Diventare padri in Italia

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1 20 ottobre 2005 Diventare padri in Italia Fecondità e figli secondo un approccio di genere L ampia letteratura scientifica su fecondità e figli è quasi esclusivamente basata su dati riferiti alla sola popolazione femminile. Il ruolo maschile è stato, fino agli anni più recenti, generalmente ignorato. L Istat ha introdotto per la prima volta nell Indagine Multiscopo quesiti sulla storia coniugale e riproduttiva anche per gli uomini. Si ha così la possibilità di cogliere le profonde interazioni esistenti tra comportamenti maschili e femminili e capire quanto ambedue incidono nel determinare le attuali tendenze demografiche. Nel volume vengono analizzate le recenti trasformazioni dei modi di fare ed essere famiglia in Italia, considerando esplicitamente i comportamenti maschili dal momento in cui si lascia la famiglia di origine, passando per la formazione di una propria famiglia, ed arrivando all'assunzione di responsabilità nel ruolo paterno. I dati utilizzati derivano dalle indagini Multiscopo "Famiglia e soggetti sociali" (1998) e "Uso del Tempo" ( ). Ufficio della comunicazione Tel Centro di informazione statistica Tel Informazioni e chiarimenti Direzione centrale Indagini su condizioni e qualità della vita Linda Laura Sabbadini Tel Assunzione di impegni e responsabilità in età sempre più tardiva In Francia, Inghilterra, e in larga parte dei paesi occidentali, all età di 25 anni la maggioranza dei giovani ha già lasciato la casa dei genitori. Viceversa, in Italia, nella classe d età la grande maggioranza dei giovani in Italia coabita ancora con mamma e papà. Nella fascia anni vive ancora con i genitori circa il 40% degli uomini e circa il 20% delle donne. Il percorso di transizione allo stato adulto più comune in Italia è quello di permanenza nella casa dei genitori fino ai trent anni ed uscita direttamente per matrimonio. Se da un lato percorsi di transizione alla vita adulta più tradizionali rendono più stabile e solida la condizione di paternità italiana rispetto agli altri paesi, dall altro il passaggio tardivo e diretto dalle cure della madre a quelle della moglie senza fasi intermedie di vita da single o condivisione con coetanei di un appartamento potrebbe non favorire negli uomini in Italia la maturazione di un atteggiamento collaborativo nei riguardi degli impegni domestici. Un mercato matrimoniale in trasformazione I profondi cambiamenti culturali a cui si è assistito nel corso del dopoguerra hanno reso possibile il raggiungimento di livelli di istruzione via via più elevati, soprattutto per le donne. Ciò ha contribuito alla formazione di coppie con la stessa età e lo stesso titolo di studio, ma anche a un aumento delle coppie nelle quali lei è più matura o più istruita di lui.

