Discriminazione e licenziamento dopo la riforma Fornero Resoconto della tavola rotonda del 5 dicembre 2012

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1 CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO Ufficio giuridico e vertenze Roma, 27 dicembre 2012 Discriminazione e licenziamento dopo la riforma Fornero Resoconto della tavola rotonda del 5 dicembre 2012 Il 5 dicembre 2012 si è svolta a Roma, presso la Corte di Cassazione, la tavola rotonda su Discriminazione e licenziamento dopo la l. n. 92/2012: profili sostanziali e processuali. L iniziativa la seconda promossa dalla Rivista giuridica del lavoro in collaborazione con Magistratura democratica ed Avvocati Giuslavoristi Italiani (sezione Lazio) ha rappresentato un momento di approfondimento teorico e pratico molto partecipato con una nutrita presenza di sindacalisti, studiosi ed operatori del diritto (circa 200 persone). Uno dei profili affrontati da tutti i partecipanti alla tavola rotonda riguarda la riconducibilità del licenziamento discriminatorio alla più ampia fattispecie del motivo illecito, approdo su cui è attualmente attestata la giurisprudenza della Corte di Cassazione, con tutte le conseguenze in ordine agli oneri di allegazione e di prova ricadenti sul lavoratore. Sostenere che il licenziamento discriminatorio sia una specie del licenziamento viziato da motivo illecito significa affermare che il lavoratore debba dimostrare in giudizio l intenzionalità della condotta del datore di lavoro e l esclusività del motivo discriminatorio (sebbene sulla necessità dell esclusività - dopo la l. n. 92/ vi siano forti dubbi). Secondo una diversa opinione, il licenziamento discriminatorio costituisce invece una fattispecie ontologicamente distinta da quella del licenziamento per motivo illecito. Il 1

2 primo si fonda su una condotta oggettivamente lesiva, cosicché il lavoratore non dovrà dare la dimostrazione dell intenzionalità della condotta del datore e potrà dedurre la discriminazione anche in presenza di circostanze che potrebbero giustificare il recesso. Correva l anno La Corte Costituzionale aveva escluso i licenziamenti ad nutum (senza fornire alcuna motivazione) del datore di lavoro dal novero dei diritti fondamentali che limitano la potestà legislativa delle Regioni. Ora si poneva il problema della compatibilità dello stesso licenziamento ad nutum con l art. 4 della Costituzione sul diritto al lavoro. Il precedente alimentava le speranze della cultura garantistica dell epoca. La risposta della Corte fu di segno contrario. La pronunzia della Corte del 1965 fu di rigetto, ma accompagnata da una motivazione che stabiliva chiaramente le linee guida della successiva politica del lavoro della quale era incaricata la sede legislativa. Si disse che, nel dare esecuzione alla politica imposta dall art. 4 della Costituzione, bisognava circondare di alcune garanzie i licenziamenti per assicurare la continuità della prestazione di lavoro, ma si sottolineava che queste garanzie dovevano riguardare in particolare i casi in cui erano coinvolte la libertà sindacale, la libertà politica e la libertà religiosa. In quel remoto monito era già contenuta la previsione che i licenziamenti discriminatori dovessero formare oggetto di un attenzione particolare da parte del legislatore. Con questo ricordo da parte del Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, Michele De Luca, ha preso avvio la tavola rotonda. De Luca ha subito ricordato come la legge n. 92/2012 introduca un procedimento specifico per i giudizi di impugnazione dei licenziamenti. I primi orientamenti che vengono ad emergere introducono dei criteri così rigidi e formalistici che rendono quel procedimento qualcosa che potrebbe risolversi in danno dei lavoratori. Nella sua relazione introduttiva Marzia Barbera (docente nell Università di Brescia) ha subito focalizzato l attenzione su uno degli effetti della recente riforma del sistema di sanzioni del licenziamento illegittimo di cui alla l. n. 92/2012, vale a dire l improvvisa 2

