Io, Ibra. Cover 0010.frontespizio Zlatan Ibrahimovi con David Lagercrantz

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2 Cover 0010.frontespizio Zlatan Ibrahimovi con David Lagercrantz Io, Ibra Io, Ibra Traduzione di Carmen Giorgetti Cima Rizzoli _0020_copy Proprietà letteraria riservata Copyright David Lagercrantz och Zlatan Ibrahimovi 2011 Copyright 2011 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN Titolo originale dell opera: JAG ÄR ZLATAN Traduzione dallo svedese di Carmen Giorgetti Cima Prima edizione digitale 2011 da prima edizione novembre 2011 In copertina: Foto Eric Broms Realizzazione grafica: Nina Ulmaja Realizzazione grafica della versione italiana: Rino Ruscio

3 Quest opera è protetta dalla Legge sul diritto d autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. _0020_copy Crediti dell inserto fotografico (clicca i link per l'immagine): Efrem Raimondi/Contrasto 1 Håkan Röjder/Sydsvenskan/Scanpix 1, 2 Nike 1 (in alto a sinistra) FC Internazionale 1 (in basso), 2 (in alto) Luca Bruno/AP/Scanpix 1 (in alto) Gustau Nacarino/Reuters/Scanpix 1 (in basso) Leif R Jansson/Scanpix 1 Alessandro Garofalo/Scanpix 1 (in basso) Janerik Henriksson/Scanpix 1 (in alto) Bildbyrån 1 (in basso), 2, 3 (in alto) Marcus Ericsson/Bildbyrån 1 Andreas Hillergren/Scanpix 1 Christer Wahlgren/KVP/Scanpix 1 Jasper Juinen/Getty 1 (in basso) Eric Broms 1 (a destra) Giuseppe Cacace/AFP/Scanpix 1 (in alto) Sean McMenomy 1 (in alto) L Editore ha fatto tutto il possibile per reperire i proprietari dei diritti e rimane a disposizione per gli adempimenti d uso. _0030_personaggi PERSONAGGI E INTERPRETI CO ADRIAANSE Il mio primo allenatore all Ajax. ALEKSANDAR, detto KEKI Mio fratello minore, nato nel MASSIMO AMBROSINI Centrocampista. Capitano del Milan. MICKE ANDERSSON Il mio allenatore al Malmö, in Seconda e poi in Prima Divisione. ROLAND ANDERSSON Ex giocatore della Nazionale svedese. Mio allenatore dei primi tempi al Malmö.

4 MARIO BALOTELLI Attaccante. Giovane talento dell Inter passato al Manchester City nel MARCO VAN BASTEN Attaccante, stella del Milan. Eletto Fifa World Player nel LEO BEENHAKKER Boss del calcio, allenatore del Real Madrid e poi direttore sportivo durante il mio primo periodo all Ajax. TXIKI BEGIRISTAIN Direttore sportivo del Barcellona durante la mia permanenza al club. Ha lasciato la carica nel SILVIO BERLUSCONI Proprietario del Milan e tycoon dell informazione. L uomo più potente d Italia. HASSE BORG Ex giocatore e difensore della Nazionale svedese. Direttore sportivo del Malmö durante la mia permanenza al club. FABIO CANNAVARO Difensore. Passato alla Juventus contemporaneamente a me. Campione del Mondo, Pallone d Oro e Fifa World Player nel FABIO CAPELLO Il mio allenatore alla Juventus, in seguito CT della Nazionale inglese. ANTONIO CASSANO Attaccante del Milan. Pilastro della Nazionale italiana. TONY FLYGARE Amico d infanzia. Giovane talento del Malmö. LOUIS VAN GAAL Boss del calcio. Allenatore e direttore tecnico durante il mio ultimo periodo all Ajax. ITALO GALBIATI Braccio destro di Capello alla Juventus. ADRIANO GALLIANI Boss del calcio, vicepresidente del Milan. GENNARO GATTUSO Centrocampista del Milan. Un guerriero. Campione del Mondo nel PEP GUARDIOLA Ex centrocampista del Barcellona. Il mio allenatore in quel club. HELENA La mia compagna. La madre dei miei figli. THIERRY HENRY Francese. Mio amico al Barcellona. Stella del calcio, miglior realizzatore della storia dell Arsenal. Vincitore dei Mondiali 98 e degli Europei ANDRÉS INIESTA Fantastico centrocampista del Barcellona. Vincitore degli Europei 2008 e dei Mondiali 2010 con la Spagna. FILIPPO INZAGHI Straordinario attaccante, stella del Milan. A Torino abitavo nel suo appartamento. Campione del Mondo nel JURKA Mia madre, croata di nascita. Faceva la donna delle pulizie. KAKÁ Brasiliano, centrocampista offensivo, stella del calcio mondiale. Pallone d Oro e Fifa World Player Passato dal Milan al Real Madrid nel RONALD KOEMAN Mio allenatore all Ajax. JOAN LAPORTA Presidente del Barcellona durante gran parte della mia permanenza al club.

5 HENKE LARSSON Leggendario attaccante svedese. Ha militato nel Celtic e nel Barcellona. Scarpa d Oro d Europa nel Un mentore per me agli inizi della carriera. BENGT MADSEN Presidente del Malmö durante la mia permanenza al club. ROBERTO MANCINI Mio allenatore nei primi due anni all Inter. MARCO MATERAZZI Durissimo difensore che si prese la testata da Zidane nella finale dei Mondiali 2006 poi vinta dall Italia. Mio compagno di squadra all Inter. HASSE MATTISSON Capitano del Malmö durante il mio periodo al club. MAXIMILIAN Il mio primogenito, nato nel MAXWELL Brasiliano. Difensore estremamente elegante. Mio amico fin dai primi giorni all Ajax e compagno di squadra anche all Inter e al Barcellona. OLOF MELLBERG Amico, giocatore della Nazionale svedese, difensore. Tra le squadre in cui ha giocato ci sono Aston Villa e Juventus. LIONEL MESSI Stella di fama mondiale. Jolly d attacco del Barcellona. Arrivato al club all età di tredici anni. Pallone d Oro 2009 e MIDO Attaccante. Egiziano. Un buon amico all Ajax. LUCIANO MOGGI Boss del calcio, leggendario direttore sportivo della Juventus durante il mio periodo al club. MASSIMO MORATTI Un pezzo da novanta. Petroliere, proprietario dell Inter. JOSÉ MOURINHO Una leggenda. Mio allenatore all Inter. Passato al Real Madrid nel PAVEL NEDVED Centrocampista, mio compagno alla Juventus. Pallone d Oro ALESSANDRO NESTA Leggendario difensore del Milan. Campione del Mondo nel ALEXANDRE PATO Giovane e brillante attaccante del Milan. Brasiliano. ANDREA PIRLO Centrocampista del Milan, poi ceduto alla Juventus. Campione del Mondo nel MINO RAIOLA Mio agente, mio amico, mio consigliere. ROBINHO Supertalento brasiliano. Attaccante del Milan, ex Real Madrid e Manchester City. RONALDINHO Brasiliano. Superstar. Fifa World Player 2004 e Mio compagno al Milan. RONALDO Brasiliano, attaccante. Uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Fifa World Player 1996, 1997 e Il mio più grande idolo da bambino. CRISTIANO RONALDO Attaccante, star mondiale. Pallone d Oro e Fifa World Player Ha giocato nel Manchester United prima di passare al Real Madrid nel 2009 per cifre da capogiro. (Nel libro chiamato spesso semplicemente Cristiano per distinguerlo da quello che per me è il vero Ronaldo.)

