GENITORI, FIGLI E MALATTIA. E ORA COSA FACCIO? 03/02/2011. Intervento di Elena Lupini, psicologa presso il Consultorio Familiare C.

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1 GENITORI, FIGLI E MALATTIA. E ORA COSA FACCIO? 03/02/2011 Intervento di Elena Lupini, psicologa presso il Consultorio Familiare C. Scarpellini IL CONSULTORIO FAMILIARE SCARPELLINI: CHI SIAMO. Il Consultorio Familiare C. Scarpellini è un servizio promosso da laici delle comunità cristiane a favore delle famiglie e del loro ruolo educativo. Agisce soprattutto sul fronte promozionale e preventivo e offre un sostegno alle persone in cerca di possibili soluzioni alle proprie problematiche familiari. Valorizza la famiglia come comunità solidale all interno della quale tutti i componenti possano trovare le risorse utili per superare i momenti di difficoltà. Aiuta a leggere le momentanee sfide e i bisogni nell ambito delle relazioni familiari. Si ispira ai principi cristiani della persona e della famiglia ed agisce nella fedeltà alla dottrina cattolica, all insegnamento della Chiesa e alle direttive della Diocesi. Il Consultorio è strutturato in tre aree di interventi psico-socio-formativi: 1. Consulenza alla coppia, alla genitorialità, alla famiglia; 2. Consulenza sanitaria (visite ostetriche, ginecologiche, pediatriche, pap test) e sui metodi naturali; 3. Interventi di formazione ed educazione della sessualità e degli affetti, di prevenzione e tutela della salute (percorsi formativi in scuole di ogni ordine e grado e negli oratori, percorso formativo Crescere Insieme, corsi di preparazione al parto, corsi di massaggio infantile, etc.). Il Consultorio è nato nel 1981 per volere della Diocesi (Decreto vescovile il 1 febbraio 1981). Il 13 marzo 1986 si è costituita l Associazione Centro di Promozione della Famiglia (C.P.F.), la quale ha gestito le attività del Consultorio fino al 31 marzo Il Consultorio è dal 1983 associato alla Federazione Lombarda Centri di Assistenza alla Famiglia (FeLCeAF) di Milano ed associato alla Confederazione Italiana Consultori Familiari di ispirazione cattolica. Nel 1987 il Consultorio ha avuto l autorizzazione al funzionamento da parte della Regione Lombardia (Autorizzazione Regionale n del ) e nel 2002 si è accreditato (Accreditamento Regionale d.g.r. n del e successivo Contratto ASL n 55 del ). Attraverso l accreditamento il Consultorio è stato autorizzato dalla Regione Lombardia, sulla base delle effettive garanzie sulla qualità delle prestazioni e dei servizi (standard funzionali e strutturali), ad erogare servizi per conto del servizio pubblico. Quindi chi si rivolge al Consultorio non paga direttamente le singole prestazioni, ma queste vengono riconosciute secondo dei precisi criteri e controlli dalla Regione Lombardia tramite l ASL di Bergamo. Il 18 dicembre 2003 sono stati inaugurati i nuovi locali del Consultorio. Dal 1 aprile 2008 il Consultorio è gestito dalla Fondazione Angelo Custode onlus. Il 2009 è stato senz altro un anno di sviluppo e potenziamento delle attività del Consultorio. Dall analisi dei dati emerge un significativo incremento nel numero di persone che si rivolgono al Consultorio Familiare. In termini assoluti nell anno 2009 le persone coinvolte nell area della consulenza e nell area sanitaria sono state Se poi si vanno a conteggiare le persone che sono state coinvolte nelle attività formative e

