Ceci construira cela. Per una sociologia dell architettura

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1 Ceci construira cela. Per una sociologia dell architettura Federico Boni 1. Introduzione In un celebre capitolo di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo Dom Claude Frollo, arcidiacono di Notre-Dame, ammira la cattedrale dalla finestra e, con un incunabolo tra le mani, esclama: Ceci tuera cela, questo ucciderà quello. Siamo alla fine del primo capitolo del Libro Quinto; nel secondo capitolo, intitolato appunto Questo ucciderà quello, Hugo riflette su questa frase di Frollo, spiegando le parole dell arcidiacono: il libro ucciderà l edificio, la stampa ucciderà l architettura. Il capitolo diviene una sorta di trattatello di storia dell architettura, dove Hugo spiega come l architettura sia sempre stata il grande libro dell umanità, la scrittura universale della nostra civiltà. Fino al quindicesimo secolo. Fino a Gutenberg. Con l invenzione della stampa, con l atto fondativo dei mezzi di comunicazione di massa, tutto cambia: alle lettere di pietra di Orfeo si sostituiscono le lettere di piombo di Gutenberg. Il libro di pietra cede il posto al libro di carta, più solido, più duraturo. In effetti, noi sappiamo che le cose non sono andate esattamente come previsto da Hugo, e dal suo alter ego narrativo. È vero che la stampa ha introdotto mutamenti epocali nella nostra cultura, ma la sua diffusione non ha sostituito l architettura nel ruolo di scrittura della civiltà. Certo, la lotta è dura, forse impari: i media sono divenuti col tempo i bardi della nostra cultura, ma non ne sono certo i soli narratori. Forse l architettura non ha un ruolo centrale nel raccontare la nostra società, ma è indubbio che mai come oggi si faccia un gran parlare dell architettura, degli architetti e degli edifici iconici che spesso significano il riscatto di aree urbane depresse o di città e paesi esclusi dai tradizionali circuiti turistici. Quello che sta succedendo oggi è, in qualche modo, un po il contrario di quanto temuto da Frollo: non solo il libro non ha ucciso l edificio, ma forse contribuisce a costruirlo. Questo costruisce quello, la stampa costruisce l architettura. E non solo la stampa, ma i media in generale: il cinema, la televisione, oggi anche le ICT, le information and communication technologies. L architettura, d altra parte, continua a essere una grande narratrice/produttrice della nostra società e della nostra cultura. Il presente paper si occupa proprio di questo: di indagare, da una parte, come l architettura sia ancora uno dei costruttori della nostra società, e, dall altra, come l architettura stessa possa venire costruita anche dai media, di come cioè tra gli oggetti della realtà sociale costruiti dai mezzi di comunicazione siano inclusi anche quei prodotti che intuitivamente potremmo considerare tra i più estranei allo studio della costruzione sociale della realtà, gli edifici.

2 Per farlo, la nostra indagine si concentrerà dapprima sui modi in cui l architettura contribuisce a costruire identità e appartenenze identitarie, da quelle individuali fino a quelle di comunità nazionali e, talvolta, sovranazionali; quindi, il fuoco si concentrerà sui modi in cui le forme costruite dell architettura funzionano da mediatori di pratiche sociali ispirate all esercizio del potere e alla circolazione di saperi/poteri all interno della società. E ancora, su come gli edifici possano dirci qualcosa sulle pratiche di inclusione ed esclusione, giocate su confini materiali e simbolici che vengono tracciati da forme architettoniche. Quanto alla costruzione mediatica dell architettura, ci concentreremo perlopiù sugli aspetti relativi alla mediatizzazione delle pratiche e delle forme dell architettura, ovvero a ciò che accade quando l architetto e l edificio incontrano nella loro strada le logiche dei media, che piegano pratiche e prodotti ai codici della spettacolarizzazione e della narrazione mediatica. 2. Costruire identità 2.1. Individui, generi e corpi In questo primo paragrafo indagheremo dunque le modalità con cui la sociologia può studiare le dimensioni in cui l architettura entra in gioco nella costruzione delle identità a livelli diversi, dall identità di singoli individui a quelle collettive, per arrivare alla costruzione delle comunità immaginate nazionali. L architettura infatti, come vedremo, contribuisce alla definizione di appartenenze identitarie fondate su più aspetti della vita quotidiana, all interno di uno scenario che è inevitabilmente quello di una società che si vuole globalizzata. Da più parti si mostra oggi come le identità si costituiscano all interno di e tramite una serie di rappresentazioni culturali, con le quali finiamo per identificarci; questo significa, dal punto di vista di questa presentazione, che anche l architettura gioca un ruolo non indifferente nel produrre e riprodurre tali rappresentazioni, e quindi le identità che produciamo. Questo ruolo è già presente nella costruzione delle identità individuali, e del resto i rituali dell interazione studiati da Goffman, che hanno come esito ultimo proprio la costruzione del self dell individuo, si giocano all interno di arene che sono perlopiù delimitate spazialmente da elementi architettonici o urbanistici, nel caso si svolgano in ambienti aperti. Prendendo infatti le mosse da Durkheim, secondo cui Dio è il prodotto di rituali collettivi, Goffman applica questa intuizione al self degli individui, mostrando come i rituali della vita quotidiana concorrano a formare nel qui e ora delle interazioni a cui prendiamo parte la nostra identità. E ricordiamo che questi rituali avvengono all interno di spazi sociali (architettonici) provvisti di una scena e di un retroscena, e che sono proprio questi a far sì che la celebrazione dei riti quotidiani si compia nella maniera per noi più desiderabile (nel retroscena, ad esempio, noi ci prepariamo in vista dei balletti rituali che si svolgeranno sulla scena, disponendoci a preparare la faccia che proporremo in pubblico). Anche l identità di genere è fortemente legata all architettura, e gli studi sociali e culturali ne hanno dato conto proprio negli ultimi anni. I recenti gender studies hanno mostrato come il nostro ambiente costruito, così importante nel regolare (anche politicamente) le nostre interazioni sociali quotidiane, sia 2