6 SANDRO ROSELL Il successore di Joan Laporta alla presidenza del Barcellona. SANELA Mia sorella maggiore, nata nel SAPKO Mio fratello maggiore, nato nel 1973 nella ex Jugoslavia. ŠEFIK Mio padre. Originario della Bosnia. Ha lavorato come muratore e addetto alla manutenzione di condomini. THOMAS SJÖBERG Vecchio giocatore svedese della Nazionale. Allenatore in seconda durante il mio primo periodo al Malmö. THIJS SLEGERS Giornalista olandese e amico. RUNE SMITH Giornalista. Scrisse il primo grande articolo su di me. JOHN STEEN-OLSEN L uomo che mi scoprì nel Malmö e mi fece acquistare dall Ajax. Oggi uno dei miei amici. LILIAN THURAM Difensore. Mio compagno alla Juventus. Ha vinto i Mondiali 98 e gli Europei 2000 con la Francia. DAVID TREZEGUET Francese, grande attaccante, stella del calcio. Mio compagno alla Juventus. Campione del Mondo e d Europa con la Francia. RAFAEL VAN DER VAART Attaccante durante il mio periodo all Ajax. PATRICK VIEIRA Centrocampista, mio compagno di squadra alla Juventus e all Inter. Superstar. Amico. Mentalità da vincitore. Campione del Mondo e d Europa con la Francia. VINCENT Il mio secondogenito, nato nel CHRISTIAN WILHELMSSON, detto CHIPPEN Centrocampista, giocatore della Nazionale svedese, amico. XAVI Grande centrocampista del Barcellona. Arrivato al club a undici anni. Ha vinto gli Europei 2008 e i Mondiali 2010 con la Spagna. GIANLUCA ZAMBROTTA Difensore. Leggendario. Mio compagno di squadra sia alla Juventus sia al Milan. Campione del Mondo nel _0035_rip_titolo Io, Ibra 0030.rip_titolo Questo libro è dedicato alla mia famiglia e ai miei amici, a tutti coloro che mi hanno seguito e sono stati al mio fianco nei giorni fortunati e in quelli difficili. Voglio dedicare un pensiero anche a tutti i bambini, soprattutto a quelli che si sentono un po strani e diversi, che non vengono accettati fino in fondo, e che si fanno notare per i motivi sbagliati.

7 Non essere uguali agli altri è ok. Continuate a credere in voi stessi, come insegna la mia storia alla fine malgrado tutto ciascuno può trovare la sua strada testo1

8 1 Pep Guardiola l allenatore del Barcellona, quello con i completi grigi e l aria pensierosa venne verso di me, e sembrava imbarazzato. A quell epoca pensavo che fosse ok, non esattamente un Mourinho o un Capello, ma un tipo a posto. Questo molto prima che cominciassimo a farci la guerra. Ma era l autunno del 2009 e io stavo vivendo il mio sogno. Giocavo nella squadra migliore del mondo e pochi mesi prima ero stato accolto da settantamila tifosi al Camp Nou. Camminavo sulle nuvole; be, forse non proprio del tutto: sui giornali si leggevano anche un bel po di stronzate, che ero un bad boy e via dicendo. Insomma, un tipo difficile. A ogni modo, ero qui. Mia moglie Helena e i bambini si trovavano bene. Avevamo una bella casa a Esplugues de Llobregat e io mi sentivo carico. Che cosa poteva mai andare storto? «Senti» disse Guardiola. «Qui al Barça teniamo i piedi per terra.» «Ottimo» dissi io. «Bene!» «Perciò qui non veniamo agli allenamenti in Ferrari o in Porsche.» Annuii, lasciando da parte qualsiasi atteggiamento arrogante del tipo: che c entri tu con le mie macchine? In realtà pensai: Che cosa vuole? Che tipo di messaggio mi sta mandando?. Credetemi, non ho più bisogno di mettermi in mostra guidando qualche macchina strafica e parcheggiando sul marciapiede, tipo. Non è quello. Ma io adoro le automobili. Sono la mia passione e soprattutto intuivo qualcos altro dietro quelle parole. Una cosa del genere: non credere di essere chissà chi! Allora avevo già capito che il Barcellona era un po come una scuola, un collegio. I giocatori erano fantastici, niente che non andasse riguardo a loro, e poi lì c era Maxwell, il mio vecchio compagno dell Ajax e dell Inter. Ma nessuno dei ragazzi si comportava da superstar e questo era strano. Messi, Xavi, Iniesta e tutta la combriccola sembravano tanti scolaretti. I migliori giocatori del mondo stavano lì a inchinarsi, e io non ci capivo niente. Era ridicolo. Se in Italia un allenatore dice salta, i campioni si domandano: embe, perché dovremmo saltare? Qui saltavano tutti al minimo cenno, come fossero cagnolini ammaestrati. Io non mi ci ritrovavo, proprio per niente. Ma pensavo: Fatti piacere la situazione! Non confermare i loro pregiudizi!. Perciò cominciai ad adeguarmi. Diventai docile come un agnellino. Era pazzesco. Mino Raiola, il mio agente, il mio amico, mi diceva: «Ma che cavolo ti succede Zlatan? Non ti riconosco più». Nessuno mi riconosceva più, proprio nessuno. Diventavo sempre più mogio, e allora dovete sapere che fin dai tempi del Malmö io ho avuto una filosofia: quella di seguire il mio stile. Me ne frego di quello che pensa la gente e non sono mai stato a mio agio fra i tipi perbenino. A me piacciono i ragazzi che passano col rosso, se capite cosa intendo. Ma adesso, cazzo, non dicevo quello che volevo. Dicevo quello che credevo si dovesse dire. Era assol-

