Lezioni di Algebra Lineare V. Autovalori e autovettori

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1 Lezioni di Algebra Lineare V. Autovalori e autovettori Versione novembre 2008 Contenuto 1. Cambiamenti di base 2. Applicazioni lineari, matrici e cambiamenti di base 3. Autovalori e autovettori

2 2 1. Cambiamenti di base. Supponiamo di avere due basi B e B dello spazio vettoriale V. Sia dim V = n, B = {v 1,..., v n } e B = {w 1,..., w n }. Il problema che affrontiamo in questo paragrafo è: che relazione c è tra le coordinate rispetto a B e le coordinate rispetto a B di un generico vettore v di V? Facciamo prima un esempio molto semplice. Supponiamo che V sia R n, e che una delle due basi sia la base canonica, che denotiamo con C. In questo caso tutti i vettori sono espressi in modo naturale in coordinate rispetto a C, cioè per ogni v R n, v = v C. Quindi supponiamo di voler usare una nuova base di R n, diciamo B, e di voler passare, per ogni vettore di R n, dalle coordinate naturali, cioè quelle rispetto a C, alle coordinate rispetto a B. Chiaramente per i vettori di B la cosa è immediata: se B = {v 1,..., v n }, allora le coordinate di v 1, v 2,..., v n rispetto a sè stessi sono , 0.,...,., rispettivamente. Se v è un vettore qualunque di R n, per determinare le sue coordinate rispetto a B dobbiamo risolvere il sistema Mx = v, dove M è la matrice che ha per colonne i vettori di B, scritti in coordianate naturali. Questo è un sistema a soluzione unica, perché B è una base; in effetti M è una matrice invertibile e la soluzione del sistema è il vettore M 1 v. Otteniamo quindi che, per ogni v R n, v B = M 1 v C, e v C = Mv B. Osserviamo che dalle relazioni precedenti segue che le colonne di M 1 devono essere i vettori della base canonica C scritti in coordinate rispetto alla base B.

3 Torniamo al caso generale e fissiamo le notazione: per ogni v V indichiamo con v B e v B cioè: i vettori delle coordinate di v rispetto alle basi B e B, rispettivamente, a 1 b 1.. v B =., v B = a n dove gli a i e i b i (i = 1,..., n) sono gli unici numeri reali tali che b n 3 v = a 1 v a n v n, v = b 1 w b n w n. Supponiamo di conoscere le coordinate dei vettori di B rispetto a B. Allora per ogni vettore v possiamo passare direttamente dalle coordinate rispetto a B a quelle rispetto a B. Infatti, se w 1 = a 11 v 1 + a 21 v a n1 v n,......, w n = a 1n v 1 + a 2n v a nn v n, da v = b 1 w b n w n otteniamo la scrittura di v in funzione della base B sostituendo ai w i le loro espressioni in funzione dei v j scritte sopra. Facendo esplicitamente i calcoli si ottiene facilmente che, se M = (w 1 B w n B ), cioè M = a 11 a 12 a 1n a a n1 a nn, allora v B = Mv B, e quindi v B = M 1 v B. Per l ultima uguaglianza abbiamo usato il fatto che M è una matrice di rango n, perché B è una base, quindi M è invertibile. È immediato verificare che M 1 = (v 1B v nb ), cioè: le colonne di M 1 sono i vettori della base B, scritti in coordinate rispetto alla base B. Definizione. Le matrici M ed M 1 si chiamano matrici di passaggio dalla base B alla base B e viceversa.

4 4 Problemi. 1. Sia C la base canonica di R 3 e sia B = { t (1 0 0), t (1 1 0), t (1 1 1)}. (a) Determinare le matrici di passaggio dalla base B alla base C e viceversa. (b) Scrivere le coordinate del vettore t (2 5 3) rispetto alla base B. (c) Scrivere le coordinate del generico vettore t (a b c) di R 3 rispetto alla base B. (d) Se v R 3 ha coordinate t (a b c ) rispetto a B, quali sono le sue coordinate rispetto a C? Risoluzione. (a) La matrice di passaggio da B a C è la matrice M che ha per colonne i vettori di B scritti rispetto alla base C, cioè M = La matrice di passaggio da C a B è l inversa di M o, equivalentemente, la matrice che ha per colonne i vettori della base canonica di R 3 scritti in coordinate rispetto a B. Detti v 1, v 2, v 3 i vettori di B, nell ordine scritto sopra, si ha chiaramente e 1 = v 1, e 2 = v 2 v 1, e 3 = v 3 v 2, quindi, rispetto a B, le coordinate di e 1, e 2, e 3 sono (1, 0, 0), t ( 1, 1, 0), t (0, 1, 1), rispettivamente. Segue che la matrice di passaggio da C a B è M 1 = (b) Basta moltiplicare t (2 5 3) per M 1 a sinistra: = Dunque il vettore delle coordinate di t (2 5 3) rispetto a B è t ( 3, 2, 3) (cioè t (2 5 3) = 3v 1 + 2v 2 + 3v 3 ). (c) Analogo al punto precedente: a b c = quindi le coordinate richieste sono a b, b c, c. a b b c c,

