Sistemi produttivi locali e sviluppo economico. di Gioacchino GAROFOLI. 1. Introduzione

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1 Sistemi produttivi locali e sviluppo economico di Gioacchino GAROFOLI 1. Introduzione L obiettivo di queste pagine quello di ricostruire la cronistoria del dibattito sui sistemi produttivi locali e sull articolazione territoriale dello sviluppo. Il dibattito sui sistemi produttivi locali nasce, in gran parte, come risposta all insufficienza dei vecchi schemi interpretativi rispetto alla capacità di esplicazione dei fenomeni reali. Ciò ha reso necessario l introduzione di nuove categorie analitiche che hanno riscosso molto successo nel dibattito italiano degli anni 70 e 80 e che hanno fatto breccia nel dibattito internazionale durante gli anni 80. Nella letteratura internazionale, tuttavia, la mancanza di un adeguata conoscenza dei casi concreti, da un lato, e l insufficiente conoscenza della cronistoria della ricerca italiana, dall altro, ha spesso determinato la sovrapposizione tra diverse categorie analitiche e la confusione tra diversi fenomeni. Il dibattito italiano sull articolazione territoriale dello sviluppo e sui sistemi produttivi locali ha favorito l emergere di una nuova concezione dello sviluppo in cui il territorio diviene una variabile determinante, assumendo sempre più i connotati di ambiente economico, come l insieme delle variabili socio-economiche e istituzionali che si sono sedimentate sul territorio e che consentono l adozione di forme organizzative della produzione e l uso di tecniche produttive differenti, spesso a prescindere da differenze nei costi delle risorse utilizzate. Questa nuova concezione dello sviluppo economico, riallacciandosi e rinvigorendo alcune posizioni eterodosse della teoria dello sviluppo, hanno dato nuovo impulso anche alla ricerca sullo sviluppo economico. Il dibattito italiano ha, inoltre, sollevato la rilevanza delle forme di regolazione sociale a livello locale, anche come conseguenza del progressivo venir meno delle capacità di intervento degli strumenti tradizionalmente gestiti a livello nazionale. Da ciò discende la riflessione sulla differenziazione del processo di sviluppo (e, quindi, sulla tipologia dei modelli di sviluppo) e soprattutto sulla contrapposizione dei modelli di sviluppo endogeno (paradigmatico il caso dei distretti industriali) rispetto ai modelli (e alle politiche) di sviluppo esogeno (con la necessità di incentivare la localizzazione di imprese esterne). All interno di questa riflessione si è sviluppata l analisi delle variabili determinanti del processo di sviluppo, tornando in qualche modo, con un nuovo bagaglio critico, alle questioni essenziali dello sviluppo economico e dell industrializzazione delle aree arretrate, della scelta delle strategie e delle politiche da attuare. La ricerca condotta in Italia su questi temi è avvenuta all interno di frange eterodosse delle discipline sociali (economisti, sociologi, territorialisti, geografi) che hanno dialogato tra loro su un terreno comune di indagine. L ambiente dell Associazione Italiana di Scienze Regionali ha spesso consentito l incontro di questi studiosi ed ha facilitato la diffusione delle idee. 1

2 Il percorso seguito dalla ricerca condotta in Italia su questi temi sembra, dunque, particolarmente interessante e sembra allora utile tentare di ricostruire la cronistoria del dibattito a partire dai primi anni 70 e sottolineare, altresì, l interazione con la ricerca dei colleghi all estero. Quella qui presentata sarà una cronistoria molto stilizzata, probabilmente molto soggettiva, che non ha alcuna ambizione di passare in rassegna e di analizzare criticamente tutti i contributi presentati su questi argomenti. Essa ha solo l obiettivo di ricostruire alcuni passaggi critici intervenuti nella ricerca individuando le principali interpretazioni che si sono succedute, con la conseguente modifica del fuoco della ricerca, e le relazioni che si sono stabilite tra le varie sezioni del tema generale dell analisi dell articolazione territoriale del sistema economico e dei sistemi produttivi locali. Non mancheranno, nelle conclusioni, alcune osservazioni sulle opportunità per le strategie e le politiche di sviluppo locale alla luce non solo dell evoluzione del dibattito ma anche delle scelte introdotte in Europa e nei vari paesi nei riguardi delle opportunità di rafforzare la capacità competitiva e di innovazione dei sistemi produttivi locali. 2. L inversione di tendenza dello sviluppo regionale in Italia Gli studiosi italiani si sono trovati, già nella prima metà degli anni settanta, di fronte ad alcuni sensibili cambiamenti nell organizzazione territoriale della produzione che li hanno spinti sia ad effettuare ricerche in profondità su alcuni fenomeni alla base di quei cambiamenti (soprattutto avviando le prime ricerche sul campo per analizzare i comportamenti delle imprese e la modofica dei rapporti tra le imprese) sia a svolgere riflessioni teoriche per spiegare processi economici (cfr., soprattutto, lo sviluppo della piccola impresa) che le teorie tradizionali non erano in grado di spiegare. La crisi economica dei primi anni settanta dapprima assume un carattere prevalentemente nazionale (come conseguenza della crisi del modello di sviluppo intensivo basato sulla grande impresa). Successivamente essa si intreccia con la crisi internazionale che determinerà sia un aumento dei prezzi relativi dei prodotti energetici e delle materie prime (mettendo in difficoltà i paesi esportatori di manufatti) sia l introduzione dei cambi flessibili con l opportunità di utilizzare congiunturalmente il tasso di cambio per facilitare le esportazioni). La crisi economica di quegli anni modifica strutturalmente il modello produttivo italiano e, in seguito, la sua posizione internazionale. La crisi economica dei primi anni settanta evidenzia immediatamente la perdita di competititvità del modello di sviluppo basato sulla grande impresa attraverso la chiusura e il ridimensionamento occupazionale della grande impresa e dei grandi impianti industriali con la progressiva sostituzione di una molteplicità di piccole e piccolissime imprese messe al lavoro dalle commesse delle grandi imprese per recuperare flessibilità e margini di profitto (Garofoli, 1978; Graziani, 1975). Si stava assistendo, in altri termini, ad un processo di ricomposizione produttiva e territoriale della produzione manifatturiera, che recuperava e inseriva nel ciclo produttivo delle grandi imprese piccole unità produttive, flessibili, non sindacalizzate, che utilizzavano lavoratori marginali e senza garanzie sociali, 2