9 utamente folle. Guidavo la Audi del club e annuivo a testa bassa come quando andavo a scuola, o meglio, come avrei dovuto fare quando andavo a scuola. Non mi incazzavo nemmeno quasi più con i miei compagni di squadra. Ero diventato noioso. Zlatan non era più Zlatan, e questo non succedeva dai tempi in cui avevo messo piede alla Borgarskolan e per la prima volta, vedendo le ragazze con le felpe Ralph Lauren, me la facevo quasi addosso quando dovevo invitarle a uscire. Eppure avevo iniziato la stagione in modo brillante. Segnavo gol su gol. Avevamo vinto la Supercoppa Europea. Io brillavo. Io dominavo. Ma ero comunque un altro. Qualcosa era successo, niente di serio, non ancora, ma in ogni caso... Mi ero messo un tappo sulla bocca e questo è pericoloso, anzi pericolosissimo, potete credermi. Io devo essere arrabbiato per giocare bene. Devo urlare e fare casino. Adesso invece mi tenevo tutto dentro. Forse aveva a che fare con la pressione che avevo addosso, non so. Ero stato il secondo trasferimento più costoso di tutti i tempi; i giornali scrivevano che ero stato un bambino difficile e che avevo problemi caratteriali, ogni genere di cazzate insomma, e forse io sentivo il peso di tutto questo «Qui al Barça non ci mettiamo in mostra, ecco», e suppongo volessi dimostrare che anch io ne ero capace. La cosa più stupida che abbia mai fatto. In campo ero ancora forte, ma non mi divertivo più. Valutai perfino di abbandonare il calcio: non che pensassi di rompere il mio contratto, sono un professionista, ma avevo perso il gusto. Poi arrivò la pausa natalizia. Ce ne andammo ad Åre e io presi a nolo una motoslitta. Appena la vita ristagna, io voglio azione. Guido sempre come un pazzo. Ho bruciato i trecentoventicinque con la mia Porsche Turbo, seminando pure gli sbirri. Ho fatto così tante follie che non voglio quasi pensarci, e in quella vacanza, lassù fra le montagne, ci diedi dentro con la motoslitta, beccandomi lesioni da congelamento e divertendomi un sacco. Finalmente un po di adrenalina! Finalmente il vecchio Zlatan, e così pensai: perché dovrei continuare? I soldi non mi mancano. Non ho bisogno di farmi il culo per quell imbecille d un allenatore. Posso divertirmi invece, e occuparmi della mia famiglia. Fu un bel periodo, ma non durò a lungo. Quando ritornammo in Spagna arrivò la catastrofe. Forse non immediatamente, s insinuò a poco a poco, ma era già nell aria. C era una tempesta di neve assurda. Era come se gli spagnoli non avessero mai visto la neve prima, e da noi in collina c erano macchine di traverso dappertutto, e Mino, quel ciccione idiota quel meraviglioso ciccione idiota devo aggiungere, nel caso qualcuno dovesse fraintendere cosa penso del mio agente moriva di freddo con le sue scarpe basse e la giacca leggera e mi convinse a prendere l Audi. Rischiò di finire a puttane: sulla discesa perdemmo il controllo, andammo a sbattere contro un muro di cemento e distruggemmo completamente l asse destro della macchina.

10 Molti della squadra avevano avuto incidenti con quel tempaccio, ma nessuno così spettacolare come il mio. Vinsi anche quella competizione, insomma, e ci facemmo su un sacco di risate: in effetti ogni tanto ero ancora me stesso, non ero del tutto a terra. Ma poi Messi cominciò a blaterare. Lionel Messi è forte. Un giocatore incredibile. Non lo conosco granché, siamo completamente diversi. È arrivato al Barça che aveva tredici anni. È stato cresciuto in quella cultura e non ha nessun problema con quella merda di collegio. Nella squadra il gioco gira intorno a lui, in modo del tutto naturale. È un grande, ma adesso ero arrivato io, e segnavo più di lui. Andò da Guardiola e disse: «Non voglio più giocare laterale destro. Voglio giocare al centro». Al centro c ero già io. Ma Guardiola se ne infischiò e cambiò modulo. Dal passò al con me punta e Messi subito dietro, e io finii nell ombra. Le palle passavano tutte da Messi e io non potevo più fare il mio gioco. In campo ho bisogno di essere libero come un uccello. Io sono quello che vuol fare la differenza a tutti i livelli, ma Guardiola scelse di sacrificarmi. Questa è la verità. Mi chiuse lassù in alto. Ok, posso anche capire la sua situazione, Messi era la stella, il golden boy, Guardiola era obbligato a dargli ascolto. Ma andiamo! Avevo segnato gol su gol al Barça, ero stato fantastico anch io. Lui non può adeguare la squadra a un solo giocatore. Voglio dire: perché diavolo mi aveva acquistato, allora? Nessuno paga tutti quei soldi per strangolarmi come giocatore. Guardiola doveva pensare a entrambi, ed è ovvio, l atmosfera nella dirigenza si fece nervosa. Io ero il più grande investimento che avessero mai fatto, e non mi sentivo a mio agio nei nuovi schemi. Ma uno così costoso non si deve sentire a disagio. Txiki Begiristain, il direttore sportivo, insisteva che dovevo parlarne con l allenatore. «Chiarisci la cosa!» Non mi piaceva, io sono un giocatore che accetta la situazione, ma va bene, ok, lo feci. Uno dei miei amici mi disse: «Zlatan, è come se il Barça avesse comperato una Ferrari e la guidasse come una Cinquecento» e io pensai ok, è una buona argomentazione. Guardiola mi ha trasformato in un giocatore più normale, e peggiore. Ci ha perso tutta la squadra. Così andai a parlargli. Successe in campo, durante l allenamento, e mi ero ripromesso una cosa: non avrei attaccato briga. Glielo dissi. «Non voglio litigare. Non cerco la guerra. Voglio solamente discutere», e lui annuì. Ma pareva comunque un tantino intimorito, per cui glielo ripetei. «Se credi che voglio piantare un casino, me ne vado anche subito. Voglio solo parlare.» «Bene! A me piace parlare con i giocatori.» «Ascolta» continuai, «voi non state sfruttando le mie capacità. Se era solo un realizzatore che volevate, dovevate comprare Inzaghi o qualcun altro. Io ho bisogno di spazi, e di essere libero. Non posso soltanto correre su e giù in profondità tutto il tempo. Io peso novantotto chili. Non ho quel genere di fisico.»

