QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? di Davide Carbonai

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1 QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? di Davide Carbonai In Italia, la distanza sociale tra ricchi e poveri sembra difficilmente colmabile; per più versi, appare anzi incrementare. È come se i poveri le classi più povere fossero intrappolati in un mondo a parte dal quale risulterebbe difficile uscirne; al pari, si assiste ad un processo di «distanziamento»/stratificazione anche all interno delle fasce sociali intermedie. Il diaframma tra disagio e benessere sembra impermeabile: si protrae una situazione di evidente dualismo. E l aspetto più rilevante è forse proprio questa «non-evoluzione» del sistema sia negli strati più deboli che nel suo complesso come se l Italia lo spazio sociale fosse entrata in un vicolo cieco. Ulteriori statistiche delineano i contorni di nuove forme di disuguaglianza sociale, fondate sull indebolimento progressivo dei sistemi di integrazione sociale e sulla conseguente esposizione di una parte significativa della popolazione a rischi e ad elementi di insicurezza. In uno studio promosso da Paci (1993), l esigenza di comprendere le dinamiche ed i tratti caratteristici della disuguaglianza in Italia derivava da due precisi ordini di motivi: da un lato l esigenza conoscitiva dei processi sociali in corso, dall altro l esigenza più politica, connessa alla crisi d identità dei partiti di ispirazione socialista. Queste esigenze non sono affatto scomparse. Ma in che modo, queste forme di disuguaglianza, ostacolano lo sviluppo del sistema e la tenuta economica? 33

2 1. Disuguaglianza come concentrazione delle risorse Il concetto di disuguaglianza può essere «descritto/rappresentato» anche attraverso indici e statistiche economiche diversamente calcolate, oppure utilizzando differenti approcci analitici: si può rappresentare, in via definitiva, per mezzo di più indicatori. L indicatore utilizzato da Ricolfi derivato dal calcolo della ricchezza netta mediana familiare per condizione del capofamiglia misura solo specifici tratti della disuguaglianza qui intesa come confronto di valori riferiti a gruppi sociali e professionali distinti (Ricolfi 2005: 66). Nel 2002, se la famiglia italiana media disponeva di una ricchezza pari a 100, la ricchezza della famiglia mediana disponeva di un reddito pari a poco più di un terzo, mentre quella della famiglia-tipo di un dirigente risultava ben oltre il doppio 1. 1 Il rapporto fra la ricchezza del gruppo più alto e quella del gruppo più basso risultava pari a circa 6:1 (219,3/37,7 = 5,8). Utilizzando la statistica di Ricolfi, si possono osservare le traiettorie le variazioni dei vari gruppi sociali: il rapporto è sufficiente per rendersi conto di quanto accaduto nel periodo che intercorre tra l inizio degli anni novanta ed il Nei primi anni novanta la situazione evolve a favore delle classi alte (dirigenti, imprenditori e liberi professionisti) e del ceto medio impiegatizio; e peggiora, conseguentemente per la classe operaia; restano sostanzialmente «fermi» i lavoratori autonomi: complessivamente la disuguaglianza cresce (Ricolfi 2005: 67). Nel periodo dal 1993 al 1998, si osserva una tendenza prevalente al riequilibrio fra la ricchezza detenuta dalle famiglie delle due classi superiori e quella detenuta dalle famiglie «operaie», mentre impiegati e lavoratori autonomi subiscono un leggero ma costante arretramento: complessivamente la disuguaglianza si riduce. Nel periodo che intercorre tra il 1998 ed il 2002, la disuguaglianza riprende però a crescere a favore delle classi alte (Ricolfi 2005: 67). 34