3 rarefazione del livello più alto della tutela del posto di lavoro: quello della tutela reale piena (intendendosi per tale la reintegrazione nel posto di lavoro unita al riconoscimento, a titolo di risarcimento non inferiore a 5 mensilità, di tutte le spettanze retributive dal momento del licenziamento sino all'effettiva reintegra). Il nuovo art. 18 Stat. Lav. (come modificato dall art. 1 della l. n. 92) riserva, infatti, ormai solo ai licenziamenti discriminatori, insieme a quelli viziati da altre cause di nullità o da motivo illecito, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. A fronte di un ridimensionamento della protezione del lavoratore contro il licenziamento ingiustificato (infatti, nei casi non rientranti nelle ipotesi di nullità di cui sopra, la sanzione è ora graduata fra un massimo di tutela reale cd. debole - cioè reintegrazione più indennità risarcitoria con tetto massimo di 12 mensilità di retribuzione - e un minimo che, a fronte dell'effettiva risoluzione del rapporto di lavoro, consiste nella cd. tutela risarcitoria debole, cioè un'indennità che varia da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione), forte è il rischio che si sia tentati di sostenere che qualsiasi licenziamento arbitrario sia discriminatorio, perché la posta in gioco è alta, trattandosi della possibilità di accedere o meno alla reintegrazione piena. Evocando i soldati di Salamina del libro di Javier Cercas, M. Barbera ha messo in guardia dal considerare i divieti di discriminazione come gli eroi cui affidare le sorti ultime della tutela contro il licenziamento arbitrario. Il rischio dell affermarsi di questa tendenza sarebbe una perdita di senso della funzione propria della tutela antidiscriminatoria. La tesi espressa dalla relatrice è che la discriminazione non è assimilabile ad altre ipotesi di arbitrarietà o illiceità (ad esempio il licenziamento privo di giusta causa e/o giustificato motivo), giacché i divieti di discriminazione colpiscono fenomeni di diseguaglianza strutturale diversi da fenomeni sporadici e transitori di svantaggio, che possono essere il prodotto di circostanze fortuite o di decisioni isolate. Inoltre è il carattere strutturale, sistematico delle discriminazioni, la loro tipicità sociale, a legittimare un regime della prova alleggerito e a rendere verosimile la prova statistica... <<<<<<Lungi dal volersi arroccare in posizioni originaliste, M. Barbera ha riconosciuto come l evoluzione della normativa antidiscriminatoria possa portare ad 3

4 un estensione in via interpretativa dei divieti tipizzati ad altre ipotesi di uso arbitrario del potere di licenziamento. Si pensi al concetto di discriminazione-molestia introdotto dalle direttive dell Unione europea degli anni 2000 in relazione non solo al sesso ma a tutti i fattori vietati. Sebbene tradizionalmente la nozione di discriminazione sia relazionale (perché presuppone che vi sia un soggetto concreto - che rappresenta la norma - a cui chi lamenta di essere vittima di diseguaglianze deve comparare la propria condizione per avere titolo ad essere trattato da eguale), va preso atto che la nozione legale di discriminazione, contenuta nelle direttive degli anni 2000 e nelle legislazioni nazionali, è riferita anche a situazioni - come le molestie - in cui il raffronto con altre posizioni non si presenta come elemento necessario della fattispecie. Secondo la relatrice, i rischi di una perdita di senso della tutela antidiscriminatoria sono evidenti anche nella discussione insorta intorno alla tesi - sostenuta in particolare da Maria Teresa Carinci - che suggerisce di considerare come discriminatorio qualsiasi licenziamento ingiustificato. Quest ultima tesi, benché giudicata concettualmente attraente, è stata criticata da M. Barbera. Questa ha poi dedicato una parte della relazione ad argomentare che la nozione di licenziamento discriminatorio è nettamente distinta da quella di licenziamento viziato da motivo illecito, come emerge dall inequivocabile separazione espressamente prevista dal dato testuale del nuovo testo dell art. 18 Stat. Lav. M. Barbera ha infine focalizzato l attenzione su alcune questioni di interesse pratico. Il lavoratore licenziato per motivo discriminatorio cosa deve provare? In primo luogo non è esclusa la discriminazione in presenza di una giustificazione tipica e la sua assenza costituisce un indizio presuntivo. Il lavoratore che voglia vedere accertata la natura discriminatoria del licenziamento dovrà - secondo le regole ordinarie - provare il trattamento o l effetto differenziato, la presenza di un fattore vietato, il nesso di causalità sufficiente ma non esclusivo. Ove invochi la discriminazione in un ipotesi di molestia, invece, egli dovrà dimostrare che l atto realizza l effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima lesivo della dignità. In ciò, il lavoratore sarà aiutato dalla prova statistica che alleggerisce la prova presuntiva. 4