11 Lui rimuginava. Dio, rimuginava sempre. «Io credo che tu possa farcela.» «No, allora è meglio che mi mettiate in panchina. Con tutto il rispetto, io ti capisco, ma tu sacrifichi me per altri giocatori. Così non va. È come se aveste comprato una Ferrari e la guidaste come una Cinquecento.» Lui rimuginò ancora un po. «Ok, forse è stato un errore. Questo è un problema mio. Vedrò di risolverlo.» Ero contento. Avrebbe sistemato le cose. Me ne andai a passo più leggero, ma poi arrivò il gelo: ai suoi occhi diventai quasi invisibile. Ma io non sono il tipo che rimugina su cose del genere, no davvero, e nonostante la mia nuova posizione in campo continuai a essere brillante. Feci altri gol, ma non belli come quelli che facevo in Italia. Ero troppo isolato al centro. Non ero più esattamente Ibracadabra, ma comunque... A marzo giocammo in Champions League contro l Arsenal, su nel nuovo Emirates Stadium. C era un atmosfera di fuoco. I primi venti minuti del secondo tempo furono assolutamente incredibili, io segnai entrambe le nostre reti, e pensai: Vaffanculo Guardiola! Io vado avanti così e basta!. Ma poi fui sostituito e allora l Arsenal, dopo aver accorciato, segnò il pareggio, un disastro, e mi venne pure un fastidio a un polpaccio. Normalmente gli allenatori si preoccupano di queste cose. Uno Zlatan infortunato è una faccenda seria per qualsiasi squadra. Ma Guardiola fu gelido. Non disse una sillaba. Rimasi lontano dal campo tre settimane, e non una sola volta che quello fosse venuto a informarsi: «Come stai, Zlatan? Pensi di poter giocare la prossima partita?». Non diceva nemmeno buongiorno. Non una parola. Evitava il mio sguardo. Se entravo in una stanza, lui usciva. Di cosa si tratterà? pensavo. Gli ho forse fatto qualcosa? Saranno i capelli? Parlo strano? Cominciava a farmi male la testa. Non riuscivo a dormire. Ci pensavo sempre e di continuo. Non che avessi esattamente bisogno dell amore di Guardiola. Prego, che mi odiasse pure. Odio e rivincita mi stimolano. Ma adesso non riuscivo più a mettere a fuoco la questione, e ne parlai con i compagni. Nessuno ci capiva niente. Chiesi a Thierry Henry, che allora stava in panchina. Thierry Henry, il miglior realizzatore nella storia della Nazionale francese. È un grande. Ed era ancora incredibile. «Guardiola non mi saluta nemmeno. Non mi guarda negli occhi. Che cosa può essere successo?» «Non ne ho idea» disse lui. Cominciammo a scherzarci su, tipo: «Ehi Zlatan, ricevuto qualche occhiatina oggi?». «Naaaa, però ho visto la sua schiena!» «Congratulazioni, si fanno progressi!» Cazzate del genere, che un po aiutavano. Ma la cosa cominciava veramente a darmi sui nervi, e ogni giorno, ogni ora mi domandavo: Ma cos ho fatto? Che cosa c è che non va?. Non trovavo

12 nessuna risposta, niente. A parte forse la constatazione che il gelo doveva aver avuto a che fare con il discorso sulla mia posizione. Altra spiegazione non c era. Ma in tal caso sarebbe stato assolutamente folle. Mi stava facendo una guerra psicologica per una chiacchierata sulla mia posizione in campo? Cercai di affrontarlo, di andargli incontro e di incrociare il suo sguardo. Lui svicolava. Sembrava impaurito. Sì, certo, avrei potuto fissare un appuntamento e domandargli: «Cos è questa storia?» ma neanche morto. Avevo già strisciato abbastanza davanti ai suoi piedi. Era un problema suo, ma non sapevo quale fosse. Ancora non lo so, o forse sì... credo che quel tipo non riesca a reggere le personalità forti. Lui vuole trovarsi di fronte degli scolaretti, anzi addirittura fugge dai suoi problemi. Non ce la fa a guardarli negli occhi, e questo peggiora solo le cose. E le cose in effetti peggiorarono. Arrivò la nube del vulcano islandese. In Europa tutti i voli furono sospesi e noi dovevamo incontrare l Inter a San Siro. Partimmo per Milano in pullman. Qualche aquila al Barça pensò che fosse una buona idea. Io a quel punto mi ero ristabilito del tutto, ma il viaggio fu una vera catastrofe. Ci vollero sedici ore, e arrivammo a Milano sfiniti. Era l incontro più importante della stagione fino a quel momento, la semifinale di Champions League, e io ero preparato ai fischi che mi avrebbero accolto nel mio vecchio stadio ma non mi facevo problemi, al contrario, è il genere di cosa che mi carica. Ma per il resto la situazione era da schifo, e credo che Guardiola soffrisse di qualche complesso d inferiorità nei confronti di Mourinho. José Mourinho è la star. Aveva già vinto la Champions con il Porto, era stato il mio allenatore all Inter. È un grande. La prima volta che incontrò Helena le si avvicinò alle spalle e le sussurrò all orecchio: «Helena, tu hai una sola missione con Zlatan. Dagli da mangiare, lascialo dormire e fallo contento!». Quell uomo dice quello che vuole. Mi piace. Lui è il re, il condottiero dell esercito, ma s interessa anche, si preoccupa. Quando ero all Inter non faceva che domandarmi come stavo. Lui è l esatto opposto di Guardiola. Se Mourinho illumina una stanza, Guardiola è quello che abbassa le tende, ed era facile intuire che adesso Guardiola volesse cercare di misurarsi con lui. «Non è Mourinho che dobbiamo incontrare. È l Inter» ci disse, manco fossimo convinti di dover fare a pallonate con José, e poi attaccò con i suoi pistolotti filosofici. Io non ascoltavo quasi. Perché avrei dovuto? Erano le solite cazzate a base di sangue, sudore e lacrime e via di questo passo. Mai sentito un allenatore parlare a quel modo! Cazzate pure e semplici! Ma adesso finalmente eccolo venire da me. Successe durante l allenamento a San Siro, mentre il pubblico era lì che mi scrutava, tipo: «Ibra è tornato!». «Te la senti di giocare dall inizio?» mi chiese Guardiola.