5 (d) Basta moltiplicare t (a b c ) a sinistra per M, quindi le coordinate richieste sono a + b + c, b + c, c. {( ) ( )} {( Consideriamo le basi di R 2 B 1 =,, B = 1 (a) Determinare le matrici di passaggio da B 1 a B 2 e viceversa. ), ( )} 3. 1 (b) Se v R 2 ha coordinate t (a b) rispetto a B 1, quali sono le coordinate di v rispetto a B 2? (c) Se v R 2 ha coordinate t (a b ) rispetto a B 2, quali sono le coordinate di v rispetto a B 1? Risoluzione. Per risolvere al problema bisogna scrivere i vettori di B 1 come combinazione lineare di B 2 e viceversa. [Provate a fare il conto direttamente e confrontate con la soluzione che stiamo per dare.] Poniamo ( ) ( ) M 1 = M =. 1 1 ( ) x Se v = R y 2 (quindi x, y sono le coordinate di v rispetto alla base canonica), allora M1 1 v è il vettore delle coordinate di v rispetto a B 1, mentre M2 1 v è il vettore delle coordinate di v rispetto a B 2. Segue che M 1 2 M 1 ha per colonne le coordinate dei vettori di B 1 rispetto a B 2, quindi è la prima delle matrici richieste. Analogamente, M 1 1 M 2 ha per colonne le coordinate dei vettori di B 2 rispetto a B 1, quindi è la matrice di passaggio da B 2 a B 1. (Notate che le due matrici sono l una l inversa dell altra.) Calcolando esplicitamente si ottiene: ( ) ( ) M = M =, 1 4 quindi M 1 2 M 1 = ( ) 5 2, M M 2 = ( ) (b) Se v R 2 ha coordinate t (a b) rispetto a B 1, allora le sue coordinate rispetto a B 2 sono M 1 2 M 1 ( ) a = b ( ) 5a 2b. 7a + 3b (c) Se v R 2 ha coordinate t (a b ) rispetto a B 2, allora le sue coordinate rispetto a B 1 sono ( ) ( ) M1 1 a M 3a 2 b = 2b 7a + 5b. 5

6 6 2. Applicazioni lineari, matrici e cambiamenti di base. Supponiamo che V e W siano due spazi vettoriali e che f : V W sia un applicazione lineare da V in W. Abbiamo visto che nel caso particolare in cui V e W sono spazi vettoriali di tipo R k l applicazione f è rappresentata da una matrice. Lo stesso vale qualunque siano gli spazi V e W, una volta fissate una base di V e una base di W. Supponiamo B V = {v 1,..., v n } sia una base di V, e supponiamo fissata anche una base B W di W. Rappresentiamo quindi ogni vettore v V con il suo vettore v (in R n ) di coordinate rispetto a B V e ogni vettore di W con il suo vettore w (in R m ) di coordinate rispetto a B W. Consideriamo quindi la matrice M f = (f(v 1 ) f(v n )) ( ) Per costruzione M f è una matrice m n. Se v V e v = t (a 1 a n ), allora per definizione v = a 1 v a n v n, quindi f(v) = a 1 f(v 1 ) + + a n f(v n ) e Otteniamo quindi che: f(v) = a 1 f(v 1 ) + + a n f(v n ) = M f. = L Mf (v). a n a 1 se fissiamo una base di V e una base di W, allora ogni applicazione lineare f di V in W è rappresentata dalla moltiplicazione a sinistra per una matrice, cioè è di tipo L M. È chiaro che la matrice M f definita in ( ) non dipende solo f, ma anche dalle basi scelte. Definizione. M f si chiama la matrice di f rispetto alle basi B V e B W. Osservazione. La definizione appena data è coerente con la definizione matrice rispetto alle basi canoniche data in precedenza per le applicazioni da R m a R n

