Elementi di Chimica Fisica

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1 Elementi di Chimica Fisica Note integrative agli appunti di lezione Antonino Polimeno Dipartimento di Scienze Chimiche Università degli Studi di Padova

2 Indice generale 1 Funzioni di stato e proprietà volumetriche Temperatura ed equilibrio termodinamico Equazione di stato dei gas perfetti Fattore di compressibilità ed espansione del viriale Equazione di stato di van der Waals e stati corrispondenti Coefficienti di compressibilità e di espansione termica Approfondimenti Esistenza della temperatura Il termometro a gas Altre equazioni di stato I Principio della termodinamica Energia e trasformazioni Lavoro Calore e I principio Fenomeni dissipativi Calorimetria a volume costante Entalpia e calorimetria a pressione costante II Principio della termodinamica Entropia e II principio Macchine termiche Determinazione di variazioni entropiche Entropia assoluta e III Principio Energia libera ed equilibrio di fase di sostanze pure Approfondimenti Processi a flusso stazionario Trasformazioni di sistemi gassosi perfetti Il moto perpetuo Altre macchine termiche Grandezze termodinamiche standard Definizioni ed uso delle tabelle di grandezze standard di formazione

3 2 INDICE GENERALE 5 Relazioni differenziali Funzioni di piú variabili Funzioni omogenee Forme differenziali Trasformazione di Legendre Differenziale fondamentale della termodinamica Relazioni di Maxwell Approfondimenti Metodo sistematico per ricavare relazioni differenziali Proprietà termodinamiche di sostanze pure Gas perfetti Gas reali: fugacità Effetto Joule-Thomson Proprietà delle fasi condensate Equilibri di fase delle sostanze pure Diagrammi di stato e punto critico Equazione di Clapeyron e sue applicazioni Soluzioni: grandezze fondamentali e miscele gassose Grandezze parziali molari Mescolamento di una miscela gassosa perfetta Equazione di Gibbs-Duhem Miscela gassosa reale Approfondimenti Miscele gassose ideali Soluzioni: proprietà generali e soluzioni ideali Regola delle fasi Proprietà generali delle soluzioni Diagrammi di stato delle soluzioni: dati sperimentali Potenziali chimici per le soluzioni ideali Soluzioni ideali e leggi di Raoult ed Henry Proprietà di mescolamento delle soluzioni ideali Dipendenza da T e p degli equilibri di soluzioni ideali Approfondimenti Fasi anisotrope Soluzioni: comportamenti non-ideali Coefficienti di attività Molalità Diagrammi pressione-composizione

4 INDICE GENERALE Diagrammi temperatura composizione: distillazione Liquidi parzialmente miscibili Soluzioni solido-liquido Proprietà colligative Grandezze di eccesso e modelli per i coefficienti di attività Approfondimenti Funzioni empiriche per soluzioni binarie Equilibri chimici Condizione di equilibrio chimico Diagramma energia libera-grado di avanzamento Equilibri chimici in fasi gassose Dipendenza da p e T Alcuni esempi Presenza di solidi o liquidi immiscibili Approfondimenti Sistemi con piú reazioni indipendenti Equilibri di reazione in soluzione Equilibri in soluzioni non elettrolitiche Soluzioni elettrolitiche Grandezze standard di formazione di sostanze ioniche solvatate Coefficiente di attività medio Modello di Debye-Huckel Approfondimenti Teoria delle soluzioni elettrolitiche di Debye-Huckel Celle elettrochimiche Celle galvaniche e pile Forza elettromotrice ed energia libera di reazione della cella Equazione di Nerst Potenziale di elettrodo Cinetica chimica: definizioni e metodi Velocità di reazione e legge cinetica Ordine di reazione Molecolarità Esempi Applicazioni Esempi di meccanismi di reazione Equilibrio Reazioni consecutive

5 4 INDICE GENERALE Reazioni parallele Reazioni a catena Reazioni di polimerizzazione e reazioni esplosive Catalizzatori ed inibitori Catalisi omogenea ed eterogenea Reazioni enzimatiche Calcolo delle costanti cinetiche Dipendenza della costante di velocità dalla temperatura Teoria dello stato di transizione Interpretazione termodinamica Struttura atomica Radiazione elettromagnetica Quanti e materia La catastrofe ultravioletta L effetto fotoelettrico Il modello di Bohr I principi della meccanica quantistica Approfondimenti Presentazione assiomatica della meccanica quantistica Autofunzioni ed autovalori Il principio di indeterminazione Sistemi semplici Particella libera in una scatola Oscillatore armonico Rotatore rigido La soluzione dell equazione di Schrödinger per l atomo di idrogeno L atomo di idrogeno Numero quantico di spin Hamiltoniani atomici e molecolari Stati di spin Principio di indistinguibilità Struttura degli atomi polielettronici Struttura molecolare La molecola di idrogeno Molecole biatomiche Molecole poliatomiche Coniugazione, flessibilità ed interazioni molecolari (cenni) Coniugazione

6 INDICE GENERALE Flessibilità molecolare Interazioni intermolecolari Spettroscopie Le principali tecniche spettroscopiche Spettroscopie ottiche Spettroscopia elettronica Legge di Lambert-Beer Spettroscopia infrarossa Proprietà magnetiche Risonanza magnetica nucleare Chemical shift Isotopi Approfondimenti Risonanza paramagnetica elettronica (cenni) Meccanica statistica Un singolo sistema Funzione di partizione e grandezze macroscopiche Un insieme di sistemi Dalla funzione q alla funzione Q Valuazione di q Calcolo di grandezze macroscopiche

7 6 INDICE GENERALE

8 Indice delle Figure 1.1 Misura della pressione atmosferica nell esperimento di Torricelli (1642) Equilibrio termico e principio zero Scale di temperatura Apparato sperimentale dell esperimento di Boyle (schema) Dati originali dell esperimento di Boyle Rappresentazione grafica dell equazione di stato dei gas perfetti (p contro V m, T ) Rappresentazione schematica di alcune isoterme dell anidride carbonica gassosa Andamenti del fattore di compressibilità contro pressione, a varie temperature Andamenti del fattore di compressibilità per vari gas, a temperatura fissata Rappresentazione grafica dell equazione di stato vdw per la CO 2 (p contro V m, T ) Rappresentazione schematica delle isoterme di un sistema vdw (p contro V m per la CO 2 ) Rappresentazione schematica di un termometro a gas a volume costante Schema dell esperimento di Joule Apparecchiatura usata da Joule nel Schema di calorimetro Calorimetro di Lavoisier-Laplace (1782) Macchina del moto perpetuo di I specie Ciclo di Carnot Macchine termiche accoppiate Temperatura assoluta Ciclo reversibile generico Ciclo parzialmente irreversibile Processo in flusso stazionario Macchina del moto perpetuo di Villard de Honnecort Macchina del moto perpetuo di Robert Fludd Macchina del moto perpetuo di Keely I 4 tempi del motore a scoppio Ciclo Otto Rappresentazione schematica delle derivate parziali di una funzione z = z(x, y)

9 8 INDICE DELLE FIGURE 5.2 Willard Gibbs è considerato uno dei fondatori della termodinamica moderna. In figura è riportato il frontespizio della suo testo fondamentale sulla termodinamica statistica S di un gas perfetto al variare del volume Andamento del coefficiente di fugacità in funzione di p r a varie T r Andamento qualitativo delle curve isoentalpiche e valutazione del coefficiente di Joule-Thomson per un gas reale Schema dell energia libera per la razionalizzazione di una transizione di fase Diagramma di stato dell anidride carbonica Diagramma di stato semplificato dell acqua Diagramma di stato semplificato dell ossido di silicio Tensione di vapore di alcuni liquidi Confronto tra i diagrammi di stato dell anidride carbonica e dell acqua Grafico per la determinazione delle entalpie parziali molari di una miscela binaria Mescolamento di una miscela gassosa binaria perfetta a partire da recipienti in equilibrio meccanico Mescolamento di una miscela gassosa binaria perfetta a partire da recipienti di volume dato Energia libera di mescolamento in una miscela binaria gassosa perfetta (mescolamento a volume costante) Coesistenza di due fasi in un sistema all equilibrio Varianza e fasi in un sistema monocomponente Varianza e fasi per Al 2 SiO Diagramma di stato benzene/metilbenzene Diagramma di stato cloroformio/acetone, con deviazioni negative dall idealità (a) e clorformio CS 2, con deviazioni positive dall idealità (b) Soluzione ideale diluita Cristalli liquidi: a) nematico; b) smettico A; c) smettico C Cristalli liquidi: a) e b) fasi blu; c) TGB Cristalli liquidi: MBBA (4-Methoxibenzylidene-4 -n-butylaniline), PAA (4,4 -Dimethoxyazoxy benzene), 5CB (4 -n-pentyl-4-cyanobiphenyl) Composizione del vapore contro composizione della soluzione e tensione di vapore totale contro composizione del vapore per una soluzione ideale, a vari valori di p 1 /p Diagrammi pressione-composizione Diagramma schematico temperatura-composizione Apparato di distillazione di laboratorio Un antico apparato di distillazione Esempio di diagramma temperatura-composizione che presenta un azeotropo a basso punto di ebollizione