13 «Assolutamente sì» risposi. «Sono carico.» «Ma ti senti anche pronto?» «Senz altro. È tutto a posto.» «Ma sei sicuro di essere pronto?» Ripeteva sempre lo stesso concetto e io avvertii delle brutte vibrazioni. «Ascolta, è stato un viaggio da dimenticare ma io sono in forma. L infortunio è superato. Darò il massimo.» Guardiola sembrava dubitarne. La cosa mi puzzava, e chiamai subito Mino Raiola. Io telefono a Mino in continuazione. I giornalisti svedesi dicono che lui ha una pessima influenza per la mia immagine. Devo dire come la penso? Mino è un genio. Gli chiesi: «Ma cos ha in testa quel tipo?». Nessuno di noi lo capiva. Cominciavano a girarci. Ma io scesi in campo dall inizio e andammo sull uno a zero. Poi le cose cambiarono. Al 60 fui sostituito e alla fine perdemmo tre a uno. Ero furibondo. A inizio carriera, tipo quando stavo all Ajax, mi capitava di rimuginare su una sconfitta per settimane. Adesso ho Helena e i bambini, mi aiutano a dimenticare e ad andare avanti, e quindi mi concentrai sulla partita di ritorno al Camp Nou. Quel giorno c era un atmosfera spaventosa. Tutti odiavano Mourinho. I giornalisti scrissero un sacco di stronzate sul fatto che lui e l arbitro della precedente partita erano amici e avevano anche un ristorante insieme e che avevamo perso per quel motivo: era tutto pazzesco, persino i muri sembravano fare il tifo, e noi dovevamo vincere nettamente per poter andare avanti. Ma poi... non voglio nemmeno pensarci. Anzi sì, voglio, perché da allora sono un uomo più forte. Vincemmo uno a zero, ma non bastò. Eravamo stati eliminati dalla Champions League, Guardiola mi squadrava come se fosse tutta colpa mia, e io pensavo: Siamo al capolinea. È finita. Dopo quella partita ebbi come la sensazione di non essere più il benvenuto nel club e stavo male quando mi mettevo al volante della loro Audi. Stavo da schifo quando ero seduto negli spogliatoi, e Guardiola mi guardava in cagnesco come se fossi un elemento di disturbo, un estraneo. Era come un muro, un muro di pietra: da lui non ricevevo nessun segno di vita, e ogni minuto che trascorrevo con la squadra desideravo essere altrove. Non ne facevo più parte. Quando andammo in trasferta contro il Villarreal, Guardiola mi fece giocare cinque minuti. Ribollivo letteralmente di rabbia, e non perché stessi in panchina. Quello posso anche accettarlo se l allenatore è sufficientemente uomo da dire: «Tu non sei bravo abbastanza, Zlatan. Non sei all altezza!». Ma Guardiola non diceva una parola, niente di niente, e la misura era colma. Me lo sentivo in tutto il corpo, e se fossi stato in lui avrei avuto paura. Non che io sia uno che cerca lo

14 scontro! Ho fatto stronzate di ogni genere, è vero, ma difficilmente comincio io, anche se in campo qualche testata mi è capitato di darla. Però quando mi arrabbio, lo ammetto, non ci vedo più ed è meglio starmi alla larga. A raccontarla giusta, quando tornai negli spogliatoi dopo la partita non avevo esattamente pianificato di uscire di testa. Di certo non sprizzavo di gioia, questo si può dire tranquillamente, ed ecco che mi trovavo di fronte il mio nemico che si grattava la pelata. Per il resto non c era molta altra gente, c erano Touré, forse qualcun altro, soprattutto c era un armadietto di metallo, e io continuavo a fissarlo. Poi gli tirai un calcio. Credo sia volato tipo tre metri più in là, ma non avevo ancora finito. Non ci pensavo neanche. Urlai: «Tu non hai le palle!» e di sicuro anche cose peggiori, e poi aggiunsi: «Te la fai addosso di fronte a Mourinho. Ma va all inferno!». Ero completamente fuori di me, e forse ci si sarebbe potuto aspettare che Guardiola dicesse un paio di parole in replica, qualcosa del tipo: «Calmati adesso, non si parla così al proprio allenatore!». Ma lui non è quel genere di persona. Lui è un vigliacco totale. Si limitò a raccogliere da terra l armadietto, da bravo omino ordinato, poi uscì, e non accennò più alla cosa, anzi non ne parlò in generale. Ma ovviamente il pettegolezzo si diffuse. Sul pullman erano tutti impazziti: «Cos è successo, cos è successo?». Niente pensavo. Ho detto solo una parte della verità. Ma non avevo la forza di parlarne. Ero troppo imbestialito. Settimana dopo settimana il mio allenatore e capo mi aveva boicottato senza spiegarmi perché. Era assurdo. Avevo avuto scontri epocali in precedenza, ma il giorno dopo avevamo sempre sistemato le cose e tutto era tornato nuovamente a posto. Adesso continuavano solo il silenzio e la guerra psicologica e io pensavo: Ho ventotto anni. Sono forte. Ho fatto ventidue reti e quindici assist solo qui al Barça, eppure vengo trattato come se non esistessi. Devo subire ancora? Devo continuare ad adeguarmi? Nemmeno per sogno!. Quando ero in panchina contro l Almería, mi ero ricordato di quel famoso «Qui a Barcellona non veniamo agli allenamenti in Ferrari oppure in Porsche!». Che stronzate! Io prendo la macchina che mi pare, soprattutto se serve a provocare gli idioti. Così presi la mia Enzo e la parcheggiai davanti al centro sportivo. Ovviamente scoppiò un gran casino. I giornali scrissero che quella macchina costava come tutti i giocatori dell Almería messi insieme. Ma io non me ne curai. Le chiacchiere dei media valevano niente, al punto a cui eravamo arrivati. Avevo deciso di restituire il colpo. Avrei cominciato a lottare sul serio ed è un gioco che conosco molto bene. Un tempo ero un duro, credetemi. Ma per sicurezza non dovevo trascurare nessun particolare: perciò ne parlai ovviamente con Mino pianifichiamo sempre le varie mosse insieme e poi telefonai ai vecchi amici.