2 Lo scarto di età tra gli sposi in prime nozze, pur mantenendosi a favore degli uomini, è andato progressivamente riducendosi nel corso degli anni, passando in media da circa 4 anni per quelli celebrati a fine anni 60 ai meno di 3 anni attuali. La quota di donne con istruzione superiore a quella dello sposo è più che raddoppiata negli ultimi trent anni (passando da meno del 10% per i matrimoni celebrati a fine anni 60, a circa il 22% attuale), mentre è diminuita nettamente la situazione nella quale lui ha titolo di studio di livello superiore (da 18% a 14%). Tale condizione è destinata a diventare ancor più comune data la maggiore scolarizzazione femminile, rispetto a quella maschile, nelle generazioni più recenti. Rimane da capire perché la riduzione del gap culturale e per età tra partner sembri aver avuto finora così scarso impatto sui rapporti di genere all interno della coppia, ed in particolare sulla condivisione degli impegni domestici e delle attività di cura. La risposta si deve forse al paradosso che, nonostante le donne siano mediamente più istruite dei loro mariti, per vari motivi conta di gran lunga più il lavoro del marito. La carenza di politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro tendono quindi a penalizzare, in presenza di figli, da una parte, la realizzazione professionale femminile e ad incentivare, dall altra, un maggior impegno lavorativo maschile per il mercato. I padri più vecchi al mondo: generazioni di padri e figli sempre più lontane Nonostante sia ampiamente riconosciuta l importanza di osservare i cambiamenti riguardanti la formazione della famiglia e la fecondità anche da una prospettiva maschile, sono ancora pochissimi gli studi che vanno in questa direzione. Eppure la paternità rappresenta un elemento cruciale per comprendere le questioni demografiche in Europa. Passando quindi ad analisi che considerano esplicitamente il fattore maschile nei comportamenti riproduttivi, emerge subito un dato eclatante. Si è spesso messo in evidenza che le donne in Italia sono tra quelle che nei paesi occidentali arrivano in più tarda età all esperienza della prima maternità, ma molto più estremo in questo senso è il comportamento maschile. L età mediana alla nascita del primogenito per le donne nate nella prima metà degli anni 60 risulta di poco superiore ai 27 anni, con un aumento di poco meno di 2,5 anni rispetto alle nate ad inizio anni 50. Si tratta comunque di valori sostanzialmente in linea con quanto accaduto in molti altri paesi occidentali (circa un anno in più rispetto alla Francia, mezzo anno in più rispetto alla Spagna, ma mezzo in meno invece rispetto alla Finlandia). L età mediana al primo figlio per gli uomini nati nella prima metà degli anni 60 supera invece i 33 anni, ed è aumentata di circa 3,5 anni rispetto ai nati ad inizio anni 50. Si tratta di livelli che risultano in assoluto i più elevati rispetto a qualsiasi altro paese, per quanto consentano di dirci i dati parziali disponibili (sono ad esempio inferiori ai 31 anni i valori di Spagna, Francia e Finlandia). Analisi più approfondite sulla scelta di avere il primo figlio, considerando le caratteristiche di entrambi i coniugi, evidenziano inoltre un più marcato effetto negativo dell età di lui rispetto all età di lei: più tardi gli uomini arrivano ad entrare in coppia e più tendono a posticipare ulteriormente la decisione di mettere al mondo un figlio. La propensione ad avere il primo figlio si riduce di circa l 80% - a parità di altre caratteristiche - per chi si sposa attorno ai 35 anni rispetto a chi si sposa attorno ai 25, e ciò vale sia al Nord che nel Sud Italia. L età femminile sembra invece incidere negativamente solo quando lei è più grande di lui. La bassissima fecondità italiana è stata da alcuni autori letta come l esito di un modello di iperrazionalizzazione. Il fatto che in età più matura si diventi più riflessivi e prudenti, meno disposti a mettersi in gioco o in discussione con eventi carichi di vincoli e responsabilità, sembra generare un atteggiamento più cauto nei confronti della scelta di avere un figlio, rispetto a chi si sposa in età più giovane. Ciò sembrerebbe valere soprattutto per gli uomini. Le donne hanno infatti una precisa deadline del periodo fecondo che impone loro, con il passare degli anni, di decidere se rinunciare o meno. Mentre per gli uomini la decisione può essere rimandata sine die dato che 2