10 INDICE DELLE FIGURE Esempio di diagramma temperatura-composizione che presenta un azeotropo ad alto punto di ebollizione Diagramma di stato schematico per due liquidi parzialmente miscibili Diagramma temperatura composizione di due liquidi parzialmente miscibili a pressione fissata Diagramma temperatura composizione di una soluzione solido-liquido Diagramma temperatura composizione del sistema acqua-nacl Osmosi e pressione osmotica Misura della pressione osmotica Diagramma dell energia libera di eccesso e di mescolamento per una soluzione regolare Andamento qualitativo dell energia libera contro il grado di avanzamento della reazione A + B = 2C Apparato di laboratorio di Fritz Haber e Robert Le Rossignol per la produzione di ammoniaca; il processo industriale è noto come processo Haber-Bosch Resa contro pressione per la sintesi di Haber Grafico del logaritmo decimale del coefficiente di attività media in funzione della forza ionica (curve: dati sperimentali; rette: equazione di Debye-Huckel.) Modello qualitativo dell atmosfera ionica: in nero sono indicati i cationi, in bainco gli anioni Calcolo della distribuzione di carica attorno ad un catione: l osservatore M è in moto con il catione, e vede una carica netta media diversa da zero in un elemento di volume ad una posizione fissa rispetto al catione; l osservatore F è in quiete, e vede una carica netta media nulla in un elemento di volume in quiete Dall alto, in senso orario: Galvani, Volta, Nernst e Faraday Un esempio di cella galvanica: pila Daniell Un esempio di cella galvanica Elettrodo ad idrogeno Schema di un apparato a flusso interrotto per lo studio di cinetiche enzimatiche Decadimento radio/radon Reazioni consecutive: k b /k a = Reazioni consecutive: k b /k a = Decadimento dell uranio Limiti di esplosione di una miscela stechiometrica idrogeno-ossigeno Catalisi eterogenea: idrogenazione del legame -C=C Schema generale del meccanismo di una catalis enzimatica Velocità di reazione di una catalis enzimatica Diagramma schematico energia/coordinata di reazione Cammino di reazione Formazione dello stato di transizione (pre-equilibrio) ed evoluzione a prodotti

11 10 INDICE DELLE FIGURE 17.1 Radiazione elettromagnetica: campo elettrico e magnetico oscillanti rispetto a E e B; la direzione di propagazione è x; il campo elettrico è diretto lungo y Modello planetario Orbite periodiche Spettro dell atomo di idrogeno Rappresentazione degli orbitali dell atomo di idrogeno in termini di densità elettronica Gusci raggruppati secondo il numero quantico Periodicità del raggio atomico Molecola di idrogeno Orbitali di legame e di antilegame della molecola di idrogeno Potenziali degli orbitali di legame ed antilegame di H Metodo LCAO per molecole biatomiche omonucleari Livelli energetici LCAO per l acido fluoridrico HF La struttura della molecola d acqua Orbitali atomici ibridi sp ed orbitali molecolari per l acetilene La struttura del butadiene Conformazioni e potenziale interno per il butano Potenziale di Lennard-Jones per due atomi di argon Stati iniziali e finali in una transizione elettronica: tipologie di sovrapposizione tra stato fondamentale e stato eccitato Schema delle transizioni di assorbimento ed emissione UV-visibile Bande di assorbimento ed emissione UV-visibile Schema di uno spettrometro UV-visibile Schema di uno spettrometro IR Linee di campo nei materiali magnetici Quantizzazione del momento magnetico orbitalico Transizioni tra livelli magnetici Schema di uno spettrometro NMR Chemical shift Spettro 1 H NMR dell etanolo Accoppiamento spin-spin per l etanolo Aumento di E per un elettrone spaiato all aumentare del campo magnetico Spettri EPR di TEMPO in etanolo assorbito su allumina porosa a varie temperature Popolazioni di livelli energetici Gas monoatomico perfetto Assi e piani di simmetria della molecola d acqua

12 Indice delle Tabelle 1.1 Unità di misura della pressione Termometri e proprietà termometriche Relazioni tra scale di temperature Costante dei gas Coefficienti di van der Waals Esempi di lavoro Alcune Entalpie standard di formazione a K Entalpie standard di formazione dell acqua a varie temperature Relazioni differenziali per le grandezze p, V, T, S: ogni riga X incrocia una colonna Y, e la casella contiene le derivate rispetto ad una delle due possibili Z; con la relazione C p C V = T V α 2 /κ bastano tre grandezze tra C p, C V, α, κ per descrivere un sistema Coefficienti di attività ottenuto per interpolazione da un diagramma di correlazione basato sulla equazione (6.14) e misurato direttamente per Ar (T c = 151K e p c = 48atm); dati da R. Newton, Industr. Engng. Chem. 27, Coefficienti di attività ottenuto per interpolazione da un diagramma di correlazione basato sulla equazione (6.14) e misurato direttamente per l etanolo (T c = 516.2K e p c = 63.1atm); dati da R. Newton, Industr. Engng. Chem. 27, Coefficienti di Henry in acqua a K; Yaws, C.L.; Yang, H.-C., Henry s law constant for compound in water in Thermodynamic and Physical Property Data, C. L. Yaws, ed(s)., Gulf Publishing Company, Houston, TX, 1992, Costanti crioscopiche ed ebullioscopiche di alcuni solventi K p vs. p per la sintesi dell ammoniaca Determinazione dei coefficienti di fugacità nella sintesi dell ammoniaca a 450 C e 300 atm K f vs. p per la sintesi dell ammoniaca Entalpie, energie libere ed entropie di formazione per gli ioni alogenuro Unità atomiche

13 12 INDICE DELLE TABELLE Prefazione La ricerca scientifica ha come scopo la descrizione dei fenomeni della natura per mezzo di leggi matematiche. Nel corso dei secoli, a partire da Ruggero Bacone e Galileo Galilei, il metodo sperimentale ha acquisito una fisionomia definita, che si organizza secondo lo schema 1. la descrizione e l osservazione sperimentale quantitativa del fenomeno naturale 2. la formulazione di un ipotesi interpretativa 3. l effettuazione di un esperimento che verifichi o smentisca l ipotesi 4. la definizione di una legge matematica che descrive l ipotesi interpretativa del fenomeno Ma il metodo sperimentale non è neutrale: il ricercatore opera scelte personali ad ogni passaggio, in base a considerazioni in ultima analisi opportunistiche, non-scientifiche e fortemente influenzate dal suo carattere, dalla sua mentalità e soprattutto dal momento storico in cui vive. Cosí lo sviluppo delle applicazioni della termodinamica prima e della meccanica quantistica poi alle discipline chimiche sono storicamente collocabili in un periodo che va dalla fine del XVIII alla prima parte del XX secolo per molte ragioni: la nascita dell industria moderna, la disponibilità di nuovi strumenti mentali resi disponibili dall Illuminismo ed anche di nuovi strumenti tecnologici - per esempio nuovi metodi sofisticati di misura della temperatura e della pressione. La termodinamica chimica in particolare si sviluppa seguendo coordinate ben precise anche da un punto di vista geografico, in Europa, perlopiú in Inghilterra, Francia e Germania, paesi impegnati in quel periodo in una fase di notevole espansione economica, ed in una situazione di forte competizione culturale e bellica. Quindi la ricerca si concentra sui fenomeni naturali di maggiore interesse per le società dell epoca: la resa di una macchina a vapore, il calore necessario a fondere un cannone, la relazione tra energia spesa e lavoro ottenuto (il primo ed il secondo principio della termodinamica sono di natura eminentemente economica, come vedremo piú avanti), le condizioni per massimizzare la resa dei processi chimici industriali e così via.

14 Capitolo 1 Funzioni di stato e proprietà volumetriche Come ogni disciplina scientifica, la termodinamica dispone di un suo linguaggio specifico, che contiene termini tecnici esattamente definiti. È utile dare una serie di definizioni introduttive, necessariamente non rigorose ma almeno intuitivamente corrette 1. La termodinamica si occupa dello stato interno di un sistema fisico, definito come una porzione limitata di materia, mediante la definizione e lo studio delle sue proprietà macroscopiche o coordinate termodinamiche. Gli scopi della termodinamica sono 1. l individuazione dei principi generali che regolano lo stato dei sistemi 2. l individuazione delle coordinate termodinamiche dei sistemi 3. l individuazione delle relazioni generali che esistono tra le coordinate termodinamiche in accordo con i principi generali In questa prima parte del Corso, ci occuperemo principalmente della definizione dei principi o leggi della termodinamica, iniziando nel Capitolo 1 a definire di concetti di funzioni di stato per descrivere proprietà termodinamiche, di temperatura ed equilibrio termico, facendo riferimento principalmente alle proprietà dei sistemi gassosi. Nel Capitolo 2 descriveremo il principio dell equivalenza tra energia termica e lavoro, che costituisce il I principio della termodinamica. Il Capitolo 3 è infine dedicato alla definizione dell entropia ed all introduzione del II principio della termodinamica. I sistemi termodinamici si possono classificare in accordo con le loro modalità di interazione con il resto dell universo (ambiente) i sistemi isolati non sono influenzati in alcun modo dall ambiente i sistemi chiusi possono scambiare energia, ma non materia con l ambiente i sistemi aperti possono scambiare energia e materia con l ambiente 1 Come succede spesso, termini del linguaggio corrente assumono un significato diverso nel dialetto di una scienza. Fate attenzione a non confondere il significato comune di un termine con il suo significato tecnico-scientifico. 13

