Uccidere senza rimorso di Angelo Calvino

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2 IL ROMANZO Eritrea, inizio anni Settanta. Pietro Gazzano viene trovato senza vita nel suo ufficio di Asmara: gli hanno sparato con la stessa pistola che ha gravemente ferito il figlio Giovanni, ma dell arma nessuna traccia. Mentre il Console italiano indaga, Giovanni nel letto d ospedale inizia a raccontare a un uomo misterioso il suo passato: l infanzia ad Asmara, le liti furiose dei genitori, la morte della sorellina Francesca, la giovinezza tra la Svizzera e il mare del Friuli Venezia Giulia, l amore per le donne. Fino a quel tragico giorno... L AUTORE Angelo Calvino è nato ad Asmara in Eritrea nel Con l avvento della guerra tra Etiopia ed Eritrea si trasferisce prima in Nigeria e poi in Sudafrica. Dopo aver girato il mondo, alla fine degli anni Settanta torna in Italia e sviluppa la sua passione per la fotografia e per la scrittura pubblicando articoli di reportage di viaggio su varie riviste di settore italiane e internazionali. Attualmente vive a Londra e collabora con un importante agenzia fotografica.

3 Uccidere senza rimorso di Angelo Calvino

4 2015 Libromania S.r.l. Via Giovanni da Verrazzano 15, Novara (NO) ISBN Prima edizione ebook luglio 2015 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, info@clearedi.org e sito web L Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali omissioni o errori di attribuzione. Progetto grafico di copertina e realizzazione digitale NetPhilo S.r.l. In copertina: Foto di Angelo Calvino, Coppia di giovani sposi ad Asmara, inizio anni 50. La storia, le vicende, i luoghi e i personaggi sono frutto di pura fantasia. Eventuali riferimenti a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistenti sono da ritenersi puramente casuali.

5 Uccidere senza rimorso

6 Alcuni dei nostri figli rappresentano le nostre giustificazioni, alcuni altri solo i rimpianti. (Aforismi di Khalil Gibran)

7 A Patricia, Anthony Eleonora e Paolo

8 Il caldo sole africano illuminava la stanza, mettendo in risalto le screpolature dei muri e lo sporco accumulatosi negli anni lungo il battiscopa e negli angoli, dove il parquet conservava ancora il suo colore originale: un bel rosso palissandro, in netto contrasto con il color nocciola spento del legno al centro della stanza e davanti alla porta massiccia pitturata di bianco. Fra pochi giorni ci sarebbe stato il Meskel, la festa etiopica che ogni anno rievoca il ritrovamento da parte di Sant Elena, madre di Costantino, della Vera Croce e per Michelangelo Onofri di Castelmonte il ventesimo mese dalla sua nomina a console italiano in Eritrea. Gli pareva fosse trascorso un secolo dal giorno che era arrivato ad Asmara, accolto dal console uscente con una forte stretta di mano e dai suoi innumerevoli consigli su come comportarsi con la comunità italiana e con i locali. Sono cose che ho imparato in questi dieci anni di lavoro e di vita intensa in Eritrea, a diretto contatto con questo meraviglioso popolo, le cui origini risalgono addirittura a re Salomone. Così ripeteva ogni volta che gli raccomandava un certo comportamento o un atteggiamento da tenersi in determinate occasioni. Era rimasto al suo fianco una decina di giorni, prima di rimpatriare alla scadenza del mandato e anche per raggiunti limiti d età; il suo predecessore, infatti, era ormai prossimo alla sessantina. Michelangelo aveva letto molti libri sull Etiopia, dopo che gli era stato confermato l incarico dal governo italiano: libri di storia, anche recente, sulla colonizzazione voluta da Benito Mussolini e sull occupazione dell Eritrea e dell Etiopia da parte delle nostre truppe e sulle battaglie contro gli indigeni prima, e contro gli inglesi poi. E ancora altri libri sulle origini di quel popolo, così diverso dalle altre etnie africane, così austero e bello, dai lineamenti regolari del viso e dal naso pronunciato e non schiacciato, tipico delle popolazioni del centro Africa o di quelle della costa