5 Il datore di lavoro, dal suo canto, cosà dovrà provare? Se si tratta di licenziamento discriminatorio classico, dovrà dimostrare che la differenza di trattamento non sussiste o che è fondata su una delle eccezioni espressamente previste dalla legge. Mentre, in caso di discriminazione-molestia, dovrà provare che la molestia stessa non sussiste o che il trattamento non è dovuto a uno dei fattori di distinzione vietati. Alla relazione introduttiva sono seguite le relazioni di Marco Marazza (docente nell Università di Teramo) e di Valerio Speziale (docente nell Università di Pescara). Marco Marazza ha sostenuto la tesi dell assimilabilità della fattispecie del licenziamento discriminatorio a quella del licenziamento per motivo illecito. A suo modo di vedere, la clausola contenuta nell art cod. civ. ( Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe ) è una clausola di chiusura, che consente di superare la necessità di tipizzare le fattispecie discriminatorie poiché, in ultimo, esse sono ricomprese nel motivo illecito. Corollario di questa tesi è la necessaria prova, da parte del lavoratore o della lavoratrice licenziati, dell intenzionalità della condotta discriminatoria del datore di lavoro almeno nella discriminazione diretta, giacché in quella indiretta il comportamento adottato dal datore è chiaramente neutro. M. Marazza ha poi argomentato in merito al carattere esclusivo del motivo discriminatorio. Ciò è affermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui la presenza di una giustificazione escluderebbe il carattere discriminatorio del licenziamento. Nonostante ciò, una corretta interpretazione delle disposizioni non potrebbe prescindere dal testo dell art. 3 della l. n. 108/1990 che sanziona il licenziamento discriminatorio indipendentemente dalla motivazione addotta, cosicché non apparirebbe sostenibile l esclusione del carattere discriminatorio del licenziamento per la sola presenza di una giustificazione legittima. Sarebbe, in tal caso, compito del giudice comparare la motivazione lecita e quella illecita, utilizzando il criterio del necessario confronto delle posizioni dei lavoratori interessati. 5

6 Infine il relatore ha focalizzato l attenzione sul regime probatorio. Dal dato testuale dell art. 28 del d.lgs. n. 150/ si ricava un rinvio al regime delle presunzioni che non può essere quello alleggerito di cui ai d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, bensì quello generale contenuto nell art cod. civ. Nella sua relazione, Valerio Speziale ha ricordato che la giurisprudenza di Cassazione che ha utilizzato in modo indifferenziato i concetti di licenziamento per motivo illecito e discriminatorio era mossa dalla necessità di ricondurre il primo al secondo, e non viceversa, in quanto solo per il licenziamento discriminatorio era prevista la tutela piena di cui al vecchio testo dell art. 18 Stat. Lav. a prescindere dal requisito dimensionale. Oggi, con le modifiche introdotte nel comma 1 dell art. 18 Stat. Lav. dall art. 1 della l. n. 92/2012, tale opzione interpretativa non è più necessaria, giacché il motivo illecito posto a fondamento di un licenziamento viene autonomamente sanzionato in modo pieno. V. Speziale ha sottolineato la necessità di superare l opzione giurisprudenziale secondo cui il motivo discriminatorio può essere escluso dalla presenza di una ragione giustificatrice del licenziamento, giacché può ben concorrere la motivazione discriminatoria con una giusta motivazione di recesso. In ordine al regime probatorio, il relatore ha osservato - in dissenso con M. Marazza - che, sebbene l art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 possa apparire equivoco, la sua interpretazione dev essere condotta alla luce della procedura d infrazione che è stata sollevata dalla Corte di Giustizia UE in ordine al regime probatorio introdotto dai d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, imponendo la necessaria presenza di un regime probatorio presuntivo alleggerito. Ne consegue che, se gli elementi di fatto addotti dal lavoratore 1 Con l entrata in vigore dell art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, le controversie in materia di discriminazione per motivi di nazionalità di cui all art. 44 del d.lgs. n. 286/98 (T.U. immigrazione), per motivi etnico-razziali di cui all art. 4 del d.lgs. n. 215/03, per motivi di credo religioso o convinzioni personali, età, disabilità o orientamento sessuale, di genere sessuale nell ambito dell offerta di beni e servizi di cui all art. 55-quinques del Codice per le pari opportunità, sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui al Capo III bis del Titolo I del Libro IV del Codice di procedura civile (artt. 702-bis, ter e quarter) e non più dal procedimento cautelare atipico di cui al vecchio art. 44 del T.U. immigrazione. 6