15 14 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE La descrizione termodinamica di un sistema non considera i dettagli microscopici (molecolari). Piuttosto, vengono individuate alcune variabili macroscopiche che definiscono lo stato di un sistema. Le variabili termodinamiche o funzioni di stato o coordinate termodinamiche possono essere interpretate, naturalmente, come la media di grandezze microscopiche - ed è questo uno degli obiettivi principali della meccanica statistica - ma in generale la descrizione termodinamica prescinde da qualunque interpretazione molecolare. Qua e là useremo comunque concetti di natura molecolare, come per esempio la definizione della massa di un sistema in termini di moli, o faremo cenno all interpretazione microscopica di principi termodinamici, come la relazione tra disordine molecolare ed entropia residua 2. Evidentemente, la descrizione termodinamica dello stato di un sistema, basata cioè su un numero limitato di funzioni di stato, costituisce un idealizzazione (o meglio, un modello) di un sistema fisico reale. Una porzione di sistema aventi tutte le coordinate termodinamiche costanti (o variabili in modo continuo nello spazio) si dice fase. Per la precisione, il termine funzione di stato sarà riservato a quelle proprietà termodinamiche aventi la seguente importante caratteristica: essere una quantità che dipende solo dallo stato presente del sistema, e non dalle modalità secondo le quali lo stato stesso del sistema è stato prodotto. Per quanto ovvia, questa proprietà formale ha grandissime conseguenze formali e pratiche. Da un punto di vista matematico, data una funzione di stato X potremo scrivere dx = 0 (1.1) dove indica un integrale di linea su un percorso chiuso, vale a dire una successione di stati di equilibrio del sistema con lo stato iniziale e finali coincidenti; affermare che la funzione X è una funzione di stato coincide con la dimostrazione della (1.1). Possiamo classificare le proprietà termodinamiche di un sistema secondo lo schema seguente proprietà estensive come il volume: dipendono in modo lineare dalla massa del sistema proprietà intensive come la pressione: non dipendono dalla quantità di materia che costituisce il sistema Tra le coordinate termodinamiche di un sistema rientrano a pieno titolo le coordinate di composizione: un sistema può essere costituito da molteplici componenti chimici e varie fasi. Infine è importante introdurre, almeno qualitativamente, il concetto di equilibrio: un sistema in equilibrio non presenta variazioni nel tempo delle sue proprietà termodinamiche, se le condizioni esterne non cambiano 3. Nel seguito ci occuperemo esclusivamente di sistemi in equilibrio, e di trasformazioni tra sistemi in equilibrio; nella prima parte del Corso inoltre limiteremo la nostra indagine a sistemi monofasici (e monocomponenti, od almeno a composizione costante). Consideriamo dunque un sistema chiuso, monofasico, a composizione costante. Quante sono le coordinate termodinamiche indipendenti, rispetto alle quali possiamo cioè esprimere tutte le proprietà termodinamiche del sistema? Si può notare che in generale la termodinamica non fornisce alcun criterio per stabilire il numero minimo di coordinate termodinamiche necessarie per descrivere un sistema, in assenza di informazioni specifiche. Vedremo però in uno dei Capitoli successivi come sia possibile stabilire delle relazioni tra il numero 2 Si tratterà sempre però di affermazioni non strettamente necessarie allo sviluppo logico della descrizione termodinamica, che è di per sè chiusa, non necessita cioè di interpretazioni o definizioni atomistiche per la sua coerenza interna 3 Si tratta di una definizione poco soddisfacente, che cercheremo di migliorare in seguito

16 15 di variabili indipendenti, il numero dei componenti chimici ed il numero di fasi di un sistema. Un sistema chiuso, monofasico, a composizione costante è descrivibile da tre funzioni di stato, una estensiva (per esempio la sua massa M) e due intensive, X, Y. Ogni altra proprietà intensiva del sistema sarà definita come una funzione delle due proprietà intensive di partenza, mentre ogni altra proprietà estensiva sarà una funzione (lineare) della massa e delle due proprietà intensive I i = f Ii (X, Y ) (1.2) E i = M f Ei (X, Y ) (1.3) dove f Ii e f Ei sono funzioni caratteristiche delle proprietà I i e E i. Un buon esempio è costituito da una certa quantità di gas racchiuso in un volume definito - una miscela di aria e carburante nella camera di combustione di un pistone in un motore a scoppio, prima dello scoppio, od una porzione di elio racchiusa in un pallone trattenuto all altezza di un paio di metri dal livello del mare in un pomeriggio primaverile in un parco pubblico di una città europea 4. Le proprietà estensive primarie che definiscono lo stato di un sistema monofasico a composizione costante sono la sua massa, definibile anche in termini di numero di moli totali, n adimensionale, ed il suo volume V (m 3 ). Esiste inoltre un importante proprietà intensiva che caratterizza l interazione meccanica di un sistema con l ambiente, la pressione: definiamo come pressione p una forza per unità di superficie, e ricordiamo che nel sistema internazionale l unità di misura della pressione è il pascal (Pa) pari ad 1 N m 2. Una pressione di 10 5 Pa = 1 bar, indicata anche con p, è detta pressione standard. È Nome Simbolo Valore pascal Pa 1 N m 2 = 1 kg m 1 s 2 bar bar 10 5 Pa atmosfera atm Pa torr Torr 1/760 atm = Pa millimetro di Hg mmhg 1 Torr = Pa Tabella 1.1: Unità di misura della pressione circa, ma non esattamente, uguale ad un atmosfera, ovvero alla pressione esercitata da una colonna alta 760 millimetri di mercurio sulla superficie della sua base (come nel famoso esperimento di E. Torricelli del 1642, che per primo misura in questo modo, pare su suggerimento di Galileo, la pressione esercitata dall atmosfera). Consideriamo due sistemi monofasici 1 e 2, chiusi (la quantità di massa relativa a ciascun sistema è dunque costante): per esempio due sistemi gassosi racchiusi in due contenitori rigidi, isolati dall ambiente, ma separati da una parete mobile. I due sistemi saranno in condizioni di equilibrio meccanico quando la pressione esercitata dai due sistemi sulla parete sarà uguale L equilibrio meccanico è quello stato caratterizzato dai valori delle coordinate termodinamiche che due sistemi raggiungono quando vengono messi in contatto tramite una parete rigida mobile. Evidentemente, dati piú di due sistemi a contatto fra loro, le condizioni di equilibrio meccanico si estendono automaticamente: se due sistemi sono in equilibrio meccanico con un terzo sistema (cioè esercitano la stessa pressione sul terzo sistema), saranno in equilibrio fra loro, come semplice consequenza della natura meccanica dell equilibrio (uguaglianza di forze). 4 Una lunga perifrasi per indicare condizioni di temperatura e pressione di 25 C ed 1 atmosfera

17 16 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Figura 1.1: Misura della pressione atmosferica nell esperimento di Torricelli (1642)

18 1.1. TEMPERATURA ED EQUILIBRIO TERMODINAMICO 17 Figura 1.2: Equilibrio termico e principio zero. 1.1 Temperatura ed equilibrio termodinamico La verifica sperimentale ci insegna che la pressione ed il volume non sono sufficienti a definire lo stato di un sistema. Esiste un altra proprietà (intensiva) non meccanica che è legata alla quantità di energia del sistema, di cui però ci manca ancora una definizione appropriata. Consideriamo ancora due sistemi monofasici 1 e 2, chiusi (la quantità di massa relativa a ciascun sistema è dunque costante): per esempio due sistemi gassosi racchiusi in due contenitori rigidi, isolati dall ambiente, ma separati da una parete comune. Sappiamo (dall esperienza, come abbiamo discusso brevemente nella sezione precedente) che sono necessarie due coordinate termodinamiche per definire completamente lo stato di ciascun sistema. Se la parete tra i due sistemi non permette lo scambio di energia viene detta parete adiabatica e, ancora dall esperienza, si può affermare che i valori delle coppie di coordinate (X 1, Y 1 ) e (X 2, Y 2 ) sono totalmente indipendenti. Se però la parete è resa diatermica o conduttrice di energia, allora le coppie di coordinate termodinamiche (X 1, Y 1 ) e (X 2, Y 2 ) non sono indipendenti: partendo da uno stato iniziale arbitrario, cambieranno sino a raggiungere dei valori di equilibrio. Parliamo in effetti di equilibrio termico L equilibrio termico è quello stato caratterizzato dai valori delle coordinate termodinamiche che due sistemi raggiungono quando vengono messi in contatto tramite una parete conduttrice. Anche per l equilibrio termico possiamo definire una proprietà transitiva, che però, da un certo punto di vista è meno intuitiva del caso dell equilibrio meccanico. Si tratta del cosiddetto principio zero della termodinamica Due sistemi in equilibrio termico con un terzo sistema sono in equilibrio termico fra loro. Riassumendo, abbiamo definito l esistenza di condizioni di equilibrio meccanico e termico tra sistemi (almeno nel caso di sistemi a composizione costante). In seguito parleremo di sistemi in equilibrio termodinamico per indicare le condizioni di equilibrio sia meccanico che termico. A questo punto è chiaro che abbiamo bisogno di una nuova coordinata termodinamica intensiva, analoga alla pressione, che ci permetta di definire il contenuto energetico di un sistema e di definire in modo quantitativo la condizione di equilibrio termico. Definiamo questa grandezza temperatura; il principio zero ci assicura che esiste una funzione di stato che stabilisce le condizioni di equilibrio termico tra un numero arbitrario di sistemi termodinamici. Dal principio