9 occidentale dell Africa. In un poema del XIV secolo, scritto da autore ignoto, si narrava che la regina di Saba si fosse recata a Gerusalemme per conoscere re Salomone. Lei era etiope e aveva un nome delicato e affascinante: Makeda. Re Salomone fu colpito dalla sua bellezza e dal suo fascino, nonché dai doni che lei gli aveva portato con la carovana che aveva al seguito. Si diceva che l avesse sfidata a una scommessa che lui non poteva perdere in cambio di una notte d amore con lei. Al rientro in Etiopia Makeda partorì un bambino, Menelik, che, appena ragazzo, volle conoscere suo padre e anche lui percorse il lungo viaggio verso Gerusalemme, dove, prima di ripartire, s impadronì dell Arca dell Alleanza, una teca dove si dice venissero custodite le tavole di Mosè, attualmente conservata gelosamente nella cattedrale copta di Maryam Zion ad Axum. La storia a quel punto si veste di mistero e di elementi fantastici che porteranno Michelangelo, futuro console di Asmara, ad approfondire le conoscenze storiche su quel paese dove avrebbe vissuto i suoi prossimi anni. Mentre esaminava la pratiche, poste con ordine sull antica scrivania di ciliegio, pensava a Gudit, colui che distrusse Axum passando il potere sull Etiopia alla dinastia degli Zagwe, i quali sostenevano che re Salomone avesse avuto una relazione anche con una delle cameriere al seguito di Makeda e che questa, di nascosto della sua regina, avesse partorito il capostipite della loro dinastia, alla quale apparteneva Hailè Sellasiè, discendente quindi di re Salomone, e proclamato duecentoventicinquesimo imperatore nel lontano Il sole filtrava dalla grande finestra e illuminava quelle tre cartelle color arancio con impresso lo stemma della Repubblica Italiana; su ognuna lo stesso cognome ma un numero diverso di protocollo: Gazzano 2494, Gazzano 2512, Gazzano La prima riguardava la denuncia da parte di Cristoforo Gazzano della scomparsa della sua pistola Beretta dalla scrivania del negozio di frutta che aveva aperto nel mercato coperto di Asmara al suo rientro definitivo da Addis Abeba; non aveva sospetti e la denuncia era stata così fatta contro ignoti. La numero 2512 riguardava Pietro Gazzano, trovato assassinato nel suo ufficio, dopo tre giorni dalla sua morte, con una pallottola conficcata nella fronte. Questo avvenimento risaliva a circa dieci giorni dopo la scomparsa della pistola appartenuta a suo fratello, ma non si poteva ancora supporre un legame tra i due fatti.

10 Un legame poteva invece esserci tra la numero 2512 e la pratica 2517: tentato omicidio o tentativo di suicidio di Giovanni Gazzano, figlio di Pietro e ricoverato da giorni nell ospedale italiano di Asmara in prognosi riservata e apparentemente in coma irreversibile. Un foro alla tempia destra e la similitudine con la pratica 2512 era data dal fatto che il foro d entrata era del tutto simile a quello riscontrato su Pietro Gazzano. Giovanni Gazzano era stato ritrovato agonizzante nella sua automobile da un passante, che aveva subito avvertito la polizia. La macchina era parcheggiata a pochi metri dall entrata del cimitero italiano. Erano stati fatti dei rilievi, ma non era stata ritrovata la pistola, nonostante l abitacolo fosse stato perquisito nei minimi particolari. Da qui il dubbio sulla possibilità di un tentato omicidio, anche se l atteggiamento disteso delle braccia del giovane Gazzano e il foro d entrata, con lievi segni di bruciatura che facevano supporre a uno sparo da distanza molto ravvicinata, avevano fatto subito pensare a un suicidio. Ma come poteva aver tentato di suicidarsi e aver poi buttato via l arma? Era assurdo solo pensare a un ipotesi così inverosimile, ma la mancanza dell arma del delitto continuava a incuriosire gli inquirenti e lo stesso console. Il Gazzano aveva subito un lungo e delicato intervento chirurgico e la pallottola, rimasta conficcata nel montante sinistro dello sportello dell autovettura, era stata consegnata alla polizia locale che, però, non poteva procedere a un esame approfondito della stessa, non essendoci un laboratorio balistico in tutta l Etiopia. Anche la pallottola che aveva ucciso Pietro Gazzano e che gli aveva perforato il cranio quasi da parte a parte, era custodita dalla polizia di Asmara in attesa di controlli più approfonditi. Il console, dopo varie insistenze, caldeggiate anche dal nostro ministero degli esteri a Roma, era riuscito a farsi consegnare dalla polizia i due reperti e li aveva inviati con urgenza alle autorità italiane affinché la scientifica potesse esaminarli e fare un po di luce sui quei due casi, all apparenza collegati tra loro. Il responso era atteso per quella mattina e Michelangelo era nervoso e impaziente di ricevere il telegramma dal ministero competente in Italia. Il telegramma arrivò nel tardo pomeriggio, alle sei, ora locale, le quattro ora italiana. Poche righe, concise ma inequivocabili. Il messaggio diceva che, da un attento esame balistico, nonostante uno dei due proiettili risultasse rovinato

