiche sistemiche, è principalmente determinato da modifiche della pressione interstiziale, ureterale e dell emodinamica intrarenale per danno interstiziale; appare utile per valutare le resistenze al flusso ma non il flusso renale in sé, sembra riflettere il grado di danno nelle forme di insufficienza renale cronica o ipertensione e sembra essere associato al rischio di sviluppare disfunzione renale post trapianto; non appare invece utile nel discriminare tra i diversi meccanismi alla base delle forme intrinseche. Lo studio in questione, nonostante i limiti dichiarati dagli stessi autori (popolazione selezionata, studio unicentrico, mancata valutazione delle variabilità individuali nella misurazione del parametro, misurazioni effettuate non sempre nello stesso momento in riferimento all inizio della ventilazione meccanica) dimostrerebbe che l RI è affidabile anche in misurazione singola e non necessariamente come trend di valori (vedi articolo a pagina 14). Essendo in grado di discriminare precocemente forme diverse di AKI, questo parametro consentirebbe di mirare le terapie e contrarre i tempi: aggressivo trattamento con fluidi e farmaci vasoattivi per ripristinare una buona perfusione (AKI transitorie) vs RRT e restrizione di liquidi (AKI persistenti). Take home messages - In attesa di studi multicentrici, su grossi campioni, appare prudente consigliare di: - integrare sempre i dati, facendo ricorso a più tecniche e metodiche di monitoraggio. - seguire le regole generali del monitoraggio integrato in terapia intensiva, anche considerata la natura operatore-dipendente della metodica, ovvero che il trend di valori migliora sempre l affidabilità del dato, qualunque esso sia. - RI cut off: 0,71: forma funzionale reversibile (0,62-0,77) o assenza di patologia renale (0,66-0,77). 0,82 presenza di patologia organica (0,81-0,89): AKI persistente (spesso necrosi tubulare acuta). Revisione e commento di Roberta Ciraolo U.O. Anestesia e Rianimazione Ospedale S. Vincenzo Taormina 19

20 SELEZIONE DALLA LETTERATURA Il perno folle. Efficacia del collare in presenza di lesioni instabili del rachide cervicale Lador R, Ben-Galim P, Hipp JA Motion within the unstable cervical spine during patient maneuvering: the neck pivot-shift phenomenon J Trauma. 2011;70: Introduzione - I collari cervicali da estricazione sono applicati quotidianamente a milioni di traumatizzati allo scopo di proteggere e immobilizzare il tratto occipito-cervicale del rachide ed evitare potenziali danni secondari. Gli studi disponibili, tutti su volontari sani, hanno dimostrato che la corretta applicazione del collare è in grado di limitare i movimenti del capo, tuttavia evidenze preliminari suggeriscono che il collare non sia in grado di proteggere efficacemente il rachide dal danno secondario in presenza lesioni instabili durante la mobilizzazione del paziente. Studi autoptici hanno documentato che la manovra di semplice allineamento del collo e applicazione del collare cervicale può determinare una separazione fra le vertebre cervicali in presenza di una severa lesione dissociativa; nulla è noto rispetto all efficacia del collare durante il trasporto, il trasferimento o la rotazione (log-roll) nel paziente con lesione midollare. Il presente studio ha esaminato una serie di elementi biomeccanici della immobilizzazione del rachide cervicale con collare durante le manovre di mobilizzazione. Metodo - Lo studio è stato effettuato su sette cadaveri dopo la cessazione del rigor mortis, in modo che i movimenti del collo fossero identici a quelli di volontari sani asintomatici. Nessuno dei cadaveri aveva alterazioni o anomalie pregresse del rachide cervicale tali da interferire con la motilità intervertrebrale. Sui cadaveri è stata creata una lesione instabile del rachide attraverso la lussazione di C1 su C2 e la sezione dei relativi legamenti intervertebrali, mantenendo intatte le strutture muscolari. Le lesioni sono state documentate radiologicamente. A ciascun cadavere è stato applicato un collare cervicale convenzionale in modo da rappresentare le variazioni visibili in DEA (collare correttamente posizionato, troppo grande o troppo piccolo); il reallineamento delle lesioni create chirurgicamente è stato documentato per via fluoroscopia. A collare in sede, è stata effettuata una TC di base con il capo in posizione neutra, quindi ulteriori scansioni sono state effettuate dopo aver effettuato le normali manovre (log-roll per esaminazione del dorso, trasferimento orizzontale). Su due cadaveri è stata effettuata un ulteriore TC dopo log-roll senza collare in sede. In ambedue i casi, le manovre di rotazione sono state effettuate da tre o quattro persone che hanno effettuato la procedura tentando di minimizzare ogni movimento relativo fra la testa e il corpo. Le immagini TAC ottenute prima e dopo gli spostamenti sono state successivamente sovrapposte con un software che ha consentito di misurare gli spostamenti relativi fra C1 e C2 sul piano assiale e sul piano medio sagittale o coronale, a seconda del punto in cui veniva osservato il maggiore movimento, rappresentativo dell effetto clinico della compressione o sezione del midollo spinale. Risultati - Il movimento medio sul piano assiale è stato di 7,74 mm (range 3,31 22,8 mm; SD 6,8), mentre in direzione cranio-caudale è stato di 2,93 mm (range 0 7,79 mm; SD 2,51). Movimenti analoghi sono stati evidenziati per le manovre in assenza di collare ma, poiché l esperimento è stato tentato su soli due cadaveri, i dati non sono stati giudicati sufficienti a giudicare se l applicazione del collare possa apportare benefici. In corso di mobilizzazione i cadaveri sono stati accuratamente esaminati per verificare quali fossero le interazioni fra collare e corpo. Lo studio ha evidenziato che la mobilizzazione dei corpi determina significativi movimenti relativi nella regione lesionata nonostante l utilizzo di un collare cervicale rigido standard posizionato per stabilizzare una lesione instabile del rachide. È pertanto verosimile che analoghi movimenti intervertebrali possano avvenire nei pazienti traumatizzati in corso di estricazione, trasporto, trasferimento e, in generale, di ogni manovra relativa alla gestione del paziente, confermando quando già rilevato da numerosi altri studi disponibili in letteratura. 20