7 non devono essere caratterizzati dalla gravità, precisione e concordanza, basterà al lavoratore stesso portare in giudizio fatti significativi (ad es., l assenza di una motivazione, l assenza della procedura di cui all art. 7 della l. n. 604/66, ecc.) per rovesciare sul datore di lavoro l onere di provare l assenza della ragione discriminatoria. Nel primo degli interventi programmati, M. T. Carinci ha avuto modo di precisare la tesi - già espressa nella relazione al Congresso dell Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale nel giugno secondo la quale la discriminazione va ricostruita come ipotesi di illiceità della causa, intendendo per causa non gli effetti tipici dell atto, ma gli interessi concreti che tramite quegli effetti si vogliono soddisfare (Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, relazione al Congresso AIDLASS, 2012, cui si riferiscono tutti i virgolettati seguenti). Se il licenziamento, che è un atto connotato da una finalità tipica, non persegue gli unici interessi protetti dall ordinamento (riassumibili nell esistenza di una causa di giustificazione tipica: giusta causa o giustificato motivo), allora dovrà dirsi che il licenziamento ha una causa illecita ed è pertanto discriminatorio. La tesi della Carinci prende le mosse da alcune premesse necessarie: il principio di tipicità degli atti unilaterali nel cui novero è ricompreso il licenziamento; l individuazione della causa posta a suo fondamento. M. T. Carinci ha ricordato che l ordinamento ammette solo atti unilaterali nominati o tipici tassativamente previsti dalla legge ed ha sostenuto che la causa (ovvero la sintesi degli interessi che l atto mira a soddisfare) del licenziamento, che discende dalla causa del contratto di lavoro, è costituita dall interesse a disporre di un organizzazione in vista dello svolgimento di un attività. Tale tesi trova conferma nella disciplina del licenziamento poiché, nello specifico, l interesse anzidetto viene individuato nei due specifici interessi ad assicurare la funzionalità dell organizzazione cui si riconducono le nozioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, ed a modificare (o estinguere) l organizzazione esistente cui si riconduce la nozione di giustificato motivo oggettivo. Poiché i divieti di discriminazione evidenziano alcune ipotesi di illiceità della causa degli atti del datore di lavoro, il licenziamento discriminatorio risulta sorretto da una causa illecita, cosicché il nuovo art. 18 Stat. Lav. ne decreta la nullità. 7

8 Ad avviso di M. T. Carinci, l elenco delle ragioni discriminatorie è da ritenersi puramente esemplificativo; essa vede una conferma di ciò nell equiparazione che il nuovo art. 18, comma 1, Stat. Lav. (come modificato dalla legge n. 92/2012) opera fra licenziamento discriminatorio e licenziamento determinato da motivo illecito determinante. In sostanza, al di fuori delle ragioni specificamente ammesse dalla legge, che individuano l unico interesse protetto dall ordinamento, l atto di licenziamento è, per ciò solo, illecito (discriminatorio o fondato su motivo illecito). Un corollario di tale principio è costituito dall inevitabile conseguente identificazione fra causa illecita e causa atipica (carenza di giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo o oggettivo, uniche cause ammesse dall ordinamento). In merito all onere della prova, M. T. Carinci ha sostenuto che una conseguenza dell identificazione fra licenziamento illecito (discriminatorio o fondato su motivo illecito determinante) e licenziamento sorretto da causa atipica (privo di giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo o oggettivo) è l irrazionale ed illogica diversità di regime probatorio che appare adottato nelle due ipotesi. Per questo motivo si renderebbe necessaria un interpretazione adeguatrice delle norme in tema di onere della prova dell illiceità della causa alla luce dei principi costituzionali (art. 24 e 11 Cost. nonché artt. 2, 3, 4, 35, 41, 2 co., Cost.), così da onerare il datore di lavoro non solo nell ipotesi in cui si contesti la sussistenza di una giusta causa e/o di un giustificato motivo (art. 5, l. n. 604/66), ma anche qualora il lavoratore agisca in giudizio lamentando una discriminazione o un motivo illecito. Nel suo intervento, Andrea Lassandari ha sostenuto che la tutela antidiscriminatoria va ricondotta alla fattispecie di cui all art cod. civ., giacché la discriminazione costituisce una lesione della personalità morale del lavoratore, il quale è titolare di un corrispondente diritto soggettivo al pari del diritto alla salute. Inoltre, la nozione di atto discriminatorio non contiene l elemento soggettivo, giacché l interpretazione dell art. 15 Stat. Lav. conduce certamente ad una nozione oggettiva della fattispecie. 8

9 Riguardo all ampiezza dei fattori discriminatori, oltre a far riferimento ai fattori tipizzati, occorre secondo Lassandari - considerare tutti quei fattori di portata identitaria che caratterizzano i lavoratori in virtù di fattori fisici o mentali. Infine, con riferimento all auspicata evoluzione della giurisprudenza, Lassandari ha messo in risalto la separazione registratasi fra quest ultima e la dottrina che si è espressa sulla legislazione antidiscriminatoria introdotta a partire dagli anni 90. Oggi, alla luce del nuovo testo dell art. 18 Stat. Lav., che ha distinto il licenziamento discriminatorio dal licenziamento per motivo illecito, trova pieno fondamento la tesi secondo cui il motivo illecito non potrà essere cancellato dalla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento. Inoltre non sarà necessario, per il lavoratore, fornire la prova dell intento discriminatorio poiché gli basterà provare la presenza di un atto (oggettivamente) discriminatorio prescindendosi dalle intenzioni del datore di lavoro. Ufficio giuridico e vertenze 9

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