11 dall impatto con il metallo della carrozzeria, si poteva stabilire, con poche possibilità di errore, che entrambi i colpi erano stati esplosi dalla stessa arma. Non preoccuparti; non è successo niente. Cerca di rilassarti. Come ti chiami? Mi chiamo Giovanni, almeno credo. E di dove sei? Qualcuno mi sta facendo delle domande ma non riesco a distinguerne il volto. Forse ha la barba, bianca, come i capelli. Mi sento leggero ed ho la sensazione che mi siano spuntate di colpo le ali. Parlo e sento la mia voce amplificata, raddoppiata, moltiplicata; come quando gridi il tuo nome in alta montagna e l eco lo ripete fino a sentirlo appena per poi a scomparire del tutto. Sono nato ad Asmara, in Eritrea. In che anno? In un giorno di maggio, non ricordo esattamente il giorno... e nemmeno l anno; è come se ci fosse un vuoto. Raccontami di te, della tua vita. Fallo con calma, rilassati; abbiamo tanto tempo davanti a noi. Insiste la voce, calma, pacata e rasserenante. Ho voglia di parlare di me e lo faccio, ma non esce alcun suono dalla mia bocca. Mi accorgo, però, che il vecchio mi ascolta e mi fa cenno con il capo di continuare. Come ti chiami? Giovanni, te l ho già detto, Giovanni Gazzano, come mio nonno. Ma ho anche il nome dell altro mio nonno, quello materno: Matteo. Nel rispetto di un usanza siciliana mi hanno anche dato, come terzo nome, quello di Maria. Di colpo mi sento trasportato indietro nel tempo, quando ancora non ero nato, e mi sembra di rivivere quei momenti lontani come se fossero miei. Rivedo i miei avi, la mia famiglia e comincio a ricordare, forse a fantasticare. Ricordo una foto di mio nonno con il fucile in mano, seduto su una sedia di vimini con accanto mia nonna, in piedi, che tiene una mano appoggiata sulla spalla del marito e l altra sul calcio di una pistola che le pende dal fianco. Sembrano Bonnie e Cly de, solo che non sorridono come gli attori del film, ma hanno uno sguardo truce, soprattutto mia nonna. Una cosa è certa: non erano dei tranquilli cittadini per così dire casa e bottega! La foto, ingiallita con il trascorrere degli anni, è stata scattata in