7 (III dispensa, pag. 4). Basta osservare che se M è una matrice reale n m, L M : R m R n è l applicazione lineare associata e {e 1,..., e m } è la base canonica di R m, allora le colonne M sono ordinatamente L M (e 1 ),..., L M (e n ), scritti naturalmente rispetto alla base canonica di R n. Problema. Sia f : R 2 R 2 ( ) x y ( ) x y. x Verificare che f è lineare e scriverne la matrice rispetto alla base canonica di R 2 (si intende sia sul dominio, sia sul codominio). Se scegliamo come base (sia sul dominio sia sul codominio) {( ) ( )} 1 2 B =, 1 1 qual è la matrice di f? Risoluzione. Per la prima parte procediamo come nell esercizio precedente. Abbiamo che f ( ) x = y ( ) ( x y quindi f è lineare perché uguale a L M, con M = matrice di f rispetto alla base canonica. ), ( ). Inoltre M è la Per rispondere all ultima domanda, consideriamo la matrice di passaggio da B alla base canonica, cioè la matrice P = ( ) Allora la matrice richiesta è P 1 MP. Spieghiamo perché. In base alla definizione, per scrivere la matrice di f rispetto a B dobbiamo calcolare le immagini dei vettori di B e scriverle in coordinate rispetto alla base B stessa. Visto che f è la moltiplicazione a sinistra per M abbiamo che ( ) ( ) ( ) ( ) ( ) ( ) ( ) ( ) f = = ; f = = Segue che MP = ( ) ( ) = ( ),

8 8 cioè MP è la matrice che ha per colonne le immagini di B. Queste immagini sono scritte però rispetto alla base canonica e non rispetto alla base B, come ci servirebbe. Nel Paragrafo 11 abbiamo visto che per passare dalle coordinate canoniche a quelle rispetto a B basta moltiplicare a sinistra per la matrice P 1, quindi la matrice richiesta è P 1 MP, cioè (i calcoli sono lasciati al lettore per esercizio) ( ) Il procedimento descritto nel problema precedente si generalizza nel seguente enunciato (di cui omettiamo la dimostrazione). Proposizione. Sia f : V W un applicazione lineare, B V una base di V, B W una base di W, e M la matrice di f rispetto a queste basi. Se B V e B W sono altre due basi di V e W, allora la matrice di f rispetto a B V e B W è P 1 MQ, dove P e Q sono le matrici di passaggio da B V a B V e da B W a B W, cioè, P è la matrice che ha per colonne i vettori di B V scritti rispetto alla base B V e Q è la matrice che ha per colonne i vettori di B W scritti rispetto alla base B W. Corollario. Sia f : R n R n un endomorfismo e sia M la matrice di f rispetto alla base canonica (in partenza e in arrivo). Se B è un altra base di R n, allora la matrice di f rispetto a B (in partenza e in arrivo), è P 1 MP, dove P è la matrice che ha per colonne i vettori di B, scritti in coordinate naturali.

9 9 3. Autovalori e Autovettori. Supponiamo che V sia uno spazio vettoriale reale di dimensione n e che f : V V sia un applicazione lineare, cioè un endomorfismo di V. Definizione 1. Un autovettore di f è un vettore v V diverso dal vettore nullo tale che fv = αv per un certo scalare α. Se v è un autovettore di f e α R è il numero reale tale che fv = αv, allora diciamo che α è un autovalore di f e che v è un autovettore relativo all autovalore α. Osservazioni. 1. La relazione f0 = α0 è vera per ogni numero reale α, ma 0 non è un autovettore, per definizione. 2. È chiaro che un autovettore, essendo non nullo per definizione, è relativo ad un unico autovalore. Se fissiamo una base in V allora possiamo identificare V con R n e realizzare f come un applicazione di tipo L M, moltiplicazione a sinistra per una matrice M (n n). Allora il vettore v 0 è un autovettore di f se e solo se Mv = αv ( ) per un certo α R. Se I è la matrice identità n n, allora αv = (αi)v, quindi, sommando (αi)v alla ( ), otteniamo Mv (αi)v = 0 e, applicando la proprietà distributiva, (M αi)v = 0.

