POSTFAZIONE di Paolo Mereghetti

Transcript

1 POSTFAZIONE di Paolo Mereghetti

2

3 A sentire Erland Josephson, nell intervista concessa ad Antoine Jacob per il quotidiano francese Le Monde (15 dicembre 2004), l idea di Sarabanda sarebbe nata come per scherzo, tra Ingmar, Liv e me, a proposito di quello che avrebbe potuto succedere a Johan e Marianne, i personaggi di Scene da un matrimonio. Un giorno, uno di noi e mi piace credere che fossi io ha proposto, così per scherzo, di fare un film sulla loro vita trent anni dopo. E ci siamo accorti che tutti e tre coltivavamo la stessa idea. Questa la dichiarazione dell attore, che Bergman poi ha cercato più o meno di smentire: non ci sarebbe nessun tipo di legame tra i due film, ha sostenuto. Anche se allora non si capisce perché mantenere gli stessi nomi per i due personaggi principali. Che non sia comunque un seguito vero e proprio, lo si deduce da alcune significative variazioni. Nel film del 1973 le due figlie di Johan e Marianne si chiamavano Eva e Karin, in Sarabanda diventano Sara e Martha. In Scene da un matrimonio il 95

4 secondo marito di Marianne si chiama Henrik, in Sarabanda, invece, è il nome del figlio di Johan. Ma queste piccole variazioni non sembrano di grande importanza, e se rendono un po più accidentato il sentiero che unisce due capisaldi del percorso artistico di Bergman, non impediscono che il suo ultimo film si imponga da subito come un momento di ripensamento e riflessione generale sui temi centrali di tutta una filmografia, e conseguentemente anche, se non soprattutto, su quelli affrontati in Scene da un matrimonio. Girato con una telecamera digitale ad alta definizione, ma interamente filmato in studio, con tutti gli ambienti ricostruiti (compresa la foresta e la chiesa), Sarabanda dimostra già dalla perfezione formale e coloristica delle scene quanto sia stato pensato e meditato, e naturalmente controllato, per arrivare a distillare in centosette minuti quella che potrebbe essere davvero l ultima opera del grande regista svedese. In quella stessa intervista a Le Monde Josephson sosteneva infatti che per Bergman il cinema era diventato un mezzo espressivo troppo impegnativo. E che forse avrebbe potuto trasformare le storie che aveva ancora da raccontare sotto forma di teatro da camera, con il contributo di un pugno di attori. Diviso in dieci capitoli, con l aggiunta di un prologo e un epilogo, il film prende da subito l andamento e la rilevanza di un film 96

5 testamentario, dalla primissima scena in cui Marianne (Liv Ullmann) è seduta dietro un tavolo letteralmente coperto di fotografie, come a voler racchiudere in un unico grande abbraccio tutta un esistenza. Ma senza necessariamente volerne trarre dei bilanci, anzi, finendo per ritrovarsi ad affrontare per l ennesima volta lei e gli altri tre personaggi i nodi centrali, e irrisolti, di una vita. E tornare così a fare i conti con quella parte di sé (solitudine, amore filiale, rapporto con l arte) a cui sembrerebbe vano poter sperare di dare una qualche soluzione. Almeno a seguire il percorso messo in scena da Bergman. Dobbiamo subito notare che il flusso narrativo è pieno di salti e improvvisi scarti che lasciano in ombra le motivazioni psicologiche dei personaggi, o non rispondono alle domande nate dalla curiosità dello spettatore, come se la scelta degli accadimenti fosse dettata dalla volontà del regista/sceneggiatore di affrontare i temi che gli stanno a cuore più che dall intenzione di predisporre un percorso coerente alle azioni dei suoi personaggi. A partire dal soggiorno di Marianne nella casa isolata di Johan (isolata come quella dello stesso Bergman a Fårö?) che invece di durare poche ore si prolunga per alcune settimane. In questo modo la coppia di ex coniugi finisce per confrontarsi, e scontrarsi, con un altra coppia altrettanto insolita, quella composta da Henrik, figlio di primo letto di 97

6 Johan, e sua figlia Karin, su cui aleggia ancora il rimpianto per la scomparsa della moglie di Henrik, Anna, che compare solo in fotografia. Quattro personaggi, più uno solo evocato, i cui legami si intrecciano in maniera dolorosa e conflittuale, e che Bergman mette in scena con una immediatezza e, a volte, una violenza che testimoniano quanto la materia affrontata sia ancora per lui lontana dall essere pacificata e metabolizzata. Il primo grande nodo irrisolto e doloroso è quello della conflittualità, neppure minimante mascherata, che il padre Johan mette in campo verso il figlio Henrik. Una conflittualità che non sembra trovare una reale giustificazione in ragioni concrete (al di là di una certa dipendenza economica del figlio dal padre), ma che non esita a mettere davanti agli occhi di tutti l assoluta incapacità di Johan di dimostrare il benché minimo affetto per Henrik. E che trova una specie di riflesso speculare nell ambiguo amore che Henrik dimostra per Karin, a cui vorrebbe trasmettere la sua sapienza nel suonare il violoncello, ma che finisce per rivelarsi soffocante e morboso ai limiti dell incesto. Non è la prima volta che in Bergman la figura paterna si colora di toni e valutazioni decisamente negative, spesso conseguenze di un autoritarismo esacerbato o di un egoismo mai controllato, ma in nessun film era arrivata a toccare queste punte. Alla fine di una 98