12 studio e lo sfondo, dipinto su una grande tela, raffigura un paesaggio siciliano, con colline arse dal sole e sentieri fiancheggiati da fichi d india e muretti di pietra. In lontananza, sapientemente sfumato, il contorno dell Etna e una nuvola di fumo che si innalza verso il cielo terso. Nonostante la foto sia in bianco e nero, i particolari sono così ben delineati che sembra di catturare i colori originali: il verde dei fichi d india, il giallo e il rosso dei suoi frutti, l azzurro del cielo alle spalle dei miei nonni, sicuramente vestiti di scuro, forse di nero. Una particolare che non ho mai capito è se mio nonno morì prima che tutta la famiglia si trasferisse in Eritrea e se quel lungo viaggio avesse avuto a che fare con la sua morte prematura. Mia nonna aveva avuto nove figli, sei dei quali erano viventi e tutti con lei ad Asmara. Che fine avessero fatto gli altri tre non era affar mio, come non lo era, d altronde, la morte del nonno. Avevo trovato solo un altra foto di mio nonno. Questa lo ritraeva a mezzo busto e sembrava una di quelle foto che vengono riprodotte in ceramica per essere cementate sul marmo o incastonate in una croce di ferro battuto, come se ne vedono spesso nei vecchi cimiteri di paese. Aveva una giacca rigata, forse un gessato, che gli cadeva male sulle spalle troppo larghe e una cravatta dal nodo piccolo allacciato su una camicia dal colletto pieno di pieghe; forse la giacca non era sua e gliela avevano fatta indossare, assieme alla cravatta, per l occasione del ritratto. Ha un bel paio di baffoni, un naso importante e due occhi grandi e profondi. Il viso, non rasato di fresco, è serio e i capelli ordinati alla meglio, forse con una passata di dita inumidite per dargli un piega decente. Chissà se quella foto sarà stata usata per completare la sua tomba, sempre che ne abbia avuta una. Qualche anno dopo, il nucleo familiare si divise e in Eritrea rimasero solo tre dei sei figli, mentre gli altri tre preferirono andarsene: Gaetano a Lagos, Cristoforo ad Addis Abeba, e Concetta a Palermo. Quest ultima si diceva che avesse sposato un ricco signore siciliano dal nome buffo: Pippo. Non era vero. Non solo non lo aveva sposato, per il semplice fatto che lui era già sposato, ma non era nemmeno ricco. Era un povero cristo che aveva avuto la sfortuna di trovare sulla sua strada quell arpia di mia zia Concetta. Ricordo benissimo l unica volta che, in occasione di uno dei miei primi viaggi in Italia, andammo a trovarli con mia madre e restai di stucco nel vedere lo squallido vicolo dove abitavano. Era una stradina strettissima e non asfaltata, con case piccole a due piani, una di fronte all altra, con minuscole finestre e

13 con le porte che davano direttamente sulla strada senza marciapiedi. I panni, stesi su corde fissate alla finestra di ogni costruzione e allungate fino alla finestra della casa davanti, oscuravano in parte la vista di quello spettacolo, in netto contrasto con la raffinatezza del corso principale dal quale si diramavano e dove c erano i negozi, i bar, il marciapiedi e la strada asfaltata. Per andare a casa dei miei zii si saliva una breve scala di mattoni e si entrava in un monolocale che aveva al suo interno, a una distanza di circa un paio di metri dalle pareti, tre tende di tessuto leggero dal colore indefinito. Le tende separavano altrettanti locali, come pareti di stanze mai esistite. Dietro ogni tenda si nascondeva qualcosa... Che cosa mai c era dietro quei teli che l aria proveniente dalla porta faceva svolazzare, ma non abbastanza da far vedere ciò che celavano agli occhi degli intrusi? Lo scoprii ben presto e quell immagine non riesco ancora oggi a cancellarla dalla mia mente. Ricordo che zio Pippo era venuto a prenderci alla stazione; aveva un cappello grigio con una banda nera e un vestito grigio, con la cravatta nera. Ci aspettava al binario con le mani incrociate sul davanti, impettito nella sua giacca a doppiopetto. Appena scesi dal treno aveva voluto offrirci per forza un gelato in un bar del corso principale di Palermo, dove si trovavano i caffè e i negozi alla moda, forse per dar tempo alla moglie di sistemare le ultime cose prima del nostro arrivo. Ci aveva fatto accomodare all aperto, mentre lui era entrato nel bar per ordinare le consumazioni: un caffè per lui, un cappuccino per mia madre e un cono gelato per me. Quasi tutti i tavoli vicino al nostro erano occupati da uomini che bevevano un liquore bianco dall intenso profumo di anice. Non c erano donne, a eccezione di mia madre. Era bionda e in qualche modo anche bella. Tutti la guardavano con un misto di curiosità e di disprezzo. Curiosità per quei capelli biondo paglia, non certo comuni nell isola a quel tempo, che ricadevano sul vestito di seta blu con la gonna larga e plissettata, come usava la moda degli anni Cinquanta, e disprezzo per aver osato fare una cosa riservata solo ai maschi: sedersi al tavolo di un bar. Lei e zio Pippo chiacchieravano, parlavano di tutto e di niente, si raccontavano dei momenti vissuti ad Asmara e che ognuno di loro faceva finta di ricordare. Io restavo a guardare quegli uomini, vestiti tutti di grigio scuro e con quello strano cappello in testa che chiamavano coppola. Dovevo fare la pipì e diventai impaziente, ma mio zio disse che non era il caso di usare il bagno del bar; avrei potuto farla appena arrivati a casa dato che distava dal bar solo cinque minuti di strada. Pagò in fretta, aiutò mia

