Osservatorio sulla giustizia civile n. 7. a cura di Maria Concetta Rametta

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1 Osservatorio sulla giustizia civile n. 7 a cura di Maria Concetta Rametta 1. Corte di Cassazione, terza sezione, n del 13 febbraio 2009, in tema di responsabilità per i danni arrecati nell esercizio dell attività pericolose. Durante una gara di bob uno dei partecipanti subisce gravi lesioni a seguito di un incidente causato dall urto contro una delle tavole di contenimento della pista ed agisce in giudizio chiedendo il risarcimento dei danni all ente gestore della pista e sostenendo che la scheggia di legno, che gli aveva provocato le lesioni, era fuoriuscita dallo steccato di delimitazione della pista a causa di un difettoso allineamento delle tavole. In primo ed in secondo grado le richieste dell attore non vengono accolte né ex art. 2043, né ai sensi dell art Con riferimento alla prima norma, infatti, i giudici hanno ritenuto che il danneggiato non aveva dimostrato la sussistenza della colpa dei soggetti responsabili della manutenzione della pista e cioè, secondo quanto da lui sostenuto, il difetto di allineamento delle tavole di legno; i giudici hanno, invece, affermato a seguito dell accertamento dei fatti che la fuoriuscita della scheggia dalle tavole era stata provocata dalla violenza dell urto dell atleta contro di esse. In secondo luogo i giudici hanno negato l applicazione dell art al caso di specie ritenendo che l attività di predisposizione della piste per la gara non può essere qualificata come un attività per sua natura pericolosa, essendo tale, invece, soltanto la pratica agonistica, a causa dei rischi insiti nell attività stessa, rischi che comunque si presumono accettati dall atleta nel momento in cui decide di partecipare alla gara in quanto, proprio perché intrinseci all attività sportiva, sono conosciuti o conoscibili e, pertanto, prevedibili. Alla luce di queste considerazioni, i giudici di primo e secondo grado affermano che gli organizzatori della gara possono essere chiamati a rispondere dei danni subiti dagli atleti solo nei limiti in cui non abbiano predisposto le cautele necessarie ad evitare incidenti, in osservanza dei regolamenti che disciplinano l attività ed in base alle generali regole di prudenza. Il ricorso per cassazione presentato dal soggetto danneggiato, con il quale era stata denunciata falsa applicazione delle norme di diritto, sulla base della perfetta applicabilità al caso di specie dell art. 2050, viene ritenuto fondato dalla suprema corte, sulla base di un errata interpretazione dei propri precedenti da parte dell organo giurisdizionale di secondo grado. Infatti, nonostante la

2 giurisprudenza abbia più volte affermato che gli atleti, partecipando alle gare agonistiche, accettano i rischi dei danni che possono derivare dal loro svolgimento, perché rientranti nell alea normale dell attività sportiva pericolosa, tuttavia essa ha altresì sostenuto che va valutato caso per caso se l attività di predisposizione delle piste, in vista della competizione, può costituire un attività pericolosa ai sensi dell art. 2050, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, tenendo conto delle capacità di chi la pone in essere e della potenzialità di danno che comporta. I rischi che gli atleti, partecipanti alla gara, accettano sono soltanto quelli prevedibili, cioè quelli causati dagli errori degli sportivi stessi e dei quali ovviamente non risponderanno coloro che preparano la pista. La pericolosità intrinseca dello sport impone che i rischi insiti in esso non devono essere aumentati da difetti o errori nella preparazione del campo, ed anzi la predisposizione della pista deve evitare che si verifichino delle conseguenze più gravi di quelle normali. Pertanto, la suprema corte afferma il principio secondo il quale l attività di preparazione della pista può essere considerata un attività pericolosa nella misura in cui esponga gli atleti a conseguenza più gravi di quelle provocate dagli errori degli atleti e rinvia la questione nuovamente al giudice di secondo grado, affinchè questi accerti non come la scheggia si sia staccata dalla tavole, ma se la predisposizione di quelle tavole abbia accentuato la pericolosità del campo. 2. Corte di Cassazione, sezione lavoro, n del 16 febbraio 2009, in tema di danno da demansionamento. Il rapporto di lavoro si caratterizza, a differenza degli altri rapporti negoziali, per la presenza di un potere di supremazia in capo ad una della parti (il datore di lavoro) sull altra, che, tra l altro, può estrinsecarsi nel mutamento delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto. Tuttavia, al fine di tutelare la parte debole del rapporto, l art delimita l ambito di operatività di tale potere stabilendo che non è possibile un cambiamento in pejus delle mansioni, essendo solo ammissibile un cambiamento in melius, accompagnato dall attribuzione della retribuzione corrispondente al lavoro svolto. Inoltre la norma, al fine di evitare che il suo principio venga eluso da comportamenti fraudolenti del datore, stabilisce che, qualora l adibizione a mansioni superiori si protragga per un periodo di tempo superiore ai tre mesi, l adibizione diventerà definitiva. Il lavoratore ai sensi dell art può rifiutare di svolgere un lavoro diverso e nel caso in cui l attribuzione di mansioni inferiori provochi a lui un danno potrà chiederne il risarcimento.