3 costituito nelle pratiche discorsive e nei fatti da un grande corpo maschile. Si pensi alla stessa architettura moderna, dove la ricerca di uno stile disadorno viene collegata direttamente (ad esempio da Le Corbusier) all immagine dell uomo nudo, in esplicito contrasto con il corpo truccato e abbigliato della donna (Sanders, 1996). Quanto al rapporto tra architettura e genere femminile, gli studi sono piuttosto nutriti: si va dall importanza del ruolo del discorso architettonico nella preservazione delle relazioni di potere basate sul rapporto uomo/donna (Coleman et al., a cura di, 1996) agli studi sulla domesticità come spazio eminentemente femminile (Reed, a cura di, 1996), dove le donne sono state storicamente segregate rimanendo così escluse dalla sfera pubblica. In questo caso va segnalato lo studio di Alice Friedman (1998) sul rapporto tra committente (donna) e architetto (uomo). Molte delle abitazioni private di alcuni tra gli architetti più importanti del Movimento moderno come Wright, Mies van der Rohe e Neutra hanno avuto delle donne come committenti, che hanno così contribuito in maniera determinante allo sviluppo delle poetiche moderniste. Cambiando l agenda sociale, conclude la Friedman, queste donne hanno cambiato l agenda architettonica. Ma se queste erano comunque potenti signore della upper class americana, va sottolineato il ruolo spesso essenziale di donne di classi sociali inferiori nella definizione di spazi pubblici. Susana Torre (2000) mostra come il ruolo delle donne possa essere decisivo nel modificare la percezione sociale dello spazio pubblico, descrivendo le Madri di Plaza de Mayo, in Argentina, e la loro appropriazione della piazza per portare avanti le loro rivendicazioni, come dimostrazione del fatto che la sfera pubblica non è rappresentata solo da edifici e spazi, ma anche da azioni sociali in questo caso, portate avanti da donne. Quanto all identità corporea che peraltro si lega evidentemente a doppio filo a quella di genere, il sociologo che si è maggiormente occupato del rapporto tra corpo e architettura è Richard Sennett (1994), che mostra come, ad esempio, sulla dimensione architettonica si giochino complessi livelli identitari che hanno a che fare con il corpo, il genere, la sessualità e la cittadinanza. Nella Grecia classica la nudità del cittadino di Atene veniva esposta allo sguardo pubblico, lo sguardo della città, come a rimarcare la completa familiarità dell individuo all interno delle mura della città stessa, come se si trovasse tra quelle di casa. Questo legame tra la carne e la pietra, tra il cittadino (maschio, adulto e libero) e la polis si incorpora negli stessi edifici della città: come osserva Sennett (ibid.), anche il Partenone, la più grande opera architettonica realizzata da Pericle, si staglia su un promontorio offrendosi alla vista di tutti, esponendosi da ogni lato allo sguardo dei cittadini. Il cittadino ateniese impara questo rapporto corporeo, erotico con la città sin dalla sua iniziazione alla vita pubblica: nel Ginnasio (il luogo dove si è, letteralmente, completamente nudi ) si impara a stare nudi, e a vivere la propria vita sociale in tale condizione Comunità edificate Sociologi e culturalisti hanno mostrato, negli ultimi anni, come l architettura possa contribuire alla costruzione di identità non solo in ordine agli individui e ai gruppi, ma anche in ordine a comunità più o meno ampie, da quelle regionali a quelle nazionali, per arrivare a quelle sovranazionali. In questo senso, 3

4 l architettura viene considerata come uno degli attori principali coinvolti nei processi che hanno a che fare con l invenzione della tradizione e con la produzione di comunità immaginate. C è di più. L identità nazionale, infatti, si rafforza anche con tutta un altra serie di attività rituali, che hanno a che fare più con la sfera del quotidiano che con quella delle occasioni cerimoniali. Come tutti i riti, anche quelli della vita quotidiana hanno bisogno dei loro luoghi, delle loro performances e dei loro materiali liturgici, gli strumenti cerimoniali necessari per la celebrazione del rituale. Si tratta, in definitiva, di quello che Michael Billig (1995) definisce nazionalismo banale, e che comprende l intero complesso di credenze, assunzioni, abitudini, rappresentazioni e pratiche (ivi, p. 6) con le quali riproduciamo quotidianamente con maggiore o minore consapevolezza la nostra identità nazionale. E così, per quanto riguarda la dimensione architettonica, i monumenti che andiamo a visitare, i luoghi dove ci ritroviamo a passeggiare, a fare shopping o semplicemente a prendere un caffè con gli amici, o ancora gli spazi della nostra casa diventano tutti gli spazi che fanno da cornice (da frame) ai piccoli riti quotidiani che generano e rafforzano l identità nazionale (Edensor, 2002). E si pensi a tutti quei luoghi che sono divenuti delle icone nazionali, che rappresentano a seconda i simboli del potere ufficiale (i palazzi del potere, i tribunali, ecc.), la gloria del passato (le piramidi in Egitto, i Fori di Roma, ecc.) o alcuni altri aspetti del presente della nazione (l Empire State Building di New York o l Opera House di Sydney). Carmen Popescu (2006) mostra come i principali referenti dell identità (e dell identificazione) siano lo spazio e il tempo, e come questi, d altronde, siano anche le coordinate fondamentali dell architettura. L architettura, dunque, ha un ruolo essenziale nel definire le identità (locali o nazionali): il fattore temporale rimanda alla dimensione della tradizione, e quindi alla dimensione storica, mentre il fattore spaziale esalta i valori del legame con un determinato territorio. In questo modo è possibile verificare come l architettura costituisca un notevole strumento per l appartenenza a una comunità etnica, come nel caso delle minoranze etniche in Canada (Boddy, 1984) o dell architettura maori in Nuova Zelanda (Austin, 2003) in quest ultimo caso, peraltro, Austin mostra come i tentativi di fondare una vera e propria architettura biculturale siano puntualmente disattesi. Un altro esempio è quello dell architettura irlandese: nel momento in cui venne creato lo stato dell Irlanda, nel 1922, una delle prime questioni del nazionalismo banale che vennero affrontate fu quella di individuare uno stile architettonico irlandese, trovandolo nelle rappresentazioni pittoriche del cottage tradizionale (eccola, la tradizione inventata), che divenne così prodotto e riprodotto fino a divenire uno degli aspetti più caratteristici del nuovo stato (Cusack, 2001). Antoine Lahoud (2008) descrive lo sviluppo architettonico delle abitazioni libanesi, che ha accolto l influenza delle tradizioni musulmana e cristiana, finendo per rappresentare e illustrare il mosaico di culture e civilizzazioni differenti che hanno lasciato il loro segno sull identità nazionale del Libano. In alcuni casi, peraltro, la ricerca di uno stile tradizionale si può unire al tentativo di evocare anche il senso della modernità di una nazione: in Brasile, ad esempio, l unione del linguaggio moderno con un linguaggio tradizionale locale ha avuto un ruolo primario nel consolidare l identità brasiliana moderna, grazie soprattutto all architetto Lucio Costa che ha cercato di 4