7 vita intera, quello che il padre ottantenne riesce a provare è solo disprezzo e rabbia, freddezza e disincanto. Ma meglio non si comporta Henrik, la cui dedizione totale verso la figlia è portatrice di un affetto altrettanto devastante e disturbante, ricattatorio, come si vedrà alla fine con la scena del suicidio, e mortifero. Come a sottolineare da una parte e dall altra, da parte di un genitore e dell altro, la difficoltà, se non addirittura l impossibilità, di instaurare tra padri e figli un rapporto che non sia distruttivo. Una conclusione che, tratta da una persona di ottantacinque anni (tanti erano quelli di Bergman quando ha girato Sarabanda), padre essa stessa di otto figli, non assomiglia esattamente a quello che si vorrebbe un bilancio positivo. Anche Marianne, d altra parte, sembra soffrire per la stessa dolorosa mancanza di comunicazione con le due figlie, una emigrata in Australia col marito, l altra chiusa nella disperata solitudine della follia, ma il suo sembra comunque un rapporto meno pernicioso ed egoista di quello dei due uomini, vivificato almeno da una affettività più diretta, quasi tattile. L unica possibile via d uscita a questo troppo diffuso egoismo affettivo sembra nascondersi nel dono indefinibile dell arte. I pochi momenti di pace che vivono i vari personaggi sono quelli in cui la musica, sentita o suonata, diventa protagonista assoluta del loro tempo e delle loro azioni. Un arte indefinibi- 99

8 le, quasi impalpabile, che può, e forse deve, costare dolori e fatiche, come quelli a cui si sottopone Karin per affinare la propria arte, e che spesso pretende apparenti insensatezze, come quell indicazione che Hindemith ha messo per un movimento di una sua sonata ( Lebhaft ohne Ausdruck, vivo senza espressione), e grazie alla quale facciamo conoscenza della giovane ragazza. Ma sono insensatezze solo apparenti, che alla fine si trasformano in un trascinante flusso musicale. Il problema, caso mai, è sapere ciò che si può chiedere all arte, le cui risposte possono finire per dividere piuttosto che unire. Così almeno succede per Karin, il cui sogno non è quello del padre intraprendere la carriera di solista né quello del nonno seguire i prestigiosi corsi di un rinomato maestro a Helsinki ma molto più umilmente di perdersi all interno di un gruppo musicale quello che Karin vuole raggiungere ad Amburgo e contribuire con la propria musica alla musica di tutti. Come parte di un flusso più grande. Sentendosi viva ma senza avere una qualche particolare espressione. Proprio come scriveva Hindemith. Con una inevitabile conseguenza. Che è la strada che vorrebbe seguire Karin, prima dell ennesimo ricatto del padre, e che la porterebbe a uscire dall abbraccio soffocante della famiglia. Arrivato alla fine della sua vita, neppure la più privata delle istituzioni sociali, 100

9 la famiglia appunto, sembra possedere per Bergman le qualità per restituire un po di pace e di tranquillità alle persone. Perché neppure la famiglia può mettere al riparo dalla morte, come è successo realmente al regista, la cui ultima moglie Ingrid, a cui è dedicato il film, è morta nel 1995, lasciandolo in uno stato di disperazione che si ritrova, all interno della stessa Sarabanda, nel continuo ricordo di Anna, la madre morta. Agli altri, a cominciare da Johan, il presente non sembra promettere niente di meglio, come il film si affretta a sottolineare nella scena più intensa e commovente, quella dell improvvisa angoscia che colpisce una notte il vecchio padre, e che lo spinge a chiedere un po di calore umano all ex moglie, la cui presenza fino a quel momento era stata solo poco più che accettata. Nell ora del lupo, quando la notte sembra non voler lasciare spazio alla luce del nuovo giorno, Johan non può fare altro che mettersi letteralmente a nudo, offrendosi completamente indifeso a chi sicuramente ha ignorato, se non disprezzato, per troppo tempo, e che ora gli appare l unico possibile aiuto di fronte alla propria sconfitta di genitore e di uomo. Avviando così il film verso una chiusura che lo fa assomigliare sempre di più a un terribile e schiacciante bilancio in negativo: sul senso di colpa, sull orrore di invecchiare, sui pensieri di morte che vi si accompagnano, sul bisogno 101

10 di consolazione e di aiuto a proposito di un passato che sembra non passare mai. E sui rapporti sempre tormentati tra padri e figli. 102