3 Per l appunto, nel caso di specie, un funzionario bancario chiede al suo datore di lavoro il risarcimento del danno alla salute provocato dall assegnazione di mansioni inferiori. Il tribunale e la corte d appello respingono la domanda avendo accertato che l adibizione a mansioni diverse era stata una conseguenza dello stato di depressione del lavoratore accertato tramite visita medica effettuata sul di lui a seguito di diverse assenze giustificate da un grave lutto in famiglia. La suprema corte conferma il rigetto della domanda di risarcimento del danno, condividendo il principio secondo il quale non sussiste alcun pregiudizio da risarcire nei casi in cui l assegnazione delle mansioni meno rilevanti trovi giustificazione nello stato di salute del lavoratore. 3. Corte di Cassazione, terza sezione civile, n dell 11 febbraio 2009, in tema di risarcimento del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale. La sentenza in oggetto si segnala per le interessanti statuizioni in ordine alla quantificazione del danno morale e sul tema della compensatio lucri cum damni. A seguito del decesso di un paziente, causato da un intervento chirurgico errato, i familiari agiscono in giudizio ed ottengono il risarcimento del danno non patrimoniale da reato, ai sensi del combinato disposto degli artt c.c. e 185 c.p. I soggetti soccombenti ricorrono in cassazione, lamentando un errata liquidazione del danno morale, dato che i giudici della corte d appello non avevano considerato le ridotte aspettative di vita del soggetto leso ed avevano attribuito ai familiari un risarcimento maggiore rispetto a quello previsto dal tribunale. La suprema corte, riallacciandosi a quanto affermato dalla recente pronuncia delle sezioni unite, n /08, ribadiscono in primo luogo che il danno morale derivante da reato va riportato all interno della più ampia categoria del danno non patrimoniale e che esso non può essere visto come una sofferenza solo transeunte, essendo costituito dalla sofferenza in sé e per sé, la cui intensità e durata influiscono soltanto sulla quantificazione del risarcimento. Pertanto, con riferimento alla liquidazione del danno morale deve farsi riferimento alla durata del pregiudizio provocato ai familiari, tenendo conto tuttavia del fatto che questo tipo di danno si manifesta con un dolore interiore e per questo non avrà la stessa intensità per tutta la durata della vita, ma andrà man mano diminuendo. Alla luce di queste considerazioni, la suprema corte condivide la quantificazione del risarcimento operata dai giudici di secondo grado.