2 preventive di educazione alla salute, che nel 2009 sono state 6.357, in totale si ha un numero di circa persone. Le persone che si rivolgono al Consultorio sono soprattutto donne: nel 2009 le donne sono state (75%), mentre gli uomini 777 (25%). Altro elemento di caratterizzazione delle persone che si rivolgono al Consultorio è quello dell età. La metà delle persone che hanno usufruito delle attività del Consultorio ha meno di 40 anni (48%). Significativa è soprattutto la quota di persone con età compresa tra i 36 e i 45 anni (41%). Le persone che si rivolgono al Consultorio risultano essere generalmente in possesso di titoli di studio medio superiore, infatti solo un terzo ha terminato il suo percorso scolastico con la scuola dell obbligo. Consistente è la quota di persone con il diploma di scuola media superiore (43%) e la laurea (16%). Analizzando il profilo delle persone coinvolte dal consultorio secondo lo stato civile appare chiaramente la preponderanza di persone che risultano essere coniugate (59%), mentre i celibi e le nubili rappresentano più di un quarto del dato complessivo. Il bacino di provenienza è prevalentemente quello provinciale: in termini assoluti è soprattutto l Ambito Territoriale di Bergamo che ha fatto registrare i livelli più alti di presenze con 883 persone coinvolte; significativi sono anche i dati riferiti all Ambito Territoriale di Seriate (378), Dalmine (347) e Albino (299). IL CONSULTORIO FAMILIARE SCARPELLINI: QUALE RISORSA PER LE FAMIGLIE CON UN MEMBRO CON DISABILITÀ? Premetto che negli ultimi anni gli studi sulla famiglia con un membro con disabilità hanno evidenziato che la famiglia deve essere considerata come protagonista di un processo di adattamento oltre che come vittima di una situazione stressante. Le difese dal dolore e dallo stress, che vengono attivate dai membri di una famiglia di fronte alla malattia e alla disabilità di un loro congiunto, sono più connesse all organizzazione delle personalità di ciascun membro, nonché alla pregressa organizzazione del sistema familiare, piuttosto che all evento traumatico in sé. Tuttavia, la disabilità nel ciclo di vita familiare è sempre un evento critico imprevisto, imprevedibile, non scelto e, in quanto tale, un trauma. Lo shock, lo smarrimento, l incredulità, la negazione e, poi, la rabbia e il dolore sono le reazioni più frequenti. Con le dovute differenze, perché la disabilità è considerata un dolore morale cronico, è stata paragonata all elaborazione del lutto, in cui alcune fasi si alternano o ritornano fino alla fase dell accettazione. Questo è un primo punto dolente: la famiglia ha bisogno di tempo e spazio per elaborare un dolore e bisogna darsi tempo. Spesso ci si lascia prendere dall urgenza del fare, del riparare, e si nega lo spazio e il tempo per il dolore. A volte ogni membro della famiglia è costretto a vivere il proprio dolore in solitudine per senso di protezione verso gli altri membri. In realtà, la condivisione del dolore è un primo passo per metabolizzarlo ed elaborarlo con meno fatica. Poco tempo fa, ad una riunione del CVS ho sentito questa frase: condividere sofferenza e preoccupazioni significa dimezzarli; condividere gioie significa moltiplicarle. Il Consultorio può essere il luogo dove condividere il dolore. Il secondo punto è il processo di elaborazione delle aspettative deluse e disilluse: ogni genitore deve fare i conti con il figlio che aveva immaginato e con il figlio reale. A maggior ragione, se il figlio ha una patologia o menomazione che comporta disabilità, è necessario risintonizzare le aspettative sulle caratteristiche del figlio per poter accettare e apprezzare quel figlio. Nella mia esperienza, in alcuni casi, ho potuto constatare la fatica legittima e comprensibile da parte della famiglia ad accettare la disabilità del figlio, ma ho potuto

