Lavoro (Rapporto di) Prestazioni

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1 Lavoro (Rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - In genere - Impugnativa di licenziamento per riduzione di personale ex legge n. 223 del Contestazione da parte del lavoratore della mancata applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità - Conseguenze - Indicazione e prova delle circostanze di fatto poste a base dell'applicazione dei suddetti criteri - Necessità - Onere probatorio relativo - Incidenza. Prestazioni - Retribuzione - Cassa integrazione guadagni - Integrazione salariale e reddito proveniente da attività lavorativa - Incompatibilità ex art. 3 D.L. Lgs. 778/1945 e art. 8 D.L. n. 86/ Derogabilità in relazione a lavoro configurabile come collaborazione in impresa familiare - Esclusione. Corte di Cassazione - 4.4/ , n. 9374/00 - Pres. Trezza - Rel. Celentano - P.M. Fedeli (Conf.) - Pinardi (Avv. Dall'Ara) - ENICHEM S.p.a. (Avv. Cavaliere) - INPS (Avv.ti Gorga, Fabiani e Picciotto). In sede di impugnativa di licenziamento per riduzione di personale effettuato a norma dell'art. 4 legge n. 223 del 1991, ove venga contestata, da parte del lavoratore, la mancata osservanza dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, grava sul datore di lavoro l'onere di indicare e provare le circostanze di fatto poste alla base dell'applicazione dei suddetti criteri. Il reddito da lavoro (autonomo o subordinato) è

2 incompatibile con l'integrazione salariale sia alla luce dell'art. 3 D.L. Lgs. n. 788 del 1945, sia alla luce della nuova disciplina introdotta dal D.L. n. 86 del 1988 convertito con modifiche in legge n. 160 del 1988, senza che tale incompatibilità trovi deroga nell'ipotesi in cui l'attività lavorativa svolta dal cassintegrato si configuri come collaborazione in una impresa familiare. FATTO. - Con ricorso depositato il 2 febbraio 1994 Claudio Pinardi conveniva in giudizio, davanti al Pretore di Ferrara, l'enichem S.p.a., contestando la legittimità del licenziamento intimatogli dalla società con lettera nell'ambito della procedura di mobilità in atto presso lo stabilimento di Ferrara della convenuta; con lo stesso atto chiamava in giudizio l'inps per sentirlo condannare al pagamento delle mensilità di cassa integrazione straordinaria non erogate dal febbraio 1983 fino alla data del licenziamento; in subordine, nel caso in cui i provvedimenti ministeriali autorizzanti la cassa integrazione non fossero stati emanati o avessero cessato la loro efficacia, chiedeva la condanna dell'enichem al pagamento delle retribuzioni per lo stesso periodo. Chiedeva, infine, la condanna della società a computare nel trattamento di fine rapporto anche i periodi trascorsi in cassa integrazione. A sostegno della domanda il Pinardi esponeva che il licenziamento era illegittimo in quanto, in violazione degli accordi intercorsi tra l'azienda e le organizzazioni sindacali, non era stato preceduto dalla prestazione del suo consenso alla risoluzione del rapporto. Lamentava, poi, che, posto in cassa integrazione guadagni straordinaria dal , si era visto sospendere la relativa indennità dal febbraio 1983, in quanto l'inps

3 aveva erroneamente ritenuto che egli avesse instaurato un rapporto di lavoro subordinato con una autoscuola. Instaurato il contraddittorio, l'enichem e l'inps, costituitisi, si opponevano alle domande. La società sosteneva la legittimità del provvedimento di messa in mobilità del lavoratore, adottato in esecuzione di due accordi sindacali (uno del luglio 92 ed uno del dicembre 93), che prevedevano l'assenso individuale solo per i lavoratori in servizio, non per quelli da tempo sospesi e posti in cassa integrazione. Quanto alla lamentata sospensione delle prestazioni di cassa integrazione da parte dell'inps, l'enichem eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva e l'intervenuta prescrizione estintiva, sottolineando, comunque, che l'inps aveva legittimamente sospeso i pagamenti perché aveva accertato che il Pinardi svolgeva altra attività lavorativa remunerata. La società deduceva, infine, che le quote di TFR relative al periodo di cassa integrazione erano per legge poste a carico dell'istituto previdenziale. L'INPS sollevava numerose eccezioni sulla ammissibilità e procedibilità della domanda, chiedendone comunque il rigetto nel merito. Con sentenza del 10/30 ottobre 1996 il Pretore rigettava le domande del Pinardi e lo condannava alle spese di giudizio. L'appello del lavoratore, cui resistevano i convenuti, veniva rigettato dal Tribunale di Ferrara con sentenza dell'8 aprile/1 luglio Osservavano i giudici di secondo grado, condividendo la valutazione espressa dal Pretore, che l'assunto del Pinardi - sulla necessità dell'assenso dei lavoratori per il collocamento in mobilità - si fondava su una sola frase, estrapolata dall'accordo del ; tale accordo, invece, andava interpretato congiuntamente al