3 teoricamente la possibilità di procreare dura finché dura la propria vita. I meccanismi causali alla base dei risultati ottenuti rimangono tutti da approfondire. In ogni caso la conseguenza di tutto ciò è che gli uomini in Italia tendono a fare meno figli ed in età più avanzata rispetto al resto dei paesi occidentali. Ne deriva anche che la distanza tra padri e figli in termini di età risulta sempre più ampia in una società nella quale i cambiamenti sono, invece, sempre più rapidi e si confrontano esperienze di generazioni nate e socializzate in epoche sempre più lontane. Si tratta di un altro elemento importante delle trasformazioni sociali in atto nella società italiana. La scelta di avere un secondo e terzo figlio: tra tradizione ed innovazione Con il primo figlio i genitori sperimentano le reali difficoltà legate alla cura del bambino e si rendono conto del tempo e delle energie che questo effettivamente comporta. E dopo il primo figlio che le madri si trovano ad affrontare ancora di più il problema della conciliazione dei ruoli. Nel caso dopo la prima nascita la partecipazione domestica paterna risulti nulla o insoddisfacente, è possibile che da parte delle madri il sacrificio in termini di tempo sia valutato come eccessivo, con conseguente propensione a fermarsi al primo figlio, specialmente in mancanza di aiuti esterni e di adeguate politiche di sostegno. Studi condotti negli Stati Uniti evidenziano come le coppie moderne in cui la donna svolge meno del 55% delle attività domestiche, hanno più frequentemente un secondo figlio. Similmente, studi condotti in Svezia mostrano come una più equa condivisione dei compiti familiari (anche supportata da politiche ad hoc) acceleri la transizione al secondo figlio. Anche per l Italia (in particolare per il Centro Nord) si osserva, nelle coppie più giovani a doppio reddito, che una consistente partecipazione dei padri alla cura del primo figlio si ripercuote positivamente sulla fecondità, ed in particolare sulla probabilità di andare oltre al figlio unico. Si tratta di un comportamento emergente ma per ora ancora minoritario. Nell Italia centrosettentrionale infatti i maggiori effetti positivi sulla nascita del secondo figlio si ottengono in corrispondenza di coppie in cui la moglie non lavora, e questo effetto è ancor più forte se il marito ha un lavoro di livello elevato. Il modello stimato mostra infatti come, a parità di altre caratteristiche, le coppie in cui lei non lavora e lui ha un lavoro di alto livello presentano una propensione ad andare oltre al figlio unico tra il 10% ed il 20% più elevata rispetto alle altre coppie. Mentre se lei dopo la prima nascita si è trovata a dover interrompere il lavoro, la propensione ad avere il secondo figlio si riduce di oltre il 25%. Sono risultati che sembrano confermare complessivamente la presenza di una grande difficoltà di conciliazione tra lavoro di entrambi i partner da una parte e fecondità e figli dall altra. Difficoltà che porta in molti casi alla rinuncia ad avere più di un figlio. Le strategie che risultano legate ad una maggiore fecondità sono, da un lato, quella più moderna e simmetrica (ma ancora minoritaria), in cui lei mantiene il lavoro e lui mostra una consistente collaborazione alla cura, oppure quella, più tradizionale, in cui lei rinuncia al lavoro per dedicarsi alla famiglia e lui incentiva il suo impegno lavorativo per il mercato. Per quanto riguarda l istruzione è interessante l emergere di un netto effetto ad U, con una propensione più bassa ad avere il secondo figlio per le coppie d istruzione intermedia, e più alta per quelle con bassa istruzione o, al contrario, con alto titolo di studio. Le coppie con elevata istruzione tendono da un lato a mostrare una maggiore simmetria di ruoli (usando più facilmente la flessibilità lavorativa ad alto livello come risorsa) e dall altro ad avere maggiori risorse economiche che consentono di attivare aiuti esterni per il lavoro di cura ed il lavoro domestico. Tutto ciò riguarda soprattutto l Italia centro-settentrionale. Nel Meridione invece si conferma una generale propensione ad avere almeno due figli, sostanzialmente indipendentemente dalle caratteristiche della coppia. Unica eccezione è il titolo di studio femminile, quando si tratta di laurea, ciò agisce negativamente sulla probabilità di avere il secondo figlio. Riguardo invece alla fecondità di ordine superiore, nel Meridione le famiglie numerose continuano ad essere quasi esclusivamente associate a livelli di istruzione bassa e a minor benessere economico 3