3 sempre più in luoghi distanti dalle aree urbane e che consentivano più bassi costi di riproduzione della forza lavoro (Brusco, 1975; Garofoli, 1978). Si sta, in altri termini, accennando al fenomeno del decentramento produttivo che è stato particolarmente rilevante in quegli anni in Italia e che è stato studiato da alcuni studiosi (1) delle scienze sociali appartenenti a discipline diverse ma tra loro comunicanti. Il decentramento produttivo ha consentito di reintrodurre flessibilità nel ciclo produttivo controllato dalla grande impresa e di recuperare margini di redditività attraverso l utilizzo più intenso di forza lavoro nelle piccole imprese subfornitrici (con aumento delle ore lavorate per addetto che ha garantito un aumento della produttività del lavoro per addetto anche se non per ora lavorata) e con una riduzione dei costi del lavoro per l opportunità di eludere nelle piccole imprese del decentramento sia i contratti collettivi di lavoro che il pagamento di imposte e di oneri sociali. Le ricerche sul campo effettuate dagli studiosi italiani hanno sin da subito aperto delle questioni rilevanti dal punto di vista produttivo e sociale consentendo di mettere in discussione alcuni assunti teorici precedentemente riconosciuti inattaccabili. Ciò è avvenuto perché è cambiato l oggetto di studio e di conseguenza la prospettiva analitica delle questioni studiate. Basta fare un esempio per tutti: l analisi del decentramento produttivo ha fatto emergere immediatamente l esigenza di studiare il funzionamento delle piccole imprese nel ciclo produttivo delle produzioni che andavano sul mercato attraverso la mediazione delle grandi imprese. Questo obbligava a leggere ed interpretare i modelli organizzativi della produzione e mettere a confronto le tecnologie e i modi di produzione di imprese diverse, le differenze in termini di produttività del lavoro, la produzione del valore aggiunto lungo la catena produttiva (la regional value chain si direbbe in termini più recenti parafrasando la global value chain ), le differenze in termini di qualifiche professionali, il funzionamento del mercato del lavoro e le analisi sulle agglomerazioni di imprese che pian piano si andavano individuando. Quindi a partire dall analisi della piccola impresa si aggiungevano via via altri temi nuovi: l analisi delle reti tra imprese (e la divisione del lavoro tra le imprese) e l analisi dei processi di localizzazione industriale. Le principali direttrici di ricerca sono, da un lato, le analisi sul decentramento produttivo e sulla relativa dipendenza/autonomia delle piccole imprese nel ciclo di produzione organizzato dalle commesse delle grandi imprese (Brusco; 1975; Paci et alii, 1974; Garofoli, 1978), e dall altro le analisi sull industrializzazione diffusa e leggera che stava dando luogo a forme di organizzazione territoriale della produzione basate su agglomerazioni di piccole e medie imprese (Becattini, 1975 e 1979; Bagnasco, 1977; Brusco, 1982; Fuà, 1983; Garofoli, 1981 e 1983a). Fin da subito fu evidente il ruolo dell IRPET (e di Giuliano Bianchi in particolare) e della Scuola di Firenze e non è un caso che molte iniziative e convegni su queste tematiche facessero perno su Firenze (cfr. la Conferenza AISRe nel 1983 e il Convegno su Piccola città e piccola impresa organizzato da Raimondo Innocenti, con la collaborazione di Gioacchino Garofoli, nel 1984) (Innocenti, 1985). 3

4 Già i primi risultati di queste ricerche cominciavano a far sorgere dubbi sulla capacità interpretativa dei modelli teorici tradizionali sia di quelli ottimistici che puntavano sul riequilibrio regionale sia di quelli pessimistici che vedevano nella contrapposizione centro - periferia una dialettica a senso unico. L introduzione delle Tre Italie di Bagnasco (Bagnasco, 1977) rompe con la visione dualistica di contrapposizione Nord Sud; l industrializzazione leggera in Toscana (Becattini-Irpet, 1975) rompe con la contrapposizione dualistica settori moderni settori tradizionali oltre che con la contrapposizione grandi imprese piccole imprese. Quando si aggiungono le risultanze dei lavori di Brusco (Brusco, 1975) sulla comparazione della produttività del lavoro tra grandi e piccole imprese, comincia a prendere corpo (e a fornire motivazioni analitiche) la possibilità di innescare processi di industrializzazione e di sviluppo economico con la piccola impresa. Lo sviluppo regionale assume direttrici diverse e quasi impensabili precedentemente (Becattini-Bianchi, 1982 e 1984; Garofoli, 1983b), l industrializzazione senza fratture, con logiche di continuità anziché di rottura con il passato, inizia a prendere piede (Fuà- Zacchia, 1983). Le alternative alla produzione di massa e di grande impresa e l esistenza di una pluralità di modelli di sviluppo divengono i punti cruciali di questa riflessione e il deus agitans delle riflessioni analitiche successive. Una visione diversa, aperta a diverse traiettorie evolutive e a diverse modalità di organizzazione della produzione, inizia ad emergere: tempo e spazio riassumono rilevanza nell analisi. Lo sviluppo regionale (come lo sviluppo economico) richiede tempi lunghi: la storia lunga dei luoghi, l accumulazione di conoscenze e competenze, l instaurarsi di regole e convenzioni, la condivisione di valori, l organizzazione della società e l introduzione di specifiche forme di regolazione divengono particolarmente importanti. Tutto ciò, come si vedrà più avanti, avrà particolare rilevanza nella letteratura sui distretti industriali e sullo sviluppo endogeno. 3. Il modello del distretto industriale Gli studi e le analisi sul distretto industriale rappresentano ovviamente il perno fondamentale delle ricerche e dei risultati teorici in cui sfociano le analisi discusse nel paragrafo precedente. Non è qui necessario richiamare le caratteristiche strutturali e i meccanismi di funzionamento dei distretti industriali perché la letteratura è molto ricca (cfr., soprattutto, Becattini, 1979, 1987, 2000; Becattini et alii, 2009; Brusco, 1982, 1989; Garofoli, 1981, 1983a, 2003) e differente è lo scopo di questo scritto. È sufficiente ricordare i principali temi e risultati delle analisi sui distretti industriali per individuare le novità determinanti di questo approccio e le ripercussioni critiche che generano nei confronti delle posizioni teoriche del mainstream : a) le economie esterne determinate dall agglomerazione delle imprese e dalla sedimentazione storica di conoscenze e competenze specifiche prodotte dall interazione (e dal processo di divisione del lavoro) tra le imprese e dagli investimenti privati e pubblici; 4

5 b) i bassi costi di transazione determinati dalle regole fiduciarie tra gli operatori locali oltre che dalla prossimità territoriale; c) l efficienza economica sistemica del modello produttivo che determina efficienza collettiva e che contraddice l ipotesi teorica del mainstream relativa alla relazione performance dimensione d impresa (cfr., soprattutto, Garofoli, 1991b); d) la dinamica evolutiva del modello è basata su meccanismi di apprendimento collettivo e sull introduzione di azioni collettive che rispondono a fabbisogni del sistema delle imprese che non possono essere risolti dai meccanismi di mercato; e) cambiamento e innovazione come condizioni strutturali della durabilità del modello; f) l interazione economia società territorio rappresenta un elemento fondamentale del modello che quindi presuppone l inscindibilità delle tre dimensioni. Il modello teorico del distretto industriale, in definitiva, oltre a dare spiegazione del successo del modello di industrializzazione diffusa in Italia e in altri paesi, individua elementi analitici e probatori che contraddicono la visione teorica tradizionale che implica inefficienza economica e assenza di capacità innovativa nell organizzazione produttiva basata sulla piccola impresa e rompe definitivamente la contrapposizione dualistica tra grande impresa (efficiente e innovativa) e piccola impresa (inefficiente e tradizionale). 4. Dal distretto industriale allo sviluppo locale Il modello del distretto industriale apre, come si è visto, spazi per modelli alternativi di sviluppo e questo spiega la sua centralità nei riguardi del dibattito sullo sviluppo locale che nasce nella seconda metà degli anni ottanta. Lo sviluppo locale si pone in un crocevia determinante di diverse variabili e di diversi processi decisionali che combinano tra loro, in una sintesi dialettica, apparenti elementi dicotomici. Si può infatti notare come, spesso, nel dibattito socio politico degli anni novanta siano stati contrapposti i seguenti termini: - Locale vs. globale - Cooperazione vs. competizione - Stato vs. mercato - Identità vs. apertura Può essere utile ricordare, almeno brevemente, come queste antinomie siano del tutto apparenti non solo nei distretti industriali ma anche nei casi di successo di sviluppo locale tout court perché si è determinata una sintesi dialettica tra questi presunti opposti. I distretti industriali, in particolare, hanno evidenziato come l opposizione locale globale è del tutto inesistente; le imprese dei distretti sono abituate ad utilizzare le risorse specifiche del territorio e i vantaggi competitivi dinamici resi disponibili dalle economie esterne distrettuali con la capacità di muoversi sul mercato internazionale e anche ad effettuare operazioni complesse di internazionalizzazione. Il distretto è dunque un modello 5