3 anche vedere quanto male comporta il mancato riconoscimento del figlio. È come se alcune parti non venissero riconosciute, vengono negate, impedendo al figlio di integrarle nel senso di Sé, nella propria identità. In questo modo si nega al figlio la possibilità di conoscersi, di sapere i propri limiti e le proprie risorse e potersi accettare lui stesso per quello che è. Che non significa per forza rassegnazione, ma una premessa fondamentale al cambiamento: se io non ho consapevolezza delle mie difficoltà, non potrò mai affrontarle e superarle. La disabilità può creare un disequilibrio nella relazione con il partner, la famiglia d origine e i fratelli sani: L evento disabilità può minacciare soprattutto l alleanza coniugale, poiché l accudimento di un figlio disabile può non terminare mai, portando così il ruolo genitoriale a soppiantare quello coniugale. Dal momento che l attuale organizzazione sociale e produttiva ha promosso la famiglia nucleare piuttosto che allargata, la famiglia, posta di fronte ad un evento critico, qual è la disabilità, si rivolge alle famiglie d origine o ai servizi territoriali per un sostegno. Essendo a volte i servizi insufficienti rispetto alle richieste ed essendo molto oneroso sostenere un assistenza privata, la famiglia si rivolge ai nonni. Questo può creare il problema della giusta distanza dalle famiglie di origine, di un equilibrio tra il sentirsi abbandonati ed emarginati o il sentirsi squalificati e soppiantati dai propri genitori. I figli sani rispecchieranno l atteggiamento dei genitori per cui possono diventare iperprotettivi oppure disinteressati e rifiutanti. Spesso danno soddisfazioni riparative e compensano i genitori dalle delusioni che ricevono dal figlio con disabilità, a volte è richiesta loro una precoce adultizzazione, possono sviluppare qualche difficoltà nell inserimento sociale e, infine, possono essere molto gelosi delle attenzioni che il fratello disabile riceve e dare a propria volta preoccupazioni con comportamenti inaccettabili. Considerando il caso fortunato in cui l emancipazione dei figli sani proceda per il meglio ed essi si dedichino a costruire un proprio futuro autonomo, pesa comunque su di loro la consapevolezza di dover subentrare ai loro genitori in caso di malattia o di morte. Allora un percorso di consulenza in consultorio potrebbe evidenziare la necessità di una riorganizzazione familiare sulla base di un patteggiamento equo tra i membri della coppia; potrebbe essere utile per capire come chiedere ai parenti di essere un sostegno o, se ciò non è possibile, come attivare altre risorse; potrebbe aiutare i genitori a comprendere i bisogni evolutivi e sociali dei fratelli sani. Ulteriormente importante è l intervento sui processi di attaccamento fra bambino disabile e i suoi genitori al fine della prevenzione del disagio psicologico conseguente ad una menomazione e/o ad una disabilità. L attaccamento è un processo motivazionale, attivo di adattamento, basato sulle strategie di soddisfazione dei bisogni di sicurezza, formulate in relazione alle caratteristiche dell ambiente. Possiamo definirlo in base a tre criteri fondamentali: il bisogno di vicinanza alla figura di attaccamento in condizioni di stress; l aumento del benessere e la diminuzione dello stato di allarme in presenza di tale figura; l aumento di disagio e di ansietà se si verifica la minaccia di non poter entrare in contatto con questa fonte di rassicurazione. L attaccamento sicuro è frutto dell interazione del bambino con una madre responsiva alle sue richieste, capace di capirle e di soddisfarle in giusta misura, anche contenendolo e frustrandolo, aiutandolo comunque efficacemente in situazioni di malessere (madre=base sicura). L attaccamento ansioso ambivalente è il frutto di un interazione con una madre che, a volte, è troppo sollecita e appiccicosa, a volte è distratta e stanca, poco responsiva.