10 10 Poiché v 0 per definizione, la relazione precedente dice in particolare che il sistema omogeneo (M αi)x = 0 ha soluzioni non nulle e quindi, per la Proposizione 4 della IV dispensa (pag. 12), det (M αi) = 0 ( ) Poiché, viceversa, se det (M αi) = 0 allora (M αi)x = 0 ha delle soluzioni non nulle, invertendo i passaggi otteniamo il risultato seguente. Proposizione 1. Sia M la matrice di f rispetto a una qualunque base di V. Allora il numero α R è un autovalore di f se e solo se det (M αi) = 0. Se α è un autovalore di f, allora gli autovettori di f relativi a α sono le soluzioni non nulle del sistema omogeneo (M αi)x = 0. Definizione 2. Sia M una matrice reale n n. Un autovettore di M è un vettore v R n diverso dal vettore nullo tale che Mv = αv per un certo scalare α. Se v è un autovettore di M e α R è il numero reale tale che Mv = αv, allora diciamo che α è un autovalore di M e che v è un autovettore relativo all autovalore α. Dunque la Proposizione 1 dice che gli autovalori e gli autovettori di f (che non dipendono dalla scelta della base) corrispondono agli autovalori e agli autovettori della matrice di f rispetto a una qualunque base fissata. La Proposizione 1 fornisce uno strumento per calcolare gli autovalori e gli autovettori di f. In più, dice quanti sono al massimo gli autovalori di f. Vale infatti il fatto seguente.

11 11 Proposizione 2. Sia M una matrice n n. Allora χ M (λ) = def det (M λi) è un polinomio di grado n nell indeterminata λ. Gli autovalori di M sono le radici di questo polinomio. In particolare, gli autovalori di M sono al massimo n. La seconda parte della Proposizione 2 segue direttamente dalla Proposizione 1. La prima parte non è difficile da dimostrare, ma qui non ne diamo alcuna dimostrazione. Provate a capire perché è vera in generale, dopo avere letto l esempio seguente. Esempio 1. Sia M = Allora M λi = λ λ 0 = 1 λ λ λ λ Con lo sviluppo di Lalace rispetto alla prima riga otteniamo: χ M (λ) = (1 λ)[(5 λ)(9 λ) 48] 2[4(9 λ) 42] + 3[32 7(5 λ)]. È chiaro che non vi sono termini di grado maggiore 3 e che solo il primo addendo fornisce un contributo al termine di grado 3. Precisamente, il termine principale di χ M (λ) è λ 3. Definizione 3. Il polinomio χ M (λ) definito nella Proposizione 2 si chiama il polinomio caratteristico della matrice M. Se cambiamo la scelta della base, come sappiamo dalla seconda parte delle lezioni, la matrice M cambia in C 1 MC, dove C è la matrice del canbiamento di base. Il polinomio caratteristico di C 1 MC è det (C 1 MC λi).

12 12 Osserviamo che C 1 IC = I, quindi, per la proprietà distributiva, C 1 MC λi = C 1 (M λi)c. Utilizzando il Teorema di Binet, otteniamo che il determinante di questa matrice è det (C 1 (M λi)c) = det (C 1 )det (M λi)det C = (det C) 1 det (M λi)det C = det (M λi). Otteniamo quindi il risultato seguente. Proposizione 3. Se M e C sono matrici n n e C è invertibile, allora M e C 1 MC hanno lo stesso polinomio caratteristico. Quindi se le matrici M e M rappresentano il medesimo endomorfismo f di V rispetto a due basi diverse, allora M e M hanno lo stesso polinomio caratteristico. Grazie alla Proposizione 3, possiamo definire il polinomio caratteristico di un endomorfismo. Definizione 3. Il polinomio caratteristico di f è il polinomio caratteristico della matrice di f rispetto a una qualunque base di V. La Proposizione 1 può essere rienunciata nel modo seguente. Teorema 1. Gli autovalori di f sono le radici del suo polinomio caratteristico. Gli autovettori di f relativi all autovalore α sono gli elementi non nulli del sottospazio vettoriale ker (f αid), dove Id è l applicazione identità di V in sè. Esempio 1. Sia f : R 3 R 3 x y x 2x + z 2y + 3z z. La matrice di f rispetto alla base canonica di R 3 è M = quindi il polinomio caratteristico di f è 2 λ λ 3 = ( 1 λ)(2 λ) λ