14 madre ad alzarsi, da vero gentiluomo, e ci avviammo verso la stradina di terra battuta dove vivevano i miei zii. Dopo i soliti abbracci e baci sulle guance, scambiati davanti alla porta, ci fecero accomodare e sedere intorno al tavolo, in mezzo all unica grande stanza, quella circondata dalle tende di colore indefinito, mentre Pippo si occupava di sistemare le valigie vicino al letto che era stato preparato per mia madre. Mia zia cominciò a fare domande sulla famiglia, su come era cambiata la vita ad Asmara durante quei cinque anni dal suo rientro definitivo a Palermo, mentre io mi torcevo le gambe e stavo per farmela addosso. Mio zio si ricordò finalmente della mia necessità di fare pipì e, afferrandomi per una mano, mi portò davanti alla prima tenda, vicino alla porta d entrata. La scostò appena e mi fece entrare, raccomandandomi di usare la brocca di rame posata lì vicino per versare l acqua nello scarico. Rimasi in piedi davanti a quel buco scavato nel pavimento, con vicino la brocca di rame e un chiodo attaccato al muro, da dove pendevano dei pezzi di giornale. Sentivo chiaramente la voce di mia madre e degli zii dietro quella precaria protezione che era la tenda. Presi coraggio e, immaginando di non essere sentito, riuscii finalmente a fare pipì, già con il pensiero rivolto a quello che sarebbe successo in seguito, dato che dovevamo fermarci in quella casa per altri dieci giorni e, prima o poi, avrei avuto bisogno di usare quel bagno anche per le altre necessità fisiologiche. Inorridii al pensiero e, obbedendo a zio Pippo, versai tutta l acqua contenuta nella brocca nel buco e ritornai nella stanza. Mia zia si era nel frattempo allontanata dal tavolo, pur continuando a parlare con mia madre dei bei tempi passati e interrompendo Pippo, ogni volta che questi cercava di partecipare al discorso. Ora era davanti a un grande lavandino che serviva, oltre che per sciacquare i piatti e far di bucato, per lavarsi la faccia e le ascelle; insomma era un oggetto multiuso e me ne accorsi la mattina successiva e quelle che seguirono. Dopo aver preparato la colazione a base di caffè e latte e qualche biscotto di quelli che si compravano sciolti in panetteria, mia zia sgomberava il lavandino dalle pentole, posate e altre suppellettili, riponendole sullo scaffale sistemato sopra il rubinetto dell acqua, e chiudeva la tenda per dar modo a mia madre di lavarsi in completa libertà di movimenti, utilizzando anche una tinozza di alluminio che durante il giorno veniva nascosta sotto al letto. Poi toccava a me, a mia zia e, infine, mentre noi eravamo seduti sull uscio ad assaporare il primo sole caldo di Palermo, a Pippo, dato che lui non voleva alcuna presenza in casa durante le sue