5 incorporare nell architettura moderna i principî dell architettura coloniale (Moreira, 2006). In generale, progetti come il Reichstag di Berlino di Norman Foster (Wise, 1998), il sito di Ground Zero, di Daniel Libeskind (Jones, 2006) o la Cardiff Bay Opera House di Zaha Hadid (McNeill, Tewdwr-Jones, 2003) sono tutti considerati progetti che funzionano anche come tecnologie dell identità, grandi macchinari spettacolari che contribuiscono alla produzione e alla riproduzione del senso di appartenenza identitaria di intere nazioni o parti di esse. E lo stesso vale per comunità sovranazionali: l Unione Europea, del resto, ha utilizzato gli stili architettonici della sua storia come simboli dell unità dei paesi membri, in uno dei luoghi più decisivi dello scambio e della comunicazione, le banconote degli euro: ponti a rappresentare l unione e la comunicazione, porte e finestre a rappresentare apertura e accesso (Delanty, Jones, 2002). Certo, i significati costruiti dall architettura sono fortemente dipendenti da conflitti e negoziazioni all ordine del giorno ogniqualvolta si debba discutere su un landmark project, e proprio in questa prospettiva si fa esplicito riferimento al loro essere socialmente costruiti oltre alla loro azione di costruzione sociale. Del resto è lo stesso Ulrich Beck (1998, p. 115) a definire l architettura come «la politica con la calce e i mattoni». Uno studio classico di questo processo conflittuale e negoziale è quello che Wagner-Pacifici e Schwartz (1991) hanno dedicato al Vietnam Veterans Memorial di Washington, la cui genesi riflette le profonde controversie che attraversano la società americana rispetto alla guerra in Vietnam, sulla quale i giudizi continuano a essere profondamente divergenti. Il progetto vincente di Maya Lin (due lunghi muri di granito neri disadorni, con incisi i nomi delle vittime della guerra, caratterizzati da una orizzontalità modesta e antieroica) fu il frutto di un compromesso, risultando in un opera apolitica, senza riferimenti alla guerra che era stata combattuta, e volta esclusivamente a suscitare emozioni e stati d animo. Un recente studio sulla costruzione dello Stadio Nazionale di Pechino, sede principale delle Olimpiadi del 2008 (ricordiamo che le Olimpiadi sono tra gli esempi più clamorosi di invenzione della tradizione ), mostra come i dibattiti e le controversie siano ulteriormente complicati dall elaborazione di un identità nazionale nell epoca della globalizzazione. Nel caso di Pechino, la scelta di due architetti stranieri e di fama globale come Herzog e de Meuron si è inserita in un dibattito interno tra nazionalismo e consumismo globale, che ha portato i politici e i burocrati cinesi a optare per un linguaggio architettonico globale che narrasse le ambizioni nazionali della Cina (Ren, 2008). Del resto, anche per le Olimpiadi di Roma del 1960 e di Monaco del 1972 le strutture architettoniche utilizzate per i Giochi diedero adito a complessi dibattiti nazionali e internazionali, specie nel caso di due nazioni che dovevano mostrare al mondo un volto rinnovato dopo le esperienze totalitarie della Seconda Guerra Mondiale (Modrey, 2008). Per concludere, va sottolineato come parlare di costruzione di identità comunitarie (locali, nazionali o sovranazionali) significhi avere sempre presente la questione dell autenticità, che in questi processi rappresenta una categoria fondamentale. Una tradizione, proprio perché inventata, o una comunità, proprio perché immaginata, hanno bisogno di riferirsi a una presunta autenticità, sulla quale edificare le proprie narrazioni. Come protagonista di tali narrazioni, anche l architettura è chiamata a rappresentare l autenticità, e non solo nei modi 5

6 che abbiamo visto in queste pagine. Hilde Heynen (2006) mostra come nel caso dell architettura la questione dell autenticità si declini in numerose dimensioni, tra cui centrale è quella del restauro. Nel caso dell architettura moderna, peraltro, la questione del restauro è particolarmente ambigua e contraddittoria, e anzi permette di evidenziare proprio le contraddizioni dei diversi livelli di significato del concetto di autenticità. L architettura moderna rifiuta la prospettiva storica, non solo negando gli stili storici, ma anche nell accordare ai propri edifici una durata limitata. Che cosa succede, allora, quando un opera del Movimento Moderno diviene patrimonio da conservare e restaurare? Heynen mostra come in questo caso non si scontrino solo due dimensioni temporali (il passato e il presente), ma anche due dimensioni identitarie: quella di coloro che costruiscono e usano gli edifici, e quella dell oggetto architettonico in sé. 3. Architetture del potere 3.1. Poteri/saperi Se è vero che gli spazi architettonici possono contribuire a costruire identità e appartenenze identitarie, è anche vero che spesso tali costruzioni sono il frutto di rapporti di potere che si realizzano in un conflitto la cui posta in gioco è l appartenenza a determinate identità (anche se ibride, e quindi frutto di tale incontro/scontro si pensi a tutto il filone dei postcolonial studies). È chiaro dunque che per studiare questo rapporto tra identità e rapporti di potere sarà necessario studiare gli spazi le arene all interno dei quali (e grazie ai quali) costruiamo le nostre identità, e soprattutto sarà necessario capire chi ha il potere di definire e determinare quegli spazi (architettonici e sociali). Non è un caso che il primo autore da cui siamo partiti nella nostra disamina sulla costruzione delle identità, Erving Goffman, abbia anche fatto esplicito riferimento alla necessità di studiare proprio quei gruppi sociali «che hanno autorità istituzionale sacerdoti, psichiatri, insegnanti, poliziotti, generali, capi di governo, genitori, maschi, bianchi, cittadini, operatori dei media e tutte le altre persone con una posizione che permette loro di dare un imprimatur ufficiale a versioni della realtà» (Goffman, 1983, pp ). E non è un caso che sempre Goffman abbia studiato proprio uno dei luoghi in cui agiscono coloro che hanno il potere di «dare un imprimatur ufficiale a versioni della realtà»: gli ospedali psichiatrici. In Asylums Goffman (1961; trad. it. 2001) studia questi luoghi considerandoli, in maniera più estesa, come istituzioni totali. Un istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato (ivi, p. 29). Intese in questo senso, le istituzioni totali non si esauriscono negli ospedali psichiatrici, ma comprendono una vasta gamma di categorie, che vanno dagli orfanotrofi agli ospizi, dai sanatori ai penitenziari, dai collegi ai campi di lavoro (senza dimenticare abbazie, monasteri e conventi). Tra le caratteristiche principali delle istituzioni totali vi sono la loro chiusura (il loro carattere totale è proprio 6

7 «simbolizzato nell impedimento allo scambio sociale e all uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato sulle stesse strutture fisiche dell istituzione» [ivi, p. 34]) e la razionalizzazione della vita che avviene al loro interno («le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell istituzione» [ivi, p. 36]). Un aspetto che rende peculiari tali istituzioni, legato alla questione dell identità personale, è che queste sono costruite e organizzate con il preciso scopo di degradare le persone che vi sono rinchiuse da parte di chi vi detiene il potere, attraverso il controllo di ogni aspetto della persona e delle sue azioni all interno della struttura. Questa degradazione, che si compie già al momento dell ammissione, continua per tutto il tempo della permanenza, e consiste, tra l altro, nella privazione di quegli spazi (come il retroscena) e di quegli strumenti che permettono normalmente agli individui di gestire le loro rappresentazioni rituali quotidiane e quindi, in definitiva, di presentare le differenti versioni del loro self. La descrizione goffmaniana delle istituzioni totali è straordinariamente simile a quella che, poco tempo dopo, farà Michel Foucault di un altro dispositivo architettonico del potere, volto alla disciplina e al controllo degli individui: il Panopticon. Quelle che in Goffman erano le strutture che impongono una determinata identità agli internati, diventano in Foucault le architetture con cui il potere viene esercitato nella società moderna. Il Panopticon non è solo un progetto architettonico: nell analisi di Foucault, diventa il modello di una tecnologia del potere in grado di sorvegliare e disciplinare gli individui. In questo modo, l architettura diviene uno strumento dell organizzazione politica, anzi diviene uno degli strumenti principali della biopolitica, cioè «l insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia generale di potere» (Foucault, 2005, p. 13). Si ha così una tecnologia politica del corpo, un ordine disciplinare che investe tutte le sfere della vita degli individui. Se il Panopticon è il progetto di un carcere, infatti, l applicazione del suo modello si estende a quelle che per Goffman sono le istituzioni totali: ospedali, caserme, scuole, fabbriche. Tutti questi spazi sono architetture dove i corpi vengono educati, curati, controllati e normalizzati, sotto lo sguardo vigile dei sorveglianti e sotto il controllo incrociato degli stessi sorvegliati. Secondo Foucault (1983, p. 10), «ci sarebbe da scrivere tutta una storia di spazi che sarebbe al tempo stesso una storia dei poteri dalle grandi strategie della geopolitica fino alle piccole tattiche dell habitat, dell architettura istituzionale, dell aula o dell organizzazione ospedaliera». E, in effetti, tutte le sfere della vita dell individuo sono coinvolte in questa microfisica del potere, compresa la sessualità: «in tema di sorveglianza, e in particolare di sorveglianza scolastica, risulta che i controlli della sessualità si iscrivono nell architettura» (ivi, p. 11). A sovrintendere a tale regime del controllo e della sorveglianza c è un sapere che si modella su quello medico: non a caso la ricerca di Foucault prende le mosse dagli studi sull architettura ospedaliera del XVIII secolo, su «come lo sguardo medico si era istituzionalizzato; come si era effettivamente iscritto nello spazio sociale; come la nuova forma ospedaliera era insieme l effetto e il supporto di un nuovo tipo di sguardo» (ivi, p. 7). Del resto, come aveva già mostrato 7