3 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? Si può tentare di riassumere l intera «storia» della disuguaglianza quella fra classi superiori e classi subordinate attraverso l andamento di un altro semplice indice basato sulle serie storiche della Banca d Italia. La misura indica quale è, in media, la ricchezza detenuta dai ceti medio-alti fatta 1 la ricchezza della famiglia operaia tipo. L indice aumenta nel periodo , cala nel periodo , riprende a salire dal 1998 al Nell insieme delle ultime sei rilevazioni della Banca d Italia il valore medio dell indice risulta pari a circa 4; i valori estremi sono prossimi a 3 e 5. L indice di disuguaglianza assume il valore massimo più basso (2,9: minima disuguaglianza) nel 1998, ossia alla fine del governo Prodi, e assume il suo valore più alto (oltre cinque: massima disuguaglianza) in due circostanze: nel 1993, ossia nell anno successivo alla svalutazione della lira e nel 2002, ossia nell anno di introduzione dell euro (governo Berlusconi). È possibile derivare una riflessione sulla disuguaglianza dall uso del concetto di concentrazione; la sua comprensione riesce agevole supponendo a scopo esemplificativo di dover discutere dell allocazione dei redditi o della ricchezza in un gruppo definito in N unità statistiche. Diremo così che il reddito di un paese è tanto più concentrato quanto più il reddito complessivo è posseduto da una frazione modesta delle unità statistiche complessive; se poi un solo individuo possiede tutto il reddito, la concentrazione risulta massima. La concentrazione cresce al crescere della frazione di unità statistiche che possiedono il carattere in misura inferiore alla media, ovvero con il diminuire delle unità statistiche che possiedono il carattere in 35

4 36 misura superiore alla media. Per la misura della concentrazione si usa di frequente il rapporto di Gini (R); si tratta di un numero puro, non espresso in unità di misura; il suo valore è compreso in un intervallo che varia tra 0 e 1. Se R = 0 vi è equa-distribuzione; se R = 1 vi è massima concentrazione; in tal caso una sola unità statistica possiede tutto il carattere. Complessivamente, dagli anni novanta si assiste ad un aumento della disuguaglianza nella allocazione della ricchezza. Una conferma di questo andamento deriva dai valori di incremento ottenuti dal calcolo della statistica di Gini; secondo i calcoli della Banca d Italia, l indice di Gini pari a 0,587 nel 1991 risulta pari a 0,619 nel Il reddito familiare medio dell anno 2004, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali e assistenziali, risulta pari a euro (2.457 euro al mese). Corrispondentemente ad una tendenza già in atto nella precedente indagine della Banca d Italia, le famiglie con capofamiglia in condizione professionale di lavoratore indipendente registrano aumenti più significativi in termini reali. Laddove il capofamiglia è in condizione di disoccupato o pensionato, l aumento risulta del 3,2 per cento; quando, invece, è un lavoratore dipendente si verifica una diminuzione del 2,1 per cento (Albini 2006). Con riferimento ai soli redditi, si rileva che il 10 per cento delle famiglie con reddito più basso percepisce il 2,6 per cento del totale dei redditi prodotti, mentre il 10 per cento delle famiglie con redditi più elevati percepisce il 26,7 per cento del totale (tab. 1).

5 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? Tab. 1 - Redditi medi (in euro) e quote di reddito nel 2004 (in percentuale) per classi di famiglie Fonte: Albini 2006 Classi di famiglie Reddito medio Quota di reddito fino al I decile ,6 dal I al II decile ,3 dal II al III decile ,3 dal III al IV decile ,4 dal IV al V decile ,5 dal V al VI decile ,8 dal VI al VII decile ,04 dal VII all VIII decile ,5 dall VIII al IX decile ,5 dal IX al X decile ,7 È infatti possibile immaginare un sistema di stratificazione sociale come costituito da «classi» o «strati» ordinati gerarchicamente secondo un criterio basato sul reddito; non tutti dispongono allo stesso modo dei beni prodotti o presenti in natura: l accesso ai beni varia infatti in ordine alle disponibilità di reddito individuali o familiari. E il decile più ricco dispone del 26,7 per cento del reddito complessivo (tab. 1); il primo decile dispone invece solo del 2,6 per cento del reddito complessivo; il sesto decile classe di reddito dispone di un reddito pari a dieci volte il decile più povero. In caso di perfetta equi-distribuzione «una quota x della popolazione dispone di una quota corrispondente x di reddito» l ottavo decile dovrebbe ridurre di un quarto la quota di reddito percepito, il nono decile di un terzo, il decimo decile di circa due terzi. Si tratta, in definitiva, di una distribuzione di risorse profondamente «spostata» verso 37

