Osservazioni del Bauforscher su pavimenti greci del V secolo a.c.

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1 Hansgeorg Bankel Osservazioni del Bauforscher su pavimenti greci del V secolo a.c. In qualsiasi contesto architettonico, sia in un palazzo, sia in una chiesa oppure in un abitazione, il pavimento è uno degli elementi più sensibili. Ai fini di proteggerlo sino alla conclusione dei lavori, bisogna ricoprirlo oppure eseguirlo alla fine. Quest ultimo svolgimento è da presupporre per la maggior parte dei casi, tanto riguardo ai sontuosi pavimenti lapidei rinascimentali di Venezia, quanto riguardo a quelli dell antichità. Al centro delle mie considerazioni vorrei mettere le particolarità della messa in opera di pavimenti lapidei nei templi greci del V secolo a.c., e lo farò dal punto di vista del Bauforscher, cioè dello storico dell architettura laureato in architettura 1. Fig. 1. Egina, Tempio d Aphaia, ricostruzione di H. Bankel ed I. Ring (1993/2007, Bankel 1993, tav. 81). Il tempio di Aphaia sull isola d Egina, eretto tra il 500 e il 490 a.c., è il periptero dorico di periodo tardoarcaico meglio conservato in tutta la Grecia (fig. 1). Esso è famoso per le sculture dei suoi frontoni, oggi conservati alla Glittoteca di Monaco in Baviera. Se si guardano le prime planimetrie del tempio, per esempio quella eseguita nel 1884 dall allora giovane Charles Garnier 2, poi diventato famoso come architetto dell Opera parigina e del casinò di Monte Carlo, subito colpisce il pavimento di malta rossa che ricopre il pronao e la navata centrale della cella. In base alle analisi che hanno evidenziato la sua composizione di calce, mattoni pestati e ocra rossa, lo possiamo definire una vera e propria malta idraulica. Gli altri pavimenti del tempio, invece, non avevano uno strato di ricopertura simile: tutti gli stilobati della cella, del pronao, dell opistodomo e della peristasis, e in più le lastre del pavimento tra gli stilobati e i toichobati, furono messi in opera da ultimi secondo la comunis opinio degli studiosi. Le lastre della peristasi sono poste su uno strato di fondamento, come si deduce dalla planimetria dell architetto Ernst Fiechter del A causa del restauro, oggi questa situazione non è più visibile. In questa planimetria, il Fiechter ha disegnato il pavimento nella forma di lastre rettangolari con giunture continue tra loro (fig. 2). Guardando le parti ben conservate del pteron (fig. 3), si evidenzia che le lastre del pavimento sono messe in modo assolutamente perfetto tra lo stilobate e il toichobate, vale a dire senza il minimo spalancamento delle giunture. I costruttori greci dovevano aver avuto orrore dello spalancamento delle giunture, e

2 18 hansgeorg bankel Fig. 2. Tempio di Aphaia (E. Fiechter, 1906), angolo sud-est (Furtwängler 1906, tav. 31). Fig. 3. Tempio di Aphaia, pavimento dello pteron (H. Bankel). sicuramente si sono impegnati molto per evitarlo. Il metodo più noto in questo senso è senz altro quello individuato dal Bauforscher greco Manolis Korres riguardo ai fusti delle colonne del tempio precedente al Partenone, il Vorparthenon 4 (fig. 4): un disco marmoreo di calibratura con il lato inferiore colorato di sanguigna, veniva sfregato su e giù sul lato superiore del fusto e poi tolto. Le parti colorate di rosso venivano poi levigate fino a raggiungere una superficie perfettamente liscia. Si tratta di un processo simile a quello del nostro dentista, quando toglie delle piccole asperità dall otturazione di un nostro dente. Il risultato di questo processo sono colonne le cui giunture in sostanza sono invisibili. Per dirlo con le parole del giovane Corbusier, scritte nel 1911 nel suo Voyage d orient relativamente al Partenone: «Cercate le giunture sulle superfici delle colonne scanalate, composte di venti fusti: sono introvabili. Ad occhio nudo non si vede niente. L unghia che tocca questi punti, distinguibili soltanto per la loro patina leggermente diversa, non si accorge di niente» 5. Nel nostro contesto si pone ora la questione del modo in cui erano inserite le lastre rettangolari del pavimento tra toichobate e stilobate (fig. 3), senza che esse potessero rompersi o dimostrare giunture aperte. Uno sguardo alla planimetria elaborata recentemente 6 (fig. 5) rende chiara l idea che le giunture tra le lastre del pavimento non si sviluppano per nulla in linee dritte come si deduceva dalla planimetria del Esse divergono in modo sistematico leggermente dall angolo retto, e sono spostate di un centimetro e mezzo massimo tra le singole lastre, cosicché si è creata una linea dentata. Le singole lastre, pertanto, hanno una forma trapezoidale con due angoli retti. Lo scopo di questo provvedimento appare evidente a qualsiasi scalpellino, che mai ha tentato di inserire una pietra da taglio perfettamente rettangolare in un rettangolo già esistente senza che si creasse una giuntura. Ciò è possibile soltanto con una fatica enorme, e c è sempre il pericolo della rottura di uno spigolo. Applicando, invece, una giuntura obliqua, è facile spingere una lastra del pavimento lateralmente alla prossima, cosicché la giuntura si chiude completamente. Possiamo immaginarci la messa in opera delle lastre nel modo seguente: prima viene posizionata la lastra esterna (fig. 6a), poi si misura con una falsa squadra (fig. 6b) l angolo aperto della lacuna, poco divergente dall angolo retto, e si trasmette questo alla lastra interna da mettere in opera (fig. 6c). Quest ultima può essere ora collocata senza alcun problema nella lacuna (fig. 6d), e può essere di nuovo tolta ai fini di rifinirla, se ciò fosse necessario. Dopo il posizionamento della singola lastra (fig. 6e), la superficie sporgente viene tolta (fig. 6f ), cosicché si crea una superficie di congiunzione dritta per le prossime lastre.

