IMPARARE DALLA CRISI. E SE CI SPINGESSIMO AL DI LA DEL WELFARE? Giovanni Mazzetti
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- Cinzia Corsi
- 8 anni fa
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1 IMPARARE DALLA CRISI. E SE CI SPINGESSIMO AL DI LA DEL WELFARE? Giovanni Mazzetti tratto dal volume della manifestolibri 2014 UNA CRISI MAI VISTA, SUGGERIMENTI PER UNA SINISTRA CIECA Ho aderito volentieri all invito di Massimo Loche e di Valentino Parlato di intervenire con un mio contributo sul loro progetto culturale. Ho trovato in esso il bisogno per cui da anni mi batto: per bloccare il crollo bisogna capire che cosa sta succedendo. Si tratta di un problema avvolto da una grande confusione, perché gli stessi conservatori, da almeno quarant anni, si presentano come i paladini delle riforme, cioè del cambiamento. Anche se le loro riforme corrispondono in realtà solo all'impossibile restaurazione di condizioni sociali che sono state superate da più di sessant anni, che loro considerano come condizioni fisiologiche e naturali, e che sostengono siano state stravolte da comportamenti impropri. Nella realtà le cose stanno all opposto, e cioè la crisi scaturisce proprio dal fatto che le pratiche realizzate col Welfare State hanno raggiunto il loro obiettivo di fondo - che era quello di far affacciare la società su un mondo non più dominato dalla penuria. Ma proprio per questo hanno prodotto un insieme di problemi nuovi, la cui natura i conservatori non riescono neppure ad immaginare. Così la società, che purtroppo sta dando loro ascolto, perde progressivamente quegli elementi positivi che l avevano caratterizzata nel trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale, e finisce sempre più col somigliare a quei miserevoli organismi sociali del primo capitalismo, pieni d indigenti. In questo regresso la parte migliore delle forze della sinistra scalpita, protesta, s indigna, incolpa i capitalisti, ma non è in grado di far valere una sua qualche consistenza progettuale. Limitandosi a difendere di volta in volta quel che resta delle vecchie conquiste, dimostra di non aver capito che la crisi l ha investita in prima persona. La parte peggiore echeggia invece il senso comune, imputa la crisi ad inefficienze e privilegi e fantastica che la loro abolizione farebbe tornare tutto in ordine. Qual è il problema che la sinistra non è riuscita ad assumere su di sé? Credo che si possa rispondere che non ha saputo far fronte all'improvvisa, e per lei inspiegabile, inefficacia della strategia economica sulla quale poggiava il nuovo potere che i lavoratori avevano acquisito col Welfare. Poiché la tendenza prevalente negli ultimi decenni è stata quella di rimuovere quel momento, è opportuno partire da esso. La crisi del Welfare Il nucleo del Welfare stava nella garanzia del pieno impiego. Essa ha preso faticosamente corpo dopo un ventennio di controversie teoriche tra i conservatori da un lato, che continuavano a considerare il laissez faire insuperabile, e i keynesiani dall altro, che invece sostenevano che le imprese non fossero più in grado di realizzare il superamento del problema della disoccupazione strutturale, che aveva afflitto il mondo sviluppato nel ventennio tra le due guerre mondiali. I secondi proponevano un crescente intervento della spesa pubblica, per creare un lavoro che sostituisse quello che le imprese eliminavano con l innovazione tecnologica e l abbattimento dei costi di produzione, ma che poi, a differenza della fase storica precedente, non sapevano più riprodurre. Con le parole di Beveridge - uno dei padri fondatori dello Stato sociale: grazie all intervento pubblico ci dovrebbero essere sempre più posti vacanti che disoccupati e cioè il mercato del lavoro dovrebbe essere sempre un mercato nel quale prevalgono gli offerenti [di forza lavoro] rispetto a coloro che sono disposti comprarla (1944).
