Imprese e cooperative sociali in Italia. Il quadro normativo

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1 Imprese e cooperative sociali in Italia. Il quadro normativo La legislazione italiana in materia di impresa sociale e di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate è quanto mai stratificata e complessa. Esiste innanzitutto una legislazione in materia di impresa sociale, che vede sovrapposti almeno tre livelli: 1) la legge 381/1991 che definisce le Cooperative Sociali, dividendole in quelle che gestiscono servizi sociali, sanitari ed educativi (cosiddette di tipo a ) ed in quelle che inseriscono persone svantaggiate in attività di lavoro, sia agricolo che industriale che di servizi (c.d. di tipo b ); 2) il decreto legislativo 460/1997, che definisce le Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale, barocca denominazione italiana delle organizzazioni no-profit), le quali comprendono automaticamente tutte le cooperative sociali, oltre ad associazioni ed ONG (definizione che in Italia è riservata alle strutture impegnate nella cooperazione internazionale) e possono svolgere attività di tipo socio-sanitario-educativo, ma anche nel campo dell ecologia, della cultura e di settori analoghi; 3) il decreto legislativo 155/2006, che definisce l Impresa Sociale (anche in questo caso ricomprendendo la cooperazione sociale), costituita da uno spettro abbastanza largo di entità (società commerciali sia cooperative che di capitali - ed associazioni) che svolgono attività come quelle definite per le Onlus. A tutt'oggi questa legge è rimasta in gran parte inattuata: la norma più significativa che ne è derivata è lo schema di bilancio sociale. La recente indagine Isnet ( p. 18) ha evidenziato il crescente disinteresse del settore verso questa forma giuridica. Oltre a queste norme - che prevedono facilitazioni fiscali, contributive (la fiscalizzazione a carico dello Stato dei contributi previdenziali per i lavoratori svantaggiati delle cooperative sociali di inserimento lavorativo) e nelle procedure di affidamento di servizi e lavori - ce ne sono altre in materia di Organizzazioni Non Governative, associazioni e di volontariato. I dati sull'occupazione fanno emergere una realtà tutta italiana: l'impresa sociale in questo paese, per una storia plurisecolare, è soprattutto la realtà cooperativa. L'esperienza cooperativa, a partire dalle scelte di 40 anni fa a Trieste, quando nacque la prima cooperativa di ex internati nell'ospedale Psichiatrico, è diventata il modello principale per il suo carattere democratico (una testa = un voto), per la dimensione imprenditoriale e per una storia

2 consolidata di tutela dei diritti dei lavoratori. Disabili, svantaggiati, soggetti deboli... Esiste una legislazione diversificata anche per quanto riguarda l inserimento lavorativo delle persone disabili e svantaggiate: A) c è la legge 68/1999, che definisce l inserimento lavorativo delle persone disabili, in primo luogo nell economia privata, imponendo alle aziende quote minime di assunzioni, oltre ad attività formative, di orientamento occupazionale e di supporto da parte dei servizi sociosanitari pubblici. Le quote sono: a) sette per cento dei lavoratori occupati, se [le aziende] occupano più di 50 dipendenti; b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti; c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti (art. 3). Si stima che in Italia vi siano circa 2 milioni 824mila disabili, di cui 960mila uomini e 1 milione 864mila donne. Per quanto siano in corso ricerche innovative come quelle collegate al nuovo standard ICF, in Italia la persona disabile viene parificata come persone portatrice di handicap ed invalidità civile superiore al 45% (con l'eccezione degli invalidi del lavoro, per i quali la percentuale è inferiore, dovendo essere superiore al 33%); B) c è la legge 381 sulle cooperative sociali, che prevede l inserimento (in quelle b ) di almeno il 30% degli occupati assunto fra i disabili ed altre categorie definite come svantaggiate, in connessione alla loro situazione clinica oppure sociale (pazienti psichiatrici, tossicodipendenti, alcooldipendenti, carcerati, ex carcerati fino a 6 mesi dopo il rilascio, minori in età lavorativa ed in situazione di disagio sociale); C) ci sono infine i regolamenti europei - prima il 2204/2002 ed ora l 800/ sulle politiche occupazionali, che hanno aumentato la confusione, introducendo altre e più ampie categorie di svantaggio, definito non come sociale ma solamente come occupazionale; D) infine ci sono le leggi regionali, alcune delle quali hanno inserito anch esse nuove forme di svantaggio (vedi ad esempio le regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia), soprattutto facendo riferimento ai regolamenti europei. In questi casi, sono state utilizzate nuove formulazioni per definire le persone inserite al lavoro, come i "soggetti deboli". Chi studia la materia pone da tempo l esigenza di una razionalizzazione e normalizzazione di tutta questa legislazione.