19 18 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Termometro Gas Resistore Termocoppia Sale paramagnetico Proprietà termometrica Pressione Resistenza elettrica Forza elettromotrice termica Suscettività magnetica Tabella 1.2: Termometri e proprietà termometriche zero è facilmente dimostrabile l esistenza di una funzione con queste proprietà per un sistema monofasico, vedi la sottosezione (1.6.1). La temperatura si può definire operativamente misurando una qualche proprietà X di un sistema prescelto, cioè di un termometro, e definendo una funzione (lineare, per semplicità) θ(x) = costx. Diremo che un determinato sistema ha una temperatura θ(x) se, posto il sistema a contatto diatermico con il termometro, la proprietà termometrica di quest ultimo raggiunge il valore X all equilibrio termico. Avendo adottato una relazione lineare di temperatura, possiamo definire facilmente una procedura operativa che definisce una scala di temperatura. Consideriamo per esempio due stati facilmente riproducibili a e b di un sistema campione. Un termometro a contatto con i due stati del sistema campione fornisce le temperature θ(x a ) = costx a e θ(x b ) = costx b. In uno stato arbitrario vale invece che θ(x) = costx; ponendo insieme queste tre relazioni lineari θ(x) = θ(x a) θ(x b ) X X a X b definendo perciò i valori θ(x a ) e θ(x b ) possiamo definire una funzione temperatura data la misura della proprietà termometrica X; per esempio se definiamo come 0 la temperatura dell acqua satura d aria alla pressione di 1 atm in equilibrio con ghiaccio e con 100 la temperatura dell acqua in equilibrio con vapore acqueo ad 1 atm, abbiamo la scala Celsius di temperatura ( C). Altre scale di temperatura note sono la scala Fahrenheit ( F), che considera i valori dei due medesimi punti fissi, per lo stesso sistema campione, rispettivamente 32 e 212 invece di 0 e 100, e soprattutto la scala Kelvin ( K), che definisce arbitrariamente la temperatura del punto triplo dell acqua, cioè di quello stato (unico) di coesistenza di acqua pura solida, liquida e gassosa come K. Qualunque temperatura è perciò definita semplicemente come (1.4) θ(x) = X X p.t. (1.5) La temperatura è dunque definita come una grandezza misurabile, intensiva, ma il cui valore dipende in ultima analisi dal sistema usato come termometro. Tra i vari termometri possibili, ha un particolare significato, sia applicativo che teorico, il termometro a gas perfetto, che è costituito sostanzialmente da un apparato che usa come proprietà termometrica la pressione di un gas. Il termometro a gas opera in modo tale da ripetere la misurazione a pressioni sempre piú basse, che corrispondono a condizioni in cui qualunque gas si comporta in maniera identica - parliamo in questo caso di gas perfetto (vedi Sez. (1.2)). Una breve descrizione del funzionamento del termometro a gas è data nella sottosezione di approfondimento (1.6.2). Come vedremo in seguito, la temperatura è in realtà una grandezza universale che può essere ri-definita prescindendo dal sistema di misura; in questo caso parleremo di scala termodinamica della temperatura e verificheremo che la temperatura con un scala Kelvin misurata da un termometro a gas perfetto coincide con

20 1.1. TEMPERATURA ED EQUILIBRIO TERMODINAMICO 19 Figura 1.3: Scale di temperatura. la temperatura termodinamica; parleremo perciò nel seguito di temperatura assoluta T o termodinamica, di cui indicheremo l unità di misura con K (senza il simbolo di grado ). Nel seguito useremo sempre il simbolo Fahrenheit Celsius Kelvin Fahrenheit \\ θ F = 9 5 θ C + 32 θ F = 9 5 T Celsius θ C = 5 9 (θ F 32) \\ θ C = T Kelvin T = 5 9 (θ F ) T = θ C \\ Tabella 1.3: Relazioni tra scale di temperature T per la temperatura, intendendo la temperatura assoluta o termodinamica, salvo quando discuteremo, nel corso dell esposizione del secondo principio della termodinamica, il fondamento della definizione stessa di temperatura; per indicare la funzione temperatura secondo una qualche scala e misura arbitrarie useremo in questo caso il simbolo θ. Il funzionamento del termometro a gas è conseguenza diretta delle proprietà dei gas perfetti. Lo studio delle caratteristiche fisiche dei sistemi gassosi si rivela perciò ancora una volta non solo un interessante prototipo per la definizione di relazioni operative di interesse applicativo, ma anche di interesse specifico per la comprensione dei principi fondamentali della termodinamica. Le sezioni successive sono dedicate perciò alla discussione delle proprietà dei sistemi gassosi.

21 20 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE 1.2 Equazione di stato dei gas perfetti A partire dalla seconda metà del XVII secolo, fin quasi alla fine del secolo XIX, una serie di accurate osservazioni sperimentali permisero di razionalizzare il comportamento dei sistemi gassosi, almeno entro limtati intervalli di pressione e temperatura. Lo sviluppo delle leggi dei gas si rivela in seguito uno dei fondamenti principali della chimica fisica moderna, e contribuisce alla definizione di numerosi concenti fondamentali, che oggi consideriamo scontati come la temperatura assoluta, la mole etc. Le leggi dei gas, e l equazione di base che le riassume, costituiscono naturalmente una descrizione approssimata dei comportamenti dei sistemi gassosi reali, che però tendono al comportamento ideale a basse pressioni e temperature sufficientemente elevate (in pratica in condizioni standard, a 25 C l aria si comporta come una miscela di gas perfetti, con modeste deviazioni). Vedremo in seguito come questo modo di procedere - definizione di un sistema ideale come modello per il comportamento del sistema reale - sia tipico dello studio della termodinamica. Tra le prime ricerche è senz altro da porsi lo studio di Robert Boyle, che nel 1662 raggiunge le seguenti conclusioni: Legge di Boyle: a temperatura costante, il prodotto della pressione esercitata da un volume dato di gas di massa fissata, è costante pv = cost (1.6) È interessante notare che le misure di Boyle furono possibili anche alla sua collaborazione con Robert Hooke, che gli permise di costruire una delle prime pompe ad aria. Il passo successivo è dovuto a Guillame Amontons, che sviluppa un primo rudimentale termometro a gas (l aria). In pratica Amontons fu il primo a porre in relazione una variazione di temperatura con una variazione di volume (e pressione). Si devono però attendere gli studi di Jacques Charles, che nel 1787 esprime quantitativamente al relazione tra volume e temperatura di un gas a pressione costante. Charles non pubblicò mai i suoi risultati, che in parte riproducevano le conclusioni, vecchie quasi un secolo, di Amontons. Fu invece Joseph Gay-Lussac a presentare risultati accurati alla comunità scientifica nel Legge di Charles/Gay-Lussac: a pressione costante, il volume di un gas di massa fissata, è lineare con la temperatura V = cost(θ C ) (1.7) Fu infine Carlo Avogadro, conte di Quaregna e di Cerreto a suggerire nel 1811 una relazione quantitativa tra il volume totale di un gas (a pressione e temperatura costanti) e la quantità di massa presente. Le conclusioni di Avogadro, che furono alla base della moderna teoria atomica sono esprimibili nel Principio di Avogadro: volumi uguali di gas, a pressione e temperatura costanti, contengono ugual numero di molecole; il volume di un gas a temperatura e pressione costanti è proporzionale al numero di moli. V = cost n (1.8) Le leggi dei gas possono essere unificate in un unica equazione, che costitusce l equazione di stato dei gas perfetti per un sistema gassoso ad un componente pv = nrt (1.9)

22 1.2. EQUAZIONE DI STATO DEI GAS PERFETTI 21 Figura 1.4: Apparato sperimentale dell esperimento di Boyle (schema).

23 22 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Figura 1.5: Dati originali dell esperimento di Boyle.