6 organizzativo fortemente basato sull interazione tra locale e globale e ciò rappresenta un punto di riferimento essenziale per ogni strategia di sviluppo economico locale anche in condizioni strutturali differenti da quelle del distretto industriale. Analogamente una caratteristica strutturale del distretto industriale è data dal bilanciamento tra competizione (che spinge alla continua ricerca dell efficienza economica) e cooperazione tra imprese. La cooperazione avviene non solo tra imprese complementari lungo la filiera di produzione ma anche tra imprese posizionate sulla stessa fascia di mercato qualora abbiano problemi comuni, in gran parte determinati strutturalmente dalla piccola dimensione (cfr. l accessibilità al credito, l introduzione di nuove figure e competenze professionali, l introduzione di servizi specifici, il trasferimento di tecnologia, la penetrazione di mercati lontani e difficili). La sintesi dialettica tra competizione e cooperazione può dunque estendersi, anche come guida per le azioni di intervento, ad ogni area che possa (e voglia) organizzarsi in una logica di sviluppo locale. La capacità di introdurre progetti di trasformazione del sistema locale e di rispondere alle sfide esterne dimostra ancora come lo sviluppo locale determini sintesi dialettica tra stato (specie stato locale) e forme di regolazione (eventualmente anche esclusivamente come introduzione di regole da parte di istituzioni collettive private cfr. consorzi tra imprese -), da un lato, e meccanismi di mercato, dall altro. Gli interventi delle istituzioni intermedie in risposta a fallimenti del mercato mostrano con grande chiarezza come le azioni collettive (spesso con un ruolo determinante dello stato locale) consentano di produrre le condizioni operative del mercato (in altri termini che il mercato, in conseguenza di questi interventi, possa funzionare), introducendo quei servizi e quelle competenze professionali che l insufficienza del mercato non potrebbe garantire (cfr. le numerose esperienze dei centri servizi e dei centri tecnologici). Infine la questione della sintesi necessaria tra identità ed apertura. Non è possibile avere una visione chiara delle prospettive future di una comunità locale senza aver fortemente evidenziato le specificità e i fabbisogni locali e quindi l identità del sistema locale. Senza identità non vi è alcuna possibilità di costruire piani di sviluppo come risposta a problemi comuni alle imprese. Senza identità della comunità locale non c è dunque percezione dei problemi e delle opportunità di soluzione; sarebbe inutile decretare dall esterno (cfr. alcune leggi regionali sui distretti industriali) l appartenenza ad un particolare modello di sviluppo per godere di eventuali provvidenze legislative e finanziarie se non è diffusa le percezione dell identità locale e dei problemi e, quindi, degli obiettivi strategici (e delle azioni per la loro soluzione) che siano condivisi da parte della comunità locale. Certamente l identità sarebbe insufficiente senza l apertura e l attenzione al mondo esterno (ai cambiamenti in atto nei mercati, nelle tecnologie, nel posizionamento delle imprese e delle aree concorrenti); senza questo orientamento e senza le informazioni cruciali di questo tipo altrimenti si cadrebbe esclusivamente nel campanilismo e nel provincialismo. La sintesi dialettica tra le apparenti dicotomie mostra non solo le opportunità di reazione dei distretti industriali e delle aree che manifestano capacità di avviare processi di sviluppo locale ma anche la complessità e i meccanismi interattivi tipici dello sviluppo locale. 6

7 Proviamo ora ad identificare le condizioni territoriali per lo sviluppo, vale a dire identificare quali sono i fattori cruciali che consentono che un processo di sviluppo sia radicato sul territorio anziché essere il risultato esclusivo di processi decisionali esterni che utilizzano il territorio come un vaso da riempire e in cui, quindi, la comunità locale gioca un ruolo esclusivamente passivo nei riguardi dei processi economici fondamentali. Il riquadro presentato riassume sinteticamente queste condizioni necessarie per uno sviluppo territorializzato (Garofoli, 2001): CONDIZIONI TERRITORIALI PER LO SVILUPPO ECONOMICO A) ESISTENZA DI RISORSE SPECIFICHE NON TRASFERIBILI AD ALTRI TERRITORI B) ESISTENZA DI UNA LOGICA DI SISTEMA C) ESISTENZA DI CAPACITÀ PROGETTUALE (e, quindi, CAPACITA DI RISPONDERE ALLE SFIDE ESTERNE) Da diversi anni l attenzione degli economisti, e degli scienziati sociali in genere, è stata attratta dall analisi delle relazioni tra organizzazione della produzione e territorio, cercando di individuare le variabili strategiche nei processi decisionali dell impresa e il ruolo del territorio tra le condizioni essenziali nella scelta della modalità organizzativa della produzione, specie nelle scelte tra produzione interna e outsourcing, tra crescita interna e crescita esterna. Ciò ha accresciuto l attenzione alle reti tra imprese e ai network (spesso localizzati sul territorio) così come al ruolo, tra le condizioni competitive dell impresa, delle competenze localizzate (e, quindi, le condizioni competitive del sistema locale). In questo senso può divenire utile l introduzione del concetto di sistema produttivo locale che, in qualche modo, era già stato evocato dalla presentazione delle condizioni territoriali per lo sviluppo economico. Il concetto di "sistema produttivo locale" è stato inizialmente introdotto (Garofoli, 1983a) (2) per evidenziare sia la stretta interrelazione tra dinamiche produttive e industriali, da un lato, sia le dinamiche tra sistema produttivo e sistema socio-istituzionale, dall'altro, per i casi di agglomerazione produttiva basati su piccole imprese, e quindi come sinonimo del 7

8 sistema di piccole imprese (e del distretto industriale, in particolare). Ciò serviva a sottolineare l'emergere di una identità socio-economica locale, l'esistenza di interessi comuni a livello delle imprese e della collettività locale, l'identificazione di problemi comuni che rendevano opportuna l'introduzione di specifiche forme di regolazione sociale a livello locale. L'attenzione sul tema delle interrelazioni tra sistema produttivo e sistema socioistituzionale (e sulle forme di regolazione sociale introdotte a livello locale e quindi l'attenzione alle reti di relazione e ai rapporti di reciprocità) è fortemente sottolineata dal dibattito nella letteratura francese sui "sistemi produttivi localizzati" ("systèmes productifs localisés") (e sui sistemi produttivi territoriali). Nonostante la lieve modificazione terminologica, non sono state introdotte sostanziali differenze rispetto al concetto di "sistema produttivo locale" da cui è tratto, anche se il successo e l'estensione nel suo uso è stato nettamente superiore in Francia e nei paesi di lingua francese (cfr., ad esempio, Courlet-Judet, 1986; Courlet, 1987; Courlet-Pecqueur, 1992; Ganne, 1992; Maillat et alii, 2003; Maillat, 2007), non solo nelle analisi degli studiosi ma anche nelle politiche di sviluppo (cfr. le strategie a favore dei sistemi produttivi localizzati nelle azioni del Datar/Diact). È possibile estendere l'uso del concetto di sistema produttivo localizzato ad ogni modello organizzativo della produzione basato sulla presenza di economie esterne e di risorse specifiche che non sono riproducibili in altre aree (Colletis-Pecqueur, 1995) e di conoscenze tacite (Becattini-Rullani, 1993) non trasferibili all esterno e sull'introduzione di specifiche forme di regolazione che identificano e salvaguardano l'originalità del percorso di sviluppo. Si può allora essere in grado di considerare tutti i processi di sviluppo locale in cui il territorio gioca un ruolo attivo e in cui il sistema produttivo locale gode di una forte identità e di specifiche caratteristiche che si ritiene opportuno, nell'interesse della collettività locale, difendere e riprodurre. Allora è possibile considerare, oltre ai distretti industriali, sistemi organizzativi che possono essere basati sia sulla grande impresa (talvolta anche grande impresa esterna purché interessata alla creazione e sviluppo di interrelazioni con l'ambiente locale) (cfr. i casi dei poli tecnologici di Grenoble e Toulouse ma anche casi meno famosi e meno virtuosi) (cfr. Garofoli, Gilly, Vazquez Barquero, 1997) sia su modelli organizzativi che non determinano una elevata divisione sociale del lavoro tra le imprese locali, includendo processi di industrializzazione basati su meccanismi di riproduzione sociale (piuttosto che tecnico-economici), con la riproduzione di nuova imprenditoria attraverso meccanismi imitativi e di "spin-off" (Garofoli, 2002, 2003). Questo tipo di approccio ci avvicina, allora, notevolmente all'analisi delle condizioni e dei vincoli dello sviluppo legati alla scarsa presenza del fattore organizzativo-imprenditoriale (cfr. i contributi teorici di Hirschman a partire dal suo lavoro seminale (Hirschman 1958) - e le riflessioni della scuola di Ancona cfr. Fuà, 1977, 1980, 1983); non sembra più un caso, allora, che i processi di sviluppo avvengano lungo percorsi e traiettorie che utilizzano l'addensamento e la socializzazione delle conoscenze, attraverso progressivi meccanismi di connessione a monte e a valle. Le interdipendenze produttive sono, dunque, una caratteristica strutturale non solo dei distretti industriali ma anche dei sistemi produttivi locali. Ciò consente di utilizzare il 8