4 precedente accordo del luglio 1992, espressamente richiamato, da cui risultava che solo per i lavoratori in servizio l'inserimento in mobilità sarebbe stato ancorato alla preventiva risoluzione di rapporto su base consensuale. Essendo il Pinardi in cassa integrazione fin dal 1981, sulla base di regolari decreti di autorizzazione del Ministero del lavoro, non era necessario un suo preventivo assenso per la collocazione in mobilità. Il Tribunale osservava, poi, che nessuna prova l'appellante aveva fornito sulla dedotta. carenza delle condizioni soggettive legittimanti l'inserimento in mobilità. Quanto alla sospensione da parte dell'inps della erogazione dell'indennità di cassa integrazione, i giudici di appello reputavano legittimo il comportamento dell'istituto, ritenendo pienamente provato, sulla scorta delle risultanze del giudizio di primo grado, che il Pinardi, pur svolgendo una attività lavorativa remunerata a favore di numerose autoscuole, intendeva illecitamente lucrare il trattamento di cassa integrazione; osservavano che, al di là dell'espressa previsione contenuta nell'art. 8 della legge n. 160 del 1988, costituisce principio generale, attese le finalità dell'indennità di cassa integrazione, che la stessa viene a cessare quando il lavoratore percepisce un reddito alternativo. Quanto alla tesi dell'appellante, secondo la quale i suoi redditi, in quanto redditi da collaborazione in impresa familiare, sarebbero cumulabili con il trattamento di integrazione, il Tribunale la riteneva domanda nuova, sollevata per la prima volta in appello, e pertanto inammissibile. Il Tribunale riteneva, infine, che la decadenza dal trattamento di cassa integrazione, legittimamente adottata dall'inps, escluderebbe automaticamente l'obbligo dell'ente o dell'enichem di liquidare alcunché, a titolo

5 di TFR, per tali periodi. Per la cassazione della decisione di secondo grado ricorre, formulando tre motivi di censura, Claudio Pinardi. L'ENICHEM S.p.a. resiste con controricorso, mentre l'inps ha depositato solo procura, svolgendo le proprie difese all'udienza. Il ricorrente e l'enichem hanno depositato memoria. DIRITTO. - Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt e segg. e 2697 c.c., nonché vizio di motivazione su punti decisivi della controversia, la difesa del ricorrente censura la interpretazione che il Tribunale ha dato dell'accordo sindacale del 22 dicembre 1993 e di quello precedente del 18 luglio Deduce che l'accordo del 1993 non distingue fra dipendenti al lavoro e dipendenti in cassa integrazione, e che l'accordo del luglio 1992 è richiamato solo allo scopo di determinare quantitativamente i benefici diretti alla incentivazione della mobilità. Lamenta che il Tribunale ha comunque trascurato di prendere in esame il contenuto della lettera del (di cui trascrive, in premessa, il contenuto), inviata dalla società al Pinardi, con la quale la società stessa conferma che la risoluzione del rapporto avrebbe dovuto avvenire su base consensuale. Deduce, ancora, che il Tribunale ha errato nel ritenere che le condizioni soggettive legittimanti l'inserimento in mobilità dovessero essere provate dal lavoratore, in quanto, una volta contestata la violazione dei relativi criteri da parte del lavoratore, spetta al datore di lavoro l'onere di provare di avere agito correttamente. Il motivo è fondato solo nei limiti di seguito precisati. La dedotta violazione delle norme di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi sindacali del