15 abluzioni. Non ricordo quello che mangiammo in quei giorni di caldo e afa, ma sicuramente nulla che valesse la pena di ricordare, visto che mia zia non amava cucinare e, il più delle volte, chiedeva al marito di andare a comperare qualche arancina o un po di milza e del pane da un venditore ambulante che urlava verso i passanti, all angolo della stradina, la bontà della sua merce, in una lingua che sembrava il canto di un muezzin dal minareto di una moschea. Ricordo molto bene, invece, il momento di coricarci; era qualcosa di drammatico e di comico insieme. Innanzitutto c era il rito del bagno, se così si può chiamare il buco sul pavimento nascosto dalla tenda: i primi a usarlo eravamo io e mia madre, quali ospiti e successivamente mia zia e Pippo che aveva il compito di gettare l acqua contenuta nella brocca di rame sull urina versata da tutti noi. Poi iniziavamo a svestirci, nascosti appena dall altra tenda che divideva il letto dei miei zii dalle nostre brande, prese probabilmente a prestito da amici e attrezzate per l occasione della nostra visita. Lo spazio a nostra disposizione era molto esiguo e la tenda continuava a spostarsi a ogni movimento di mia madre, lasciandomi intravedere il culone di mia zia e il petto pelosissimo di mio zio avvolto da una canottiera a costine di colore indefinito. Se per caso non fossi riuscito ad addormentarmi subito avrei passato la notte praticamente insonne, dati i rumori che iniziavano a rimbalzare sulle pareti, dopo pochi minuti dall augurio della buonanotte pronunciato all unisono e dalla luce che veniva spenta con una peretta che pendeva dal soffitto. Russavano tutti rumorosamente e anche altri rumori provenivano dal letto dei miei zii, rumori per i quali Pippo ogni mattina, pieno di vergogna, chiedeva scusa a mia madre, dicendole che dipendeva dall ameba coli, malattia da lui contratta durante la prigionia in Africa. Non ne potevo più di quelle notti passate a guardare il soffitto, di quel lavarsi sommariamente nel lavandino e nella tinozza, da quell odore di sudore e di cibo che impregnava le tende, delle passeggiate senza meta con la mano stretta da quella di mio zio che temeva potessi essere investito da qualche carrozza o da una di quelle automobili tutte nere e piene di polvere. Non ne potevo più di tutto e così supplicai mia madre di accorciare il periodo di dieci giorni che avevamo deciso di dedicare alla visita degli zii e di tornarcene al nord, dai suoi fratelli. Così, dopo solo quattro giorni, mia madre, che sicuramente ne aveva abbastanza anche lei di quello squallore, raccontò non so quale bugia collegata alla salute di non so quale suo lontano

16 parente e percorremmo all inverso il percorso fatto all arrivo, sempre accompagnati da Pippo, che non sembrava poi così triste di dover trascinare, con qualche giorno di anticipo sul programma, le nostre valigie lungo la strada che ci separava dalla stazione di Palermo. Il ritorno in treno a Cervignano mi sembrò un sogno... Non c era nessuno nel nostro scompartimento e così tenevamo il finestrino abbassato, lasciando entrare l aria calda che faceva sventolare le tende pesanti e impregnate di fumo. Mia madre sonnecchiava o cercava di risolvere qualche cruciverba della Settimana Enigmistica acquistata alla stazione di Palermo ed io, affacciato al finestrino, mi facevo investire da quel getto forte di aria che mi tappava le narici e mi faceva socchiudere gli occhi. Era una sensazione molto intensa di libertà, la stessa che avrei provato molti anni dopo guidando la mia prima auto: un Alfa Romeo 2600 spider di colore giallo. A dire il vero era di mio padre, ma la lasciava guidare a me nei periodi in cui rimaneva a lavorare nella piantagione di banane che aveva preso in concessione da qualche anno. Mia madre si era addormentata e io ne approfittai per sporgere la testa ancor di più. Il vento mi bloccava il respiro ma non volevo interrompere la sensazione di libertà che mi procurava. I paesi scorrevano via veloci davanti ai miei occhi e la campagna era immersa in un colore dorato. Quando il treno si piegava su un fianco per affrontare una curva, potevo vedere tutti i vagoni davanti al mio sfrecciare veloci, procurando il tipico suono al passaggio delle grandi ruote di ferro sulle giunture dei binari: dadàn dadàn... dadàn dadàn. Faceva caldo e l estate si percepiva nell aria con il suo odore intenso di polvere ed erba seccata dal sole. Tenevo una braccio fuori dal finestrino e giocavo a farlo volare come un aereo che si alzava o si abbassava nel cielo, a secondo di come inclinassi il palmo aperto della mano contro il vento che mi investiva, procurando all interno dello scompartimento un suono sordo e fastidioso. Il panorama cambiava ad ogni passaggio di regione: desolato e arido dopo essere sbarcati dal ferry boat a Reggio, assolato e pieno di colori e di profumo lontano di mare prima di arrivare a Napoli, pianeggiante e ordinato nell attraversare la campagna emiliana. Eravamo in Friuli e gli alberi di gelso, che fiancheggiavano i canali d irrigazione, erano pieni di foglie. Ci fermammo alla stazione di Latisana; mancava ormai poco a