4 (fino a vere e proprie situazioni di povertà). Nell Italia centro-settentrionale, invece, tra le famiglie numerose sta aumentando il peso (seppur ancora minoritario) delle fasce di popolazione più benestanti, in grado di attivare maggiori risorse. Permane un asimmetria di genere nel lavoro familiare A distanza di 14 anni dalla prima indagine sui tempi di vita, la rilevazione sull Uso del tempo conferma una forte disuguaglianza di genere nel lavoro familiare. Continuano a ricadere sulla donna oltre i tre quarti del tempo complessivamente dedicato dalla coppia al lavoro familiare (78,3%). L asimmetria nella divisione dei carichi di lavoro all interno alla coppia si attesta su livelli simili, seppure un po più bassi anche se si considera il lavoro di cura in presenza di almeno un figlio con meno di 14 anni (72,7%) e la donna che lavora (74%). La partecipazione dei padri alla gestione della vita familiare misurata in termini di tempo mediamente dedicato alle attività di lavoro familiare si attesta, nelle coppie con figli in cui l uomo ha tra i 25 e i 44 anni, su 1h42 ; la differenza rispetto a quanti non hanno figli è di meno di mezz ora (24 minuti), se si considerano tutti gli uomini anche quelli che non hanno dedicato neanche 10 minuti al lavoro familiare. Il 78,9% dei padri dichiara di svolgere nel corso della giornata un attività di lavoro familiare per una durata di 2h10 ; il che significa che oltre un quinto non vi dedica neppure 10 minuti. Se si considerano gli uomini in coppia senza figli il 74,1% è coinvolto nel lavoro familiare per 1h46. L organizzazione della vita quotidiana dei padri non subisce quindi grandi modifiche a seguito della nascita dei figli. Se si confrontano gli uomini tra 25 e 44 anni in coppia senza figli con i padri della stessa classe di età, la ripartizione tra le varie attività delle 24 ore appare molto simile: l analisi dettagliata, tuttavia, dei vari tempi/attività della vita quotidiana mette in luce la necessità per i padri di rinunciare a circa mezz ora di tempo libero e a 8 minuti di attività fisiologiche, per investire maggiormente, invece, nelle attività di lavoro, retribuito e familiare. Queste variazioni sono tuttavia marginali rispetto a quelle che caratterizzano i bilanci di tempo quotidiano delle donne a seguito della maternità. Diventare madri, infatti, comporta un consistente incremento delle ore dedicate al lavoro familiare (poco meno di 3 ore e 2 ore per le donne lavoratrici). Passando da 1 figlio a 2 figli il tempo dedicato al lavoro familiare cresce di 40 minuti, fino a più di un ora passando al terzo figlio o successivi. I tempi dei padri, al contrario, non risultano variare in funzione del numero dei figli. Nel passare da 1 a 2 figli i padri incrementano il lavoro familiare di 4 e da 2 a 3 figli di altri 3 minuti. Cresce la partecipazione dei padri nel lavoro familiare Sebbene il contributo dei padri al lavoro familiare resti residuale, tra il 1988 e il si è registrata comunque una crescita nella loro partecipazione, sia in termini di numerosità di soggetti che svolgono attività di lavoro familiare (aumentata di 6 punti percentuali), sia in termini di tempo mediamente dedicato a tali attività (+21 minuti). Una crescita lenta se si considera che sono passati ben 14 anni, ma pur sempre una crescita. Numerosi fattori, sia di tipo strutturale che comportamentale, possono aver contribuito a tale crescita. Il maggiore coinvolgimento dei padri nel lavoro familiare è spiegato sia da mutamenti strutturali (livello più elevato del titolo di studio del padre, crescita dell impegno extra-domestico delle partner) sia dalla crescente