6 dicembre 1993 e del luglio 1992, così come formulata, è inammissibile. Non viene riportato, infatti, (con violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) il testo degli accordi in questione e non si spiega neppure in qual modo il Tribunale abbia violato gli artt e segg. del codice civile o perché la relativa motivazione sia illogica o contraddittoria. La difesa del ricorrente si limita, invece, a contrapporre una diversa interpretazione a quella seguita dal Tribunale. Fondata, invece, è la censura di omessa motivazione sul contenuto della lettera del 22 dicembre 1993, con la quale la società, dopo avere comunicato al Pinardi il licenziamento con decorrenza 30 dicembre 1993 e la sua conseguente collocazione nelle liste di mobilità, ed avere spiegato le ragioni dell'eccedenza di personale, afferma: "Le confermiamo che la Società Le erogherà il trattamento economico previsto dall'accordo sindacale citato, a condizione che sia formalizzata la Sua accettazione di quanto sopra con un verbale di risoluzione consensuale individuale, subordinato alla presentazione all'azienda della situazione contributiva INPS". Di tale affermazione e del suo significato il Tribunale non si occupa affatto, limitandosi alla interpretazione congiunta degli accordi sindacali del luglio 1992 e del dicembre I giudici di appello spiegano che, solo per i lavoratori in servizio alla data dell'accordo, e non già per quelli collocati da tempo in cassa integrazione, l'inserimento in mobilità sarebbe stato ancorato alla preventiva risoluzione del rapporto su base consensuale; ma non spiegano il motivo (e il significato) dell'inserimento nella lettera diretta al Pinardi della frase con la quale il trattamento incentivante è subordinato al raggiungimento di una "risoluzione consensuale

7 individuale". Fondata è anche la censura di violazione dell'art c.c., con riferimento all'onere della prova della sussistenza (o insussistenza) delle condizioni soggettive individuate dal datore di lavoro per l'inserimento nelle liste di mobilità. Il Tribunale ha addossato tale onere al lavoratore ("Da ultimo, nessun pregio può attribuirsi per difetto di qualsivoglia prova sul punto, alla lamentata carenza, al momento dell'inserimento in mobilità, delle condizioni soggettive legittimanti tale provvedimento"). Così argomentando i giudici di appello hanno violato l'art c.c., atteso che, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, ove venga contestata, da parte del lavoratore licenziato, la mancata osservanza dei criteri di scelta, incombe sul datore di lavoro l'onere di indicare e provare le circostanze di fatto poste alla base dell'applicazione dei criteri adottati (Cass., 11 marzo 1997 n. 2165). Nella fattispecie in esame il Pinardi, oltre a dedurre la mancata prestazione del consenso, ha negato, a pag. 10 del ricorso introduttivo, di trovarsi nelle condizioni soggettive richieste dall'accordo sindacale per essere poste in mobilità (condizioni precisate nella lettera 22 dicembre 1993, trascritta nel ricorso). Ed ha ribadito tale deduzione a pag. 11 del ricorso in appello. Con il secondo motivo, denunciando violazione delle leggi 675/77, 223/91 e 236/93 nonché vizio di motivazione, la difesa del ricorrente deduce che il Tribunale ha errato nel non considerare che, prima della legge 20 maggio 1988 n. 160, non sussisteva alcun divieto per il cassaintegrato di svolgere altra attività lavorativa, autonoma o subordinata (e, quindi, nessuna incompatibilità tra indennità previdenziale e reddito); e che, dopo l'entrata in vigore di tale legge il trattamento di cassa

8 integrazione è comunque compatibile con i redditi da collaborazione in impresa familiare. Erroneamente il Tribunale ha ritenuto che il rilievo sulla natura del reddito (da collaborazione in impresa familiare) fosse domanda nuova, sollevata per la prima volta in appello; si tratta, secondo la difesa del ricorrente, non di una domanda nuova ma di una mera argomentazione difensiva, già sollevata in una memoria difensiva depositata in primo grado. Il motivo è infondato. Non è affatto vero che prima della pubblicazione della legge 20 maggio 1988 n. 160 il cassaintegrato potesse svolgere altre occupazioni, cumulando il reddito così prodotto con la prestazione previdenziale. L'art. 3, comma 2, del D.L.vo Lgt. 9 novembre 1945 n. 788 stabiliva, infatti, che l'integrazione non sarebbe stata corrisposta a quei lavoratori che durante le giornate di riduzione del lavoro si dedicassero ad altre attività remunerate. Il Pinardi avrebbe dovuto provare che non svolgeva, come ritenuto dall'inps, una attività di lavoro subordinato, o che l'attività di lavoro autonomo svolta aveva prodotto un compenso inferiore alla indennità di integrazione salariale (cfr. Cass., 14 aprile 1993 n. 4419). E avrebbe potuto dolersi in questa sede della violazione dei criteri sopra esposti. Non può, invece, limitarsi a sostenere che prima della legge n. 160 del 1986 sussisteva piena compatibilità tra reddito da lavoro autonomo o subordinato ed integrazione salariale, trattandosi di un assunto infondato. Quanto alla disciplina dettata dall'art. 8 del D.L. 21 marzo 1988 n. 86, convertito, con modifiche, nella legge 20 maggio 1988 n. 160, la stessa non sembra consentire una differente soluzione. Il legislatore, infatti, non solo ha ribadito, al comma 4,