6 le classi più ricche. I sei decili più poveri dispongono del 34,9 per cento del reddito complessivo: in caso di equi-distribuzione dovrebbero disporre del 60 per cento del reddito complessivo. La disuguaglianza così intesa non è il risultato di una sperequazione derivata da una classe di privilegiati che «sposta» a suo favore le risorse disponibili a discapito di tutti: si tratta di una dinamica derivata dall intero sistema di stratificazione sociale. Peraltro, rispetto alla concentrazione dei patrimoni, il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede il 43 per cento della ricchezza netta delle famiglie italiane 2. Il Censis sostiene che negli ultimi dieci anni la quota di ricchezza posseduta dal 5 per cento delle famiglie agiate è passata dal 27 per cento al 32 per cento della disponibilità complessiva; fuor di metafora, anche quella posseduta dall 1 per cento dei più ricchi è cresciuta: è passata dal 9 per cento al 13 per cento del totale (Albini 2006: 275). In via definitiva, le misure statistiche indicano per il caso italiano un grado di concentrazione dei redditi sostanzialmente stabile sebbene particolarmente elevato in comparazione con gli altri paesi europei; il grado di concentrazione della ricchezza (l insieme di ciò che si possiede) appare invece tendenzialmente aumentare 3. 2 Per ricchezza netta si intende la somma della attività reali (immobili, aziende, oggetti di valore) e delle attività finanziarie (depositi, titoli di Stato) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti). 3 Oltre che nel caso italiano, anche in molte altre economie a capitalismo avanzato si osservano tendenziali processi di incremento della concentrazione della ricchezza e dei redditi. Dall inizio degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta, negli stati Uniti la quota del reddito incassata dagli individui 38

7 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? Si può ipotizzare che i fenomeni di povertà o privazione sociale siano in qualche misura connessi con il sistema di stratificazione sociale e di distribuzione delle risorse: in via definitiva, connessi al livello di concentrazione di reddito e ricchezza. Nei paesi ad economia di mercato, l indice di concentrazione di Gini presenta tipicamente valori compresi tra 0,25 e 0,4. L Italia è il paese a cui è riferito il valore di concentrazione (R = 0,34) più alto tra i paesi aderenti alla Unione Europea (Cnel 2002: 238). Tra valori di concentrazione riferiti ai paesi dell UE e appartenenti al decile più ricco della popolazione è aumentata di quasi 10 punti (Reichlin, Rustichini 2003). In Europa la dispersione dei salari risulta sostanzialmente inferiore, sebbene si osservi complessivamente un tendenziale aumento della disuguaglianza; ad esempio, in Francia dall inizio degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta, la quota di reddito complessivo incassata dagli individui appartenenti al decile più ricco della popolazione è aumentata di soli 2 punti e mezzo (dal 30 al 32,5 per cento circa). Le tendenze in atto in Europa non sono positive; tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta gli indici di disuguaglianza in Usa non sono cambiati in modo apprezzabile, mentre sono aumentati in Italia (di molto), in Germania e in altri paesi nord europei (Reichlin, Rustichini 2003). La percentuale di americani sotto la linea della povertà (definita come il 50 per cento del reddito disponibile mediano) era pari al 17,8 per cento a metà degli anni Ottanta, al 17,8 per cento nel 1994 e al 17 per cento nel In Germania ed Italia, viceversa, la medesima percentuale è aumentata di due punti dal 1984 al 2000 (dal 6,5 all 8,3 per cento in Germania, dal 10,4 al 12,7 per cento in Italia). A seguito dell aumento della partecipazione alla forza lavoro verificatosi negli anni Novanta, la percentuale di famiglie povere in Usa è passata dall 11,9 per cento del 1992 all 8,6 per cento del In effetti, la percentuale di individui sotto il livello di povertà non è molto diversa da quella del In via definitiva, se ne deduce che l aumento della disuguaglianza calcolata sui redditi non ha avuto effetti apprezzabili sugli indici di povertà (Reichlin, Rustichini 2003). 39