propensione dei padri a svolgere lavoro familiare. Tuttavia, il coinvolgimento dei padri si accresce solo nel lavoro di cura (da 27 a 45 minuti) mentre diminuisce in quello domestico. Partecipano di più i padri con un più elevato titolo di studio (dedicano al lavoro familiare 1h13 i padri con al più la licenza elementare contro 1h47 di quanti hanno conseguito la laurea), i lavoratori dipendenti (1h53 contro 1h14 dei lavoratori autonomi), quelli che hanno la partner occupata (1h55 contro 1h31 nel caso in cui la donna sia casalinga). Anche la dimensione territoriale appare significativa: i padri del Sud sono coinvolti mediamente per 1h27 al giorno contro 1h58 dei padri residenti nel Nord-Ovest. 4

5 Infine, se il numero di figli non modifica in maniera significativa il contributo dei padri al lavoro familiare, il discorso è diverso considerando l età e il sesso del figlio. Un figlio piccolo, infatti, induce anche i padri ad essere più presenti nella vita familiare: in presenza di un figlio minore di 6 anni, i padri dedicano al lavoro familiare mediamente ben 52 minuti al giorno in più rispetto a quanti hanno un figlio di età compresa tra 11 e 13 anni (1h56 contro 1h04 ). Infine un dato curioso, emerso anche in altre ricerche internazionali, riguarda l impatto del sesso dei figli sul coinvolgimento paterno. I padri di figli solo maschi dedicano al lavoro familiare 12 minuti di tempo in più dei padri solo di figlie femmine. Le variazioni riguardano essenzialmente il lavoro di cura. Anche il numero di padri effettivamente coinvolti nel lavoro familiare è più elevato in presenza di soli figli maschi: l 81,6% contro il 77,1%. Il coinvolgimento dei padri è maggiore nel lavoro di cura dei figli I padri che mediamente nel corso di una giornata svolgono attività di cura sono più numerosi di quanti svolgono attività domestiche (58,6% contro 50,7%) e, mediamente, è pure più elevato il tempo che dedicano alla cura dei figli rispetto ai lavori di gestione della casa (rispettivamente 45 e 38 minuti). Di conseguenza, nonostante l impegno dei padri nella cura dei figli continui ad essere secondario rispetto a quello delle madri, il confronto con la partner evidenzia un asimmetria interna alla coppia rispetto al lavoro di cura più contenuta (72,7%) di quella rilevata per le attività domestiche (85,4%). Potendo scegliere i padri preferiscono contribuire al lavoro familiare dedicandosi ai figli, piuttosto che al lavoro di pulizia della casa, preparazione pasti, lavare, stirare, eccetera. La dimensione della scelta è evidentemente secondaria per le madri: in un giorno medio trascorrono il 62 per cento del tempo complessivamente dedicato al lavoro familiare svolgendo lavori domestici. Appena il 28 per cento è impiegato per le attività di cura dei figli. Per i padri le percentuali sono rispettivamente 36,5% e 43,2%. La preferenza dei padri verso attività non routinarie o che comunque privilegiano la dimensione relazionale piuttosto che quella dell accudimento, sembra confermata anche dall analisi delle specifiche attività di cura dei figli. Mentre le mamme rispondono alle più diverse esigenze dei figli, e la gran parte del loro lavoro è rappresentato da cure fisiche o sorveglianza (dar da mangiare, vestire, fare addormentare il bambino o semplicemente tenerlo d occhio per un totale del 58,3%), il lavoro di cura dei padri si esplicita per lo più (57,7%) in attività ludiche o di semplice interazione sociale con i figli. I dati analizzati a partire dall indagine sull uso del tempo confermano ciò che già si evidenziava nell indagine del 1998: l impegno dei padri aumentava in presenza di un titolo di studio più alto, di un orario di lavoro più contenuto e nel caso in cui la donna lavorava. La presenza di aiuti esterni alla famiglia, retribuiti e non, non sostituiva le cure paterne, anzi laddove c erano aiuti esterni anche i padri sembravano più propensi a collaborare. Ciò significa che probabilmente gli aiuti esterni sono essenzialmente sostitutivi del tempo materno, la madre che lavora cioè lascia libera una certa quota di attività di cura che viene fornita da più soggetti, tra cui anche il padre. 5

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