8 Goffman, sono i medici, insieme alle guardie carcerarie, ai giudici e agli psichiatri le figure attraverso le quali passa il dominio. Di certo, non gli architetti: dopo tutto, l architetto non ha potere su di me. Se voglio demolire o trasformare la casa che mi sono costruito, installare nuove pareti o aggiungere un camino, l architetto non ha nessun controllo [ ]. Direi che bisogna tener conto di lui della sua mentalità, della sua attitudine come dei suoi progetti, se si vogliono comprendere un certo numero di tecniche di potere che sono operanti nell architettura, ma egli non è paragonabile a un prete, a uno psichiatra o a una guardia carceraria (Foucault, 1982; trad. it. 2001, p. 63). L analisi foucaultiana ha ispirato numerosi studi sul rapporto tra architettura e potere. Thomas Markus (1993) ha compiuto, da una prospettiva storico-sociale, la mappatura di una straordinaria operazione cominciata nel XVIII secolo: la creazione di una vera e propria tipologia architettonica del (bio)potere, che comprende i tipi relativi alla formazione (le scuole), alla ri-formazione (ospedali, lazzaretti, manicomi, riformatori, carceri), alla cura del corpo (le terme), alla ricreazione (le coffee houses, i gentlemen s clubs), alla conoscenza (una conoscenza che è, a seconda, visibile librerie, pinacoteche e musei, effimera le Grandi Esposizioni Universali e invisibile i teatri per le lezioni di anatomia), alla produzione (le fabbriche) e allo scambio delle merci (le Borse). Infine, sono numerosi gli studi dedicati a tipi architettonici della sorveglianza e del controllo. Uno per tutti: quello di Lindsay Prior (1988), che analizza l architettura ospedaliera come un organizzazione spaziale che riassume forme di conoscenza medica, pratiche sociali e design materiale. Nella sua analisi la Prior dimostra come le strutture architettoniche degli ospedali siano da mettere in relazione con le pratiche discorsive che sovrintendono a un sapere/potere di cui esse stesse fanno parte. I progetti e le piante delle strutture ospedaliere che prende in esame, in effetti, non si limitano a incorporare cambiamenti nel sapere medico, ma sono essi stessi funzionali a costruire gli oggetti di tale sapere Inclusi/esclusi Come si è appena visto, è possibile leggere alcune architetture come dispositivi di controllo e disciplina degli individui, in un regime di visibilità che non risparmia praticamente nessuno, considerata la varietà (anche tipologica) e la pervasività di tali strutture. L aspetto interessante di queste istituzioni totali (per dirla con Goffman), o di queste strutture panoptiche (per dirla con Foucault), è che riguardano tutte le fasce della popolazione, anche quelle che saremmo indotti a ritenere libere dal regime di controllo delle società contemporanee. In alcuni casi, le fasce più abbienti della popolazione si auto-rinchiudono in strutture non così diverse da istituzioni totali panoptiche, spesso per difendersi dal contatto con le fasce sociali più povere e deboli. Il tutto per una paura della folla che, secondo Sennett (1970), porta la società a ignorare, segregandoli o relegandoli ai propri margini, i portatori di una differenza, sia essa culturale, etnica o economica. Eppure proprio questa creazione di confini che, certo, crea recinti per le fasce emarginate ma anche per quelle dominanti ha il risultato di livellare e impoverire le relazioni sociali: la purificazione dell identità rende più poveri anche i più ricchi. 8

9 Mike Davis (1990) mostra come questo avvenga in una città come Los Angeles, prendendo a esempio elementi di design urbano e gli edifici di un importante architetto anzi, di una vera e propria archistar globale. In quello che Davis chiama sadismo stradale (ibid.), la polizia losangelena ha elaborato ad esempio una serie di soluzioni di design anti-barbone che sarebbero grotteschi se non fossero reali: uno dei più comuni, e demenziali, di questi deterrenti sono le panchine alla fermata degli autobus a forma di botte (con la parte convessa come sedile) che offrono una superficie minima per sedersi scomodamente, ma che rendono assolutamente impossibile dormirci sopra [ ]. Un altra invenzione, degna del Grand Guignol, è l uso aggressivo degli spruzzatori antincendio all aperto [ ]. Ma sono i gabinetti pubblici a rappresentare il vero fronte orientale nella guerra di Downtown contro i poveri. Los Angeles, per precisa scelta politica, ha meno bagni pubblici di qualsiasi altra città nordamericana (ivi, pp ). In questa santa alleanza tra l architettura e la polizia, che ha portato alla creazione della fortezza Los Angeles (ivi), i progettisti dei centri commerciali «predispongono barriere architettoniche e semiotiche per filtrare gli indesiderabili» (ivi, p. 242), e mentre le case sono sempre più simili a prigioni e fortezze, le prigioni sono sempre più neutralizzate come oggetti estetici. Così, «mentre la sovrabbondanza di uffici fa diminuire dovunque il lavoro di progettazione dei grattacieli delle corporation, gli architetti più noti si stanno precipitando a progettare galere, prigioni e stazioni di polizia» (ivi, p. 241). Ma il caso più eclatante dell analisi di Davis è quello dell architetto Frank Gehry, che Davis accosta all ispettore Callaghan per il suo contributo all elaborazione di una architettura law and order. «Con luminosità a volte agghiaccianti, il suo lavoro chiarisce le relazioni sottostanti repressione, sorveglianza ed esclusione che caratterizzano la spazialità paranoica e frammentata a cui Los Angeles sembra aspirare» (ivi, p. 227). La celebrata popstar architettonica del Guggenheim di Bilbao ha prodotto tutta una serie di edifici che farebbero impallidire Foucault. A cominciare dal Danziger Studio di Hollywood, che nasconde le sue caratteristiche di lusso «dietro facciate proletarie o da gangster» (ibid.), e passando per la Loyola Law School, caratterizzata da una perfetta inaccessibilità del campus, con «le sue minacciose recinzioni in acciaio, la ziggurat di blocchi di calcestruzzo, i minacciosi muri frontali» (ivi, p. 228). Per finire poi nel capolavoro di questa architettura dell inclusione e dell esclusione: la Goldwin Library di Hollywood, senza dubbio la biblioteca più minacciosa mai costruita, un bizzarro ibrido (all esterno) tra una nave in bacino di carenaggio e il forte di Gunga Din. Con muri di protezione alti cinque metri, fatti di blocchi di calcestruzzo ricoperti di stucco, le barricate anti-graffiti piastrellate in ceramica, l ingresso infossato e protetto da pile d acciaio alte tre metri e le garitte stilizzate che si sporgono precariamente dai due lati, la Goldwin Library (influenzata dal progetto di massima sicurezza di Gehry [1980] per l ambasciata Usa a Damasco) emana lo stesso tipo di esagerazione machista delle 44 Magnum dell ispettore Callaghan (ibid.). La paranoia e la paura che portano all elaborazione (e alla costruzione) di queste architetture sono al centro anche dell analisi di Zygmunt Bauman (2005), che 9