17 Cervignano e mia madre, svegliata dalle grida del venditore ambulante di bibite e panini, cominciò a tirare giù le pesanti valigie per sistemarle lungo il corridoio della carrozza. Il treno ripartì cigolando e io mi misi seduto sullo strapuntino vicino alla sportello e al bagno; non vedevo l ora di riabbracciare zii e cugini, soprattutto Federico, il cugino che adoravo e che cercavo di imitare, spesso senza riuscirci. Ci sarebbe stato anche lui ad aspettarci alla stazione? Aveva dieci anni più di me ed era completamente il mio opposto: serio, equilibrato, posato nei movimenti e nel parlare, mentre io, al contrario, già esprimevo quello che sarebbe stato il mio carattere; agivo istintivamente e non riuscivo a prendere nulla sul serio. Inoltre ero sboccato, irascibile, sempre pronto a venire alle mani. Desideravo tanto rivedere anche l altro mio cugino, Pietro, più giovane di me di qualche anno, taciturno e introverso. Ogni volta che facevamo un gioco si metteva a piangere per un nonnulla, facendomi sgridare da tutti, con la scusa che era più piccolo, ma, in effetti, era solo più viziato. Gli ero molto affezionato, nonostante tutti prendessero sempre le sue difese quando tra noi avveniva una lite o semplicemente un piccolo screzio durante il gioco. Anche quella di mia madre era una famiglia numerosa. Per questo motivo mio nonno aveva comprato una casa così grande, in uno dei borghi di Palmanova, vicino alla piazza ottagonale riportata in molti libri di architettura e di storia, con la speranza che tutti i figli sarebbero un giorno vissuti sotto lo stesso tetto. Quell anno, anche per rivedere mia madre dopo tanto tempo, c erano tutti e vidi il gruppo sul marciapiedi della stazione di Cervignano mentre il treno si fermava con un lungo stridio dei freni per bloccare le grosse ruote di ferro. Ero felice di rivederli e agitavo il braccio attraverso il piccolo finestrino dello sportello, chiamandoli per nome. Era bello tornare in quella casa che mi rendeva sempre sereno e spensierato, immerso nei giochi nel cortile di sassolini bianchi che usavamo come proiettili nelle battaglie con i soldatini. Ne avevo di tutti i tipi: le giubbe rosse a cavallo, con il cappello color nocciola e le bande nere sui pantaloni, il sesto cavalleggeri dei soldati del nord con le loro divise blu scuro e il berretto dalla visiera schiacciata sulla testa, i soldati americani del sud nelle loro tristi giacche grigio chiaro e poi gli indiani, i miei preferiti. C era Toro Seduto con la corona di piume bianche e nere e le braccia incrociate sul petto e poi gli apache, i cherokee, alcuni a cavallo, altri col tomahawk alzato, pronto a colpire, altri sdraiati per terra con una gamba piegata nell intento di avvicinarsi ai Visi Pallidi, sgattaiolando tra i cespugli per non farsi vedere. I cavalli