8 relativi tassi di povertà nazionali, esiste uno stretto legame empirico: laddove aumenta la concentrazione aumenta anche il valore del tasso di povertà, laddove la povertà diminuisce, allo stesso tempo, diminuisce il valore dell indice di concentrazione (Cnel 2002: 238). Alti indici di concentrazione derivano alti indici di povertà. La medesima correlazione può essere osservata anche ad altri livelli di analisi. 2. La povertà diffusa La povertà i fenomeni di privazione e disagio può essere ipotizzata come manifestazione delle diverse forme di disuguaglianza sociale. Al pari della concentrazione, deriva da un sistema di stratificazione. In Italia, nel 2002, l incidenza di povertà cioè la percentuale di famiglie con una spesa mensile per consumi al di sotto della soglia di povertà risultava pari all 11 per cento; a questo valore percentuale corrispondeva un ammontare complessivo di circa 2 milioni 456 mila famiglie ed un totale di 7 milioni 140 mila individui (pari al 12,4 per cento dell intera popolazione) 4. 4 L indicatore di incidenza della povertà si ottiene dal rapporto tra il numero di famiglie con spesa media mensile per consumi pari o inferiore alla soglia di povertà ed il totale delle famiglie residenti. Nel 2002, la spesa media mensile pro-capite per consumi in Italia risulta pari a 823,45 euro; tale valore costituisce la linea di povertà relativa (o linea di povertà standard) per una famiglia di due componenti. In altri termini, una famiglia composta da due persone è considerata povera in senso relativo se spende mensilmente per consumi un importo inferiore o uguale a 823,45 euro. Per famiglie di diversa ampiezza il valore della linea si ottiene in seguito ad una semplice operazione di ponderazione: applicando una scala di equivalenza al fine di ponderare 40

9 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? La media nazionale è la risultante delle situazioni differenziate nelle tre ripartizioni territoriali: nel Mezzogiorno due famiglie su dieci vivevano in condizione di povertà relativa mentre nel Nord la proporzione scendeva fino ad una famiglia su venti 5. La classificazione della popolazione secondo il criterio operato dalla linea standard di povertà consente di distinguere la popolazione di riferimento in due classi; utilizzando due soglie aggiuntive, pari all 80 per cento (658,76 euro mensili) e al 120 per cento (988,14 euro mensili) della soglia standard (povertà relativa) è possibile distinguere la popolazione delle famiglie italiane in quattro diverse classi: quelle sicuramente povere (con consumi inferiori all 80 per cento della linea di povertà standard), quelle appena povere (tra l 80 per cento della linea e la linea stessa), quelle quasi povere (con consumi superiori alla linea di non oltre il 20 per cento) e quelle sicuramente non povere (con consumi più elevati del 20 per cento). Nel 2002, il 5,1 per cento delle famiglie italiane, circa 1 milione 137 mila famiglie, risultava sicuramente povero; il 5,9 per cento circa 1 milione 318 mila famiglie risultava appena povero: per un totale di 2 milioni 456 mila famiglie povere (ISTAT 2003). Tra il 2003 e il 2004, a livello nazionale, la diffusione della l importo di linea di povertà standard alle micro economie di scala che si realizzano all aumentare del numero di componenti per famiglia. 5 La situazione migliore nella ripartizione del Mezzogiorno è quella rilevata in Sardegna e in Abruzzo con un valore di incidenza rispettivamente del 17,1 per cento e del 18 per cento: una diffusione della povertà decisamente minore rispetto a Campania (23,5 per cento), Molise (26,2 per cento), Basilicata (26,9 per cento) e Calabria (29,8 per cento). 41

10 42 povertà appare significativamente in crescita tra le famiglie più numerose, tra le coppie di giovani-adulti e tra le coppie con 1 o 2 figli soprattutto quando almeno un figlio è minore. Cresce la percentuale di famiglie povere anche tra i lavoratori dipendenti: si passa dall 8,2 per cento al 9,3 per cento (ISTAT 2005). Rispetto al 2002, nel 2004 le famiglie residenti in Italia che vivono in condizione di povertà relativa aumentano di 218 mila unità; le famiglie povere risultano pari all 11,7 per cento di quelle residenti: un totale di 7 milioni 588 mila individui, il 13,2 per cento dell intera popolazione (ISTAT 2005). Le famiglie con cinque o più componenti presentano ovunque livelli di povertà elevati. In media, quasi un quarto di queste famiglie risulta relativamente povero; nel Mezzogiorno la percentuale sale ad oltre un terzo delle famiglie residenti. Nel caso di famiglie capo-famiglia in possesso di un elevato titolo di studio (scuola media superiore e oltre) meno di una su venti risulta povera; mentre lo è una su cinque se la persona di riferimento non ha alcun titolo o la sola licenza elementare. E la percentuale di famiglie povere tra quelle con membri esclusi dal mercato del lavoro risulta decisamente elevata: è pari al 28,9 per cento tra le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione e al 37,4 per cento tra quelle con due o più componenti in cerca di lavoro. La condizione è tanto più grave quanto meno forte è la capacità reddituale degli altri componenti. Nel Mezzogiorno l aumento significativo dell incidenza della povertà una famiglia su quattro è povera, contro una su cinque dell anno precedente investe trasversalmente le famiglie a prescindere dall età, dal titolo di studio e dalla condizio-