10 legge nelle gated communities uno dei luoghi più notevoli dell attuale società dell incertezza. Le gated communities «non sono semplicemente condomini o appartamenti al cui atrio o parcheggio è impossibile accedere a meno di non abitarvi. Sono veri e propri insediamenti circondati da muraglie e sistemi di controllo che precludono l accesso» (Petti, 2007, pp ). Nelle parole di Bauman (2005, pp. 25-6), chiunque possa permetterselo si compra un appartamento in un condominio: nei suoi propositi, un eremo che fisicamente è dentro la città, ma socialmente e idealmente ne è fuori [ ]. Come ben sappiamo, le recinzioni hanno due lati. Dividono uno spazio altrimenti uniforme in un dentro e in un fuori, ma ciò che è dentro per chi si trova da una parte del recinto è fuori per chi sta dall altra parte. I residenti dei condomini si tengono fuori della sconcertante, sconvolgente e vagamente minacciosa perché turbolenta e confusa vita urbana, per chiudersi dentro un oasi tranquilla e sicura. Tuttavia, proprio per questo, tengono tutti gli altri fuori dei posti decenti e sicuri, i cui standard sono assolutamente decisi a conservare e a difendere con le unghie e con i denti; li tengono nelle stesse squallide, desolate strade che cercano, senza badare a spese, di tagliar fuori. E sembrerebbe proprio che Frank Gehry abbia fatto scuola: abbiamo visto nelle pagine precedenti come uno dei suoi primi progetti (il Danziger Studio di Hollywood) sia caratterizzato da una facciata squallida e anonima che nasconde interni di lusso; questa caratteristica è stata ripresa da numerosi architetti di Los Angeles, e diviene anch essa un utile indicatore della società sotto assedio di cui parla Bauman (ivi, pp. 50-1) Brian Murphy ha costruito per Dennis Hopper, a Venice, una casa con una specie di bunker la cui facciata di metallo ondulato è priva di finestre. Lo stesso architetto ha costruito a Venice un altra casa di lusso tra i muri di una vecchia struttura in rovina, ricoprendola con graffiti simili a quelli dei dintorni, in modo da dissimularla. Quella di progettare e costruire case non-appariscenti è una tendenza sempre più diffusa nell architettura urbana governata dalla paura. Un altra è l intimidazione, ottenuta sia mediante esterni ostili il cui aspetto, simile a quello di una fortezza, è reso ancora più sconcertante e mortificante dalla profusione di vistosi checking-points con guardie in uniforme o dall insolente, smaccata ostentazione di provocatori e costosi ornamenti. Queste «architetture della paura e dell intimidazione» (ibid.) sono del tutto complementari a quelle dell esclusione, di cui un notevole esempio è lo studio compiuto da Walter Peters (2004) in relazione al rapporto tra architettura e politiche dell Apartheid in Sud Africa. Peters spiega che, con l istituzionalizzazione dell Apartheid nel 1948, e la sua messa in pratica da lì in avanti, gli architetti sudafricani furono direttamente coinvolti nella progettazione di edifici e strutture che dessero sostanza a questa ideologia. La segregazione razziale (meglio, razzista) di edifici utilizzati sia da bianchi che da neri costituì per gli architetti una sfida in ordine alla progettazione in termini funzionali. Il tutto si declinò non tanto in termini estetici o iconografici, quanto nei termini degli itinerari e dei percorsi all interno degli edifici, sulla base di una strutturazione spaziale fondata sulla discriminazione. Altri esempi di architetture dell esclusione sono i campi di concentramento (Gutman, Berenbaum, 1994), i centri di permanenza temporanea, 10

11 i Territori occupati palestinesi (Segal, Weizman, 2003), i campi nomadi che mappano i margini delle nostre città e così via. Ma qui si entra in un territorio più propriamente urbanistico, anche se naturalmente la dimensione architettonica tout court è centrale nella definizione delle loro strutture e logiche di funzionamento. Che non riguardano si badi solo la costruzione, ma anche il suo contrario, la demolizione. È proprio attraverso il dispositivo della demolizione, ad esempio, che «Israele interviene direttamente nella forma dello spazio abitato palestinese. Lo strumento principale di trasformazione del territorio è il bulldozer» (Petti, 2007, p. 139). 4. La mediatizzazione dell architettura 4.1. La media logic dell architettura Finora abbiamo visto come l architettura possa essere considerata una delle dimensioni che contribuiscono a definire la realtà in cui viviamo. Tuttavia, quello che ancora rimane da vedere è come l architettura, oltre a essere un formidabile strumento di costruzione sociale della realtà, possa essere a sua volta costruita proprio dai discorsi e dalle narrazioni sociali, e in particolare da quelli dei media. In effetti, mai come oggi l architettura vive proprio grazie ai discorsi che vengono continuamente prodotti e riprodotti su di essa, e che passano inevitabilmente attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Secondo alcuni studiosi le tecnologie dell informazione e della comunicazione hanno di fatto modificato le stesse forme architettoniche, con strumenti come il CAD o Catia. Ma è ancora più importante, per noi, considerare come i media stessi possano influenzare le forme dell architettura contemporanea: un conto è parlare di software specifici che modificano il modo di concepire e realizzare gli edifici (considerazione di per sé piuttosto intuitiva); un conto è sostenere che oggi «l architettura diventa tessuto, trama, perde la sua concretezza volumetrica, si rarefa [ ]. L architettura è bidimensionale, [ ] deve tutta entrare nelle pagine patinate delle riviste [ ]. Questa evoluzione dello stile è l ultima conseguenza della vittoria delle riviste. L architettura è da sfogliare» (La Cecla, 2008, p. 37). Una considerazione del genere ci porta dritti all idea della mediatizzazione dell architettura, cioè di quello che succede quando l architettura incontra sulla propria strada i media. Parlare di mediatizzazione significa prendere in considerazione tutta una serie di concetti mutuati dalla sociologia dei media, che fanno riferimento soprattutto alla sociologia degli emittenti. Il primo concetto da scomodare è quello di media logic, che indica l influenza dei media (considerati tanto come una tecnologia culturale quanto come un organizzazione) sulla rappresentazione di fenomeni ed eventi di ciò che consideriamo come la realtà, secondo codici e formati che sono tipici del linguaggio mediale e delle pratiche organizzative il modo in cui i contenuti sono elaborati ed organizzati, nonché gli stili, la grammatica e le retoriche con cui questi vengono presentati e narrativizzati. Queste logiche sono improntate per lo più a una forte spettacolarizzazione e a una notevole commercializzazione. Ecco perché sempre più si parla dell architettura (almeno quella più fotogenica e telegenica ) come di una architettura spettacolo esattamente come si parla di politica spettacolo per la politica 11