24 1.3. FATTORE DI COMPRESSIBILITÀ ED ESPANSIONE DEL VIRIALE 23 R è la costante dei gas, il cui valore numerico dipende naturalmente dalle unità di misura impiegate per descrivere il sistema Un equazione di stato lega fra loro le coordinate termodinamiche estensive (n, V ) ed Valore numerico di R unità di misura J K 1 mol L atm K 1 mol L bar K 1 mol Pa m 3 K 1 mol L Torr K 1 mol cal K 1 mol 1 Tabella 1.4: Costante dei gas intensive (p, T ) del sistema. Nel 1801, John Dalton determina la relazione esistente tra la pressione totale esercitata da una miscela di gas (ideali) e le pressioni parziali esercitate da ciascun componente Legge di Dalton: la pressione totale di una miscela di gas è data dalla somma delle pressioni parziali dei singoli componenti p = i p i (1.10) Le pressioni parziali sono determinabili dalla legge dei gas, in base al numero di moli di ciascun componente p i = n irt V (1.11) In Fig. (1.6) sono illustrati gli stati possibili di un gas perfetto, sotto forma della superficie che rappresenta il valore di p in funzione del volume per mole V m e della temperatura T. A temperatura costante, le curve che uniscono i possibili valori di (p, V m ) secondo la legge di Boyle sono le isoterme; a volume costante le curve (in questo caso, delle rette) (p, T ) sono le isocore. 1.3 Fattore di compressibilità ed espansione del viriale Le isoterme di un gas reale, come l anidride carbonica, presentano un andamento esemplificato in Fig. (1.7). È evidente la deviazione dal comportamento ideale, e la presenza di un isoterma critica corrispondente ad un temperatura critica T c (per la CO 2, T c 31 C) al di sopra della quale il gas esiste a qualunque pressione (cioè non si può liquefare). Per un isoterma al disotto della temperatura critica il sistema esiste come gas (per volumi molari a destra del punto A), come sistema misto liquido-vapore (tra A e B) e come liquido (a sinistra di B). Deviazioni dall idealità sono comunque già presenti sopra la temperatura critica. Questi argomenti verranno ripresi in seguito con la discussione di diagrammi di stato delle sostanze pure e delle soluzioni, cioè delle rappresentazioni grafiche dei possibili stati di esistenza delle varie fasi di un sistema. Per ora ci basta notare i) l esistenza delle grandezze critiche, la temperatura critica T c e i corrispondenti volume molare critico V c e pressione critica p c che identificano il punto di flesso dell isoterma critica; ii) la caratteristica elevata pendenza del ramo liquido delle isoterme sotto l isoterme critica, tipica di una fase

25 24 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Figura 1.6: Rappresentazione grafica dell equazione di stato dei gas perfetti (p contro V m, T ). Figura 1.7: Rappresentazione schematica di alcune isoterme dell anidride carbonica gassosa.

26 1.4. EQUAZIONE DI STATO DI VAN DER WAALS E STATI CORRISPONDENTI 25 condensata (non facilmente comprimibile ); iii) il significato fisico del valore di pressione costante che si osserva tra i punti A e B, che è la pressione di vapore esercitata dal gas in equilibrio con il liquido (tensione di vapore). Con una procedura tipica della chimica fisica, una scienza che si occupa di sistemi complessi, possiamo introdurre una descrizione dei gas reali partendo dalla descrizione dei gas perfetti, considerata come una teoria semplificata a cui aggiungere termini di approssimazione successiva. La grandezza che meglio si presta a misurare il discostamento di un gas reale dal comportamento ideale è il fattore di compressibilità, definito come il rapporto tra il prodotto della pressione e del volume molare V m = V/n e di RT Z = pv m RT (1.12) Si noti che data una grandezza estensiva (per esempio il volume), possiamo sempre definire una grandezza intensiva collegata, definita come la grandezza estensiva stessa divisa per il numero di moli di sostanza: parliamo in questo caso di grandezza molare. Il fattore di compressibilità di un gas perfetto vale 1, per la legge dei gas perfetti. Ne consegue che il fattore di compressibilità è anche definibile come il rapporto fra il volume molare ed il volume molare ideale RT/p di un gas. Il grado di deviazione dell idealità dipende dalle condizioni di pressione e temperatura e dalle caratteristiche chimiche del gas considerato, cfr. Figg. (1.8) e (1.9). Un equazione di stato generale, valida per un qualunque gas reale, può essere scritta in termini di espansione in serie di Taylor rispetto alla pressione od alternativamente all inverso del volume molare. L equazione di stato del viriale che si ottiene Z = 1 + A 2 p + A 3 p = n=1 A n p n 1 viriale-pressione (1.13) Z = 1 + B 2 + B 3 V m Vm = B n n=1 Vm n 1 viriale-volume molare (1.14) dipende da una successione di coefficienti A 2, A 3,... o B 2, B 3,... che sono caratteristici del gas considerato e dipendono dalla temperatura e dal volume molare (coefficienti A n ) o dalla temperatura e dalla pressione (coefficienti B n ); A 1 = B 1 = 1 corrispondono al primo coefficiente del viriale, cioè al comportamento ideale, ottenuto nei limiti p 0 o V m. L espansione rispetto al volume molare è la piú conveniente ed usata. Le correzioni all idealità sono dovute soprattutto al secondo termine (B 2 V m B 3 ). Relazioni sistematiche tra i coefficienti A n e B n si possono ottenere confrontando le serie (1.13) e (1.14). 1.4 Equazione di stato di van der Waals e stati corrispondenti L esempio può semplice e famoso di equazione di stato per gas reali è dato dall equazione di van der Waals (vdw) p = RT V m b a Vm 2 (1.15) a e b sono costanti tipiche del gas considerato. La forma dell equazione di stato vdw è basata su considerazioni extra-termodinamiche (molecolari). Il comportamento di gas reali si avvicina entro il 5 %, in media, alle condizioni di idealità, in condizioni standard. Le deviazioni osservate sono dovute alle forme di interazione complessa tra le molecole costituenti il gas. Nel 1873 Johannes van der Waals postula due motivi principali per le deviazioni dall idealità:

27 26 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Figura 1.8: Andamenti del fattore di compressibilità contro pressione, a varie temperature.

28 1.4. EQUAZIONE DI STATO DI VAN DER WAALS E STATI CORRISPONDENTI 27 Figura 1.9: Andamenti del fattore di compressibilità per vari gas, a temperatura fissata.

29 28 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE 1. la presenza di un volume proprio occupato dalle molecole del gas, che rende il volume molare effettivo disponibile alla loro diffusione piú piccolo, con una correzione b rispetto al valore V m, soprattutto ad alte pressioni. La prima correzione alla legge dei gas perfetti è perciò V m V m b (1.16) 2. la presenza di forze di attrazione molecolari, che rendono la pressione (forza esercitata per unità di superficie dalle molecole del gas) piú piccola, in modo inversamente proporzionale al volume molare: p p a V 2 m (1.17) Gas a (L 2 atm mol 2 ) b (L mol 1 ) He Ne H Ar O N CO CH CO NH Tabella 1.5: Coefficienti di van der Waals In Fig. (1.10) sono rappresentati gli stati previsti dall equazione vdw per l anidride carbonica, con la presenza dei tipici avvallamenti corrispondenti, in un diagramma di stato reale alle transizioni di fase. Esistono altre forme piú o meno fenomenologiche di funzioni di stato, accurate ma di difficile interpretazione, tanto che si possono considerare essenzialmente equazioni empiriche, vedi sottosezione (1.6.3). In generale le isoterme calcolate dall equazione vdw hanno l andamento visualizzato in Fig. (1.11). La tipica zona di un isoterma reale a pressione costante che corrisponde al processo di liquefazione corrisponde alla curva sigmoide di un isoterma vdw, sotto la temperatura critica che si può calcolare dalla sua definizione matematica (flesso con tangente orizzontale dell isoterma). In effetti possiamo facilmente dimostrare che un gas che segue l equazione vdw ha le seguenti variabili critiche 8a T c = 27bR a p c = 27b 2 (1.18) V c = 3b L importanza delle costanti critiche in un gas reale T c, p c e V c sono dovute al fatto, osservato originariamente da van der Waals, che il comportamento di gas diversi diventa molto simile se rappresentato usando le cosiddette variabili ridotte, T r = T/T c, p r = p/p c e V r = V m /V c (principio degli stati corrispondenti): in

30 1.4. EQUAZIONE DI STATO DI VAN DER WAALS E STATI CORRISPONDENTI 29 Figura 1.10: Rappresentazione grafica dell equazione di stato vdw per la CO 2 (p contro V m, T ). Figura 1.11: Rappresentazione schematica delle isoterme di un sistema vdw (p contro V m per la CO 2 ).

31 30 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE altri termini, gas diversi con lo stesso volume ridotto, alla stessa temperatura ridotta, esercitano una pressione ridotta molto simile. La maggior parte delle funzioni di stato adottate per i gas, se riscritte in termini di grandezze ridotte, assumono infatti una forma universale ; per esempio l equazione vdw è espressa come p r = 8T r 3V r 1 3 Vr Coefficienti di compressibilità e di espansione termica Un gas è un sistema estremamente sensibile a variazioni di pressione e temperatura. (1.19) La variazione cioè del volume molare di un sistema gassoso in seguito a variazioni di pressione o temperatura sono ordini di grandezza piú elevate delle corrispondenti variazioni subite dal volume molare di un sistema liquido o solido. Tuttavia, tali variazioni esistono, e sono molto importanti soprattutto per le applicazioni tecnologiche. Definiamo dunque, anche per discussioni future, il coefficiente di compressibilità di un sistema (monofasico, monocomponente) come κ = 1 V m V m p ed il fattore di espansione termica α = 1 V m V m T p T (1.20) (1.21) Si può dimostrare che κ è una grandezza sempre positiva (ogni materiale, sottoposto ad un aumento di pressione, si comprime). Il fattore di espansione termica può invece essere anche negativo: diminuendo la temperatura, a pressione costante, un determinato sistema può espandersi, come per esempio l acqua tra 0 e 4 C. Altre grandezze analoghe, come per esempio il coefficiente di variazione della pressione sono determinabili in funzione di α e κ, come dimostreremo nei Capitoli successivi 1 p α = p T pκ Vm (1.22) I valori di grandezze di questo tipo, che esprimono la comprimibilità di un materiale, sono veramente molto piccoli per i solidi e i liquidi. Per esempio, per il mercurio liquido α = K 1 e κ = atm Approfondimenti Esistenza della temperatura Dati tre sistemi 1,2,3 in equilibrio termico fra loro, consideriamo prima di tutto le condizioni di equilibrio tra 1 e 2 e tra 2 e 3 f 12 (X 1, Y 1, X 2, Y 2 ) = 0 (1.23) f 23 (X 2, Y 2, X 3, Y 3 ) = 0 (1.24)