9 concetto di "sistema produttivo locale" nella definizione più estensiva di modello organizzativo della produzione a forte base territoriale, con forti interrelazioni tra il sistema produttivo e il sistema socio-istituzionale locale, con le connesse implicazioni in termini di economie esterne, conseguenti sia al fitto interscambio di merci e informazioni nell'ambito del sistema produttivo che della continua produzione e riproduzione di conoscenze specifiche, di professionalità e di forme di regolazione locale che caratterizzano il territorio e che non sono facilmente esportabili altrove (Garofoli, 2002). In altri termini il concetto di "sistema produttivo locale" qui utilizzato combina le caratteristiche di un modello produttivo, di un modello spaziale e di un modello sociale: le tre dimensioni (economica, territoriale e sociale) non sono scindibili per lo stretto intrecciarsi delle variabili e per la loro mutua interdipendenza. Questo concetto, come si vedrà più avanti, sarà di particolare aiuto nel discutere la questione delle politiche di sviluppo locale. 5. Sistemi produttivi locali e sviluppo economico: la scuola dello sviluppo endogeno Il dibattito sullo sviluppo locale si arricchisce negli anni successivi sulla base di due approfondimenti analitici: il primo portava l attenzione alla differenziazione dei modelli locali di sviluppo e l altro cercava di individuare alcuni elementi comuni ai diversi modelli locali da far confluire in una famiglia più generale e che ponesse le basi per un approccio di tipo (anche) normativo. Il concetto di sistema produttivo locale richiama alcune riflessioni teoriche sulla coerenza, sull autonomia e sulla stabilità di un sistema produttivo (Destanne de Bernis, 1983) e che riporta l attenzione ad alcuni grandi temi dello sviluppo economico. Un sistema produttivo locale richiama, infatti, l attenzione a temi relativi al modello produttivo (l integrazione produttiva tra settori e tra imprese e, quindi, ai rapporti tra le imprese), al modello di distribuzione del reddito e di creazione di domanda (la coerenza tra produzione distribuzione domanda aggregata), al modello di accumulazione e alla traiettoria tecnologica. Non è un caso che a partire dal dibattito sui distretti industriali, sullo sviluppo locale e sui sistemi produttivi locali prende spunto la scuola dello sviluppo endogeno (Courlet, 2001 e 2008; Garofoli, 1991a, 1992, 2003, 2006; Maillat et alii, 2003; Vazquez Barquero, 2002) che presenta una forte attenzione ai fenomeni concreti di organizzazione produttiva e di trasformazione strutturale oltre che alla sua articolazione territoriale. Lo sviluppo endogeno rappresenta una generalizzazione analitica che utilizza il contributo della letteratura sui distretti industriali (e sullo sviluppo locale) e che recupera le riflessioni critiche della teoria della dipendenza (cfr. Garofoli, 2006) che erano tuttavia restate confinate in una dimensione pessimistica e che non trovavano opportunità di soluzione nel campo delle strategie e delle politiche economiche (delle politiche di sviluppo economico, in particolare). Sembra, dunque, utile analizzare i caratteri prevalenti dello sviluppo endogeno. Un modello di sviluppo endogeno garantisce autonomia al processo di trasformazione del sistema economico, sottolineando la centralità dei processi decisionali degli attori sociali 9

10 (locali e nazionali) e la loro capacità di controllare ed internalizzare conoscenze ed informazioni esterne, assumendo generalmente caratteri di sviluppo autosostenentesi e duratoro. Il processo di trasformazione si basa, dunque, su alcune specificità delle risorse utilizzate e sulla capacità di governo di alcune variabili fondamentali. Un modello di sviluppo endogeno è, infatti, basato sulla produzione di "social capability" a livello della comunità di imprese e di istituzioni (che operano nell'ambito locale e nazionale), attraverso la progressiva costruzione delle seguenti caratteristiche e capacità (Garofoli, 1991a e 1992): a. utilizzazione, valorizzazione e implementazione delle risorse interne (lavoro, capitale storicamente accumulato, capacità imprenditoriale-organizzativa, conoscenze specifiche sui processi di produzione, professionalità specifiche, risorse materiali); b. capacità di controllo del processo di accumulazione; c. controllo della capacità di innovazione; d. esistenza di (e capacità di sviluppare le) interdipendenze produttive, sia di tipo intrasettoriale che intersettoriale. Sviluppo endogeno non è tuttavia sinonimo di "chiusura all'esterno", come talvolta agli inizi del dibattito qualche commentatore rischiava di intendere; esso implica infatti il progressivo rapportarsi con l'esterno, sia con i mercati esterni sia con la produzione di conoscenze e tecnologia che sono prevalentemente prodotte all'esterno del sistema (locale e nazionale). Sviluppo endogeno, infatti, significa (Garofoli, 1991a e 1992): a. capacità di trasformazione del sistema economico-sociale; b. capacità di reazione alle sfide esterne; c. capacità di introdurre forme specifiche di regolazione sociale che favoriscano i punti già elencati. Sviluppo endogeno è, in altre parole, capacità di innovazione (e produzione di "intelligenza collettiva") (a livello locale e nazionale). Si può, dunque, sintetizzare sottolineando il ruolo dei fattori ambientali (del contesto socioeconomico), territoriali ed istituzionali nel processo di internalizzazione di conoscenze e di sviluppo della capacità di relazionare il locale e il globale nei modelli di sviluppo endogeno. Questa interazione locale globale sottolinea il ruolo della dimensione mesoeconomica per il coordinamento delle azioni e dei processi decisionali di attori molteplici e, quindi, il ruolo attivo del territorio e degli attori sociali locali nella governance del processo (Scott-Garofoli, 2007a). Lo sviluppo endogeno, dunque, fa perno su tre dimensioni organizzative del sistema economico e sociale: a) il processo produttivo (e i suoi meccanismi di funzionamento); b) la regolazione del circuito produzione realizzazione; c) la governance del processo di cambiamento (e la coerenza tra i livelli di governo. 10