4 L attaccamento ansioso evitante è frutto di un interazione in cui la madre reagisce con distanza e scarsa sollecitudine ai segnali del suo bambino, minimizza il suo stress e non lo incoraggia a rivolgersi a lei per affrontare gli stati di malessere. L attaccamento disorganizzato è il frutto di un interazione con una madre completamente assorbita dai propri problemi da non poter percepire e rispondere ai bisogni del bambino. I disturbi dell attaccamento correlati a una diagnosi di deficit o di disabilità, peggiorano i risultati riabilitativi e amplificano i problemi di adattamento. Tenendo presente che l attaccamento rappresenta un processo attivo da parte del bambino, a cui la madre è biologicamente programmata per rispondere, dobbiamo considerare che un bambino malato è meno abile nell attivare le risposte di attaccamento in sua madre, e una madre preoccupata è meno libera di rispondere alle richieste del suo bambino in modo sereno e sicuro. Per questi motivi, i genitori vanno sostenuti nel loro essere punto di riferimento per il figlio. Per questo è importante informare i genitori rispetto alla patologia e alle cure esistenti, nonché sui processi riabilitativi. Ma è altrettanto importante aiutare i genitori a capire se alcuni atteggiamenti o comportamenti del figlio sono correlati alla patologia o se ne sono conseguenza. Pensiamo a quale può essere il vissuto di una persona con disabilità. Innanzitutto, il peso maggiore è sentire che i propri bisogni affettivi e relazionali non vengono riconosciuti e soddisfatti. È dura fare l esperienza di non poter comunicare le proprie emozioni, di sentirle esplodere dentro di sé senza poterle comprendere e padroneggiare. È difficile sentirsi trattare come chi non può capire, sentire che altri prendono decisioni sulla nostra vita senza interpellarci, senza a volte darci neppure delle spiegazioni, oppure essere confrontati con richieste impossibili e verificare che i nostri risultati sono sempre al di sotto delle aspettative nostre ed altrui. L aggressività e la rabbia sono risposte vitali ed appropriate, se la persona disabile ha abbastanza risorse; se invece si sente sconfitta, la risposta inevitabile è la depressione. Come ogni uomo, la persona con disabilità proverà a patteggiare con la sofferenza. La personalità della persona con disabilità potrà colorarsi di sfumature dipendenti per reagire al sentimento di inaffidabilità delle proprie risorse e ricevere rassicurazione e calore. Potrà anche colorarsi di sfumature ossessive per affermare un controllo sull ambiente, che gli appare così spesso imprevedibile ed angosciante. La persona con disabilità potrà invece mostrare risposte impulsive di rabbia, la scarica della quale può dare un esperienza illusoria di forza, che squarcia il velo piatto e grigio della depressione cronica. Infine, potrà trovare la realtà insopportabile e pretendere che essa si modifichi sotto la pressione ineliminabile del desiderio, rifiutando di accettarla fino a delirare su di essa. Inoltre, mentre l ambiente educativo spinge l individuo sano all assunzione di autonomie crescenti, nel caso del bambino compromesso è giustamente più tollerante di fronte agli atteggiamenti dipendenti. Così accade spesso che l atteggiamento di aiuto venga esteso ad aree dove l autonomia sarebbe possibile. Spesso sia la comunità che la famiglia assumono atteggiamenti permissivi per non doversi confrontare con la possibile frustrazione derivante da richieste di impegno da parte del bambino con disabilità. L individuo oggetto di un atteggiamento permissivo percepisce in qualche modo il disimpegno degli adulti di riferimento. Essi rinunciano all assunzione di una funzione contenitiva, propria della loro posizione gerarchica, per cui il soggetto è inconsciamente portato ad amplificare le proprie richieste nel tentativo di ottenere un maggior coinvolgimento, fino a sviluppare comportamenti patologici gravemente disturbanti. È il cosiddetto potere dell impotere (Selvini Palazzoli, 1975), potere distruttivo per chi lo sperimenta, fondamento di gravi angosce legate al sentire di essere spaventato e perciò spaventante per le figure a cui siamo affidati.

5 Infine, il bambino con disabilità può avere a lungo l illusione di essere al centro del mondo: l onnipotenza e l egocentrismo, tipici dei bambini piccoli, caratterizzano a volte i suoi atteggiamenti fino all adolescenza. Il bambino con disabilità, con i suoi bisogni di assistenza, focalizza l attenzione degli adulti sul suo corpo, sulle sue azioni, sui suoi atteggiamenti. Ciò fa sì che il suo tempo sia occupato, in maniera assoluta, dalla presenza fisica di un adulto che si prende cura di lui, impedendogli qualunque presa di coscienza dei propri limiti. Sarà così tentato di interpretare queste attenzioni come il segno che egli, nonostante tutti i problemi che dà, è effettivamente speciale, al centro del gruppo in cui vive. Con il passare degli anni e la relativa diminuzione delle attenzioni, l adolescente con disabilità sente di essere stato tradito. Il ridimensionamento inevitabile è vissuto dalla persona con disabilità come un voltafaccia, rivelatore di un imbroglio perpetrato negli anni in cui ha ricevuto promesse di eccezionalità affettiva che ora vive come false. In questo momento, è utile una consulenza ai genitori per far loro acquisire la consapevolezza che, nel momento in cui chiedono al ragazzo atteggiamenti più adulti, debbono anche sapergli concedere ruoli più emancipati.

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