32 1.6. APPROFONDIMENTI 31 Se supponiamo che le funzioni che esprimono le condizioni di equilibrio siano abbastanza regolari, possiamo supporre di ricavare Y 2 Y 2 = g 12 (X 1, Y 1, X 2 ) = g 23 (X 2, X 3, Y 3 ) (1.25) Per il principio zero deve valere che f 13 (X 1, Y 1, X 3, Y 3 ) = 0 (1.26) le due precedenti equazioni esprimono in realtà la stessa osservazione: il sistema 1 è in equilibrio con il sistema 3; però la (1.26) non dipende da X 2, quindi g 12 e g 13 devono dipendere da X 2 in modo tale da poter eliminare X 2 ; l equazione (1.25) deve perciò essere scritta, perché il principio zero sia vero, nella forma h 1 (X 1, Y 1 ) = h 3 (X 3, Y 3 ) (1.27) applicando il medesimo ragionamento partendo dalle condizioni di equilibrio di 1 con 3 e di 2 con con 3 si arriva a concludere che esiste anche una funzione h 2 (X 2, Y 2 ) tale che h 1 (X 1, Y 1 ) = h 2 (X 2, Y 3 ) = h 3 (X 3, Y 3 ) (1.28) Possiamo definire come temperatura il valore comune delle funzioni h i, dipendenti ciascuna dalle coordinate termodinamiche di ciascun sistema, separatamente Il termometro a gas In Fig. (1.12) è rappresentato un termometro a gas a volume costante. Il gas è contenuto nel bulbo, immerso nel sistema di cui si deve misurare la temperatura (per esempio acqua la punto triplo), in comunicazione con la colonna di mercurio di sinistra tramite un capillare. Il volume del gas viene mantenuto costante variando l altezza della colonna di mercurio di sinistra (il che si ottiene alzando od abbassando il serbatoio di mercurio) fino a che la superficie del mercurio tocchi la punta di un indice posto nello spazio sopra la colonna. La differenza in altezza tra le colonne di mercurio a destra e a sinistra permette di misurare la pressione esercitata dal gas, che è la proprietà termometrica. Un termometro a gas perfetto non è altro che un termometro a gas che viene impiegato in una serie di misure ripetute a pressione sempre piú bassa, in maniera tale da avvicinare il sistema all idealità. La misura di temperatura è un estrapolazione a pressione nulla, ed è indipendente dalla natura del gas (dato che tutti i gas reali, a pressione sufficientemente bassa si comportano idealmente). In pratica si procede misurando la pressione del gas in contatto con il sistema e con acqua al punto triplo sottraendo ad ogni nuova misura una certa quantità di gas, e mantenendo il volume sempre costante. La temperatura del termometro a gas perfetto, che come abbiamo già accennato coincide a tutti gli effetti con la temperatura universale Kelvin si definisce quindi come ( ) p T = lim p3 0 p 3 V (1.29)

33 32 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE Figura 1.12: Rappresentazione schematica di un termometro a gas a volume costante.

34 1.6. APPROFONDIMENTI Altre equazioni di stato Le equazioni di stato, valide in un range piú ampio di pressioni e temperature, sono molteplici, ed usate soprattutto in ambito ingegneristico. Possiamo ricordare le equazioni di Berthelot p = RT V m b e di Dieterici a T V 2 m p = RT e a/rt V 2 m V m b (1.30) (1.31) Un esempio con un numero maggiore di parametri liberi è dato dall equazione di Soave-Redlich-KWong (SRK) p = RT V m b αa V m (V m + b) (1.32) abbastanza simile all equazione di Van der Waals, dove le costanti a, b, α sono espresse in funzione delle grandezze critiche e di un parametro molecolare ω, a = R 2 T 2 c /p c, b = RT c /p c, α = [1 + m(1 T/T c )] 2, m = ω ω 2. Un altro esempio è dato dall equazione di Benedict- Webb-Rubin (BWR) che ha la forma di una pseudo-equazione del viriale rispetto al volume molare arrestata al quinto termine ( Z = 1 + B 0 A 0 RT C ) 0 1 RT 3 + V m ( b a ) RT + ce γ/v 2 m 1 RT 3 V 2 m + ( ) cγe γ/vm 2 1 RT 3 V 4 m + αa RT 1 V 5 m (1.33) L equazione BWR è molto accurata, ma dipende da ben 8 coefficienti che devono essere determinati ad hoc per il gas in esame.

35 34 CAPITOLO 1. FUNZIONI DI STATO E PROPRIETÀ VOLUMETRICHE

36 Capitolo 2 I Principio della termodinamica In questo Capitolo ci occuperemo dei seguenti problemi: come si misura il contenuto energetico di un sistema termodinamico? Come si traduce il principio fondamentale della conservazione dell energia in un linguaggio termodinamico? Come si applica il principio di conservazione dell energia ai sistemi termodinamici in generale, ed in particolare ai sistemi termochimici? Strada facendo, dovremo necessariamente discutere alcuni concetti fondamentali come la definizione di lavoro, calore, energia interna di un sistema e l idea stessa di trasformazione di un sistema. 2.1 Energia e trasformazioni Un sistema compie un lavoro quando provoca un cambiamento nell ambiente, contro una forza esterna. In generale la termodinamica si occupa solo del lavoro che un sistema compie sull ambiente, o che l ambiente compie sul sistema, e non considera problemi relativi al lavoro interno, cioè compiuti da un parte del sistema rispetto ad un altra: anzi il concetto stesso di parte di un sistema è ridondante, ed è preferibile parlare di più sistemi (chiusi o aperti) che interagiscono. La capacità di compiere un lavoro è invece l energia di un sistema: quando si compie un lavoro su un sistema si modifica l energia del sistema. Definiamo d ora in avanti il contenuto energetico totale di un sistema come la sua energia interna U. Da un punto di vista microscopico, possiamo identificare l energia interna di un sistema come la somma dell energia cinetica e potenziale di tutte le molecole componenti il sistema 1. Da un punto di vista puramente termodinamico (macroscopico) affermiamo semplicemente che L energia interna U di un sistema è una funzione di stato che misura il suo contenuto energetico complessivo Si noti che nella definizione precedente è fondamentale l affermazione che l energia interna è una funzione di stato. Evidentemente U è una funzione estensiva; l unità di misura SI è il joule (J), pari ad 1 kg m 2 s 2. Come vedremo meglio piú avanti, un cambiamento di energia di un sistema, tuttavia, può anche avvenire senza che del lavoro sia fatto sul o compiuto dal sistema: in questo caso parliamo di scambio di calore, un nuovo concetto non-meccanico, cioè non riconducibile come il lavoro al risultato di uno spostamento meccanico o di un suo equivalente e di una forza meccanica o di un suo equivalente. È intuitivo a questo punto 1 meno l energia cinetica traslazionale del baricentro del sistema e l energia cinetica rotazionale rispetto al agli assi principali 35

37 36 CAPITOLO 2. I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA utilizzare la precedente definizione di parete diatermica (cfr. Cap. 1): diremo che un sistema racchiuso da un confine diatermico può modificare il suo contenuto energetico scambiando calore con il resto dell ambiente, mentre un sistema racchiuso da un confine adiabatico può modificare il suo contenuto energetico solo compiendo o subendo un lavoro. Consideriamo un sistema in equilibrio termodinamico, descritto da un insieme di coordinate termodinamiche o funzioni di stato. Il passaggio del sistema da uno stato termodinamico iniziale i, cioè da un insieme di valori delle sue coordinate termodinamiche, ad un altro stato finale f è una trasformazione. Di solito, il passaggio del sistema da i ad f avviene insieme o come conseguenza di una modifica dell ambiente circostante (che definiremo nel seguito semplicemente universo). Possiamo immediatamente distinguere due tipi di trasformazioni trasformazioni reversibili: parliamo di una trasformazione reversibile da uno stato i ad uno stato f se sia il sistema che l universo possono essere riportati al loro stato iniziale; se cioè è possibile invertire la trasformazione riportando sia il sistema che l universo al loro stato di partenza, senza modifiche rispetto allo stato iniziale trasformazioni irreversibili: parliamo di una trasformazione irreversibile da uno stato i ad uno stato f se sia il sistema che l universo non possono essere riportati al loro stato iniziale; se cioè non è possibile invertire la trasformazione riportando sia il sistema che l universo al loro stato di partenza, senza introdurre modifiche rispetto allo stato iniziale. Le trasformazioni che avvengono in natura, come vedremo in seguito, possono essere solo irreversibili. Tuttavia il concetto ideale di trasformazione reversibile ci sarà molto utile per la definizione di una serie di grandezze fondamentali e delle loro proprietà. Si deve notare come le coordinate termodinamiche di un sistema siano definite solo quando il sistema è in uno stato di equilibrio. In seguito all applicazione di forze esterne non equilibrate dal sistema stesso, il sistema esce dall equilibrio e subisce una trasformazione. Se si volesse descrivere il sistema con delle funzioni di stato durante una trasformazione, la trasformazione dovrebbe avvenire sotto l influenza di forze esterne equilibrate esattamente da forze interne, cioè non dovrebbe avvenire una trasformazione! Si tratta evidentemente di una contraddizione che può essere superata pensando alla presenza di forze esterne infinitesime, che provocano cambiamenti infinitesimi. Questa trasformazione ideale, risultato di una successione di cambiamenti infinitesimi, si dice trasformazione quasistatica trasformazione quasistatica una trasformazione quasistatica è una trasformazione che avviene sotto l influenza di forze esterne infinitesime, in maniera tale che il sistema passa dallo stato i allo stato f per una successione di stati di equilibrio In pratica, durante una trasformazione quasistatica, si assume che il sistema sia in ogni istante infinitamente prossimo ad uno stato di equilibrio termodinamico. 2.2 Lavoro In generale, definiamo il lavoro come il prodotto di uno spostamento generalizzato per una forza generalizzata. L esempio piú utile e semplice che possiamo immaginare è quello di una gas, racchiuso in una camera