11 Il processo di sviluppo endogeno può dunque durare nel tempo (da cui sostenibilità sociale e temporale del sistema produttivo) solo in una prospettiva di continuo cambiamento che è consentito dall accumulazione crescente (con investimenti per l aumento della produttività del lavoro e per l introduzione di innovazione). L orientamento continuo all innovazione (da parte delle imprese e del sistema nel suo complesso) non significa che ogni paese ed ogni area debbano spostare la frontiera tecnologica; è sufficiente che ciascun paese (o area) segua una traiettoria evolutiva (anche attraverso l adozione e la metabolizzazione e quindi l internalizzazione - di conoscenza esterne) che consenta l aumento di efficienza economica e l introduzione di nuovi prodotti e di beni pubblici che aumentano la qualità della vita. Ciò ricorda, quindi, la rilevanza del rispetto della coerenza tra aumento dell efficienza e della produzione con la questione dell aumento della domanda aggregata (e, quindi, la soluzione del problema della realizzazione del ciclo produzione consumo). È ora chiaro che i due concetti di sistema produttivo locale e di sviluppo endogeno presentano forti interconnessioni e sovrapposizioni: si può addirittura affermare che il sistema produttivo locale rappresenta la dimensione territoriale della piena realizzazione del processo di sviluppo endogeno. 6. Modelli locali di sviluppo: le tipologie L altra riflessione analitica, che si è sviluppata a partire dalla anni ottanta, ha posto l attenzione sulla differenziazione dei modelli locali di sviluppo, studiando sia le variabili determinanti per la discriminazione dei modelli locali sia la costruzione di una tipologia (cfr. Garofoli, 1983a e 1991a; Storper e Harrison, 1991; Leborgne e Lipietz, 1992; Markusen, 1996). Ciò che qui interessa ricordare è il ruolo cruciale dell approccio alla differenziazione dello sviluppo locale sui seguenti temi: meccanismi di funzionamento del sistema produttivo, integrazione produttiva e rapporti tra le imprese, valorizzazione delle risorse locali, sviluppo dal basso, ruolo degli attori locali, strategie di sviluppo locale. Vale a dire un analisi delle differenti condizioni dello sviluppo permette di affrontare consapevolmente la questione delle traiettorie evolutive dello sviluppo locale e della scelta delle azioni strategiche da introdurre nelle varie aree. La molteplicità dei sentieri di sviluppo favorisce un approccio pragmatico e, in un certo senso, più ottimistico alle questioni dello sviluppo specie nelle aree deboli. L attenzione degli studiosi viene infatti posta sulle condizioni alla base del processo di sviluppo locale e quindi sulle opportunità da cogliere e sulle risorse da valorizzare. L analisi si orienta, dunque, sulla potenzialità di sviluppo e sulle opportunità di avviare progetti specifici e iniziative di sviluppo da parte del sistema produttivo e della comunità locale. Un approccio di questo tipo evidenzia in tutta la sua rilevanza la questione della responsabilità degli attori locali nel perseguimento di un processo di sviluppo e toglie quindi ambiguità (e deresponsabilizzazione) nei casi di relativo insuccesso. I progetti di sviluppo locale non possono, infatti, evitare di affrontare le questioni nella loro diretta rilevanza, rispondendo a 11

12 bisogni specifici della comunità di imprese e di persone (Becattini, 1989) che insistono sul territorio, togliendo alibi ad insuccessi che altrimenti sarebbero stati addebitati a fattori esogeni o a impedimenti di carattere strutturale. L obiettivo degli studiosi che hanno affrontato la questione della tipologia di modelli di sviluppo non è stato la costruzione di una esaustiva elencazione di tutti i possibili modelli di sviluppo quanto, piuttosto, di sottolineare la presenza di diversi percorsi di sviluppo e di mostrare le possibili biforcazioni nel processo di trasformazione e il ruolo dei diversi attori (pubblici e privati) nell assecondare i processi di cambiamento. La costruzione di una tipologia offre linee guida ai policy maker (specie quelli locali r regionali) che si trovano, pertanto, di fronte a specifici casi di benchmark e a traiettorie evolutive di riferimento per le aree concrete sulle quali devono operare. La costruzione di una tipologia, quindi, richiede un approccio che presenta obiettivi teorici relativamente modesti ma grande enfasi sul potenziale impatto di queste costruzioni sul processo decisionale nei riguardi delle strategie, delle politiche e degli strumenti da utilizzare per il sostegno dello sviluppo locale. Anche in questo tipo di letteratura gli studiosi italiani hanno anticipato il dibattito internazionale. La prima tipologia è stata introdotta nel 1983 sebbene fosse destinata soltanto ad individuare tratti strutturali distintivi nell ambito dei distretti industriali e dei sistemi di piccola impresa (Garofoli, 1983a). Successivamente, nell ambito del progetto di ricerca finalizzato CNR coordinato da Giorgio Fuà, è stato prodotto un lavoro che poneva attenzione ai diversi modelli di organizzazione produttiva esistenti in Italia (con ben nove tipologie di aree) e che, dopo alcuni paper presentati in diversi seminari in Italia e all estero, ha dato luogo al volume Modelli locali di sviluppo (Garofoli, 1991a). Tre importanti contributi sono stati successivamente pubblicati: Storper Harrison (1991), Leborgne Lipietz (1992) e Markusen (1996). Discuterò, innanzitutto, il contributo di Danielle Leborgne e Alain Lipietz per la continuità con quanto precedentemente ricordato. Leborgne - Lipietz (1992) presentano una tipologia con tre modelli di sviluppo, con una trasposizione generale della tipologia di Garofoli (1983a, 1986), utilizzando prevalentemente il breve articolo apparso sulla rivista Economie et Humanisme, estendendo la tipologia predisposta per i sistemi di piccola impresa alle agglomerazioni di imprese e ai sistemi territoriali più diversificati, con riferimento anche a paesi di nuova industrializzazione. L area di specializzazione produttiva è, pertanto definita da Leborgne-Lipietz (1992) come un agglomerazione di sub-fornitori attorno ad imprese principali o di imprese specializzate in zone a bassi salari (con riferimento soprattutto ai casi dell Est e del Sud-Est asiatico già studiati da Allen Scott (Scott, 1987 e 1988). Questa tipologia caratterizza, dunque, aree monosettoriali, orientate all esportazione grazie ad una competitività da costi - e che presentano deboli legami tra le imprese. Il sistema produttivo locale presenta, invece, una organizzazione produttiva di quasiintegrazione verticale, nonostante caratterizzi aree prevalentemente monosettoriali, ove tuttavia è importante soprattutto rispetto al primo modello - la produzione di competenze professionali. L esperienza asiatica, secondo gli Autori che citano nuovamente il lavoro di 12