11 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? ne professionale della persona di riferimento. In particolare, se viene analizzata la tipologia familiare appare evidente come il peggioramento riguardi essenzialmente le coppie di giovaniadulti, le coppie con figli, in particolare minori, e quelle con anziani. Nelle regioni centrali, dove il fenomeno risulta sostanzialmente stabile, un aumento significativo dell incidenza della povertà si osserva tra le famiglie di anziani, in particolare tra quelle costituite da sole donne. Sono infatti soprattutto le persone sole con almeno 65 anni a veder peggiorata la propria condizione: l incidenza è più che raddoppiata, passando dal 4,2 per cento al 10 per cento. Nel 2004, il 7,9 per cento delle famiglie residenti in Italia risulta a «rischio di povertà», mentre il 5,5 per cento (1.256 mila famiglie) presenta condizioni di disagio estremo (famiglie «sicuramente povere»); si tratta di una percentuale che nel Mezzogiorno sale al 13,2 per cento. Per contro, le famiglie «sicuramente non povere», che a livello nazionale rappresentano l 80,4 per cento del totale delle famiglie, variano tra il 90,3 per cento del Nord, l 85,6 per cento del Centro e il 62,5 per cento del Mezzogiorno. La situazione descritta appare per più versi preoccupante. L utilizzo della via fiscale come strumento principale sia di politica della famiglia che di sostegno ai redditi più modesti mostra ancora tutti i limiti e gli effetti perversi (Saraceno 2004). E l Italia rimane, con la Grecia, l unico paese dell Europa a 15 a non avere una misura di garanzia del reddito per i più poveri. La povertà è una manifestazione della disuguaglianza. In 43

12 Italia, l indice di diffusione della povertà ha mostrato a livello nazionale un andamento storico simile a quello della disuguaglianza: i valori appaiono correlati in una serie storica. Peraltro, il nesso statistico tra povertà e concentrazione rilevato per i paesi UE «funziona» anche se riferito alle stime per le regioni italiane 6. I valori di concentrazione dei redditi e della ricchezza calcolate nei modi proposti da Corrado Gini possono essere utilizzati come variabile proxy per la correlazione statistica con le misure di povertà regionali: i valori di stima regionale di povertà e disuguaglianza sono correlati statisticamente. Povertà e disuguaglianza sono fenomeni dipendenti: laddove aumenta il livello di concentrazione dei redditi, aumenta in media il livello di povertà; allo stesso modo quando la disuguaglianza si riduce. Inoltre, laddove sono più bassi i livelli di concentrazione, maggiore è la disponibilità di reddito regionale; 6 Buona parte della letteratura sulla distribuzione del reddito in Italia allo stesso modo delle statistiche sulla povertà si concentra su dati nazionali o, al più, su disaggregazioni per grandi aree territoriali. Le analisi a livello subnazionale, oltre ad essere meno frequenti di quelle che hanno per unità di analisi l intero paese, sono spesso basate su indagini ad hoc, difficilmente comparabili tra di loro: utilizzano questionari, metodologie, unità di osservazione, strumenti statistici tra loro non compatibili. Cannari e D Alessio (2003) hanno sperimentato una stima per aggregati regionali utilizzando congiuntamente più indagini. La maggiore numerosità campionaria disponibile unitamente all applicazione di stimatori che riducono l effetto dei valori estremi e integrano l informazione campionaria con quella proveniente da fonti esterne ha permesso di ridurre la variabilità delle stime. Nello studio si forniscono quindi indicazioni sul grado e l andamento della disuguaglianza nelle regioni italiane (cfr. inoltre Brandolini et. al. 1994; Brandolini et al. 2001: ). 44