2 Quando questa politica finalmente s impose, con una spesa pubblica che triplicando salì quasi ovunque in Europa al 50% circa del PIL, i risultati furono talmente strepitosi e permanenti che si gridò al miracolo. E, infatti, nei paesi OCSE ci fu un trentennio (!) di pieno impiego, con la disoccupazione media al di sotto del 3%, e un miglioramento delle condizioni di vita così straordinario da far parlare, per i paesi sviluppati, di una società finalmente affluente. (Restava il problema del terzo più povero della popolazione, le cui condizioni di vita avrebbero dovuto essere ben presto migliorate.) A metà anni Settanta la dinamica economica cominciò, però, a cambiare repentinamente. Quasi ovunque le stesse politiche che avevano prodotto quei risultati straordinari iniziarono a dimostrarsi inefficaci. L esempio dell'inghilterra può servire a descrivere quello che, in modo più o meno marcato, accadde ovunque. Al verificarsi di un lieve aumento della disoccupazione, nel 1974, il Premier Harold Wilson, applicò una ricetta improntata sui consolidati strumenti di politica welfaristica: aumento delle pensioni, allargamento di alcuni schemi di protezione sociale (ai disabili e alle famiglie bisognose), controllo dei prezzi, politica di redistribuzione della ricchezza attraverso una tassa sui patrimoni, rilancio delle imprese pubbliche, riforma ed espansione del Servizio Sanitario Nazionale, ampliamento del sistema educativo pubblico, a partire dagli asili nido fino all educazione media inferiore e il bilancio pubblico fu ampiamente utilizzato per finanziare quegli interventi (Conti, Silei, 2005). Ma la disoccupazione continuò ad aumentare, arrivando a un valore doppio rispetto a quella media del trentennio precedente (5 % rispetto al 2,5 %). Wilson, incapace di afferrare il perché di questo fenomeno nuovo, si dimise lasciando il campo all ala destra del Partito Laburista che, con Callaghan cominciò il processo di ridimensionamento dello Stato sociale, che poi fu drasticamente smantellato dalla Thatcher. In Italia, nello stesso periodo, prese corpo la politica dei sacrifici che ebbe il suo momento culminante nella svolta dell'eur del 1977 della CGIL. Ora, per chi conserva un orientamento razionale, l inatteso determina una spinta a comprendere che cosa è successo. Ma, al di là di qualche sporadica riflessione su questo o quell aspetto delle difficoltà sopravvenute, la società sprofondò invece in uno stato confusionale generale che si accompagnava alla convinzione che l evento sopravvenuto fosse dovuto a un qualche comportamento arbitrario altrui. Gli imprenditori incolparono i lavoratori di riversarsi sul mercato del lavoro con un inaccettabile rigidità. Accusarono inoltre lo Stato di sperperare risorse che loro avrebbero usato più produttivamente, se solo fossero stati liberati dai lacci e laccioli che limitavano la loro azione. I lavoratori incolparono i capitalisti di non assumersi il rischio corrispondente al loro ruolo sociale, e di puntare solo ad arricchirsi di rendita o attraverso il peggioramento delle loro condizioni di lavoro. Nel mezzo i molti moderati che non mancano mai, che spingevano appellandosi alla conciliazione nazionale. Il maldestro tentativo di ridare spazio all accumulazione capitalistica - sostenuto dalla stessa CGIL e dal PCI - partorì solo, com era da aspettarsi, dei risultati miserevoli. Cominciò così la lunga fase di ristagno, nella quale il regresso ad un anacronistica cultura neoliberista fece precipitare la società in un vero e proprio stato di narcosi. La crisi del Welfare ha una spiegazione? In pochi hanno realmente colto il nucleo della rivoluzione sottostante all affermarsi del Welfare. Esso stava nel riconoscimento del fatto che l atto sociale per eccellenza nella società capitalistica è la spesa. Senza la spesa di qualcuno (domanda) non poteva e non può esserci produzione, cosicché questa dipende da quella. Keynes sottolineò, negli anni Trenta, che le spese che fino a quel momento gli imprenditori facevano con gli investimenti erano ormai strutturalmente inadeguate a garantire il pieno impiego della forza lavoro e la piena utilizzazione delle condizioni materiali della produzione, perché il recedere della miseria faceva crescere la propensione al risparmio della società, determinando una tendenza alla sovrapproduzione strutturale. Perseguendo lo scopo di rientrare con un guadagno delle spese sostenute, gli imprenditori si trovavano di fronte una domanda aggregata inadeguata, con la prospettiva di subire delle perdite. Per questo non spendevano a loro volta, rinunciando a utilizzare le risorse esistenti sulla scala necessaria a garantire il pieno impiego.