38 2.3. CALORE E I PRINCIPIO 37 con un pistone mobile su cui sia applicata dalla esterno una pressione p ex. Immaginiamo di compiere una trasformazione in cui il sistema passa da un volume V i ad un volume V f. Il lavoro meccanico compiuto dal sistema è definito allora come w = Vf V i p ex dv (2.1) Se il sistema si espande liberamente in assenza di una pressione esterna, p ex = 0 ed il lavoro è di conseguenza nullo; se la pressione esterna è costante, il lavoro è evidentemente w = p ex (V f V i ). Se infine l espansione è quasistatica, la pressione esterna è in ogni istante uguale alla pressione del sistema da cui segue che w = Vf V i pdv (2.2) Tuttavia, oltre al lavoro meccanico, possiamo definire altri tipi di lavoro, che coinvolgono spostamenti e forze non riconducibili a variazioni nella forma o nel volume del sistema. Nella Tabella sono riportati alcuni esempi in cui un lavoro infinitesimale viene espresso in termini di una forza e di un differenziale di spostamento generalizzati Sistema Forza Spostamento Lavoro infinitesimo Sistema idrostatico pressione p (atm) volume V (m 3 ) pdv Filo forza F (N) lunghezza L (m) FdL Pellicola tensione superficiale S (N/m) area A (m 2 ) SdA Cella reversibile forza elettromotrice E (V) carica Q (C) EdQ Solido magnetico intensità magnetica H (A/m) momento magnetico M (Am 2 ) HdM Tabella 2.1: Esempi di lavoro 2.3 Calore e I principio L osservazione sperimentale ci informa che è possibile modificare il contenuto energetico di un sistema senza compiere un lavoro sul sistema stesso. Definiamo con il termine di calore Q la variazione di energia interna di un sistema che avvenga senza che una lavoro sia fatto sul o eseguito dal sistema stesso. Una trasformazione in cui il sistema perde calore si dice esotermica, mentre se il sistema acquista calore parliamo di trasformazione endotermica. In un bilancio del contenuto energetico di un sistema si devono quindi tener conto delle perdite e degli acquisti che avvengono mediante assorbimento o dispersione di calore oppure mediante un lavoro fatto od subito dal sistema. È intuitivo assumere, ed è perciò stabilito come assioma fondante nella nostra descrizione della realtà, che la variazione dell energia interna di un sistema sia nulla in assenza di calore o lavoro scambiati. Siamo perciò giunti ad affermare il principio di conservazione dell energia, o primo principio della termodinamica La variazione di energia interna di un sistema è pari alla somma del lavoro ed del calore scambiati dal sistema U = U f U i = q + w (2.3)

39 38 CAPITOLO 2. I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Si noti che: una quantità di calore positiva significa calore assorbito dal sistema (il sistema acquista energia, trasformazione endotermica ); una quantità di calore negativa significa calore ceduto dal sistema (il sistema perde energia, trasformazione esotermica); una quantità di lavoro positiva significa lavoro fatto sul sistema (il sistema acquista energia); una quantità di lavoro negativa significa lavoro fatto dal sistema (il sistema perde energia). Il primo principio descritto dall equazione (2.3) è dato in forma integrale. Si noti che a primo membro compare la differenza di valori di una funzione di stato, l energia interna interna U, mentre a secondo membro compaiono due quantità (calore e lavoro) che non sono funzioni di stato: in altri termini è possibile passare dallo iniziale allo stato finale in un numero infinito di modi, corrispondenti a tutte le possibili coppie (q, w). Per una trasformazione infinitesima possiamo scrivere du = dq + dw (2.4) e ancora una volta il significato matematico del primo e del secondo membro è diverso: du è un differenziale esatto esprimibile cioè come il differenziale di una funzione U; dq e dw sono forme differenziali, che devono essere specificate conoscendo la variazione di calore e lavoro imposte al sistema. A volte è utile distinguere il lavoro meccanico, o di espansione - nullo a volume costante, poiché nel seguito faremo riferimento ad un sistema idrostatico, descritto cioè da una coordinata estensiva di volume - dal lavoro non meccanico; si scrive perciò du = dq + dw exp + dw e (2.5) dove con dw e indichiamo il lavoro infinitesimo non di volume. 2.4 Fenomeni dissipativi Un osservazione ovvia che si può fare a proposito delle trasformazioni che coinvolgono i sistemi termodinamici è che in molti casi comportano un cambiamento dell energia interna mediante conversione di lavoro (meccanico e non). Queste trasformazioni possono per esempio avvenire mediante 1. il moto turbolento di agitazione di un liquido 2. il passaggio di elettricità attraverso un resistore 3. l isteresi magnetica di un materiale I fenomeni quali la viscosità, gli attriti, la resistenza elettrica, l isteresi magnetica in cui del lavoro (cioè una forma di energia ordinata che può essere descritta in termini di uno spostamento macroscopico) viene dissipato si dicono fenomeni dissipativi. La loro esistenza è caratteristica dei sistemi reali ed è in ultima analisi giustificabile o descrivibile ricorrendo a descrizioni statistiche e microscopiche. In ambito termodinamico però la loro descrizione è assunta a priori ed i loro effetti sono comunque misurabili. In effetti, proprio ricorrendo alla presenza dell effetto dissipativo che si crea quando un moto meccanico turbolento viene provocato in un fluido viscoso, Joule nel 1849 fu in grado di dimostrare che il calore ed il lavoro sono forme di energia, evidenziando come l aumento di temperatura di un sistema adiabaticamente isolato sia sempre proporzionale alla quantità di lavoro effettuata su di esso. Evidentemente l esperimento di Joule è oggigiorno

40 2.5. CALORIMETRIA A VOLUME COSTANTE 39 Figura 2.1: Schema dell esperimento di Joule perfettamente comprensibile dal punto di vista del primo principio. isolato, la sua variazione di energia interna infinitesima è dovuta solo al lavoro effettuato Poiché il sistema è adiabaticamente du = dw ad (2.6) Il lavoro adiabatico w ad o lavoro compiuto in condizioni adiabatiche, è dunque lo stesso per una data coppia di stati iniziale e finale, poiché è uguale alla variazione di una funzione di stato, l energia interna. 2.5 Calorimetria a volume costante Un sistema idrostatico in cui il lavoro sia nullo deve corrispondere ad un sistema che non subisce variazioni di volume, e che non sia soggetto a lavoro non di volume. Vale perciò che du = (dq) V cost dw e = 0 (2.7) o in forma integrale U = q V. Per un sistema monofasico chiuso l energia interna può essere espressa come una funzione delle coordinate termodinamiche indipendenti T e V del sistema; la variazione di U con la temperatura a volume costante, detta capacità termica a volume costante è perciò definita come C V = U T V Vedremo meglio le relazioni differenziali tra grandezze termodinamiche nei Capitoli successivi. Condizioni di questo tipo si verificano in un calorimetro adiabatico in cui il sistema sia mantenuto a volume costante (bomba calorimetrica). Un calorimetro è sostanzialmente un contenitore termicamente isolato, al cui interno è posto un fluido (per esempio acqua) oltre ad un termometro, un agitatore (per mantenere omogeneo il fluido) e la bomba calorimetrica che contiene il campione di cui si devono misurare le proprietà termiche. Se il campione subisce una variazione di calore (per esempio una reazione chimica esotermica od endotermica), il fluido subisce a sua volta una variazione di energia interna che dipende dalla capacità termica del sistema (2.8)

41 40 CAPITOLO 2. I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 2.2: Apparecchiatura usata da Joule nel 1849