13 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? ad alti livelli di concentrazione corrisponde invece una minore disponibilità di reddito. 3. La mobilità sociale? Per valutare il grado di equità di un sistema sociale, si è inteso sino ad ora discutere di una dimensione di indagine: la disuguaglianza «statica» relativa ai risultati economici raggiunti da una popolazione in un dato istante di tempo ed al sistema di stratificazione. La disuguaglianza «statica» non tiene però conto della mobilità sociale: l «apertura» di un sistema di stratificazione sociale al suo cambiamento. Ma poiché si intende promuovere una riflessione sistematica sul grado di disuguaglianza tra individui, la mobilità sociale risulta fondamentale per valutare l equità di un sistema; in particolare, è la mobilità che rende possibile una maggiore uguaglianza delle opportunità e contribuisce alla coesione sociale. Un alto grado di mobilità sociale permette di «utilizzare» nel modo migliore i talenti individuali. Si provi ad immaginare una società completamente chiusa mobilità sociale nulla in un contesto economico di alta competitività dei mercati; quali sono le chance di questa società di continuare ad esistere o di concorrere con altri sistemi? In un sistema globale, influenzato dalla innovazione tecnologica e dal vantaggio competitivo, che opportunità può avere una società che non utilizza al meglio le risorse sociali disponibili? E che influenza può avere sullo stato d animo di tanti giovani la percezione di un sistema immobile? Il grado di mobilità sociale nei paesi industrializzati risulta piuttosto elevato. Ogni anno in USA, tra il 25 ed il 30 per 45

14 46 cento della popolazione passa ad un quintile di reddito superiore. In un decennio, questo valore sale a circa il 60 per cento. Secondo uno studio di Sawhill, il dato Usa sarebbe simile a quella dell Europa continentale (Reichlin, Rustichini 2003). Se, da una parte, la disuguaglianza costituisce un ostacolo alla mobilità sociale, in quanto penalizza chi nasce in famiglie disagiate, dall altra, potrebbe rappresentare il costo necessario per generare un elevata mobilità sociale basata su un sistema meritocratico e competitivo. Si potrebbe avanzare la congettura che, se in Europa la mobilità sociale è garantita principalmente dai minori livelli di povertà e di dispersione salariale, in Usa sia prodotta dai maggiori livelli di concorrenza e dall efficacia del sistema educativo. I dati recenti relativi all Italia sono però negativi: sia per quanto riguarda la disuguaglianza «statica» che per quanto riguarda la mobilità sociale. In Italia, le disuguaglianze sociali (di classe, di genere e fra generazioni) continuano a farsi sentire ed a plasmare in vario modo opportunità e destini degli individui (Schizzerotto 2002). Il tipo di laurea conseguito esercita effetti sperequativi seppure contenuti sulle opportunità di accedere a risorse come il prestigio e il reddito, connessi a loro volta al tipo di occupazione svolta; peraltro, in una certa misura, anche il sesso e la classe di origine influiscono sulla scelta dell indirizzo degli studi universitari. I figli della borghesia sono sovra-rappresentati nei due raggruppamenti che assicurano le migliori opportunità di accesso alle posizioni sociali di vertice; allo stesso tempo, sono presenti in misura meno che proporzionale fra i gruppi disciplinari che, in media, offrono i minori vantaggi occupazionali. E le classi influi-

15 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? scono sulle durate delle varie tappe che conducono alla vita adulta, sulle scelte educative, sui rischi di disoccupazione e di accesso ad impieghi maggiormente tutelati, sulle chance di carriera, sulla scelta del coniuge in termini di collocazione occupazionale e livello di istruzione. Le disparità connesse alla classe di origine nelle chances di raggiungere livelli di istruzione successivi all obbligo sono rimaste sostanzialmente invariate nel corso del secolo, a dispetto degli obiettivi egualitari sottesi alle riforme scolastiche varate negli anni Sessanta e ripresi, almeno nominalmente, in molti dei successivi aggiustamenti didattici e organizzativi subiti dal nostro sistema scolastico. Anno dopo anno, le probabilità di mobilità tra decili di reddito il passaggio tra classi sociali resta sostanzialmente inalterata. La poca mobilità per lo più ascendente si verifica peraltro tra classi sociali contigue. I dati tratti dalle indagini comparative rivelano un andamento convergente riguardo ai tassi di mobilità assoluta, vale a dire la quota di figli che raggiungono una posizione occupazionale diversa da quella dei loro padri; il tasso di mobilità assoluta, che misura i mutamenti intervenuti da una generazione all altra, si ottiene confrontando la classe sociale di origine degli intervistati con la classe sociale di destinazione (mobilità inter-generazionale). La quota di figli che hanno cambiato classe sociale rispetto a quella dei loro padri è pari al 63,6 per cento (il 61,6 per cento tra gli uomini e il 66,5 per cento tra le donne) 7. Gli effetti di questo tipo di 7 Il tasso di mobilità assoluta varia in maniera sensibile secondo la classe sociale di origine. È massimo per i figli degli operai agricoli: essi modificano 47