12 mediatizzata, e della spettacolarizzazione di tutti gli altri settori della nostra società laddove entrano nella macchina dei media. Questo campo concettuale fa riferimento, come si è detto, all ambito della sociologia degli emittenti, dove è piuttosto interessante che la ricerca sulla produzione dell informazione sia stata denominata newsmaking una costruzione, letteralmente, dell informazione. In questa prospettiva, la notizia è una costruzione sociale anche e soprattutto perché calata all interno di una complessa rete di rapporti tra numerosi attori sociali, in un processo che vede il sistema dei media al centro della negoziazione di numerose strutture della società. La stessa nozione di pseudo-eventi (Boorstin, 1961) fa riferimento a quegli eventi che vengono pianificati appositamente perché divengano notizie (da una manifestazione di piazza a una cerimonia ufficiale). La ricerca sul newsmaking ci dice anche che uno dei modi in cui viene costruita la notizia è quello legato alla notiziabilità di un evento, per cui se un evento ha determinate caratteristiche (legate per lo più alla qualità e alla quantità delle persone coinvolte) ha più attitudine di altri a diventare notizia. Un esempio che vede all opera tutti questi concetti è quello di Kester Rattenbury (2002) sulle notizie che hanno a che fare con l architettura sulla stampa inglese. La studiosa mostra come in Gran Bretagna si sia cominciato a parlare tanto di architettura solo quando questa è divenuta un argomento notiziabile, cioè da quando, verso la metà degli anni Ottanta, il Principe Carlo ha cominciato a impegnarsi in dure esternazioni sulla qualità dell architettura postmoderna a Londra e nel Regno Unito in generale. L importanza del protagonista della vicenda ha avuto la meglio su qualunque altro ordine di considerazione, in un panorama mediatico dove l adagio era non si può fare architettura in televisione. Tant è vero che, già verso la metà degli anni Novanta, il dibattito era già troppo vecchio e logoro per costituire ancora una notizia, e il suo corso di vita ha subito una rapida caduta. La Rattenbury mostra peraltro come anche nel caso dell architettura valga la teoria degli pseudo-eventi : spesso, infatti, la copertura giornalistica dell architettura sulla stampa inglese riguarda eventi organizzati, come inaugurazioni di edifici, mostre, scandali (qualcosa che il mondo dell edilizia non si fa mancare facilmente), controversie o disastri. Legata a questi concetti della sociologia degli emittenti è infine l ipotesi dell agenda setting, secondo cui i media non ci dicono tanto che opinione avere su un argomento, quanto su quale argomento avere opinione. E se questo potrebbe sembrare un ridimensionamento di molte delle precedenti teorie sugli effetti dei media, va sottolineato che centrare l attenzione sui media come definitori dell agenda del pubblico, e quindi delle conoscenze dei fruitori, significa in definitiva riconoscere alla comunicazione di massa il ruolo di uno dei principali imprenditori della costruzione sociale della realtà. Brutalmente: quello di cui parlano i media, esiste; quello di cui non parlano, no. L architettura mostrata dai media esiste (o almeno è architettura); quella che non vi compare, no. Dopo questa (necessariamente) breve disamina dei concetti della communication research utili per comprendere di che cosa si parla quando si parla di mediatizzazione, siamo ora in grado di capire a che cosa si riferisce la citazione di La Cecla riportata prima: una forma mediale una logica mediale 12

13 diviene determinante nella costruzione di una forma architettonica; appunto, la mediatizzazione dell architettura. Del resto, benché il concetto di mediatizzazione riguardi i moderni mezzi di comunicazione di massa, questo non deve farci pensare che non si sia avuta una mediatizzazione dell architettura già agli albori della storia dei media, almeno a cominciare dalla stampa. Da questo punto di vista c è chi ha mostrato come la stampa a caratteri mobili abbia notevolmente modificato il modo di fare e di pensare l architettura. L invenzione della stampa a caratteri mobili ha permesso, secondo Elizabeth Eisenstein (1983; trad. it. 1995) una studiosa che si muove evidentemente sulla scia di Marshall McLuhan, una diffusione assolutamente inedita dei testi scientifici, permettendo così la creazione e la diffusione di un vero e proprio archivio della conoscenza. I manoscritti, infatti, quanto più erano usati, tanto più erano esposti all usura e alla perdita. Inoltre, era frequente che i contenuti venissero modificati nel corso della copiatura. La capacità di conservazione era inversamente proporzionale ai flussi di circolazione dei documenti. Con la stampa si assiste a una democratizzazione del sapere, che corrisponde a una maggiore circolazione del sapere stesso. Ma soprattutto, con la stampa cambia radicalmente il modo di fare e pensare l architettura. A sostenerlo è Mario Carpo (1998), che ricostruisce la storia del architettura pre- e post-gutenberghiana prendendo le mosse proprio da autori come McLuhan e la Eisenstein. Noi oggi pensiamo all architettura come a un sapere codificato da manuali e trattati, ma questo è qualcosa che esiste da tempi relativamente recenti. Vitruvio, a cui si deve il primo trattato di architettura sistematico, scrive un libro, è vero, ma un libro che deve sottostare ai limiti di una società quella della Roma augustea che non ha la stampa: per essere riprodotto deve essere copiato, e soprattutto, poiché è più facile copiare delle parole che dei disegni, non contiene illustrazioni. Se da una parte questo può giocare a favore di Vitruvio, che rivendica in questo modo «la pratica architettonica alla dignità del discorso» (ivi, p. 23), è anche vero che egli deve astenersi «dall uso di immagini che non sarebbero state riproducibili [ ]. Vitruvio avrebbe omesso di accludere al suo testo un iconografia complessa perché, come tutti i suoi contemporanei sapevano bene, nessun disegno complesso sarebbe stato riprodotto (copiato) fedelmente insieme al testo manoscritto» (ivi, p. 24). Con l architettura gotica, la trasmissione del sapere avviene tramite i codici miniati, ma un sapere come quello del fare architettonico è per lo più un sapere orale. E non solo: è un sapere che diviene anche un segreto, custodito gelosamente e «imposto in molti casi dai regolamenti delle corporazioni e delle logge» (ivi, p. 31). In questo modo, cioè senza parole scritte e immagini, «la teoria architettonica gotica, ancor più della teoria vitruviana, avrebbe privilegiato il controllo e la trasmissione (sovente iniziatica) di schemi geometrici astratti, a detrimento del disegno esteriore e visibile» (ivi, p. 34). Ed ecco che a un certo modo di trasmettere il sapere corrisponde un determinato fare: le regole ed i tracciati geometrici che sembrano aver costituito un parte essenziale del sapere costruttivo medievale sono perfettamente compatibili con gli strumenti e le tecniche dell oralità e della memoria. Come il discorso, una costruzione geometrica è un racconto: una sequenza, quasi una storia che si può recitare a alta voce, in tempo reale (ivi, p. 42). 13