4 Per quanto concerne il secondo profilo, il ricorrente si duole del fatto che aveva chiesto in secondo grado di detrarre dal risarcimento, ottenuto dai familiari per il danno patrimoniale, le somme percepite titolo di pensione di reversibilità, in quanto altrimenti opinando, essi avrebbero ottenuto il doppio delle somme che avrebbe avuto il congiunto se non fosse deceduto e che, diversamente da quanto richiesto, la corte d appello aveva applicato il principio della compensatio lucri cum damni, escludendone l applicabilità poiché mancava nel caso concreto l unicità del fatto genetico delle due somme, dato che mentre il diritto alla pensione di reversibilità scaturisce dalla morte, il risarcimento del danno nasce dal fatto illecito. La suprema corte rigetta il motivo di ricorso, ritenendo che la domanda proposta dalla parte riguardava proprio l applicazione del principio della compensatio, avendo egli chiesto di determinare il risarcimento del danno tenendo conto dei vantaggi conseguiti che trovano la loro fonte nello stesso fatto dannoso, e concorda con la corte d appello nel negare che un ipotesi di tal fatta ricorra nel caso concreto. 4. Corte di Cassazione, prima sezione civile, n del 18 febbraio 2009, in tema di nullità del contratto per illiceità dell oggetto. Con questa interessante pronuncia la suprema corte ribadisce un principio consolidato in base al quale il contratto di appalto, avente ad oggetto un immobile privo delle concessioni edilizie, è nullo per illiceità dell oggetto ai sensi degli artt e 1418 c.c. ed afferma che si tratta di una nullità che non può essere sanata né con la convalida, secondo i principi generali, né con il condono edilizio, il quale estingue soltanto le sanzioni. Il principio innovativo contenuto nella sentenza consiste nella specificazione secondo la quale la nullità non può essere pronunciata nel caso in cui le parti abbiano agito nella comune intenzione di rispettare la legge ed in forza di presupposizione abbiano subordinato l adempimento del contratto all ottenimento delle concessioni e queste sopravvengano dopo la stipula del contratto, ma prima della realizzazione dell opera. In tal caso, infatti, il contratto non potrà essere dichiarato nullo né per violazione di norme imperative né per illiceità del motivo comune alle parti. Tale conclusione deriva da quanto disposto dall art. 17 della legge 47 del 1985, la quale stabilisce che il momento al quale occorre fare riferimento per determinare se la mancanza della concessione edilizia provochi la nullità del

5 contratto è costituito dallo scambio dei consensi nei contratti traslativi e nel momento di completamento dell opera nel contratto di appalto. 5. Corte di Cassazione, terza sezione, n del 20 febbraio 2009, in tema di legittimazione ad agire del condominio. A seguito di un incendio, un condomino abitante nell edificio danneggiato agisce contro la società assicurativa per ottenere un indennizzo delle spese sostenute per il ripristino del suo immobile e di alcune parti comuni. Il tribunale e la corte d appello respingono la domanda, in quanto da un lato si afferma che la polizza assicurativa stipulata dall amministratore del condominio era diretta a coprire solo i danni derivati alle parti comuni e non anche quelli subiti dai singoli appartamenti e dall altro si nega la legittimazione ad agire del singolo condomino, dato che non si trattava di un assicurazione per conto di chi spetta. Il soccombente agisce, pertanto, in cassazione, sostenendo che la polizza faceva riferimento anche ai singoli appartamenti, poiché che il bene assicurato era indicato con il termine intero fabbricato e che sussisteva la sua legittimazione ad agire. La suprema corte rigetta entrambi i motivi. Innanzitutto essa afferma che il ricorrente chiede una diversa interpretazione del contratto di assicurazione come contratto per conto di chi spetta, operazione che non è possibile effettuare in sede di legittimità, spettando alla corte di cassazione solo il compito verificare che l interpretazione effettuata dai giudici di merito sia congruamente motivata ed esente da vizi logici e giuridici. In secondo luogo, per quanto concerne il profilo della legittimazione ad agire, la suprema corte specifica che, nonostante il condominio venga definito dalla giurisprudenza come un ente di gestione privo di personalità giuridica, ciò non significa che nel caso in cui l amministratore abbia stipulato una polizza assicurativa, ciascun condomino possa sostituirsi all amministratore nel proprio interesse. La legittimazione ad agire spetta, pertanto, solamente all amministratore. 6. Corte di Cassazione, terza sezione civile, n del 20 febbraio 2009, in tema di risarcimento del danno a seguito di incidente stradale. Il soggetto danneggiato a seguito di un incidente stradale conviene in giudizio le compagnie assicurative dei due automobilisti responsabili per ottenere il risarcimento del danno. Mentre il tribunale accoglie la domanda solo con riferimento ad uno dei due soggetti convenuti, ritenuto unico