16 mobilità sono però derivati da un cambiamento strutturale del sistema economico e del lavoro. L effettivo grado di apertura o fluidità sociale, al netto degli effetti strutturali, è allora misurato dalla mobilità relativa: che consiste nel confronto sistematico delle chances di raggiungere una data destinazione, anziché un altra ad essa alternativa, godute dagli individui provenienti da due classi diverse. Occorre, cioè, considerare la quota di individui pervenuti in una determinata classe (piuttosto che in un altra delle rimanenti), rapportata alla corrispondente proporzione osservata per gli individui provenienti da una classe diversa. In una società caratterizzata da eguaglianza nelle chances di mobilità, tali quote risultano uguali per tutte le classi di provenienza, indipendentemente dai mutamenti intervenuti nella struttura occupazionale. In tal senso la misura della mobilità relativa esprime la configurazione dei meccanismi di selezione sottostanti ai processi di mobilità e misura conseguentemente l effettivo grado di apertura o di fluidità sociale presente in una società. Al netto degli effetti strutturali esercitati dai profondi cambiamenti avvenuti nel la propria posizione occupazionale in 9 casi su 10. D altra parte, nell arco di una generazione, la quota degli operai agricoli sul totale degli occupati si è ridotta drasticamente. Anche i figli della piccola borghesia agricola presentano un elevato tasso di mobilità assoluta, in particolare le donne. Meno mobili, ancorché in misura notevolmente superiore ai figli maschi, sono le figlie della piccola borghesia urbana e della borghesia. La classe operaia urbana e la classe media impiegatizia sono caratterizzate, invece, da una mobilità minima: sono poco più della metà, infatti, i figli che si sono collocati in una classe diversa da quella dei loro padri. Le figlie della classe operaia urbana, tuttavia, si mostrano più mobili dei figli maschi (Istat 2005: 244). 48

17 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? sistema economico ed occupazionale in modo particolare nel passato ma non nel tempo presente e tanto meno in quello futuro il regime di mobilità resta rigido: la classe di origine influisce infatti in misura rilevante e limita la possibilità di movimento all interno dello spazio sociale (Istat 2005: 248). 4. Entitlements e provisions Al riconoscimento della pluralità dimensionale della disuguaglianza è collegata l idea che non sia possibile stabilirne un ordine di priorità. Per Ranci (2002: 310) le forme di vulnerabilità segnalano l esistenza di disuguaglianze sociali relative all esposizione (maggiore o minore) ad un set articolato di rischi e di fattori di vulnerabilità. L analisi di Ranci documenta, accanto alle disparità tradizionali fondate sostanzialmente sulla collocazione dei soggetti nel mercato del lavoro, l emergere di nuove disuguaglianze, basate da un lato sull accesso differenziato a risorse fondamentali per il benessere individuale e familiare (un reddito sufficiente, un abitazione adeguata) e dall altro sulla maggiore o minore stabilità della posizione mantenuta dentro i diversi sistemi di distribuzione delle risorse e di integrazione sociale (il mercato del lavoro, le reti della famiglia allargata, il sistema di welfare). Si profilano così nuove forme di disuguaglianza sociale, fondate sull indebolimento progressivo dei sistemi di integrazione sociale e sulla conseguente esposizione di una parte significativa della popolazione a rischi ed insicurezza. In uno studio condotto con Marcello Pedaci (2004) si osservava come la povertà fosse chiaramente collegata allo spazio sociale ambientale, legata a dinamiche strutturali di intrap- 49