3 I numeri della cooperazione sociale e dell inserimento lavorativo Le cooperative sociali in Italia erano circa al 31 dicembre 2005, secondo una valutazione dell Istituto nazionale di Statistica (Istat): Risultavano effettivamente attive cooperative, di cui tipo A (pari al 59%), di tipo B (pari al 32,8%), 315 miste fra i due tipi (pari al 4,3%) e 284 (pari al 3,9%) consorzi sociali: questi ultimi sono cooperative di cooperative, volte a coordinare le associate sul piano territoriale o di settore. Il valore economico della produzione dell'insieme delle cooperative sociali era nel 2005 pari a milioni di euro, con una media per cooperativa di circa 867 mila euro. Le cooperative sociali di inserimento lavorativo rappresentano solo il 21,2% della cifra complessiva, per un valore di milioni di euro, con una media più bassa rispetto alle altre cooperative sociali (681 mila euro circa). I soci, alla stessa data, erano , i lavoratori retribuiti , di cui persone svantaggiate (poco più della metà socie delle cooperative). Altre persone operanti nelle cooperative sociali a titolo gratuito (volontari, giovani in servizio civile, religiosi) erano Le categorie di disabili e svantaggiati occupate nelle cooperative sociali sono così distribuite (in percentuale sul totale): 4,3 alcooldipendenti; 8,7 detenuti ed ex detenuti; 46,4 disabili fisici, psichici e sensoriali; 3,8 disoccupati; 0,7 minori a rischio; 15 pazienti psichiatrici; 16 tossicodipendenti e 5,2 altre categorie di svantaggio. Fino al recente studio frutto del progetto PIL, illustrato poco fa, non erano stati elaborati dati precisi a livello nazionale sul numero di tirocini (in particolare definiti borse di lavoro ) a livello nazionale. Questi istituti sono estranei ed aggiuntivi rispetto ai normali rapporti di lavoro, e costituiscono una fase di prima formazione ed inserimento delle persone disabili e svantaggiate, normalmente gestita dai servizi socio-sanitari pubblici e collocata presso cooperative sociali, ma anche aziende private od enti pubblici per favorire la formazione del soggetto ed un suo futuro inserimento.

4 Non esistono neanche dati precisi sul numero delle persone svantaggiate a livello nazionale, vista la dispersione fra i servizi sociali, le diverse definizioni di svantaggio ed anche a causa di bizzarre scelte politiche (in passato, il ministro Maroni, della Lega Nord, aveva interpretato il regolamento europeo 2204/2002 nel senso di considerare svantaggiate tutte le donne!). Si tenga conto che, a seguito del movimento di riforma psichiatrica, non tutti i pazienti psichiatrici sono stati dichiarati invalidi, rispetto al passato, e che pure le categorie di dipendenze da sostanze lo sono solo in alcuni casi. Si crea cioè una situazione per la quale una persona può essere considerata disabile - pur avendo capacità professionali ed intellettive di alto livello ottenendo una protezione (almeno teorica) maggiore di un'altra persona seguita dai servizi socio-sanitari per gravi patologie, ma non dichiarata invalida. Se invece ci riferiamo all occupazione totale dei disabili, ai sensi della legge 68, tutt'oggi in Italia si rilevano livelli di occupazione dei disabili ancora piuttosto bassi. Il tasso di occupazione fra questa categoria è infatti pari al 21%, meno della metà di quello rilevato fra i non disabili. Occorre tuttavia considerare che fra i disabili in età lavorativa circa il 27% è del tutto inabile al lavoro. Le donne disabili sono notevolmente svantaggiate rispetto agli uomini: le prime hanno un tasso di occupazione dell'11% e i secondi del 29%; tale svantaggio esiste anche fra i non disabili, sebbene l'entità delle differenze fra maschi e femmine non sia così elevata ( Secondo la Quinta relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n. 68, tra il 2008 ed il 2009 gli inserimenti lavorativi di persone disabili attraverso il collocamento obbligatorio sono crollati da ai , a dimostrazione di come la crisi economica internazionale penalizzi in primo luogo i soggetti più deboli ( %20Parlamento%20Legge%2068_99%20Parte1.pdf p. 75). Problematiche attuali Le norme ed i dati sono indicativi, ma hanno poco senso se non vengono messi in relazione con la realtà. Che pone problemi seri per il futuro: se non saranno risolti, la stessa sopravvivenza della cooperazione sociale in Italia sarà messa in discussione.