13 A. Scott (Scott, 1987), dimostrerebbe che l intervento pubblico può favorire la trasformazione delle aree di specializzazione produttiva in sistemi produttivi locali. L area-sistema, infine, rappresenta una rete integrata territoriale tra imprese che permettono una produzione diversificata e multisettoriale. Questa rete è determinata da una combinazione di imprese fornitrici specializzate e da imprese committenti. Siamo, dunque, di fronte ad aree molto più strutturate che presentano spesso anche estese forme di partenariato tra imprese, sindacati, università e amministrazioni pubbliche locali, così da guidare il processo di trasformazione dell economia e della società locale. Si può, in questo caso, parlare di un alleanza strategica territoriale che dà luogo ad un blocco egemonico territoriale novateur. L attenzione anche di Leborgne-Lipietz è dunque alla capacità strategica degli attori locali di rispondere alle sfide esterne e per questo i due Autori discutono le opportunità di lanciare strategie a livello del sistema locale che suddividono tra strategie difensive e strategie offensive. Storper-Harrison (1991), nel loro lavoro, puntano l attenzione alle relazioni tra imprese e settori all interno di sistemi territoriali che suddividono tra una sezione core e una sezione ring, tra imprese che assumono una forte centralità e un consistente potere di mercato ed imprese - in genere piccole che operano invece in forme di mercato di tipo concorrenziale (compresa ovviamente anche la concorrenza monopolistica). La classificazione delle diverse tipologie è fortemente ma non esclusivamente fondato su relazioni di scambio input-output tra le diverse imprese. Possiamo discutere ora, brevemente, la tipologia proposta da Storper-Harrison (1991). La prima tipologia è definita All Ring, No Core ed è organizzata sulla presenza di una rete agglomerata di imprese (relativamente periferiche, senza cioè grande capacità di autonomia rispetto al mercato finale e alle scelte tecnologiche) e che può assumere due sotto-tipologie: a1) un network agglomerato di imprese, prevalentemente di piccola dimensione; a2) un network agglomerato di imprese, con alcuni grandi stabilimenti produttivi. La seconda tipologia è definita Core Ring, with Coordinating Firm. Le imprese sono prevalentemente medio-piccole ma grazie alla presenza di alcune imprese che giocano un ruolo di coordinamento riescono ad avere una adeguata autonomia che porta a combinare e bilanciare le due caratteristiche di core e ring. La terza tipologia è definita Core-Ring, with Lead Firm : Vi sono, dunque siano piccole e medie imprese ma anche grandi imprese (interne o esterne al sistema locale) che assumono un ruolo di leader e di controllo dell organizzazione produttiva. Questo modello può assumere, secondo gli Autori, tre diverse sotto-tipologie: c1) un network agglomerato di imprese; c2) un network disperso di imprese, prevalentemente di piccola dimensione; c3) un network disperso di imprese, con alcuni stabilimenti produttivi di grande dimensione. La quarta tipologia proposta dagli Autori è definita All Core, No Ring, con una organizzazione produttiva basata su imprese verticalmente integrate, tipiche dell industria di processo ( process industry ) e che non necessita, dunque, di piccole e medie imprese relativamente periferiche nella gestione organizzativa del sistema produttivo.. 13

14 Per quanto riguarda, infine, l ultimo rilevante contributo sulla tipologia dei modelli di sviluppo, Ann Markusen (1996) ha concentrato l attenzione sugli sticky places con quattro tipologie (Industrial districts, Hub and Spoke district, Satellite platform district, State-anchored district). Saranno ora brevemente presentati e discussi i quattro modelli di organizzazione della produzione di A. Markusen con le principali caratteristiche strutturali: a) Industrial district di tipo marshalliano o all italiana ripropone il modello classico del distretto industriale; b) Hub and Spoke district rappresenta il caso di aree dominate dalla presenza di una o poche imprese di grande dimensione, spesso prevalentemente con processi produttivi verticalmente integrati, con una elevata presenza di piccole imprese fornitrici e con poco potere contrattuale. Anche sulla base dei riferimenti pratici effettuati dalla Markusen (Detroit, Toyota City, Seattle) sembra che questa tipologia non si discosti dal modello del polo di sviluppo di François Perroux (Perroux, 1955, 1961); c) Satellite platform district rappresenta le aree con una agglomerazione di impianti produttivi che fanno capo ad imprese esterne e che svolgono funzioni di routine ed effettuano lavorazioni standard. Nelle piattaforme produttive dei satelliti industriali la struttura economica è dominata dalle imprese esterne che assumono le decisioni cruciali per gli investimenti; d) State-anchored district rappresenta, infine, le aree basate sul ruolo cruciale di una grande organizzazione pubblica o non-profit (una base militare, una università, una grande prigione, una concentrazione di uffici amministrativi) attorno alla quale si organizza la struttura economica della città e del territorio circostante, con le facilities e i servizi connessi a quella struttura e ai suoi dipendenti. Un area dunque in cui le trasformazioni e le relazioni economiche rispondono più a decisioni dei policy makers che a logiche di mercato. Nonostante il successo e le numerose citazioni ottenute da questo saggio, credo sia necessario effettuare alcune osservazioni critiche sia per la rilevante ambiguità legata all utilizzo, per tutte le tipologie introdotte, del termine di distretto industriale sia per lo scarso utilizzo che si può fare di questa tipologia dal punto di vista delle strategie e delle politiche di sviluppo locale. Innanzitutto, il concetto di distretto industriale non ha nessuna relazione logica con tre delle tipologie proposte e quindi è oltremodo fuorviante e può spiegarsi solo per la volontà di utilizzare la spinta di un certo tipo di letteratura che oramai, dopo diversi anni di ricerche e pubblicazioni, era riuscita a sfondare a livello internazionale almeno tra gli studiosi dello sviluppo locale e regionale. La tipologia della Markusen mostra, inoltre, alcune evidenti difficoltà per l analisi dei modelli di sviluppo locale anche perché tre di quelle tipologie non manifestano alcune capacità di autosostentamento cioè di sviluppo sostenibile e duraturo, rientrando piuttosto in logiche di relativa dipendenza rispetto a centri decisionali esterni o, comunque, non condizionabili dalle scelte degli attori locali, non rientranti quindi in una logica di governance dello sviluppo di fronte a una complessità di processi e di attori. Anche il secondo modello, pur in presenza di una o più grandi imprese locali non può certamente 14

15 essere governato dal coordinamento di attori locali ma piuttosto da una negoziazione tra la grande impresa e lo Stato nazionale. Dal punto di vista operativo e della scelta di strategie e di sviluppo territoriale, tre delle tipologie della Markusen non hanno alcuna rilevanza pratica. La tipologia della Markusen, dunque, può essere utilizzata come schema per interpretare casi concreti piuttosto che per guidare il processo di trasformazione dei sistemi territoriali con un ruolo cruciale degli attori locali; può mostrare, in definitiva, in quali circostanze le difficoltà per innescare processi di sviluppo endogeno diventano praticamente insormontabili. Alla fine degli anni 90 e nell ultimo decennio si è registrato lo sviluppo di una rilevante letteratura sui cluster di piccole e medie imprese (PMI), specie con ricerche condotte nelle regioni e nei paesi di recente industrializzazione (3) (4). Si può provare a sintetizzare questa discussione sulle tipologie con la proposta di una ripartizione dei principali modelli di sviluppo locale (5) in tre tipologie che riprendono soprattutto i contributi di Garofoli (1983a), anche se nell ottica più generale del sistema produttivo locale come qui definito, e di Leborgne-Lipietz (1992): a) Cluster di PMI specializzate, con una competizione basata su vantaggi competitivi statici (in ultima istanza bassi salari e dumping sociale e con il rischio di essere costrette nella cosiddetta via bassa allo sviluppo ( low road to development riprendendo la felice locuzione introdotta da Pyke e Sengerberger) (Pyke, Sengerberger, 1992); b) Distretti industriali e sistemi produttivi locali con una competizione basata sull organizzazione del mercato del lavoro (conoscenze, competenze professionali specifiche, ) e su un organizzazione produttiva con network di imprese interattive e sufficientemente autonome (relazioni di collaborazione tra le imprese, specializzazione produttiva a livello di impresa e divisione del lavoro); c) Aree-sistema e poli tecnologici, con una competizione basata sulla continua produzione di vantaggi competitivi dinamici, grazie alla continua introduzione di risorse specifiche e di nuove competenze, perseguendo la cosiddetta via alta allo sviluppo ( high road to development ) (Pyke, Sengerberger, 1992): queste aree sono fortemente orientate all innovazione e spesso si posizionano sulla frontiera tecnologica. 7. Politiche e strategie di sviluppo economico locale La riflessione sinora condotta dovrebbe facilitare il passaggio dalle tipologie alla capacità di individuazione degli obiettivi e delle strategie per le politiche di sviluppo locale. 15