14 Con l invenzione della stampa il disegno d architettura entra nell epoca della sua riproducibilità tecnica: se Alberti ancora non usa immagini, queste verranno utilizzate poche generazioni dopo, quando, «dopo secoli di primato della parola, il discorso architettonico potrà ormai contare sull immagine» (ivi, p. 52). Per molti architetti del Rinascimento «il Pantheon o il Colosseo non erano luoghi di Roma erano luoghi di un libro» (ivi, p. 53). Non si tratta solo di un modo di fruire l architettura; quello che si modifica è anche la stessa teoria architettonica, a cominciare da uno dei suoi capisaldi, la teoria rinascimentale dei cinque ordini (toscanico, dorico, ionico, corinzio, composito). Tale sistema degli ordini, «come è definito in particolare a partire dal Quarto Libro di Sebastiano Serlio (1537), è in primo luogo un catalogo di componenti grafiche standardizzate ed iterabili come avrebbe detto Walter Benjamin, destinate alla riproducibilità» (Carpo, 1998, p. 13). Con questo non siamo ancora all ordine prefabbricato, certo; ma almeno predisegnato, questo sì. E poi che succede? Con l industrializzazione, il metodo iterativo preconizzato dai teorici rinascimentali investirà direttamente la produzione materiale. In un secondo tempo, il modernismo architettonico del nostro secolo ha imposto un nuovo catalogo di forme standardizzate, questa volte non storicistiche, a detrimento dei cataloghi tradizionali di forme standardizzate ispirate da modelli antichi. Ma, attraverso tutte le varie fasi di questo processo plurisecolare, è sempre l illustrazione stampata (in senso lato, dalla silografia alla cartolina illustrata alle riviste su carta patinata) che ha continuato a garantire, fino ad una data molto recente, la comunicazione dell esperienza architettonica (ivi, p. 18). Sarà infatti nel Novecento che si compierà la piena mediatizzazione dell architettura. E non solo per gli effetti delle logiche dei media visti nelle pagine precedenti, ma anche per un effetto ancora più generale, strettamente legato alla teoria di McLuhan che ci ha accompagnato in questa storia della mediatizzazione dell architettura. Si tratta della teoria di Meyrowitz (1985; trad. it. 1993) dell impatto dei media elettronici sul cambiamento sociale, sullo sfondo di una società (che si vuole) globalizzata. L analisi di Meyrowitz prende le mosse dagli studi sui media di McLuhan e dagli studi su situazione e comportamento sociali di Goffman. La sua teoria si propone di legare la prospettiva di McLuhan, secondo cui le tecnologie della comunicazione modellano la società in cui operano, alla prospettiva interazionista di Goffman, soprattutto laddove il sociologo canadese parla di scena e retroscena sociale, entro la sua famosa metafora della vita sociale come rappresentazione. Secondo Meyrowitz, centrale in entrambe le analisi è il problema di accesso reciproco tra gli attori sociali. L approccio goffmaniano indica come il comportamento sociale sia gestito dalla presenza di una scena pubblica e di un retroscena (più o meno) privato; l approccio mcluhaniano suggerisce che i nuovi media cambiano le modalità di accesso a tali spazi dell interazione. In particolare, i media elettronici avrebbero avuto un ruolo determinante nell abbattere i confini tra scena e retroscena, cambiando la geografia situazionale e creando uno spazio intermedio, il luogo della fusione tra spazio pubblico e spazio privato. Ed è proprio qui che la teoria di Meyrowitz incrocia l architettura: perché se la televisione contribuisce a ridefinire gli spazi sociali, allora questo significherà che anche gli spazi architettonici sono interessati a tale mutamento. È lo stesso Meyrowitz a suggerire questo parallelo, e 14

15 anzi a prendere le trasformazioni nell architettura come esempio del fenomeno da lui teorizzato: forse l architettura offre l analogia più calzante per chiarire le modalità del mutamento descritte [ ]. Immaginate di spostare o togliere improvvisamente molte pareti che nella nostra società separano stanze, uffici e case, unendo così, da un momento all altro, molte situazioni precedentemente separate. In tal caso, le distinzioni tra i nostri sé pubblici e privati e tra i vari sé che proiettiamo nelle diverse situazioni forse non scomparirebbero del tutto, ma certo cambierebbero. Saremmo ancora capaci di agire in modo diverso con differenti persone, saremmo molto meno capaci di segregare gli incontri. Non potremmo svolgere ruoli molto diversi in situazioni diverse, perché la segregazione spaziale delle situazioni non esisterebbe più in modo chiaro. Per esempio, in una situazione sociale mista, gli studenti vedrebbero i loro insegnanti che si addormentano davanti alla televisione, gli operai vedrebbero presidenti di consigli d amministrazione che si lasciano sopraffare dai figli, gli elettori vedrebbero politici che alzano il gomito, le donne sorprenderebbero gli uomini che discutono delle strategie da usare con le donne e i bambini vedrebbero il comportamento a volte infantile dei loro genitori [ ]. In un ambiente eterogeneo, alcuni comportamenti che in tutte le rappresentazioni di una volta erano riservati al retroscena, ora apparirebbero necessariamente nello spazio allargato del palcoscenico (ivi, pp. 11-2). Certo, è lo stesso Meyrowitz a riconoscere che «è chiaramente eccessivo usare quest analogia architettonica per descrivere gli effetti dei media elettronici» (ibid.); dopotutto, «gli incontri sono ancora separati e confinati da pareti, porte, cancelli e distanze. Ma i media elettronici hanno progressivamente invaso le situazioni che si verificavano in ambienti fisicamente definiti» (ibid.), e gli effetti di tale ridefinizione del senso del luogo sono riscontrabili in quasi tutti gli aspetti della vita sociale. Meyrowitz ne prende tre a titolo di esempio: la confusione tra le sfere maschile e femminile (oggi i maschi, grazie alla TV, conoscono molti aspetti della vita femminile prima riservati al dietro le quinte delle donne, e viceversa), quella tra l infanzia e il mondo adulto (si pensi alle tradizionali tappe della socializzazione, bruciate dalla presenza della televisione in tutte le case) e la tendenziale perdita dell aura dei leader politici, abbassati al livello di normali cittadini dal continuo scrutinio delle telecamere sia della loro attività pubblica che della loro vita privata. Ma poi gli esempi si possono moltiplicare, fino a interessare anche le fasce più ai margini della società, come i detenuti, che grazie all accesso ai media elettronici «non sono più totalmente segregati dalla società. L uso dei media elettronici ha portato a una ridefinizione del termine incarcerazione» (ivi, p. 202). Ma attenzione: tutto questo non significa sostenere ingenuamente che i confini e le barriere spaziali si siano dissolti. Come avverte Meyrowitz, le donne possono condividere molte più informazioni con gli uomini, pur rimanendo ancora escluse da determinate situazioni squisitamente maschili; i detenuti possono collegarsi col mondo esterno attraverso i media, pur restando comunque in prigione; un bambino può accedere a informazioni provenienti da tutto il mondo, pur non avendo il permesso di uscire di casa. Perciò, la libertà derivante dal solo accesso alle informazioni ha parecchi limiti (ivi, p. 305). 15