15 Volevo vedere la cosa da diverse angolazioni e mi arrivarono tutti i consigli possibili e immaginabili. I ragazzi di Rosengård volevano venire giù e spaccare tutto; da parte loro era molto carino, ma non mi sembrava esattamente la strategia giusta allo stato delle cose. E naturalmente ne parlai con Helena. Lei viene da un altro mondo. È in gamba. Sa anche essere tosta, ma allora preferì usare l incoraggiamento: «In ogni caso sei diventato un papà migliore. Quando non hai una squadra dove ti trovi bene, la squadra la fai qui a casa con noi» disse, e io ne fui felice. Giocavo un bel po a pallone con i bambini e cercavo di far sì che tutti stessero bene, e ovviamente mi dedicavo ai miei videogiochi. È un po una malattia per me, mi lascio totalmente assorbire. Ma dopo gli anni all Inter, in cui ero capace di stare alzato a giocare fino alle quattro o alle cinque del mattino e andavo all allenamento con solo due o tre ore di sonno in corpo, mi sono dato un po di regole: niente Xbox o PlayStation dopo le dieci di sera. Non mi piace buttare via il tempo, e in quelle settimane cercai di dedicarmi seriamente alla famiglia e di sbollire la rabbia rilassandomi nel nostro giardino e facendomi perfino una Corona ogni tanto. Quello era il mio lato buono. Ma di notte, quando non riuscivo a dormire, o all allenamento, quando vedevo Guardiola, allora si risvegliava l altro mio lato. La rabbia mi martellava le tempie, stringevo i pugni e progettavo le mie contromosse e la mia rivincita. No, mi era sempre più chiaro, ormai non c era più possibilità di ritorno. Era tempo di rialzarmi e tornare a essere me stesso. Perché ricordate: si può togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo! 0050.testo02

16 2 Quand ero bambino mio fratello mi regalò una bici da acrobazie, una BMX. La chiamavo Fido Dido. Fido era il piccolo eroe di una serie a fumetti, un personaggio con i capelli tutti in piedi. Io lo trovavo fortissimo. La mia Fido Dido fu rubata fuori della piscina di Rosengård e papà si precipitò là con la camicia aperta sul petto e le maniche arrotolate. Lui, sapete, è uno di quei tipi che guai se qualcuno osa toccare i suoi figli o si azzarda a prendere le loro cose! Ma nemmeno un duro come lui poté farci niente. Fido Dido era sparita, e io ero semplicemente disperato. Dopo quell episodio cominciai a fregare biciclette anch io. Aprivo i lucchetti. Ero diventato un maestro. Bang, bang, bang e la bici era mia. Un ladro di biciclette, fu la mia prima identità. Era una cosa piuttosto innocente, ma ogni tanto passavo un po i limiti. Una volta mi vestii tutto di nero e uscii nel buio come una specie di Rambo per fregare una bici militare con un enorme tronchese. Quant era bella, quella bici! La adoravo. Ma, in tutta sincerità, a spingermi era il brivido dell avventura più che la bici in sé. Aggirarmi nel buio mi dava la carica, ma mi piaceva anche tirare uova contro i vetri delle finestre e fare altre cose del genere. Solo una volta ogni tanto mi beccavano. Ricordo per esempio un fatto piuttosto imbarazzante che successe ai grandi magazzini Wessels nei dintorni di Jägersro: io e un mio amico avevamo addosso dei piumini in piena estate, una vera idiozia, e sotto nascondevamo quattro racchette da ping-pong e altre cose che avevamo rubato. «Allora, con cosa la pagate, questa roba?» disse la guardia quando ci fermò all uscita. Io tirai fuori di tasca sei monetine da dieci centesimi: «Con queste, tipo». Ma il tizio non aveva molto senso dell umorismo e io decisi che da quel momento sarei stato un po più professionale: alla fine diventai un ladruncolo piuttosto in gamba. Non ci crederete, ma ero basso. Avevo già un gran naso e un forte difetto di pronuncia, così a scuola mi assegnarono una logopedista, una signora che veniva da me e mi insegnava a dire la s. Io lo trovavo umiliante, di certo non era una cosa che mi rendeva figo. Inoltre ero irrequieto, non ero capace di stare seduto fermo neanche un secondo ed ero continuamente in giro. Era come se, correndo sempre, non potesse succedermi niente di male. Abitavamo a Rosengård, un sobborgo di Malmö che era pieno di somali, turchi, jugoslavi, polacchi e ogni genere di immigrati, più qualche svedese. Noi ragazzi facevamo tutti i duri, ci infiammavamo per niente, e anche a casa non si può dire che le cose filassero lisce. Abitavamo al quarto piano al numero 5c di Cronmans väg a quei tempi, e da noi non si viaggiava ad abbracci ed effusioni. Nessuno mi domandava: «Com è andata oggi Zlatan, tesoro?», no, niente del genere. Nessun adulto dava una mano con i compiti o chiedeva se avevi dei problemi. Ti dovevi arrangiare da solo e non era il caso di lagnarsi se qualcuno ti aveva fatto uno sgarbo. Bisognava stringere i denti, c era sempre casino e volavano mazzate,