6 responsabile dell incidente, la corte d appello riforma parzialmente la sentenza, accollando la colpa ad entrambi; tuttavia, poiché il vincitore in primo grado si era limitato a chiedere la conferma del capo della sentenza del tribunale che aveva ritenuto responsabile uno dei due automobilisti, i giudici di secondo grado condannano solo tale soggetto al risarcimento dei danni. Il danneggiato ricorre in cassazione lamentando l erronea limitazione del risarcimento, dato che egli aveva già chiesto in primo grado la condanna in solido dei due responsabili e non aveva l onere di farla valere anche in appello dato che la presunzione di solidarietà opera per legge, salva che vi sia la rinuncia del creditore, caso che non ricorrerebbe a suo dire nel caso di specie. La suprema corte ritiene i motivi di ricorso infondati in base all art. 346 cpc secondo il quale le domande e le eccezioni non accolte in primo grado e non riproposte in appello si intendono rinunciate e statuisce il seguente principio di diritto: Nel caso in cui il trasportato proponga domanda risarcitoria nei confronti di due soggetti ed il giudice ritenga uno solo di questi responsabile dell evento dannoso, nel giudizio di appello il danneggiato - che intenda ottenere la condanna anche dell altro convenuto - ha l onere di proporre appello incidentale subordinato, restando altrimenti irrilevante nei suoi confronti il regime di solidarietà previsto in astratto dalla legge per la corresponsabilità del sinistro. 7. Corte di Cassazione, terza sezione civile, n del 13 febbraio 2009, in tema di fideiussione e contratto di locazione. La suprema corte, nella pronuncia in oggetto, affronta alcune questioni relative ad una controversia in cui il pagamento dei canoni di locazione era stato garantito mediante fideiussione. La prima problematica affrontata riguarda la possibilità di configurare, nel caso di specie, un ipotesi di fideiussione futura. La suprema corte, in primo luogo, ritiene errata la statuizione della corte d appello, secondo la quale la legge 154/92 è applicabile solo agli istituti di credito, in quanto sia il tenore dell art. 1938, sia argomenti di carattere sistematico (l art. 161 del d. lgs 385 del 93 ha abrogato la norma che prevedeva le limitazioni soggettive) sia la sua ratio (la necessità di individuare un importo massimo garantito serve a tutelare il fideiussore a prescindere dalle qualità del soggetto) non consentono l individuazione di limiti soggettivi. Con riferimento al caso di specie va, pertanto, ravvisata una fideiussione per un obbligazione futura e la corte di cassazione rileva che essa non è in contrasto con l art per la mancanza dell indicazione dell importo massimo

7 garantito, dato che all interno del contratto vi sono comunque una serie di dati dai quali desumere con certezza il quantum della prestazione dedotta in obbligazione. I contratti di locazione sono infatti, predeterminati e, pertanto, l oggetto della garanzia è determinabile per relationem con riferimento al contratto principale. La seconda questione esaminata riguarda l applicabilità dell art. 1956, secondo il quale il fideiussore per un obbligazione futura è liberato se il creditore, senza speciale autorizzazione del fideiussore, ha fatto credito ad un terzo pur conoscendo che le condizioni patrimoniali di questo erano divenute tali da rendere notevolmente difficile il soddisfacimento del credito. Nel caso di specie, il fideiussore sosteneva di non essere obbligato ai sensi di tale norma, perché il creditore aveva violato i principi di buona fede e correttezza, omettendo di agire contro il debitore-locatario per il suo inadempimento nel pagamento dei canoni. Al riguardo, la suprema corte ritiene fondato il ricorso, affermando che nel momento in cui si verifica la morosità del debitore nel contratto di locazione l art impone al creditore di avvertire il fideiussore di tale situazione, affinchè questi lo autorizzi ad attendere il pagamento e a fare, quindi, credito al conduttore, potendo sempre confidare nella fideiussione. Al contrario, qualora il locatore ometta di avvertire il fideiussore dell inadempimento e della situazione di morosità, il fideiussore è liberato. Con riferimento, infine, alla terza problematica proposta dal ricorso e concernente l inefficacia delle clausole vessatorie per mancata sottoscrizione, la suprema corte concorda con la corte d appello che ha applicato quanto più volte affermato dalla consolidata giurisprudenza ed esclude l inefficacia delle clausole nel caso in cui esse siano state espressamente richiamate mediante indicazione numerica ed accompagnate da un descrizione breve del loro contenuto. 8. Corte di Cassazione, sezioni unite civili, n del 25 febbraio 2009, in tema di cittadinanza del figlio di un italiana nato all estero e sull incostituzionalità sopravvenuta delle norme precostituzionali dichiarate illegittime. La pronuncia tratta una questione molto interessante relativa alla vicenda di una persona nata all estero da un italiana, la quale aveva perso la cittadinanza a causa del matrimonio contratto con uno straniero, in applicazione della legge 555 del 1912, dichiarata poi costituzionalmente illegittima, perché discriminatoria della donna rispetto all uomo.