13 Quindi f ha come autovalori 1 e 2. Per calcolare gli autovettori di f dobbiamo calcolare esplicitamente gli spazi nulli delle matrici M ( 1)I e M 2I: gli elementi non nulli di questi spazi sono gli autovettori. Calcoliamo prima gli autovettori relativi a 1. Risolviamo quindi il sistema omogeneo (M + I)x = La matrice dei coefficienti è M + I = , quindi risolvendo il sistema si trova Perciò { x = 1 3 z y = z N (M + I) = 1 3 z z z R, z e quindi l insieme degli autovettori relativi a 1 è 1 3 z z z R, z 0. z Calcoliamo ora gli autovettori relativi a 2 risolvendo il sistema omogeneo. (M 2I)x = 0. La matrice dei coefficienti è M 2I = , quindi risolvendo il sistema si trova semplicemente { z = 0,

14 14 mentre x e y sono libere. Perciò N (M 2I) = x y x, y R 0 e l insieme degli autovettori relativi a 2 è x y x, y R, (x, y) (0, 0). 0 Algebra: fatti da ricordare e complementi. Sia p(x) un polinomio a coefficienti reali nell indeterminata x. Indichiamo con deg p(x) il grado di p(x). Definizione A. Una radice reale di p(x) è un numero reale α tale che p(α) = 0 (dove p(α) è il numero reale ottenuto sostituendo α all indeterminata x). Teorema A. Il numero reale α è una radice di p(x) se e solo se p(x) è divisibile per (x α), cioè se e solo se esiste un polinomio a coefficienti reali q(x) (di grado n 1) tale che p(x) = (x α)q(x). ( ) Supponiamo che α sia una radice di p(x) e consideriamo la fattorizzazione ( ). Se α è radice anche del polinomio q(x), allora possiamo fattorizzare anche q(x) in accordo con il Teorema A, diciamo q(x) = (x α)q 2 (x) (con deg q 2 (x) = n 2). Induttivamente otteniamo la fattorizzazione p(x) = (x α) m α s(x), dove m α è un intero positivo e s(x) è un polinomio, di grado n m α, non divisibile per (x α). L intero m α si chiama la molteplicità della radice α del polinomio p(x). Definizione B. La molteplicità della radice α del polinomio p(x) è il massimo degli interi m tali che p(x) è divisibile per (x α) m.

15 15 Esempio 2. Consideriamo il polinomio p(x) = (x 1)(x 2 + x 2)(x 2 + 1). Il fattore x 2 +x 2 ha come radici reali 1 e 2, quindi si fattorizza come (x 1)(x+2), mentre il fattore x non ha radici reali e quindi è irriducibile. Ne segue che p(x) = (x 1) 2 (x + 2)(x 2 + 1) e che le radici di p(x) sono 1, con molteplicità 2, e 2, con molteplicità 1. Terminologia: quante radici reali ha un polinomio. Di solito, quando diciamo che il polinomio reale p(x) ha k radici reali sottintendiamo che contiamo le radici con la loro molteplicità. Ad esempio per il polinomio dell Esempio 2 diciamo che ha 3 radici reali (1 contata due volte, e 2 contata una volta). Se invece contiamo la radici senza tenere conte della molteplicità, allora specifichiamo che stiamo contando le radici distinte. Ad esempio il polinomio dell Esempio 2 ha 2 radici reali distinte. Teorema B. Se deg p(x) = n, allora p(x) ha al massimo n radici reali (contate con molteplicità). Torniamo agli autovalori. Definizione 4. Sia α un autovalore dell endomorfismo f. La molteplicità algebrica di α è la molteplicità di α come radice del polinomio caratteristico di f. Abbiamo un altra nozione di molteplicità di un autovalore. Definizione 5. Sia α un autovalore dell endomorfismo f. La molteplicità geometrica di α è la dimensione del sottospazio vettoriale ker (f αid). Per definizione di autovalore, se α è un autovalore di f allora ker (f αid) è un sottospazio non nullo, quindi la molteplicità geometrica di α è necessariamente un intero strettamente positivo. La traduzione nel linguaggio delle matrici delle precedenti definizioni è la seguente:

16 16 Definizione Sia α un autovalore della matrice M. La molteplicità algebrica dell autovalore α è la sua molteplicità come radice del polinomio caratteristico det (M λi). La molteplicità geometrica di α è la dimensione dello spazio nullo N (M αi). Esempio 3. Sia f : R 3 R 3 x y x La matrice di f rispetto alla base canonica di R 3 è M = x + y 2y 2z quindi il polinomio caratteristico di f è 2 λ λ λ = (2 λ)3. Quindi f ha come unico autovalore 2, con molteplicità algebrica 3. La molteplicità geometrica di 2 è la dimensione dello spazio nullo della matrice M 2I = x y = z 0 Sappiamo che in generale, se A è una matrice n n, allora dim N (A) = n rk A, quindi la molteplicità geometrica di 2 è 3 rk (M 2I) = 3 1 = 2.. Esercizio 1. Considerate le due matrici M 1 = ; M 3 = Verificate che entrambe hanno lo stesso polinomio caratteristico della matrice M dell Esempio 3 e che la molteplicità dell autovalore 2 è 1 per la matrice M 1 e 3 per la matrice M 3.

17 Supponiamo che B = {v 1,..., v n } sia una base dello spazio vettoriale V tale che la matrice M di f rispetto a B sia diagonale, poniamo α α M = α n Per definizione le colonne di M sono le coordinate di f(v 1 ),..., f(v n ) rispetto a B, e quindi otteniamo che f(v i ) = α i v i, per i = 1,..., n. Questo vuol dire che v 1,... v n sono autovettori di f, relativi agli autovalori α 1,..., α n, rispettivamente. Viceversa, è chiaro che la matrice di f rispetto ad una base costituita di autovettori è una matrice diagonale e che i termini diagonali di questa matrice sono autovalori di f. Definizione 6. L endomorfismo f si dice diagonalizzabile se esiste una base di f costituita di autovettori, cioè una base rispetto alla quale f ha matrice diagonale. La matrice reale quadrata M si dice diagonalizzabile se esiste una matrice reale invertibile C tale che C 1 MC è una matrice diagonale. Osservazione 3. Se M è la matrice di f rispetto a una qualunque base, allora f è diagonalizzabile se e solo se M è diagonalizzabile. Il solo se è immediato dalla definizione; il se segue dal fatto che ogni matrice invertibile è la matrice di un cambiamento di base (perché?). Esempi. 4. L applicazione f dell Esempio 3 non è diagonalizzabile. Infatti il suo unico autovalore, 2, ha molteplicità geometrica 2. Questo vuol dire che lo spazio nullo di (M 2I) ha dimensione 2, quindi, poiché gli autovettori appartengono a questo spazio nullo, un insieme linearmente indipendente di autovettori ha al massimo 2 elementi: ne segue che non può esistere una base di R 3 costituita di autovettori di f. 5. Consideriamo l applicazione lineare f : R 3 R 3 x y z 2x x + 3y 2x + 3z. 17

18 18 La matrice di f rispetto alla base canonica è quindi il polinomio caratteristico di f è M = , λ λ λ = (2 λ)(3 λ)2. Gli autovalori sono quindi 2, con molteplicità algebrica 1, e 3, con molteplicità algebrica 1. Le molteplicità geometriche sono: per 2 dim R 3 rk (M 2I) = 3 rk = 3 2 = 1, e per 3 dim R 3 rk (M 3I) = 3 rk = 3 1 = Quindi sappiamo che possiamo trovare un insieme indipendente di 2 autovettori relativi a 2, così come ovviamente possiamo trovare un autovettore relativo a 3 (non nullo per definizione). Se mettendo insieme i tre autovettori così trovati ottenessimo ancora un insieme linearmente inidipendente, avremmo una base di autovettori e potremmo diagonalizzare f. In realtà succede proprio questo: calcoliamo esplicitamente gli autovettori di f. Risolviamo il sistema (M 2I)x = 0. { x + y = 0 2x + 2z = 0 { y = x ; ci conviene lasciare libera la x, otteniamo: z = x, quindi N (M 2I) = x x x R. x Risolvendo (M 3I)x = 0 troviamo solo la condizione { x = 0, mentre y e z sono libere, quindi N (M 3I) = 0 y y, z R. z