16 Innanzitutto sembra necessario partire dalla rilevanza della densità di imprese e dei processi di integrazione economica territoriale perché facilitano l individuazione di problemi comuni affrontabili con adeguata massa critica a livello territoriale e consentono di percepire la logica di sistema. La sostenibilità di lungo periodo e la durabilità dei sistemi produttivi locali è, soprattutto, basata sulla continua produzione e riproduzione di saperi e competenze professionali e di capacità organizzative imprenditoriali, che è facilitata dalle interconnessioni produttive tra imprese complementari. La produzione di risorse specifiche e distinguibili facilita il perseguimento di produzione innovativa e di qualità e non obbliga ad una competizione sui costi che spesso significa competizione sui salari (prospettiva assolutamente non perseguibile nei paesi avanzati ma rischiosa anche nei paesi in via di industrializzazione). L ultima considerazione sottolinea la centralità dell efficace interazione tra sistema produttivo e sistema educativo e della ricerca. Non è un caso che è proprio sulle relazioni scuola lavoro e ricerca industria (ma si potrebbe aggiungere anche le relazioni impresa internazionalizzazione) che si riscontrano abitualmente i cosiddetti fallimenti del mercato. Queste tematiche, tuttavia, non sono affrontabili alla scala nazionale e richiedono una governance territoriale; questi temi, in altri termini, sottolineano il ruolo cruciale della dimensione mesoeconomica e del coordinamento territoriale (Scott, Garofoli, 2007a; Courlet, 2008). In definitiva stiamo entrando in una logica di costruzione sociale del cambiamento e dello sviluppo piuttosto che in una visione deterministica - strutturalista. Non esistono aree destinate al sottosviluppo come non esistono aree destinate a rimanere ricche ed evolute per sempre. È lo sviluppo che produce risorse e non risorse precostituite e predeterminate che consentono lo sviluppo economico (Courlet, 2008; Courlet, Garofoli, 2008). La volontà e i valori della comunità locale possono costruire le capabilities per gestire il cambiamento. Queste capabilities si producono con la formazione ma soprattutto con la sperimentazione e con l apprendimento collettivo nei progetti di sviluppo locale. Sono le capabilities che consentono di interpretare coerentemente il posizionamento dei sistemi locali e le sfide da affrontare e le opportunità da cogliere. Le capabilities e la mobilitazione degli attori verso una ristrutturazione continua attraverso la produzione di conoscenze e competenze, che rappresentano veri e propri beni pubblici, garantiscono la costruzione di vantaggi competitivi dinamici. È, dunque, necessario avere una visione prospettica e di medio-lungo periodo ed apprendere a sviluppare progettualità, nella continua soluzione dei problemi comuni più rilevanti e identificati come realizzabili perché adeguati al livello delle capacità esistenti e costruibili e rafforzabili nel processo di sviluppo. Lo sviluppo economico rappresenta, infatti, un processo e un dispiegarsi di decisioni, investimenti ed interventi coerenti e coordinati nel tempo attraverso integrazione e consequenzialità di azioni che permettono un progressivo aumento di capabilities e, quindi, della produttività del lavoro. L ultima considerazione per le strategie e le politiche di sviluppo locale riguardano la necessità di organizzare una coerente e integrata filiera istituzionale in una prospettiva di sussidiarietà, in cui i livelli di governo superiore accompagnano (integrando le competenze 16

17 e le capabilities locali) i progetti di sviluppo locale. Ciò rende necessario la continua negoziazione tra i livelli di governo che è condizione fondamentale per garantire la collaborazione tra i vari livelli di governo. Non si deve dimenticare, tuttavia, che i progetti di sviluppo devono nascere dal basso, con il coinvolgimento e la gestione degli attori locali. I modelli di sviluppo locale devono, dunque, essere guida per la progettualità e non obiettivi per sé. I modelli sono riferimenti logici per l interpretazione del posizionamento strategico dei territori e per individuare traiettorie evolutive possibili, non gabbie per conservare il modello in una logica di riproduzione statica, con modalità conservatrici e difensive, spesso antistoriche e non sostenibili. Per terminare, mi sembra opportuno riprendere i tre temi cruciali per la governance dello sviluppo locale nei sistemi produttivi locali e che abbiamo visto non essere affrontabili dalle relazioni di mercato e che devono essere gestiti alla dimensione mesoeconomica territoriale; i tre temi riguardano le seguenti relazioni: - scuola lavoro; - ricerca industria; - impresa - internazionalizzazione I sistemi produttivi locali, specie quando fortemente basati sulla presenza di piccole imprese (PMI), soffrono strutturalmente di difficoltà di accesso a risorse pregiate e strategiche, qualora non siano presenti istituzioni intermedie o non si introducano azioni collettive che possano rispondere alle difficoltà di trovare soluzioni adatte ai problemi delle imprese da parte di coerenti strutture di offerta. Gli interventi di sostegno alle aree di piccola impresa sono, dunque, prevalentemente capacità di iniziativa dal basso che permetta l interconnessione tra imprese e tra organizzazioni (pubbliche e private) per risolvere problemi comuni e questioni che non sono affrontabili alla scala della PMI. Non è un caso che questi temi rappresentino argomenti sui quali non solo i fallimenti del mercato ma anche i fallimenti dello stato trovano esempi numerosi e clamorosi. È possibile, infatti, parlare dell esistenza di diversi ostacoli all innovazione, di ostacoli all internazionalizzazione delle imprese, oltre che di ostacoli in termini di formazione e reclutamento di nuove figure professionali strategiche per imprese che vogliano introdurre strategie alte di competizione. Questi problemi sono affrontabili dal basso con il coinvolgimento diretto delle imprese (e delle loro organizzazioni) in una interazione con le organizzazioni che si occupano di formazione, ricerca e accompagnamento ai progetti di internazionalizzazione. Le risposte possono dunque avvenire con l avvio di progetti imprenditoriali collettivi, a partire dall identificazioni di problemi comuni a più imprese. Diversi sono gli esempi di successo che si possono individuare e questi devono essere di esempio per diffondere la consapevolezza sulla opportunità di perseguire dal basso iniziative analoghe, attraverso la cosiddetta diffusione delle buone pratiche. 17