8 Facendo leva sulla sentenza di incostituzionalità, l attrice chiede al tribunale di dichiararla cittadina italiana, ma la sua richiesta viene respinta per la mancanza, ai sensi dell art. 219 della legge 151/75, della dichiarazione di volontà della madre di riacquistare la cittadinanza persa. Giunta la questione in cassazione, la prima sezione rileva che la controversia ripropone la problematica degli effetti retroattivi della dichiarazione di incostituzionalità delle norme precostituzionali, già oggetto di contrasto, risolto in passato dalle sezioni unite nel 1998 e nel 2004, secondo la tesi della dell incostituzionalità sopravvenuta 1. Tale tesi sostiene che la dichiarazione di illegittimità di una norma ha effetti ex tunc, cioè dal momento in cui essa è entrata in vigore, se è successiva alla costituzione, o dal momento di entrata in vigore di quest ultima, se è una norma precedente ad essa, salvi i casi in cui la corte costituzionale decida diversamente. Pertanto, l effetto della pronuncia di incostituzionalità di una norma precostituzionale, come quella del caso di specie, non può retroagire oltre l 1 gennaio 1948 (data di entrata in vigore della costituzione) né opera per i rapporti esauriti. Con tale pronuncia si era negata, pertanto, la riespansibilità della cittadinanza persa per effetto del matrimonio con lo straniero, poiché la perdita di tale diritto costituiva un effetto istantaneo e definitivo del matrimonio, sul quale non poteva produrre effetti la dichiarazione della corte costituzionale e che permane anche dopo l entrata in vigore della costituzione, salvo che la donna esprima la volontà di voler riacquistare la cittadinanza con la dichiarazione prevista dall art. 219 della legge 151 del La prima sezione, pur condividendo il principio statuito dalle sezioni unite, non ne condivide il corollario per il quale dovrebbero ritenersi esauriti i rapporti estinti prima dell 1 gennaio 1948, poiché i fatti preclusivi all estensione retroattiva della dichiarazione d incostituzionalità possono ricavarsi solo da norme diverse rispetto a quelle dichiarati incostituzionali. Rimette quindi la questione nuovamente alle sezioni unite. Le sezioni unite rilevano, in primo luogo, che nel caso di specie vi è una differenza rispetto ai casi sottoposti all esame della precedente pronuncia delle sezioni unite perché su questi ultimi avevano agito direttamente le norme dichiarate incostituzionali, mentre qui l istante è solo una discendente di soggetti che hanno subito gli effetti di quelle norme. 1 Di incostituzionalità sopravvenuta si parla pure, per esempio, nel caso del contrasto nascente da modifiche alla costituzione successive all entrata in vigore della norma dichiarata illegittima (vedi corte le pronunce della corte costituzionale n. 348 e 349 del 2008 sull art. 5 bis della legge 359 del 92, in relazione all art. 117 della costituzione).