3 La spesa pubblica, sostituendosi alla mancata spesa privata, avrebbe consentito l impiego diretto di una parte significativa delle risorse esistenti. Ma, soprattutto, avrebbe così creato quei redditi che, trasformandosi in spese aggiuntive (domanda) avrebbero sostenuto indirettamente l impiego del settore privato, con una ripresa degli investimenti. La somma dei redditi prodotti direttamente e di quelli determinati indirettamente sarebbe così risultata multipla rispetto alla spesa pubblica iniziale (effetto del moltiplicatore). Questo meccanismo funzionò egregiamente fino agli anni Settanta. Che cosa lo fece andare in crisi dopo quella data? Si trattò del ripresentarsi del problema che aveva afflitto il capitalismo nel periodo tra le due guerre mondiali: la tendenza alla sovrapproduzione strutturale, con la scomparsa della possibilità di fare profitti adeguati. Nonostante la spesa pubblica continuasse a salire, gli effetti indiretti sul settore privato cominciarono così a essere sempre più deboli, e il PIL, come dimostra il grafico che segue, iniziò ad aumentare in maniera decrescente. Andamento tendenziale aumenti % del PIL (Italia) Fonte: Ragioneria generale dello Stato Perché questo fatto innescò un processo critico che si risolse infine nel sopravvenire di una vera e propria crisi? La risposta richiede un po di attenzione. Fintanto che il moltiplicatore era elevato, ogni spesa pubblica faceva aumentare il reddito nazionale di tre o quattro volte l ammontare della spesa. Conseguentemente lo Stato rientrava automaticamente degli esborsi effettuati senza dover aumentare le aliquote fiscali, visto che l aumento delle entrate era garantito dalla stessa crescita del reddito (l insieme della società godeva di un reddito maggiore e quindi versava di più nonostante in proporzione pagasse come prima). L amministrazione pubblica disponeva così di volta in volta delle somme necessarie a rinnovare la spesa e a farla crescere. Con la caduta del moltiplicatore l aumento del reddito risultava però più contenuto, cosicché lo stato finiva col non disporre più delle somme in questione. La crisi è esplosa proprio perché non si è saputo affrontare questo problema e la soluzione adottata, con buona pace di gran parte della sinistra, è stata di natura regressiva. Proviamo a spiegarci. Il contrasto culturale che è mancato Il crescere della spesa, al quale non corrispondeva più una crescita multipla del reddito, ha determinato il presentarsi di un deficit nel bilancio pubblico. Che fare? Se si restava all interno dello schema teorico di Keynes, non si poteva procedere a un taglio delle spese, perché proprio le spese rappresentavano la condizione per utilizzare le risorse esistenti. E se lo stato avesse tagliato i suoi esborsi non ci sarebbe stato nessuno a sostituirlo,
4 con l inevitabile aumento della disoccupazione e la caduta dell attività produttiva. Tuttavia era vero che il deficit rappresentava una novità e come tale richiedeva un interpretazione del significato del suo verificarsi. Si badi bene che il Welfare poggiava fin dall inizio sul fatto che la spesa pubblica non dovesse essere limitata dal denaro disponibile. Come scrisse chiaramente Beveridge nel 1944, la misura della spesa da effettuare doveva essere data dalla forza lavoro disponibile, cosicché lo stato doveva essere pronto a spendere se necessario più di quello che raccoglieva dai cittadini con le imposte. Come abbiamo visto sopra, quella spesa, nella fase di ascesa del Welfare, sarebbe stata compensata dagli aumenti multipli del reddito, facendo apparire lo squilibrio come un evento contingente. Ma dalla metà degli anni Settanta questa compensazione