17 quando uno ogni tanto avrebbe sperato anche in un po di calore umano. Un giorno, per esempio, caddi dal tetto dell asilo. Mi feci un gran livido e corsi a casa piangendo, aspettandomi una carezza sulla testa o almeno qualche parola di consolazione. Mi arrivò uno schiaffone. «Che cosa ci facevi sul tetto, eh?» Niente «Povero piccolo Zlatan», ma «Razza d idiota, arrampicarti su un tetto, beccati questo!». Rimasi totalmente scioccato, mi ritirai in disparte o me ne andai fuori, non ricordo. Mia madre non aveva tempo per consolarmi, no di certo. Lavorava come donna delle pulizie e sgobbava per mantenerci, era davvero una tipa tosta, ma non le rimaneva energia per molto altro. In casa mia ci ritrovavamo tutti quanti un carattere tremendo, non si viaggiava esattamente a suon di frasette educate del tipo: «Tesoro, potresti essere così gentile da passarmi il burro?», era qualcosa di più simile a: «Muovi il culo e va a prendere il latte, stronzo». C erano porte che sbattevano e i pianti della mamma. Piangeva spesso. A lei va tutto il mio amore. Ha dovuto faticare parecchio nella vita. Faceva le pulizie anche quattordici ore al giorno, ogni tanto io e i miei fratelli l accompagnavamo e portavamo fuori i sacchi della spazzatura per guadagnare qualche spicciolo. Ma quando mamma perdeva la pazienza era meglio non essere in zona: ci picchiava con i cucchiai di legno. A volte capitava che il mestolo si rompesse, e allora dovevo filare a comprarne uno nuovo, come se fosse stata colpa mia che era andata giù così pesante. Ricordo che una volta all asilo avevo tirato un mattone che in qualche modo era rimbalzato e aveva rotto il vetro di una finestra. Quando mamma l aveva saputo, era impazzita di rabbia, tutto ciò che ci costringeva a spendere soldi la mandava fuori di testa. Mi picchiò con il mestolo, bang, bum! faceva male, e forse si spezzò anche il mestolo. In casa non c erano cucchiai di legno di riserva, e allora lei mi rincorse armata di mattarello. Ma quella volta riuscii a farla franca, e ne parlai con Sanela. Sanela è la mia unica sorella sia di padre che di madre. Ha due anni più di me. È un tipo tosto, e pensò che avremmo dovuto prendere un po in giro la mamma. Così andammo all Ica, il supermercato, comprammo una confezione di cucchiaioni di legno, tipo tre per dieci corone, e li regalammo alla mamma per Natale. Ma non credo che apprezzò l ironia, non aveva tempo per gli scherzi: a tavola doveva esserci da mangiare per tutti, le sue forze erano indirizzate verso quell unico obiettivo. Eravamo in tanti a casa: le mie sorellastre, che più avanti scomparvero dalla famiglia rompendo con tutti noi, e poi Aleksandar detto Keki, il mio fratellino, e i soldi non bastavano mai. I più grandi si occupavano dei più piccoli, non ce la saremmo cavata altrimenti, e si mangiava della gran pasta con il ketchup oppure si andava a casa dei compagni o di mia zia Hanife, la sorella di mio padre, che abitava al piano di sotto e che era stata la prima di tutti a trasferirsi in Svezia. Non avevo neanche due anni quando mamma e papà si separarono, non ricordo niente di quella storia e forse è anche meglio così. Non era mai stato un matrimonio felice, questo è

18 certo. Litigavano di continuo e si erano sposati principalmente perché papà potesse ottenere il permesso di soggiorno. Dopo la separazione finimmo tutti con mamma, ma io avevo nostalgia di papà: si era sistemato meglio e intorno a lui succedevano cose più divertenti. Nei primi tempi io e Sanela lo vedevamo a domeniche alterne, lui arrivava spesso sulla sua vecchia Opel Kadett blu, ci portava al parco di Pildamm o all isola di Limhamn e ci comprava hamburger e gelato. Una volta esagerò e ci regalò un paio di Nike Air Max ciascuno, quelle scarpe da ginnastica cool che costavano tipo mille corone. Le mie erano verdi, quelle di Sanela rosa. A Rosengård nessuno le aveva e noi ci sentivamo strafighi. Stavamo bene con papà, capitava perfino di ricevere una paghetta da cinquanta corone, ben oltre il necessario per una pizza e una Coca. Era un papà della domenica molto divertente. Ma la situazione s incasinò. Sanela era molto brava a correre. Nei sessanta metri era la più veloce della Scania nella sua categoria; papà era fiero come un pavone e l accompagnava in auto agli allenamenti. «Bene, Sanela. Ma sai fare di meglio» diceva. Era il suo ritornello, «Meglio, meglio, non accontentarti», e quella volta in macchina c ero anch io. Qualcosa non andava. Sanela era taciturna. Si sforzava per non piangere. «Cos è successo?» le chiese papà. «Niente» rispose mia sorella, e allora lui ripeté la domanda e alla fine lei raccontò tutto. Erano successe un sacco di cose nuove, non è necessario entrare nei dettagli, sono affari di Sanela. Ma mio padre è come un leone: se accade qualcosa ai suoi figli diventa una furia, specialmente quando si tratta di Sanela, l unica femmina. Così scoppiò un gran casino con interrogatori e inchieste dei servizi sociali e conflitti sulla nostra tutela e orrori del genere. Io non ci capivo granché. Avrò avuto circa nove anni. Era l autunno del Anche se tutti cercavano di tenermi fuori da queste cose, io ovviamente intuivo. In casa c era molta agitazione, anche se non era la prima volta: mia sorella maggiore faceva uso di droghe, roba pesante, nascondeva tutto in casa e c era spesso casino intorno a lei, personaggi loschi che telefonavano e una gran paura che succedesse qualcosa di grave. Un altra volta la mamma era stata fermata per ricettazione. Qualche conoscente le aveva detto: «Puoi tenermi questa collana?» e lei lo aveva fatto, ovviamente in buona fede. Ma poi venne fuori che si trattava di merce rubata, un giorno la polizia fece irruzione da noi e arrestò la mamma. Ho un ricordo vago, come una strana sensazione, tipo: «Dov è la mamma? Perché non c è più?». Arrivavano sempre nuovi dispiaceri, e io cercavo di starne alla larga. Andavo fuori a correre, o a giocare a calcio. Non che fossi il ragazzino più equilibrato del quartiere, o la più grande promessa: ero solo uno dei tanti ragazzini che tiravano calci a un pallone, anzi peggio, perché avevo degli scatti di rabbia spaventosi, davo testate alla gente e litigavo con i