16 La teoria di Meyrowitz ci permette di leggere da un punto di vista strettamente sociologico il ruolo che i media svolgono nel confondere i confini architettonici e sociali tra pubblico e privato. Un ruolo che un altro sociologo dei media, Scott McQuire (2008), riporta alle prime esperienze dell architettura moderna, e in particolare all architettura di vetro di cui Benjamin era un appassionato sostenitore. Era lo stesso Benjamin, del resto, a mostrare come i passages parigini tra i primi esempi dell architettura di vetro confondessero il rapporto tra interno ed esterno, e fu proprio l architettura delle Esposizioni Universali a trasformare gli edifici in gigantesche vetrine per la città e la merce (si pensi solo al Crystal Palace di Joseph Paxton, realizzato per l Esposizione di Londra del 1851). L architettura di vetro è stata una sorta di mito del Movimento Moderno, e non solo nelle sue formulazioni teoriche, ma anche nella realizzazione delle opere, come la sede del Bauhaus a Dessau di Walter Gropius del Secondo McQuire (2008) la ridefinizione dello spazio pubblico e privato operata dall architettura di vetro è da mettersi in relazione con il ruolo giocato oggi dai media sullo stesso fronte. Lo schermo televisivo è la versione contemporanea della parete di vetro del modernismo, con il quale i discorsi e le retoriche della trasparenza della società si moltiplicano e si caricano di nuovi significati e implicazioni. Non solo i media penetrano lo spazio privato lo spazio domestico, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, ma la stessa vita domestica e privata è divenuta l oggetto dell attenzione dei media, in modi diversi e complessi. Si pensi solo suggerisce McQuire alla tendenza della reality TV, da una parte, e delle webcam con cui privati cittadini mettono in mostra il proprio privato a un pubblico virtualmente globale, dall altro. In particolare, la reality TV estende la trasparenza della casa di vetro del modernismo ben oltre quanto gli stessi modernisti avrebbero mai potuto immaginare. McQuire fa l esempio (non troppo originale, in effetti) del Grande Fratello, i cui appartamenti non saranno «le case di vetro in senso strettamente architettonico» (ivi, p. 187), ma ci dicono molto sulla spettacolarizzazione mediatica in cui si declina questa nuova versione della trasparenza della società Form follows fiction L incontro tra media e architettura ha prodotto anche un altro fenomeno: lo starchitetto, o archistar. Anche questo rientra nei fenomeni di media logic e mediatizzazione, soprattutto in ordine a una delle loro caratteristiche più tipiche: la personalizzazione. E così l architetto stesso è star cinematografica e televisiva, celebrata dalla pop culture dei mezzi di comunicazione: Frank Gehry diviene protagonista di un film di Sydney Pollack (Frank Gehry Creatore di sogni, 2005), e viene parodiato in un indimenticabile episodio dei Simpson dove presta la voce per doppiare il proprio alter ego di cartone; Massimiliano Fuksas diviene testimonial per lo spot della Renault Scénic, spiegandoci nientemeno che la genesi della nuvola del suo progetto per il nuovo palazzo congressi a Roma, per poi riapparire parodiato in Crozza Italia nelle vesti di Massimiliano Fuffas. Proprio questi due casi sono piuttosto esemplari di come la professione architettonica venga costruita nelle narrazioni mediali. Da una parte abbiamo la evidente celebrazione di un certo modo di concepire l architettura, con l attribuzione di uno statuto artistico : l architetto come popstar, protagonista di 16

17 film e testimonial pubblicitario. Dall altra, abbiamo discorsi in parte configgenti e in contrasto fra loro, dove l architetto diviene fuffologo, o dove, come nell episodio dei Simpson, Gehry costruisce un inutile auditorium sinfonico a Springfield che diviene presto un penitenziario, dando sostanza a quanto scrive Mike Davis (1993) su questa popstar globale, paragonandola all ispettore Callaghan nel suo tentativo di fare di Los Angeles una città-fortezza, potente metafora di una politica architettonica ispirata alla repressione, alla sorveglianza e all esclusione lo abbiamo visto nelle pagine precedenti. In ogni caso, insomma, quella che emerge è una architettura i cui generi e le cui forme e i cui protagonisti vengono prodotti e riprodotti dai generi e dalle forme dei mezzi di comunicazione e dalle loro narrazioni. Louis H. Sullivan, esponente di punta della Scuola di Chicago (quella architettonica, non quella sociologica; eppure, questa coincidenza tra le due discipline è quantomeno evocativa), è l architetto a cui viene attribuita la celeberrima espressione Form follows function, la forma segue la funzione l edificio va progettato a seconda dell uso. Oggi, sulla base di quanto abbiamo visto, questa formula andrebbe forse rivisitata. Se è vero che molta dell architettura contemporanea segue le forme delle narrazioni mediatiche, e dei discorsi che queste contribuiscono a produrre e riprodurre, forse si dovrebbe dire che gli spazi e gli invasi architettonici sono modellati su tali racconti. Form follows fiction. O, per dirla parafrasando Victor Hugo, ceci (la fiction mediatica ricordando che il significato etimologico del termine fiction rimanda sia a finzione che a costruzione) construira cela (la forma architettonica). Riferimenti bibliografici AUSTIN M. (2003), Biculturalism and Architecture in Aotearoa/New Zealand, in National Identities, 5, 1, pp BAUMAN Z. (2005), Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano. BECK U. (1998), Democracy Without Enemies, Polity Press, Cambridge. BILLIG M. (1995), Banal Nationalism, Sage, London. BODDY T. (1984), Ethnic Identity and Contemporary Canadian Architecture, in Canadian Ethnic Studies/Etudes Ethniques au Canada, 16, 3, pp BOORSTIN D. (1961), The Image: A Guide to Pseudo-Events in America, Harper & Row, New York. CARPO M. (1998), L architettura dell età della stampa. Oralità, scrittura, libro stampato e riproduzione meccanica dell immagine nella storia delle teorie architettoniche, Jaca Book, Milano. COLEMAN D., DANZE E., HENDERSON C. (a cura di) (1996), Architecture and Feminism, Princeton Architectural Press, Princeton. CUSACK T. (2001), A Countryside Bright with Cosy Homesteads : Irish Nationalism and the Cottage Landscape, in National Identities, 3, 3, pp DAVIS, M. (1990), City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles, Verso, London- New York (trad. it. Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri, Roma 2008). DELANTY G., JONES, P.R. (2002), European Identity and Architecture, in European Journal of Social Theory, 5, 4, pp EDENSOR T. (2002), National Identity, Popular Culture and Everyday Life, Berg, Oxford. 17

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