a posteriori non interveniva più, trasformando il deficit in un fatto strutturale. Come comportarsi? I conservatori risposero com erano abituati a fare da duecento anni: il deficit è un fenomeno negativo, al quale si deve porre rimedio quanto prima. Corrispondendo ad acquisti dai quali non scaturisce la riproduzione del valore speso, rappresenta uno spreco. Detto in soldoni, la società pretende di vivere al di sopra delle sue stesse possibilità materiali ed è per questo condannata a impoverirsi. Pertanto le spese pubbliche d ora in poi debbono essere ripagate o aumentando le imposte o facendo pagare i servizi. O, ancora meglio, dovrebbero essere tagliate, per lasciare le poche risorse esistenti a disposizione delle imprese. I progressisti rimasticarono la stessa pappa, avanzando sottili distinzioni sulla necessità di una maggiore efficienza dell intervento dello stato, che di per sé avrebbe consentito di ripagare le spese (Reichlin, 1988), di una maggiore equità nei tagli e nell imposizione, che avrebbero reso meno iniqui i sacrifici, ecc. (Napolitano, Progetto a medio termine Pci, 1977). Ma non si posero mai il problema se quel fenomeno significasse qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che gli veniva attribuito dal senso comune prevalente. L impossibilità di evitare il deficit Per capire perché la spesa pubblica non riproduce il reddito che la ripaga, bisogna comprendere come funziona il processo riproduttivo e, in particolare, si deve afferrare il primo cambiamento radicale dei rapporti capitalistici rappresentato dal credito. I conservatori alla Einaudi hanno sempre polemizzato con Keynes sostenendo che quest ultimo teorizzava in modo stravolto la natura del credito. Il credito, sostenevano, non è altro che la messa a disposizione del denaro che è stato realizzato attraverso la vendita di un prodotto, denaro che non essendo stato destinato al consumo può essere prestato agli imprenditori per gli investimenti. Proprio perché quel denaro non è stato speso, le risorse dalle quali è scaturito sarebbero ancora disponibili e potrebbero essere impiegate nell'accumulazione. A equilibrare il rapporto tra risparmi e investimenti interverrebbe il tasso d interesse. Qualora l offerta di risparmi risultasse eccedente rispetto alla domanda, il tasso cadrebbe; i soggetti sarebbero così sollecitati a consumare di più contraendo i loro accantonamenti. Viceversa, qualora la domanda per investimenti eccedesse i risparmi, il tasso d interesse aumenterebbe, invitando i soggetti economici a contrarre la spesa in consumi, per lucrare il maggior interesse. Insomma tutte le risorse scaturite dalla produzione troverebbero una rappresentazione coerente della loro esistenza nel denaro circolante e nelle variazioni del tasso d interesse, che ne regolerebbe la destinazione. Da qui la conclusione che se non ci sono i soldi mancano le risorse. Keynes, raccogliendo un insegnamento di Marx, nega che le cose stiano in questo modo. Innanzi tutto confuta il sussistere di un meccanismo che leghi tra loro coerentemente risparmio e investimento, soprattutto perché l investimento non è un entità capace di auto sostenersi (Keynes 1936) e dipende piuttosto dalla domanda prospettiva in consumi; ma anche perché il risparmio non dipende dal tasso d interesse, quanto piuttosto dal livello del reddito di cui si gode. Gli investimenti dipendono inoltre dalla misura in cui il capitale fisso è già disponibile per soddisfare i bisogni solvibili in formazione, perché se la gran parte della domanda è già soddisfacibile con la struttura esistente, non ha senso che gli imprenditori realizzino impianti aggiuntivi. Non solo.