3 osservazioni del bauforscher su pavimenti greci del v secolo a.c. 19 Fig. 4. Cantiere del Vorparthenon (M. Korres, 1995, tav. 19). L unico problema in questo modo di collocare le lastre pavimentali è l ultima lastra (fig. 6g). Nel caso del tempio di Aphaia, all angolo sudoccidentale si evidenzia un blocco pavimentale con un foro per l olivella al centro 7. Si tratta evidentemente della chiave pavimentale, che poteva essere collacata con cautela dall alto (fig. 6h). Il foro per l olivella, molto probabilmente, è stato chiuso con un rattoppo di pietra dopo aver tolto l olivella (fig. 6i). In ogni caso, si è conservato soltanto il foro. Che cosa possiamo dedurre da questa osservazione? Essa ci mostra un metodo artigianale molto raffinato, con la cui applicazione è stato possibile evitare giunture non perfettamente chiuse. Ciò non è una sorpresa per lo storico dell architettura, in ogni modo convinto del livello altissimo degli artigiani greci del settore edile. Non sembra sia stata percepita in modo spiacevole la giuntura centrale dentata. Questo metodo dimostra inoltre la tesi che le lastre pavimentali sono state messe in opera alla fine del processo di costruzione. È stata una vera e propria sorpresa ritrovare lo stesso metodo, che in Grecia deve essere ritenuto unico, presso un edificio di prima epoca classica nella Magna Grecia, distante in termini cronologici circa vent anni dal tempio d Egina. Si tratta del cosiddetto tempio di Posidone a Paestum (fig. 7 e 8). In questo caso, i pavimenti in pietra della peristasis, dei due portici e della cella mostrano la stessa tecnica, la quale è stata documentata da Robert Koldewey nel 1899 nei suoi meravigliosi disegni 8 (fig. 9). Sfortunatamente, questi ultimi non ci danno nessun indizio per il blocco della chiave. Neanche Dieter Mertens, che sta preparando una nuova edizione della storia dell architettura del tempio, mi ha potuto aiutare riguardo a questo pro- Fig. 5. Tempio di Aphaia, pavimento dello pteron, angolo sud-est (H. Bankel, 1993, tav. 79).

4 20 hansgeorg bankel struttivo, ma assieme agli stilobati e i toichobati, contrariamente, quindi, al metodo applicato ad Egina e Paestum. È più che probabile che le lastre, come a Paestum, fossero protette tramite bugne sul lato superiore, sebbene questa tesi non possa più essere dimostrata in nessun punto, dato che il Partenone è stato terminato fin nei minimi dettagli. In sostanza, terminano qui le mie affermazioni riguardo ai metodi di messa in opera dei pavimenti greci del V secolo a.c. Dobbiamo chiederci, però, se abbiamo a che fare con un trasferimento tecnologico da Egina a Paestum o meno, vale a dire: possiamo forse dimostrare che gli artigiani edili, dopo il termine dei lavori del tempio di Aphaia intorno al 490 a.c., hanno cercato nuovo lavoro nella Magna Grecia, dopo essere stati costretti a lasciare la patria a causa della guerra persiana degli anni a.c. che provocò il blocco del settore edile? Senz altro è una tesi molto audace, tanto più perché non sappiaa b c d e f g h i Fig. 6a-i. Tempio d Aphaia, sistema della messa in opera il pavimento (H. Bankel, V. Hinz e S. Franz, 2009). blema. E la mia ricerca, avvenuta durante l estate del 2009, di una lastra pavimentale con un rattoppo al centro di gravità, che dimostrerebbe la presenza di un foro per l olivella, è stata vana. Uno sguardo allo stilobate dell opistodomo ci dimostra, invece, un altro metodo di protezione efficace dei pavimenti dai danneggiamenti durante la costruzione: le bugne (fig. 10), anch esse peraltro disegnate nella planimetria del Koldewey (fig. 9). Con questo ci avviciniamo al problema del modo in cui gli architetti greci furono in grado di mettere in opera le lastre dei pavimenti senza le giunture centrali dentate. La planimetria del Partenone di Francis Cranmer Penrose del mostra lastre pavimentali in una concordanza precisa con le giunture degli stilobati, e senza rientranze dentate. Ciò è un indizio per la tesi che il pavimento fosse stato messo in opera non alla fine del processo co-