9 che "il lavoratore che svolga attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate ", ma ha anche previsto, al successivo comma, che "il lavoratore decade dal diritto al trattamento di integrazione salariale nel caso in cui non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione alla sede provinciale dell'istituto nazionale della previdenza sociale dello svolgimento della predetta attività". Ne è possibile alcuna deroga al regime sopra descritto, sia anteriore che successivo al D.L. n.86 del 1988, allorquando l'attività svolta dal cassaintegrato si configuri come collaborazione in una impresa familiare. Con il terzo motivo, denunciando violazione dell'art c.c., si sostiene che, in forza del terzo comma di tale articolo, in caso di sospensione totale o parziale della prestazione di lavoro per la quale sia prevista l'integrazione salariale, deve essere comunque computata nella retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto, l'equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro. Si assume che, stante il chiaro tenore letterale della norma, è assolutamente indifferente che il ricorrente abbia o meno lavorato durante il periodo di interazione guadagni straordinaria e, quindi, "meritato" o meno il trattamento previdenziale. Escludendo il diritto al TFR per la ritenuta non spettanza del trattamento di integrazione salariale, il Tribunale avrebbe violato il ricordato art c.c.. Il motivo è, prima che infondato, inammissibile. Il resistente ha eccepito che il Pinardi non aveva investito con uno specifico motivo di appello quella parte della sentenza di primo grado che aveva escluso con ampia motivazione qualsiasi suo diritto a percepire dalla ex

10 datrice di lavoro i ratei del TFR per il periodo intercorso tra la sua sospensione per CIGS ed il successivo collocamento in mobilità. L'eccezione è fondata. Dall'esame della sentenza di primo grado risulta che il Pretore ha escluso che l'inps o l'enichem fossero tenuti a ricomprendere nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto i periodi trascorsi in cassa integrazione guadagni. Il Pretore così spiegava la sua decisione: "Il Pinardi, quindi, essendo decaduto dal diritto alla CIGS, non può ora pretendere dall'inps o dalla società ex datrice di lavoro il ricalcolo del trattamento di fine rapporto, con l'inclusione nella base di calcolo dei periodi trascorsi in CIGS. In sintesi, la decadenza dalla CIGS esclude automaticamente l'obbligo dell'inps di liquidare il TFR così come richiesto, non essendo configurabili accantonamenti su prestazioni previdenziali mai erogate. Infine nessun obbligo retributivo può essere posto a carico dell'enichem sia per la legittimità del collocamento in CIGS dell'attore, sia perché quest'ultimo era decaduto dalla CIGS a causa di un comportamento illecito a lui imputabile, sia perché lo stesso non aveva più prestato attività lavorativa o manifestato la volontà di riprenderla" (pag. 30 e 31 della sentenza di primo grado). L'esame dell'atto di appello mostra che il lavoratore si limita a censurare le statuizioni relative alla legittimità del licenziamento e al diniego del trattamento di integrazione salariale, sostenendo, in relazione a tale ultima questione, che per il periodo precedente la pubblicazione della legge n. 160 del 1988 non sussisteva alcun divieto per il cassaintegrato di svolgere altre attività; mentre per il periodo successivo doveva

11 ritenersi che il "cassaintegrato può collaborare all'impresa familiare (in senso lato, non nell'accezione di cui all'art. 230 bis c.c.)". Nessuna censura viene mossa avverso le motivazioni con le quali il Pretore escludeva l'obbligo sia dell'inps che dell'enichem di computare i periodi di cassa integrazione ai fini del TFR, così rigettando quello che costituiva il punto 4 delle domande avanzate con il ricorso introduttivo. Ne consegue l'inammissibilità della proposizione di tale motivo di censura in sede di legittimità, essendosi sul punto formato il giudicato. Concludendo, va accolto il primo motivo di ricorso limitatamente all'omessa motivazione sul contenuto della lettera 22 dicembre 1993 e alla violazione dell'art c.c. con riferimento all'onere di provare la sussistenza delle condizioni soggettive, determinate dal datore di lavoro e precisate nella citata lettera, ai fini della scelta dei lavoratori da collocare in mobilità. Vanno, invece, rigettati il secondo e il terzo motivo. La sentenza va quindi cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata ad altro giudice di pari grado, che si indica nel Tribunale di Modena in composizione collegiale, che provvederà ad ovviare al vizio di motivazione e verificherà il rispetto dei criteri di scelta secondo la ricordata attribuzione dell'onere probatorio. Al giudice di rinvio si rimette anche la pronuncia sulle spese. (Omissis)

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