5 Il credito non si limita affatto a mettere in moto il denaro che non è stato speso in consumi, ma crea un denaro aggiuntivo che, se le cose procedono fisiologicamente, va a comprare il prodotto eccedente che scaturisce da ogni ciclo accumulativo, per il quale, come sostiene Marx, non c è un equivalente, cioè i redditi che potrebbero comperarlo. Come ha spiegato Schumpeter, il credito rappresenta l autorizzazione da parte delle banche a sfondare questo limite e a comperare il prodotto eccedente, fondata sulla prospettiva che il suo impiego negli investimenti consenta di realizzare il nuovo prodotto come valore (cioè riuscendo a venderlo). Ma se il capitale disponibile è già in grado di soddisfare la domanda prospettiva in consumi, gli imprenditori non hanno alcuna ragione per attingere al credito, per quanto basso sia il tasso d interesse, perché i loro investimenti comporterebbero perdite invece della riproduzione del denaro speso. L appello dei conservatori a contenere i consumi, per mettere a disposizione delle imprese le risorse necessarie ad effettuare gli investimenti, è pertanto frutto di un abbaglio, perché normalmente il credito offre questa possibilità agli investimenti remunerativi senza dover aspettare il risparmio. Inoltre determina un vero e proprio disastro perché restringe ulteriormente le possibilità di sbocco più di quanto già non sia. Insomma, la convinzione che l esserci o il non esserci del denaro rifletta coerentemente le possibilità economiche è frutto di una totale incomprensione del processo economico, per come realmente si svolge. Se non ci sono i soldi non è perché la loro mancanza esprima dei limiti oggettivi alla possibilità di produrre, quanto piuttosto perché i soggetti economici hanno interiorizzato una limitazione alla loro stessa cooperazione, che si manifesta nell astensione dalla spesa, dalla quale consegue la mancanza di soldi. In questo quadro solo la spesa pubblica, proprio in quanto non è finalizzata ad accrescere il capitale, ma a garantire il pieno uso dello stesso per soddisfare quanto più possibile i bisogni, può sostenere entro certi limiti la produzione. Dall'inibizione dell'intervento pubblico al ristagno strutturale Come abbiamo già accennato, tra la fine degli anni Settanta e l inizio degli anni Ottanta, proprio perché il settore privato non reagiva più positivamente alla spesa pubblica, esplose il problema della crisi fiscale dello Stato. Un coro unanime, che andava dall ultraconservatore Hayek all anarchico O Connor, chiese che allo Stato non fosse più concesso di spendere su scala allargata senza che fosse costretto a coprire i suoi costi. Poiché le politiche d intervento in molti paesi avevano cominciato a produrre significative inefficienze, questo coro trovò accoglienza nel senso comune prevalente, che anche a livello sindacale (Lama) cominciò a dire: basta all'assistenzialismo!. Si sperava, con questa strategia antikeynesiana, di bloccare l espansione della spesa pubblica (Hayek 1975) e di ridare così spazio all accumulazione privata (Laffer 1982). Ma l evoluzione degli anni successivi confermò la validità della tesi fondamentale di Keynes: anche se il capitale investe in nuovi settori, per quanto impetuoso possa essere lo specifico sviluppo, non sarà mai in grado, nella nuova situazione che è venuta ad instaurare con l innovazione, di garantire per l insieme del sistema una compensazione del lavoro che distrugge con l abbattimento dei costi. La scoperta di mezzi per economizzare il lavoro supera, infatti, il tasso al quale riusciamo a trovare nuovi usi per impiegarlo (Keynes 1930). Ciononostante, in coerenza con l orientamento conservatore prevalente si procedette ad un sensibile aumento del prelievo fiscale, che inferse un duro colpo a qualsiasi possibilità di ripresa. Il forte aumento delle imposte ha infatti finito per rallentare ulteriormente lo sviluppo del settore privato, perché, sottraendo redditi ai cittadini, ha contratto la domanda, facendo mancare i soldi molto di più di quanto non sarebbe accaduto spontaneamente. Ma la chiave per comprendere pienamente il protrarsi del ristagno sta nell intreccio col secondo provvedimento che, sulle ali delle convinzioni dei conservatori, fu preso quasi ovunque all inizio degli anni Ottanta. Si tratta del cosiddetto divorzio tra Banca Centrale e governo, che in Italia fu attuato da Andreatta e da Ciampi. Quel provvedimento rappresentava un esplicito rinnegamento della più importante indicazione di Beveridge: la politica del pieno impiego, per riuscire, presupponeva l instaurarsi di una signoria dello stato sul denaro. Da quel