19 Una base di N (M 2I) è costituita ad esempio dal singolo vettore 1 1, mentre 1 una base di N (M 3I) è, ad esempio, 0 1, 0 0. Ora è evidente che i tre 0 1 autovettori così trovati sono linearmente indipendenti, perché si vede immediatamente che il determinante della matrice C = è uguale a 1, quindi B = 1 1, 0 1, è una base di R 3 costituita di autovettori, relativi a 2, a 3, a 3, rispettivamente. Questo dice che f è diagonalizzabile, precisamente che la matrice di f rispetto a B è la matrice diagonale D = In più, poiché la matrice C scritta sopra è la matrice di passaggio dalla base B alla base canonica, abbiamo che D = C 1 MC. Definizione 7. L endomorfismo f si dice triangolarizzabile se esiste una base di V rispetto alla quale f ha matrice triangolare. La matrice reale quadrata M si dice triangolarizzabile se esiste una matrice reale invertibile C tale che C 1 MC sia una matrice triangolare. Osservazione 4. Come per la diagonalizzabilità, vale il fatto seguente: se M è la matrice di f rispetto a una qualunque base, allora f è triangolarizzabile se e solo se M è triangolarizzabile. A questo punto punto enunciamo i due teoremi fondamentali di questa sezione. Del primo teorema non daremo alcuna dimostrazione. Per il secondo daremo un idea abbastanza dettagliata della dimostrazione.

20 20 Teorema 2. Sia V uno spazio vettoriale reale di dimensione n e sia f un endomofirsmo di v. Allora f è triangolarizzabile se e solo se il suo polinomio caratteristico ha n radici reali (contate con molteplicità). Teorema 3. Sia V uno spazio vettoriale reale di dimensione n e sia f un endomofirsmo di v. Allora f è diagonalizzabile se e solo se valgono entrambe le condizioni seguenti: (1) il polinomio caratteristico di f ha n radici reali (contate con molteplicità); (2) per ogni autovalore di f la molteplicità geometrica coincide con la molteplicità algebrica. Osservazione 5. Dire che un polinomio p(x) di grado n ha n radici reali (contate con molteplicità) equivale a dire che p(x) ha una fattorizzazione del tipo p(x) = c(x α 1 ) m1 (x α k ) m k, dove c è una costante reale, α 1,..., α k sono le radici reali distinte di p(x) e m 1,..., m k sono le loro molteplicità. Osserviamo che l uguaglianza scritta sopra implica che n = m m k. La dimostrazione del Teorema 3 è basata sui due risultati seguenti. Lemma 1. Per ogni autovalore dell endomorfismo f la molteplicità geometrica non supera la molteplicità algebrica. Lemma 2. Supponiamo che α 1,..., α k siano autovalori distinti dell endomorfismo f e che, per i = 1,..., k, {v (i) 1,..., v(i) n i } sia un insieme linearmente indipendente di autovettori relativi a α i. Allora k i=1 {v (i) è un insieme linearmente indipendente. n i } 1,..., v(i) Vediamo come si deduce il Teorema 3 utilizzando i due Lemmi precedenti.

21 Supponiamo che f sia diagonalizzabile. Allora per definizione esiste una base B di V costituita di autovettori di f. Supponiamo che α 1,..., α k siano gli autovalori distinti di f e supponiamo che in B vi siano esattamente n i autovettori relativi a α i, per i = 1,..., k. Allora 21 n n k = B = n. Sia ora m i la molteplicità algebrica di α i, per i = 1,..., k. Poiché il polinomio caratteristico di f, che ha grado n, è divisibile per (x α i ) m i, dobbiamo avere m m k n. Ma per il Lemma 1 si ha n i m i, per i = 1,..., k, quindi dalle due relazioni precedenti otteniamo che n i = m i per i = 1,..., k e m m k = n. Ed è chiaro che la condizione n i = m 1 è la condizione (2) del Teorema 3; mentre la condizione m m k = n equivale alla condizione (1). Supponiamo ora che valgano le condizioni (1) e (2) del Teorema 3. Allora, il polinomio caratteristico di f è di tipo c(x α 1 ) m1 (x α k ) m k, dove c è una costante reale e α 1,..., α k sono gli autovalori distinti di f, di molteplicità algebriche m 1,..., m k rispettivamente. Si ha quindi m m k = n. Ora per ipotesi la molteplicità geometrica di α i coincide con m i quindi, per definizione di molteplicità geometrica, dim ker (f α i Id) = m i, per i = 1,..., k. Poiché gli elementi non nulli di ker (f α i Id) sono gli autovettori relativi a α i, una base {v (i) 1,..., v(i) m i }

22 22 di ker (f α i Id) è un insieme linearmente indipendente di m i autovettori relativi a α i. A questo punto, il Lemma 2 ci assicura che che k i=1 {v (i) 1,..., v(i) m i }, è un insieme linearmente indipendente di m m k autovettori di f, e poiché m m k = n = dim V, questo insieme è una base di V. Quindi f è diagonalizzabile.

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