19 compagni di squadra. Ma avevo il calcio. Era roba mia e giocavo tutto il tempo, in cortile, al campetto e a scuola durante l intervallo. Andavamo alla Värner Rydén allora, Sanela in quinta e io in terza, e non c erano dubbi su chi fosse più bravo! Sanela era stata costretta a crescere molto in fretta, per fare da seconda mamma a Keki e occuparsi della famiglia quando le sorelle maggiori erano andate via. Si era presa una responsabilità incredibile. E rigava dritto. Non era certo il tipo di ragazzina che veniva convocata in presidenza per una strigliata, e perciò, quando il preside ci chiamò entrambi, mi preoccupai molto. Se avessero convocato me soltanto sarebbe stato tutto normale, semplice routine, ma stavolta la cosa riguardava tutti e due. Era morto qualcuno? Di che cosa poteva trattarsi? Mi venne il mal di pancia, e ci avviammo lungo il corridoio della scuola. Ero irrequieto. Ma quando entrammo, papà era seduto lì in compagnia del preside, o di chi diavolo era, e allora mi rasserenai. Papà di solito significava cose piacevoli, ma lì di piacevole non c era niente. L atmosfera era tesa e solenne: cominciai a tremare, non ci capivo molto, solo che si trattava di mamma e papà. Ma adesso so. Adesso, nel mettere insieme questo libro, i frammenti del puzzle sono andati al loro posto. L 11 novembre 1990 i servizi sociali avevano completato la loro indagine, e papà aveva ottenuto sia l affidamento di Sanela sia il mio. L ambiente, a casa di mamma, era stato ritenuto inadatto, anche se non era lei la causa principale. Mamma piangeva e piangeva, certo, e ci picchiava con i mestoli di legno e non ci ascoltava molto, e aveva avuto sfortuna con gli uomini e niente andava per il verso giusto... Ma amava i suoi figli. Soltanto era cresciuta in un certo modo, e credo che papà questo lo capisse. Andò da lei quello stesso pomeriggio: «Non volevo che tu arrivassi a perderli, Jurka». Ma pretendeva un giro di vite, e con papà non si scherza in questo genere di situazioni. Le sue furono certamente parole dure «Se le cose non migliorano, non vedrai più i bambini» eccetera e cosa poi accadde di preciso non so. So che Sanela andò a stare da lui per qualche settimana, mentre io restai ancora da mamma, nonostante tutto. Ma nemmeno quella era una buona soluzione. Sanela non stava bene, da papà. Lei e io lo trovavamo spesso addormentato sul pavimento, e sul tavolo c erano lattine di birra e bottiglie. «Papà, svegliati, svegliati!» Ma lui andava avanti a dormire. È una cosa strana pensavo. Perché mai farà così? Volevamo essere d aiuto ma non sapevamo che pesci prendere. Magari aveva freddo? Lo coprivamo con asciugamani e coperte perché stesse caldo, per il resto non ci capivo granché. Probabilmente Sanela ne sapeva un po di più. Si era accorta dell umore ballerino di papà e di come s infiammasse facilmente e urlasse come un demonio, e credo che questa cosa la spaventasse. Inoltre sentiva la mancanza del suo fratellino Zlatan. Così lei voleva tornare da mamma, mentre per me era tutto l opposto: io avevo nostalgia di papà. Una

20 di quelle sere gli telefonai e forse dovetti sembrargli disperato. Senza Sanela mi sentivo solo. «Non voglio rimanere qui. Voglio stare da te.» «Vieni» disse. «Ti mando un taxi.» Ci furono nuove indagini dei servizi sociali, e, nel marzo del 1991, mamma ebbe l affidamento di Sanela e papà il mio. Alla fine io e mia sorella fummo separati, ma siamo sempre rimasti uniti, nonostante negli anni ci siano stati alti e bassi. Ma siamo terribilmente legati. Sanela oggi fa la parrucchiera. Certe volte la gente va nel suo salone e dice: «Accidenti, quanto somigli a Zlatan!» e allora lei risponde sempre: «Stronzate, è lui che somiglia a me». È un tipo tosto. Né io né lei abbiamo avuto la vita facile. Mio padre, Šefik, si era trasferito nel 1999 da Hårds väg, a Rosengård, a Värnhemstorget, a Malmö. Ha un cuore grande, come avrete già capito, era pronto a morire per noi, ma con lui le cose non andarono esattamente come mi ero aspettato. Lo conoscevo solo come il papà della domenica, quello degli hamburger e del gelato, mentre adesso dovevamo condividere la vita quotidiana. Io me ne accorsi subito, c era come un vuoto a casa di papà. Mancava qualcosa, qualcuno, una donna forse. C erano un televisore, un divano, una libreria, due letti, ma niente di più, niente che rendesse l atmosfera accogliente; c erano lattine di birra sui tavoli e sporcizia sul pavimento, e quando a volte gli veniva un guizzo e si metteva a tappezzare faceva una parete e poi piantava lì: «Il resto lo faccio domani». Ma non finiva mai. Cambiavamo casa di frequente e non riuscivamo mai a raggiungere una certa normalità. E poi il vuoto non era solo fisico. Papà si occupava della manutenzione di condomini ed era reperibile a tutte le ore. Quando tornava a casa nella sua tuta da lavoro, con tutte quelle tasche piene di cacciaviti e arnesi, si sedeva accanto al telefono o davanti alla tv e non voleva essere disturbato. Era come sprofondato in se stesso, e spesso infilava gli auricolari e ascoltava musica popolare jugoslava. Va matto per la musica popolare della sua terra, ha anche inciso lui stesso qualche disco. Quando è dell umore, è uno showman. Ma allora stava quasi sempre immerso nel suo mondo e, se capitava che si facesse vivo qualche mio amico al telefono, gli sibilava: «Non devi chiamare qui!». Non potevo portare a casa i miei amici e, se per caso erano stati loro a cercarmi, non riuscivo neppure a venirlo a sapere. Non potevo toccare il telefono, e non avevo nessuno con cui parlare. Sapevo però che, se un problema si faceva serio, papà era lì per me. Allora avrebbe fatto qualsiasi cosa, si sarebbe fiondato in città e avrebbe cercato di sistemare tutto. Aveva un modo di camminare che faceva sobbalzare la gente. «E quello chi diamine è?» Ma delle cose normali, tipo di quello che era successo la mattina a scuola o sul campo di calcio o con gli amici, non gliene fregava niente: se non mi accontentavo di parlare allo specchio mi toccava uscire. È vero che nei primi tempi viveva con noi anche Sapko, il mio fratellastro,

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