5 osservazioni del bauforscher su pavimenti greci del v secolo a.c. 21 Fig. 7. Paestum, Tempio di Posidone (H. Bankel). Fig. 8. Tempio di Posidone, pteron (H. Bankel). mo se il metodo d Egina sia stato applicato in un altro luogo della Grecia. Riguardo a questo problema, ci aiuta uno sguardo ad altri luoghi della Magna Grecia. Il tempio di Giunone Lacinia ad Agrigento 10, ad esempio, mostra più di una particolarità che indica un legame con Egina. Le proporzioni simili delle facciate in entrambi i casi sono state riconosciute già parecchio tempo fa. In più vi è il fatto che la progettazione di tutti e due i templi non si basa, com è consueto, sul piede greco e le sue frazioni, ma sulla sua più piccola unità, il dito (greco: daktylos), vale a dire la sua sedicesima parte. Il punto di partenza per la progettazione dei due templi è stata la misura di 150 daktyloi per l intercolunnio e di 750 daktyloi per la larghezza della fronte. Queste proporzioni sono state accertate in modo indipendente sia da Dieter Mertens, sia da me stesso 11. In più, vi è una particolarità in cui si può identificare senza dubbio la mano personale dell architetto stesso: in entrambi i casi, la cella ha delle dimensioni tali da permettere soltanto la messa in opera di interi o mezzi quadroni sulle pareti lunghe e su quelle corte 12. Si tratta, quindi, di concordanze di giunture anche all interno. Di recente data è la scoperta che non solo degli architetti, ma anche degli scultori d Egina hanno lavorato nella Magna Grecia. Madeleine Mertens-Horn ha confrontato i frammenti di periodo tardo-arcaico di un acroterio centrale con palmette con frammenti scultorei provenienti dal Tempio C di Metaponto 13. Essi possono essere stati eseguiti soltanto dagli stessi artisti delle sculture dei frontoni del tempio di Aphaia ad Egina 14. Fig. 9. Tempio di Posidone (R. Koldewey, 1899).

6 22 hansgeorg bankel Fig. 10. Tempio di Posidone, stilobate dell opistodomo con bugne (H. Bankel). Con queste riflessioni ci siamo allontanati abbastanza dal nostro argomento principale, vale a dire dai pavimenti greci del V secolo a.c. Ma questa era la mia intenzione, perché soltanto in questo modo è stato possibile dimostrare che attraverso determinate osservazioni sui dettagli di tecnica costruttiva e la loro interpretazione, si è in grado di comprendere meglio la storia dell architettura greca nel suo senso più ampio. NOTE 1. Ringrazio Hubertus Manderscheid per la traduzione di questo testo. 2. C. Garnier, Le Temple de Jupiter Panhellénien à Ègine, Paris 1884, tav A. Furtwängler, Aegina. Das Heiligtum der Appaia, Monaco di Baviera 1906, tav M. Korres, From Pentelikon to the Parthenon, Atene 1995, pp , Le Corbusier, Journey to the East, London , pp H. Bankel, Der spätarchaische Tempel der Aphaia auf Aegina, Berlin 1993, pp. 5-6 e tav H. Bankel, Der spätarchaische Tempel, tav R. Koldewey-Puchstein, Die griechischen Tempel in Unteritalien und Sicilien, Berlin 1899, tav F.C. Penrose, An Investigation of the Principles of Athenian Architecture, London , tav D. Mertens, Der Tempel von Segesta, Mainz 1984, pp Mertens, Der Tempel von Segesta, fig. 53; Bankel, Der spätarchaische Tempel, pp. 120 e fig. 68, Ibidem, pp M. Mertens-Horn, in «Atti del Quarantasettesimo Convegno di studi sulla Magna Grecia», Taranto 2007, Taranto 2008, pp D. Ohly, Die Aegineten, II-III, Monaco di Baviera 2001, tav. 199.

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