9 Indi, dopo aver ripercorso l evoluzione giurisprudenziale sul tema, la cassazione ricorda che i limiti della retroattività delle dichiarazioni di illegittimità corrispondono a quelli della rilevanza della questione sottoposta alla corte costituzionale. Infatti, quando la questione di incostituzionalità ha carattere incidentale, ciò impone che il rapporto, al quale si applica la norma, sia ancora pendente perché, per effetto dell accoglimento della questione incidentale di legittimità, la norma illegittima diventerà inapplicabile e la pronuncia della corte costituzionale inciderà sui rapporti oggetto delle controversie solo se tali situazioni non siano definite per effetto di altre norme. Ciò significa che le questioni di incostituzionalità rilevano se il rapporto è ancora giustiziabile e non anche se i suoi effetti si siano esauriti per effetto di norme diverse. Pertanto, anche con riferimento alle norme precostituzionali, i rapporti regolati da esse ed esauriti non possono essere incisi dalla sopravvenuta illegittimità della legge, salvo che la corte stabilisca diversamente. Nelle sentenze relative alla legge del 1912 la corte costituzionale aveva chiarito che la perdita della cittadinanza derivava non tanto dal matrimonio in sé contratto con lo straniero ma dal perdurare del vincolo e che il mancato acquisto della cittadinanza per il figlio derivava non dalla nascita della donna privata della cittadinanza, ma direttamente dalla filiazione, per cui il matrimonio e la filiazione erano le cause permanenti della perdita e del mancato acquisto della cittadinanza. Di conseguenza casi come quello in esame costituivano rapporti esauriti e non più giustiziabili. Con la pronuncia in oggetto, le sezioni unite operano un revirement e mutano orientamento sulla base delle caratteristiche del diritto alla cittadinanza e di una lettura costituzionalmente orientata dell art. 219 della legge 151/75. Dopo aver esaminato la disciplina vigente in tema di acquisto della cittadinanza, sottolineano il fatto che il diritto alla cittadinanza è una qualità essenziale alla persona, con caratteristiche di assolutezza, indisponibilità ed imprescrittibilità che lo rendono giustiziabile in ogni tempo e mai definibile come esaurito, a meno che non sia stato negato da una sentenza passata in giudicato. Inoltre, il carattere assoluto della tutela del diritto fondamentale a non essere discriminati per ragioni fondate sul sesso potrebbe far riconoscere una retroattività oltre la data di entrata in vigore della costituzione, essendo in giuoco diritti inviolabili che la costituzione non attribuisce ma riconosce (art. 2). Le sentenze delle sezioni unite del 1998 e del 2004 collegavano l acquisto della cittadinanza alla dichiarazione prevista dall art. 219 della legge 151/75, il quale prevede che la cittadinanza si

10 riacquista con la dichiarazione e non per effetto di essa, escludendo così che essa abbia valore costituivo. Pertanto, il successivo atto di riconoscimento del ministero dell interno ha valore ricognitivo, dato che il soggetto è titolare di un diritto soggettivo, l atto è vincolato e si fonda sui documenti prodotti da chi la richiede. Al contrario dell accertamento svolto in sede amministrativa, l accertamento giudiziale della cittadinanza non è soggetto agli stessi limiti e nel caso di perdita avvenuta a seguito del matrimonio contratto con uno straniero, esso può avvenire anche senza la dichiarazione ex art Nel caso di specie, poiché il mancato acquisto della cittadinanza della ricorrente costituisce un effetto dell applicazione della norma dichiarata incostituzionale perché discriminatoria, la cessazione degli effetti di tale norma incide automaticamente sui rapporti ancora giustiziabili; gli effetti prodotti dalla legge ingiusta vengono meno con la cessazione di efficacia della legge che decorre dall 1 gennaio 1948, data dalla quale si deve ritenere automaticamente recuperata la cittadinanza, ciò anche nel caso di morte degli ascendenti, se non vi sia stata rinuncia da parte di questi alla cittadinanza. La perdita della cittadinanza non causata dalla volontà della donna ma dall effetto di una legge incostituzionale è un effetto perdurante e contrasta con il principio della parità dei sessi e dell uguaglianza giuridica e morale dei coniugi

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