5 I) La crisi economica mondiale è aggravata in Italia dalla sovrapposizione tra fattori di dualismo strutturale di lungo periodo (il primo è quello tra Nord e Sud) e nuovi squilibri, che evidenziano la debolezza del sistema produttivo. Il carattere storicamente arretrato del Welfare italiano, la stessa assenza di forme di salario minimo garantito per i non lavoratori, sarà aggravato dai recenti provvedimenti definiti "anti-crisi", che in realtà aprono la via ad una privatizzazione di parti importanti del sistema sanitario, sociale, scolastico ed indeboliscono le garanzie giuridiche per i lavoratori. Questo quadro tende già ora a mettere in crisi gran parte della cooperazione sociale, sottocapitalizzata e dipendente in gran parte dagli affidamenti di servizi pubblici. Lo sottolinea la recente indagine Isnet, che rileva un settore già ampiamente in crisi, di fronte al calo degli affidamenti di servizi pubblici, alla riduzione dei margini economici ed al crollo dell'investimento sull'innovazione. Si sta quindi creando un circolo vizioso, nel quale le cooperative sociali sono sottoposte ad una sorta di selezione malthusiana a discapito delle realtà più piccole e meno capitaizzate. II) In questo quadro, va denunciato il fatto che le normative che vent'anni fa promettevano di "liberarci dalla necessità dell'appalto", per avviare forme di coprogettazione ed affidamento finalizzato alla risposta a prevalenti interessi sociali, sono a tutt'oggi poco utilizzate. In un quadro di calo della spesa pubblica, questo significa esporre la cooperazione sociale ad una insostenibile pressione volta a diminuire i costi delle Pubbliche Amministrazioni, attraverso gli affidamenti al "massimo ribasso" che sono ancora diffusi nel nostro paese. Alcune norme recenti (il regolamento applicativo del Codice dei Contratti d. lgs 163/2006, applicativo delle direttive UE in materia di appalti ed alcuni pronunciamenti dell'autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici) vanno in senso negativo, anche se, contraddittoriamente, una modifica allo stesso Codice dei Contratti ha rafforzato la tutela del costo del lavoro in sede di valutazione degli affidamenti. E' ipotizzabile anche la messa in discussione di quegli esempi positivi (Comuni di Torino e di Roma, Sanità del Friuli Venezia Giulia,...) che finora rappresentavano buone pratiche verso l'applicazione delle leggi sulla cooperazione sociale. III) La confusione tra soggetti disabili, svantaggiati e "deboli" porta alla strumentalizzazione opportunistica, da parte dell'impresa privata, delle stesse "clausole sociali" volte a favorire l'inserimento lavorativo nei pubblici appalti. La compresenza, sullo stesso piano, di esperienze di inserimento lavorativo di persone disabili oppure svantaggiate "italiane", con esperienze di inserimento di svantaggiati "europei", si trasforma in un handicap per la cooperazione sociale: al posto di persone con disabilità o serie problematiche sanitarie si presentano aziende che propongono l'inserimento di categorie come giovani in cerca di prima occupazione, donne o disoccupati di lungo periodo, che si rivelano generalmente competitivi in termini di produttività. La

6 questione potrebbe essere risolta attraverso una ridefinizione allargata della disabilità (come indicherebbero le finalità ICF), anche temporanea, oppure con una più realistica limitazione temporale del carattere di svantaggio "occupazionale" europeo, oppure infine con una più significativa differenziazione degli sgravi sociali. IV) Infine, va messa in discussione la bipartizione della cooperazione sociale italiana in cooperative "di operatori sociali" e di "utenti dei servizi" stessi. Tale suddivisione, nata per ragioni di opportunità politica al momento della stesura della legge 381 del 1991 che proprio in questi giorni compie 20 anni sta rischiando di creare due settori distinti, a discapito di quello più delicato, la cooperazione di inserimento lavorativo. Una ridefinizione, che abbia al centro la tutela della funzione pubblica di tutela delle fascie svantaggiate della popolazione, e l'accrescimento del capitale sociale comunitario, è cruciale in una fase nella quale la cooperazione sociale dovrà intraprendere nuovi percorsi produttivi in un quadro globale di grandi difficoltà. Gian Luigi Bettoli

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