6 momento se lo stato voleva spendere più di quanto incassava con le imposte non poteva più, da signore del denaro, attingere alla moneta aggiuntiva creata dalla Banca Centrale, e doveva invece, come servo del denaro, indebitarsi privatamente con le banche o con i cittadini. Si è così instaurata una dinamica perversa, visto che da più di vent anni il deficit non serve a coprire le spese produttive dello Stato, ma il servizio del debito, visto che il bilancio primario è da allora in attivo. Il deficit va cioè a pagare gli interessi passivi che gravano parassitariamente su ogni spesa, interessi che cumulandosi danno ragione di un debito che ormai supera ampiamente il valore annuo del PIL. Pressione fiscale in Italia in % del PIL: (Fonte: Ocse) Il problema da risolvere per affrontare la crisi Cerchiamo di afferrare il senso delle due strategie combinate. Che ruolo gioca il denaro nel processo riproduttivo? Esso rappresenta il potere di appropriarsi dei prodotti o delle risorse produttive. Ed esprime questo potere in quanto testimonia che chi ne dispone non cerca di procedere con un arbitrio personale, bensì ha prodotto per altri, che hanno confermato il valore sociale della sua attività privata, comperando i suoi prodotti. Col credito si travalicano i limiti della necessità che il denaro sia già presente dicendo: è vero che tu imprenditore non hai il denaro che ti serve, ma valutando le tue capacità, sembra che tu sia in grado di ricavare, col processo produttivo che vuoi intraprendere, quel denaro. Dunque, io banca lo creo per te anticipatamente perché so che la tua spesa verrà reintegrata dai ricavi futuri, e che mi garantirà anche un interesse. Se le mie valutazioni delle tue attività progettate non mi confermano che sarò in grado di rientrare delle somme che mi chiedi, oltre ad un interesse, ti negherò il prestito, non consentendoti di produrre. Già, ma per quale ragione dovrei giungere ad una simile valutazione? Per il semplice motivo che ipotizzo che tu non sia in grado di vendere il tuo prodotto, e per questo non devi produrre. Qui si ferma normalmente il senso comune, attribuendo una razionalità a questo comportamento. Ma che cosa vuol dire che non ci sono e non ci saranno soggetti in grado di comprare quel prodotto? Sembrerebbe che non ci fossero bisogni corrispondenti a quella produzione, e che dunque sarebbe inutile produrre. Ma le cose non sono così semplici. Indubbiamente è vero che c è un'esigua minoranza con un elevata propensione al risparmio che potrebbe esprimere il bisogno di quel prodotto, ma non lo fa perché preferisce tesaurizzare il denaro. Ma è anche vero che c è una moltitudine d individui che hanno bisogno di quel prodotto, ma
7 non possono farlo valere perché non riescono a trasformare i loro bisogni in una domanda. E non riescono a trasformare quei bisogni in domanda perché non incontrano a loro volta una domanda, cioè non c è nessuno che spende per comprare la loro forza lavoro o i loro prodotti. La tesi dei conservatori è che lo Stato può sì spendere per generare la domanda corrispondente soprattutto a questi ultimi bisogni, ma potrebbe farlo solo a condizione che i soldi spesi rientrino ogni volta nelle sue casse. Ma questo suggerimento elude il problema che la società ha di fronte, perché il fatto è che da un certo livello in poi lo stato non rientra delle sue spese, e se vuole soddisfare i bisogni primari della società, o comunque evitare la disoccupazione, deve operare in deficit. Ora, se si tratta questo dato come un semplice dato, si finisce col rinunciare alle stesse condizioni della conoscenza, supponendo che la cultura ereditata sappia già di che cosa si tratta e riesca a districarsi coerentemente nell evoluzione della società, anche quando questa prospetta problemi nuovi. Cosicché si tratterebbe di agire, come si è