18 50 polamento e trasmissione intergenerazionale. In questo studio di impostazione qualitativa gli intervistati descrivono le difficoltà a fuoriuscire da uno stato di povertà. Ovviamente non vengono escluse altre possibilità: miglioramenti, transizioni verso situazioni di minor disagio o di benessere socio-economico. Ma il caso più frequente è quello di un «sottoequilibrio nella povertà»; ossia di una condizione in cui non è minacciata la sopravvivenza, ma in cui vi è una forte limitazione dei consumi e una parziale soddisfazione dei bisogni, anche di quelli primari. In tale condizione vi è comunque un disagio e una sofferenza economica cristallizzata nel tempo e difficilmente superabile. È insomma una condizione con tratti di vischiosità, resistente al mutamento. Il lavoro è la risorsa principale in grado di favorire un miglioramento della propria condizione; modificare la propria situazione di lavoro, cambiare tipo di attività è però tutt altro che semplice, soprattutto per le persone che hanno avuto percorsi occupazionali segnati da marginalità e precarietà. A causa della segmentazione del mercato del lavoro, questi segmenti della forza-lavoro difficilmente riescono a transitare verso altri tipi di attività e verso migliori posizioni. Nella maggior parte dei casi mancano le risorse necessarie: le risorse di professionalità, di informazione, di relazioni, psicologiche ed economiche per migliorare la propria condizione lavorativa. Inoltre, le disuguaglianze nelle posizioni lavorative comportano anche differenti opportunità di accesso alle informazioni. La conoscenza si costituisce come risorsa fondamentale per la propria possibilità di azione e movimento. In «un epoca di informatizzazione e in una società dell informazione, la disparità

19 Davide Carbonai QUANTA DISUGUAGLIANZA POSSIAMO ACCETTARE? di conoscenze disponibili origina infatti ingiustizie» (Accornero 1993). E le differenti opportunità di accesso alle informazioni si traducono in «nuove fonti di disuguaglianza sui mercati del lavoro». Non ogni tipo di lavoro assicura le stesse risorse; e quelli svolti dai lavoratori poveri sono senz altro i meno arricchenti. Le possibilità di fuoriuscire dalla povertà, le possibilità di un cambiamento delle proprie condizioni di esistenza verso situazioni di benessere socio-economico, sono assai ristrette; in particolare per quelle donne e quegli uomini con una posizione occupazionale debole. Si potrebbe allora ipotizzare che il declino italiano sia influenzato da una crescente disuguaglianza sociale: e che la prima ragione dell inefficienza del sistema sia l ingiustizia sociale. In tal senso, non sempre il lavorare costituisce un mezzo sufficiente per assicurarsi una posizione di sicurezza e di benessere, ovvero per la piena fruizione di diritti di cittadinanza, sociali ed economici. Il lavoro non ha perso la sua importanza; continua a svolgere un ruolo essenziale nel destino sociale della gran parte della popolazione ma ha perso molta del suo potere di protezione. Occorre promuovere al pari provisions ed entitlements. La crescita economica, intesa come crescita delle ricchezze, delle risorse, dei beni materiali e immateriali disponibili per il consumo le provisions di Dahrendorf non sono sufficienti e non garantiscono una diminuzione reale dei livelli di disuguaglianza: è dunque necessaria una diversa configurazione dei diritti e delle possibilità di accesso alle crescenti provisions. Per entitlements s intende infatti l insieme dei diversi fasci, 51

20 52 alternativi e relativi, dei diritti di accesso, che la persona può «possedere» disporre attraverso l uso dei vari canali legali di acquisizione aperti a ciascuno allo stesso modo nella sua diversa posizione sociale. Si possono acquisire provisions solo con gli entitlements. Ed «incrementare» il livello generalizzato degli entitlements, significa al pari aumentare i diritti di cittadinanza e conseguentemente ridurre i livelli di disuguaglianza e di povertà: ne deriverebbe un libero accesso alle provisions. Occorre favorire la contemporanea crescita di entitlements e provisions; diversamente, si rischia uno sviluppo non equilibrato. In una società aperta meritocratica ciascuno dispone delle proprie capacità liberamente; le probabilità di accesso a posizioni sociali apicali sono identiche per tutti: tutti dispongono dei medesimi entitlements. In una società libera gli individui dispongono delle proprie capacità per produrre beni materiali e immateriali aumentando il livello delle provisions. In tal modo, i processi di sviluppo si affermermano nella piena valorizzazione delle capacità individuali o di gruppo; i vincoli alla libera espressività sociale riducono i livelli di innovazione e crescita di un sistema.

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