18 Il processo di innovazione è fortemente radicato sul territorio: innovazione e territorio si intrecciano in modo indissolubile non solo come è chiarito in buona parte della letteratura economica (a partire dai contributi pioneristici di François Perroux) ma come è stato ben compreso nelle politiche per l innovazione, non solo nei paesi e nelle regioni del Nord Europa (Garofoli, Musyck, 2003) ma anche in Francia che in Spagna. Nel primo caso sono stati avviate politiche di sostegno dei pôles de compétitivité incentivando le relazioni tra imprese orientate all innovazione e i centri di ricerca attraverso il lancio di bandi pubblici promossi dallo Stato nazionale (Courlet, 2008; Pecqueur, 2007; Scandella, 2008). Nel secondo caso è stata introdotta una nuova politica industriale che fa perno sul sostegno all interazione tra grandi imprese, piccole imprese innovative e mondo della ricerca nelle agglomerazioni di impresa esistenti nel paese a prescindere dal modello di organizzazione della produzione (e che, quindi, coinvolge tutte le tipologie: poli di sviluppo à la Perroux, distretti industriali, cluster à la Porter) perché luoghi che producono saperi e competenze radicate e, quindi, economie esterne (Trullen, 2007). Anche il processo di internazionalizzazione richiede una crescita culturale e un lavoro di équipe (con competenze e sensibilità complementari) all interno dei sistemi produttivi locali. È ovvio pensare come lo studio di mercati di sbocco alternativi, soprattutto in paesi lontani (che richiede anche l introduzione di nuovi saperi e di mediatori culturali ), e successivamente l ingresso su mercati emergenti e l organizzazione di un efficace presidio di quei mercati non siano operazioni facilmente affrontabili alla scala della singola impresa, specie quando di piccola e media dimensione. Sembrerebbe, dunque, più efficace organizzare strategie di internazionalizzazione alla scala del sistema produttivo locale, iniziando dall attenzione a questi nuovi temi, dall animazione e mobilitazione di saperi e competenze complementari per giungere alla ideazione di progetti specifici che coinvolgano più imprese, accompagnando il progetto imprenditoriale da parte delle organizzazioni e istituzioni locali (a cominciare dalle Università) e poi via via da quelle a livello regionale e nazionale piuttosto che organizzare politiche che partano dall alto. Quanto appena detto, consente di concludere con alcune idee e proposte di linee di intervento per la competitività e l innovazione dei sistemi locali (6). La governance dello sviluppo locale passa prevalentemente dalla soluzione dei problemi nelle tre aree che sono state discusse (formazione, innovazione, internazionalizzazione) e dalla capacità di creare interazione tra mondi diversi. Ciò può essere favorito e promosso esclusivamente attraverso il lancio di progetti pilota che permettano non solo cooperazione interistituzionale e apprendimento collettivo ma anche formazione di nuove competenze organizzative. La conoscenza di esperienze in altri territori (in Italia e all estero) e l avvio di alleanze tra territori possono ulteriormente favorire la diffusione delle buone pratiche e la moltiplicazione dei casi di successo. Tutto ciò, anche sulla base di esperienze già avviate, non può che realizzarsi con processi di sviluppo dal basso e con il successivo coinvolgimento e accompagnamento da parte dei livelli di governo sovraordinati. 18

19 Note 1. Tra le ricerche condotte in quegli anni sul decentramento produttivo vanno ricordate soprattutto quelle di Paci (Paci et alii, 1974), Brusco (1975), Frey (1975), Garofoli (1978). 2. È alquanto curioso che nello stesso anno sia stato introdotto, indipendentemente da due autori, il concetto di sistema produttivo alla scala nazionale e globale (Destanne de Bernis, 1983; Wilkinson, 1983). 3. Troppo numerosi sono i lavori pubblicati per cercare di indicare quelli più rilevanti. È sufficiente richiamare alcune raccolte di saggi che presentano una ampia visione internazionale con discussione di casi presenti nei vari continenti (Di Tommaso, Rabellotti, 1999; Schmitz, 2004; Scott, Garofoli, 2007b). 4. Secondo Hubert Schmitz e John Humphrey (Schmitz, 2004; Humphrey, Schmitz, 2000, 2002) si possono identificare, in relazione alla loro posizione all interno della global value chain quattro tipi di cluster nei paesi in via di industrializzazione: a) arm s length market relation (quando il prodotto è standardizzato e non richiede di sviluppare un sistema di strette relazioni tra acquirente e produttore); b) networks: (quando le imprese sviluppano relazioni ad alta intensità di informazioni, con divisione dei compiti e relativa autonomia delle imprese fornitrici); c) quasi hierarchy: (quando esiste nella catena produttiva un alto grado di controllo di un impresa sulle altre); d) hierarchy (con un impresa leader che controllo direttamente le funzioni cruciali della catena produttiva). 5. Si possono, inoltre, ricordare altri modelli di sviluppo locale che, in alcuni paesi, assumono una importanza rilevante come i distretti agro-alimentari e i sistemi turistici integrati che presentano caratteristiche sostanzialmente analoghe a quelle dei sistemi produttivi locali. 6. Non bisogna dimenticare che la nuova stagione della programmazione dei Fondi strutturali europei ( ) individua prioritariamente gli obiettivi dell innovazione e della competitività per i progetti di sviluppo cofinanziati dall Unione Europea. Riferimenti bibliografici Bagnasco A. (1977), Tre Italie, Il Mulino, Bologna Becattini G. (ed.) (1975), Lo sviluppo economico della Toscana, IRPET, Guaraldi, Firenze Becattini G. (1979), Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull'unità di indagine dell'economia industriale, Rivista di Economia e Politica Industriale, V, n. 1, gennaio-aprile Becattini G. (a cura di) (1987), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino, Bologna Becattini G. (1989), Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socioeconomico, Stato e Mercato, n. 25 Becattini G. (2000), Il distretto industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamenti economico, Rosenberg & Sellier, Torino 19

20 Becattini G., Bellandi M., De Propris L. (eds.) (2009), The Handbook of Industrial Districts, Edward Elgar, Cheltenam (UK) and Northampton (MA, USA) Becattini G., Bianchi G. (1982), Sulla multiregionalità dello sviluppo economico italiano, Note Economiche, n. 5-6 Becattini G., Bianchi G. (1984), Analisi dello sviluppo multiregionale vs analisi multiregionale dello sviluppo, in Bianchi G., Magnani I. (a cura di), Sviluppo multiregionale: teorie, metodi, problemi, Franco Angeli, Milano Becattini G., Rullani E. (1993), Sistema locale e mercato globale, Economia e Politica Industriale, n. 80, dicembre Brusco S. (1975), Organizzazione del lavoro e decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, in Flm (a cura di), Sindacato e piccola impresa, De Donato, Bari Brusco S. (1982), The Emilian Model: Productive Decentralisation and Social Integration, Cambridge Journal of Economics, vol. VI, n.2, Juin Brusco S. (1989), Piccole imprese e distretti industriali, Rosenberg & Sellier, Torino Colletis G., Pecqueur B. (1995), Dinamica territorial y factores de la competencia espacial, in Garofoli G., Vazquez Barquero A. (eds.), Desarollo Economico Local en Europa, Economistas Libros, Madrid Courlet C. (1987), Développement territorial et systèmes locaux en Italie, Notes et Documents, n. 22, IREP-D, Grenoble Courlet C. (2001), Territoires et régions, L Harmattan, Paris Courlet C. (2008), L économie territoriale, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble Courlet C., Garofoli G. (2008), Strategie di sviluppo economico: una rilettura critica a partire dai pionieri dello sviluppo, Economia Marche. Review of Regional Studies, XXVII, n. 1, 2008 Courlet C., Judet P. (1986), Nouveaux espaces de production en France et en Italie, Les Annales de la Recherche Urbaine, n. 29 Courlet C., Pecqueur B. (1992), Les sistèmes industriels localisés en France: un nouveau modèle de développement, in G. Benko, A. Lipietz (eds.), Les régions qui gagnent. Districts et réseaux: les nouveaux paradigmes de la géographie économique, Presses Universitaires de France, Paris Destanne de Bernis G. (1983), De quelques questions concernant la théorie des crises, Economies et Societés, XVII, n. 9-11, sept.-mars, pp Di Tommaso M.R., Rabellotti R. (a cura di) (1999), Efficienza collettiva e sistemi d imprese, Il Mulino, Bologna Frey L. (1975), Lavoro a domicilio e decentramento dell attività produttiva nei settori tessile e dell abbigliamento, Isvet, Franco Angeli, Milano Fuà G. (1977), Sviluppo ritardato e dualismo, Moneta e Credito, vol. XXX, n. 120, dic. Fuà G. (1980), Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Il Mulino, Bologna Fuà G. (1983), L industrializzazione nel Nord-Est e nel Centro, in Fuà G., Zacchia C. (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, Bologna Fuà G., Zacchia C. (a cura di) (1983), Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, Bologna Ganne B. (1992), Place et évolution des systèmes industriels locaux en France: économie politique d'une transformation", in G. Benko, A. Lipietz (eds.), Les régions qui gagnent. 20

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