fatto negli ultimi duecento anni, per l austerità, cioè con tagli di spesa. Questa interpretazione della crisi è ciò che ha bloccato definitivamente le società economicamente avanzate, impedendo ogni ulteriore sviluppo. Non ci sono i soldi! Una dichiarazione d'impotenza anacronistica Perché la maggior parte delle persone crede che per esprimere efficacemente i propri bisogni debba farlo con la figura del denaro? Perché l esperienza immediata le ha insegnato che se procede in quel modo, nella nostra società, gli altri saranno disposti a svolgere l attività produttiva che cerca di evocare o a fornirle la merce di cui ha bisogno. Il denaro è la forma del potere sociale sul prodotto sulla quale tutti convengono e, sin qui, nessun altra forma è riuscita ad affiancarsi o a porsi al di sopra di esso sul piano generale. Per non sovvertire il mondo, lo stato keynesiano ha articolato il proprio intervento senza disconfermare questo potere, procedendo cioè attraverso la spesa. In tal modo è intervenuta una duplice evoluzione: da un lato c è stata la riproduzione del rapporto che la maggior parte degli individui considerava normale sul proprio terreno particolare; dall altro lato è intervenuto un timido superamento di esso, appunto perché l'andamento globale della spesa non veniva più lasciato al casuale comportamento dei privati, ma veniva organizzato dallo stato, che procedeva ad effettuare le spese mancanti. Nella realtà quel cambiamento non era affatto così timido come sosteneva Keynes, perché l intervento dello stato, ancor prima del sopravvenire del deficit, contraddiceva la natura del denaro. Questo rapporto è, infatti, la coerente manifestazione delle relazioni private, nelle quali gli individui interagiscono in una reciproca indifferenza e indipendenza, cioè cooperando in modo casuale (Marx 1859). Se lo Stato ricorre a quella forma di rapporto per sollecitare l attività necessaria alla riproduzione di un ampio numero di cittadini, conferma sì i privati nel loro rapporto col resto della società, ma allo stesso tempo trascina la loro attività in una dimensione nella quale l indifferenza recede, la reciproca dipendenza viene espressamente riconosciuta e la cooperazione non si presenta più come un aspetto casuale della socialità (seppure nella forma ancora esteriore dell intervento pubblico). Le due determinazioni sono però in opposizione reciproca, cosicché l ignoranza può spingere a interpretare inerzialmente la situazione in modo univoco, cioè vedendo solo l elemento conservativo o solo il cambiamento. È quanto è accaduto sulla questione del deficit. Cerchiamo di concludere soffermandoci brevemente su quest'ultimo aspetto. Se lo Stato, dopo aver garantito uno straordinario sviluppo, non è stato più in grado di riprodurre il denaro che sborsava, ci si doveva interrogare se, nelle nuove condizioni, quel rapporto risultasse non più riproducibile. Questo interrogativo sollecitava però forti resistenze appunto perché implicava l accettazione di una specifica limitatezza della produzione mediata dal denaro, cioè della propria forma di vita, col riconoscimento che non avrebbe più potuto assicurare un ulteriore sviluppo, senza essere violata. E tuttavia non si poteva negare che la soddisfazione dei bisogni solvibili (domanda) non richiedeva (e non consentiva) più l erogazione di tutto il lavoro del quale la società potenzialmente disponeva. Una parte della forza lavoro (ma anche una parte del capitale disponibile), non
8 incontrando una domanda, non riceveva i soldi che le avrebbero permesso di produrre. In che modo rapportarsi a questa forza lavoro eccedente? La si poteva comprare per impiegarla nella produzione, pur sapendo che il suo prodotto non avrebbe trovato acquirenti, e cioè non avrebbe potuto essere venduto? Si poteva cioè trasgredire il principio di equivalenza implicito nel rapporto di valore? La risposta a questo quesito richiedeva I'acquisizione della capacità di sperimentare ciò che sarebbe derivato da questo comportamento. Nel concreto i medici che sarebbero stati assunti con una spesa in deficit avrebbero potuto soddisfare bisogni di cura o il loro lavoro avrebbe comportato uno spreco? Gli insegnanti assunti avrebbero soddisfatto bisogni