18 degli indiani erano quasi tutti dei pezzati, bianchi e neri, a volte con delle macchie marrone, mentre quelli dell esercito del nord erano prevalentemente neri e quelli delle giubbe rosse tutti marrone. Assieme a Pietro e a Berto, l unico inquilino che abitava nella grande casa di mia nonna, sistemavamo i soldatini dietro i cespugli di erba, nascosti tra i sassi delle aiuole, sui rami delle piantine di mia zia, la mamma di Federico che si diceva avesse il pollice verde, e quando tutti erano al loro posto, con le cavallerie pronte ad avanzare, iniziavamo la sassaiola con i minuscoli ciottoli del cortile. Berto e io riuscivamo a colpire molti più soldati di Pietro e sistematicamente finiva che lui si nascondeva a piangere vicino al granaio dove era conservata la legna per i freddi inverni friulani. Berto aveva un anno più di me e lanciava i sassolini con una precisione incredibile, tanto da farmi pensare che si allenasse quando noi non c eravamo. E poi sapeva imitare perfettamente lo sparo del winchester con il tipico sibilo finale. Io cercavo di imitarlo, ma inutilmente, così preferivo passare all attacco degli indiani con il loro strillo di guerra, lanciando tre o quattro sassi contemporaneamente, facendo arrabbiare Pietro che si trovava decimato dei suoi soldatini in breve tempo. L autobus ci scaricò vicino alla piazza centrale di Palmanova, vicino all edicola dei giornali e a pochi passi dall entrata della casa di famiglia. Già dalla lunga scalinata che portava agli appartamenti al primo piano potevo sentire quell odore misto di mobili antichi e di cera laboriosamente stesa sul pavimento di legno di pino e il tutto mi era così familiare. Improvvisamente mi dimenticai di Asmara e sperai che non ci saremmo più tornati. Ogni mattina zio Beppi ci preparava la colazione: tazza enorme di latte con caffè solubile di orzo, tanto zucchero e pezzi di pane che, assorbendo tutto il latte, diventavano un abominevole pappone dolcissimo ma sicuramente molto nutriente. Poi andavamo a prendere la corriera per Grado assieme a mia madre e alla mamma di Pietro e, dopo meno di un ora, eravamo sdraiati sulla spiaggia libera. Passavamo ore sotto il sole a costruire castelli di sabbia, con canali scavati sotto le mura di cinta per fare entrare l acqua all interno. Nel pomeriggio, dopo le fatidiche tre ore dal pranzo a base di panini con frittata o con qualche fetta di prosciutto cotto,

19 potevamo fare di nuovo il bagno. Pietro e io, per immergerci fino alla vita, dovevamo camminare per centinaia di metri sulla sabbia bagnata o attraverso pozze di acqua salata, alte pochi centimetri, che si erano formate al rientro della marea. La nostra amicizia continuò per tanti anni, e si rafforzò durante il periodo in cui mia madre si trasferì a Torino, mentre ero in collegio in Svizzera, e prese in affitto l appartamento adiacente a quello di sua sorella. In quel periodo Pietro andava ancora alle medie in una scuola a pochi metri da casa e le vacanze estive le passavamo praticamente sempre insieme a Grado, dove i suoi genitori prenotavano ogni anno due stanze in una piccola pensione economica davanti alla spiaggia libera, teatro dei giochi della nostra fanciullezza. Quell estate passò in fretta e mi sembrò impossibile che le cinque settimane di vacanza fossero ormai alla fine; pochi giorni ancora e poi avremmo preso il treno diretto a Napoli, per imbarcarci sulla nave Diana che, facendo scalo a Malta, Port Said e Port Suez, ci avrebbe riportato alla triste realtà africana dopo circa un mese di navigazione, giusto in tempo per l inizio del nuovo anno scolastico. Il viso triste incollato al finestrino, dove le gocce di pioggia si rincorrevano fino a formare un rigagnolo che velocemente scompariva nel nulla, guardavo i filari di gelso del Friuli che si allontanavano e poi le distese dei campi della pianura Padana, il caos di Roma e infine il fiume di automobili di Napoli, con il loro frastuono incessante. Non volli nemmeno andare a comprare il pane nel negozietto davanti al porto, cosa che facevamo sempre appena sbarcati. Dovevamo aspettare più di tre ore per l imbarco, così lasciammo le valigie nel deposito bagagli della stazione e accompagnai malvolentieri mia madre nel malfamato quartiere di Forcella a comprare una di quelle radio che andavano di moda in quegli anni, con una stazione di onde medie, una di onde lunghe e ben tre stazioni di onde corte. A cosa le servissero tutte quelle stazioni, che trasmettevano per lo più in lingua straniera, non lo seppi mai. Ma aveva visto quella radio da una sua amica e ne era rimasta affascinata. Trattò sul prezzo e alla fine si fece consegnare la scatola di cartone sigillata che, una volta aperta, dopo esserci imbarcati, aveva solo il peso della radio che mia madre aveva tenuto in mano mentre contrattava l acquisto: all interno c era infatti un pezzo di legno e qualche sasso. Cominciò a piangere come una bambina, inveendo contro l uomo che le aveva venduto legno e sassi al prezzo di una radio alla moda.

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