di formazione o avrebbero comportato una dissipazione di risorse? In termini generali, il lavoro salariato messo in moto dalla spesa pubblica in deficit sarebbe stato inutile e improduttivo o, se opportunamente indirizzato con un programma, avrebbe potuto produrre proprio ciò di cui la società aveva bisogno, senza farlo sottostare alla condizione che producesse un valore equivalente. La risposta a questi quesiti non fu pratica, bensì ideologica: poiché non si riusciva a concepire un lavoro che non avrebbe riprodotto i soldi equivalenti alla sua stessa attività come un lavoro socialmente valido, la società si è bloccata. Si è continuato a permettere alle banche di creare un denaro fittizio, fingendo che esse fossero in grado di selezionare gli imprenditori capaci di trasformarlo in un denaro reale, mentre nei fatti concedevano prestiti a chi, impegnato nella speculazione finanziaria, si arricchiva senza creare lavoro e senza garantire una qualsiasi soddisfazione dei bisogni sociali. Allo Stato keynesiano che stava ormai dando prova di saper procedere produttivamente ma solo per soddisfar bisogni, senza riprodurre allo stesso tempo valore, quel potere andava invece inibito. Il fenomeno che ha causato questo blocco era stato puntualmente previsto da Marx. Seguiamo le sue riflessioni. Nei Grundrisse scrive: «La continua sostituzione della forza lavoro con il capitale fisso (macchine e procedure) derivante dalla continua innovazione finalizzata ad abbattere i costi rende la produzione stessa sempre meno dipendente dalla quantità di lavoro erogata», cosicché «La ricchezza reale si manifesta [a differenza del passato] nell enorme sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto». Conseguentemente «il pluslavoro della massa cessa di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale» determinando «un crollo della produzione basata sul valore» (Marx 1859). In termini prosaici ciò significa che cresce continuamente la difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato, che rappresenta la relazione attraverso la quale il capitale riproduce la ricchezza come valore reale. Per sottrarsi a questa dinamica, non appena ha smesso di reagire alla spesa pubblica, il capitale si è riversato nella speculazione finanziaria, fingendo di essere in grado di riprodursi a prescindere dall impiego del lavoro salariato. Ma la natura contraddittoria di questa fuga si è manifestata e si manifesterà nei crolli borsistici, dei quali quello del 2007 rappresenta solo il preludio. Se c è un denaro fittizio da creare non è quello che fa crescere artificialmente la domanda e i prezzi del capitale, bensì quello che acquista la forza lavoro disoccupata per impiegarla non già nella riproduzione del valore, ma nella soddisfazione su scala allargata dei bisogni sociali. Senza illudersi, fantasticando di nuovi New Deal, che nelle nuove condizioni quel denaro anticipato rientri con le imposte. I conservatori obiettano: ma se non riproduce il proprio valore quel denaro fittizio non può essere messo in circolazione. A parte l ipocrisia di non rilevare come nella speculazione finanziaria intervenga un fenomeno ben più arbitrario, perché il potere corrispondente al denaro creato privatamente non comporta la produzione di una ricchezza sociale per la collettività ma solo un maggior potere sulla ricchezza data o in diminuzione da parte di chi guadagna, si ignora che spesso nella storia dell umanità il riferimento ad un simulacro ha consentito di conquistare ciò che, facendo un rigido riferimento all entità originaria, non sarebbe stato possibile attuare. Senza un riferimento a Gesù come dio, ad esempio, gli ebrei che lottavano contro i romani avrebbero mai potuto sperare in quell emancipazione e in quell universalizzazione che interverrà dopo qualche secolo? Se il loro dio fosse rimasto quello della maggior parte degli ebrei, innominabile e irrappresentabile, la nostra storia sarebbe stata la stessa? La natura del denaro è quella relativa all instaurarsi di una cooperazione generale tra gli esseri umani. Quando questa cooperazione incontra un ostacolo nel denaro stesso, gli individui debbono fermarsi, considerando il
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