42 2.5. CALORIMETRIA A VOLUME COSTANTE 41 Figura 2.3: Schema di calorimetro

43 42 CAPITOLO 2. I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA complessivo, parametri meccanici etc. In generale si parla di costante calorimetrica che correla il calore scambiato dalla bomba con la variazione di temperatura misurata q = C T. In Fig. (2.3) è riportato un semplice schema di calorimetro, usato in esperienze di termochimica (misura del calore sviluppato nel corso di reazioni chimiche, vedi oltre). In Fig. (2.4) è rappresentato uno dei primi calorimetri, impiegato da Lavoisier e Laplace, basato sulla misura della quantità di ghiaccio disciolto in seguito all assorbimento di una determinata quantità di calore. 2.6 Entalpia e calorimetria a pressione costante Per una sistema idrostatico definiamo l entalpia come primo esempio di funzione di stato derivata dall energia interna mediante l espressione H = U + pv (2.9) Il significato dell entalpia, che è una funzione estensiva, naturalmente con le dimensioni di un energia, è dovuto al suo comportamento a pressione costante, che è analogo a quello dell energia interna a volume costante. Una variazione infinitesima dell entalpia è infatti riconducibile al calore scambiato dh = dq pcost dw e = 0 (2.10) Infatti per una variazione infinitesima di entalpia abbiamo in generale dh = du + d(pv ) = du + pdv + V dp = dq + dw exp + dw e + pdv + V dp (2.11) Considerando una trasformazione quasistatica possiamo scrivere dw exp = pdv e assumendo l assenza di lavoro di volume dw e = 0; quindi dh = dq + V dp (2.12) se la pressione si mantiene costante, dp = 0, si ottiene la (2.10). Possiamo ora definire la capacità termica a pressione costante, con l analoga della (2.8). Per un sistema monofasico chiuso C p = H T p (2.13) Le capacità termiche C V e C p sono grandezze estensive; possiamo definire delle corrispondenti grandezze intensive, le capacità termiche molari C V,m = C V /n e C p,m = C p /n dividendole per il numero di moli di sostanza che compongono il sistema. L unità di misura è naturalmente J K 1 mol 1. Per inciso, data una grandezza estensiva X misurata per n moli di una sostanza avente massa molecolare M definiamo la grandezza intensiva molare come X m = X/n e la grandezza intensiva specifica come X s = X/Mn = X m /M 2. Come molte grandezze termodinamiche, è importante conoscere nelle applicazioni sperimentali le leggi di variazione delle capacità termiche (e dunque dell entalpia e dell energia interna) di un sistema con la temperatura. Un espressione fenomenologica convenzionale è la seguente C p,m = a + bt + c T 2 (2.14) 2 Di solito in letteratura una grandezza specifica è riferita ad un unità di massa di un grammo; nel seguito parleremo di grandezza specifica in senso generico, come grandezza per unità di massa (che nel SI è il chilogrammo)

44 2.6. ENTALPIA E CALORIMETRIA A PRESSIONE COSTANTE 43 Figura 2.4: Calorimetro di Lavoisier-Laplace (1782)

45 44 CAPITOLO 2. I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA dove i coefficienti a,b e c sono caratteristici del sistema considerato e si assumono costanti rispetto alla temperatura. La conseguente variazione calcolata di entalpia per una mole di una sostanza (entalpia molare) per una variazione finita di temperatura da T i a T f si ottiene semplicemente integrando la precedente espressione. Indicando con H m l entalpia molare otteniamo Tf ( H m = H m,f H m,i = dt a + bt + c ) T 2 = a(t f T i ) + 1 ( 1 2 b(t f 2 Ti 2 ) c 1 ) (2.15) T f T i T i Le capacità termiche misurano sostanzialmente la possibilità di assorbire calore di un sistema: se la capacità è grande, la variazione di temperatura in seguito allassorbimento di calore è piccola; se la capacità è piccola, la variazione di temperatura è grande. I termostati sono sistemi dalla capacità termica idealmente infinita, che si mantengono perciò a temperatura costante. Le unità di misura di calore/energia/lavoro sono ancora oggi numerose, ed è opportuno tenere a mente le loro definizioni e relazioni. L unità di misura SI è naturalmente il joule (J), pari ad 1 N m, ed è l unità comune di misura del lavoro come del calore, che in realtà non sono altro che forme interscambiabili di energia, come è dimostrato dalle esperienze di Joule. Tuttavia, fino ai primi due decenni del secolo XX, quando l equivalenza calore-lavoro non era del tutto chiara, si impiegò la caloria come l unità di misura del calore, definita come la quantità di calore necessaria per aumentare la temperatura di un grammo di acqua da 14.5 a 15.5 C. Il lavoro (meccanico od elettrico) necessario per far passare lo stesso grammo di acqua da 14.5 a 15.5 C, misurato nel corso dell esperienza di Joule, risultò essere pari a J, da cui segue la definizione dell equivalente meccanico del calore, pari a J/cal, come la costante di conversione tra unità di lavoro e calore. Si noti che le definizioni di caloria successivamente adottata furono comunque due: la caloria IT (International Tables) pari J e la caloria termochimica pari a J. La misura dell equivalente meccanico del calore è, modernamente intesa, nient altro che la misura della capacità termica specifica (in unità cgs) dell acqua nell intervallo C. Al giorno d oggi l uso della caloria, un tempo molto comune tra i fisici e i chimici, va scomparendo a favore del joule, in accordo con la tendenza ormai universalmente accettata di impiegare solamente unità di misura del Sistema Internazionale.

46 Capitolo 3 II Principio della termodinamica Nel Capitolo precedente abbiamo enunciato e discusso un principio fondamentale, che mette in relazione la variazione dell energia interna di un sistema con il calore ed il lavoro scambiati. In effetti possiamo enunciare il primo principio semplicemente nella forma L energia interna di un sistema isolato si conserva Da un punto di vista leggermente diverso, il primo principio è un affermazione che limita la produzione di lavoro o l emissione di calore: un sistema non può compiere piú lavoro, o liberare piú calore, di quanta energia interna possieda. Una macchina, cioè un dispositivo che trasformi energia in lavoro, in grado di generare piú lavoro della sua energia interna è impossibile, e si parla in questo caso di macchina del moto perpetuo di prima specie. Quindi un altra possibile affermazione del primo principio è È impossibile costruire una macchina del moto perpetuo di prima specie Il primo principio è un assioma: viene cioè assunto come tale, senza dimostrazione alcuna o riduzione a principi fondamentali. In altri termini, è la generalizzazione di una serie di osservazioni sperimentali: se si vuole, si può anche non credere al fatto che l energia interna si conserva. Le conseguenze sono interessanti ed aprono la strada a varie forme di magia, tecniche pranoterapeutiche, telecinesi, poltergeist ed improbabili ma affascinanti macchine del moto perpetuo come quella riportata in Fig. (3.1). Se il primo principio stabilisce un criterio per decidere se una trasformazione è possibile, non esaurisce però i limiti che sperimentalmente sono osservati per tutte le trasformazioni che avvengono in natura. È cioè noto dall osservazione sperimentale che non tutte le trasformazioni possibili (che cioè non violano la conservazione dell energia) avvengono realmente, sono cioè trasformazioni naturali. Dobbiamo perciò preoccuparci di 1. chiarire, in base alla nostra conoscenza sperimentale, quali sono le trasformazioni effettivamente realizzabili, o naturali 2. definire in modo preciso ed esaustivo le trasformazioni naturali 3. descrivere, se esiste, una coordinata termodinamica che ci permetta di decidere subito se una trasformazione verifica il criterio di realizzabilità 4. dedurre le conseguenze che un criterio di realizzabilità delle trasformazioni possibili ha sulle trasformazioni che ci interessano maggiormente, quali le trasformazioni di fase e le reazioni chimiche 45

47 46 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.1: Macchina del moto perpetuo di I specie

48 3.1. ENTROPIA E II PRINCIPIO 47 Anche se non lo scriveremo sempre in modo esplicito, tutte le considerazioni che seguono sono riferite a sistemi chiusi, se non è altrimenti specificato. 3.1 Entropia e II principio L esperienza quotidiana ci insegna che molte trasformazioni possibili non avvengono realmente. Per esempio: non è possibile che un dispositivo come quello impiegato da Joule per convertire lavoro meccanico in calore, operi in maniera esattamente opposta, cioè trasformi una certa quantità di calore totalmente in lavoro, a meno di non usare qualche dispositivo aggiuntivo che causa qualche cambiamento nell ambiente esterno. Oppure: se in un pallone mescoliamo idrogeno ed ossigeno, e provochiamo la reazione di sintesi dell acqua, non è possibile, senza un intervento esterno, che dall acqua si riformino l idrogeno e l ossigeno molecolari. O ancora, possiamo liberare anidride solforosa nell aria, ma non possiamo osservare l accumulo spontaneo di anidride solforosa in una camera di contenimento aperta all aria. Le parole chiave nelle precedenti affermazioni sono esattamente, senza un intervento esterno, spontaneo etc. Si tratta infatti di 1) trasformazioni inverse rispetto ad una data trasformazione che sappiamo avvenire in natura; 2) si tratta di trasformazioni possibili, cioè che non violano il primo principio; 3) eppure queste trasformazioni non avvengono in natura. A questo punto possiamo affermare che le trasformazioni naturali sono irreversibili o in altri termini che non è possibile trovare in natura una trasformazione che sia reversibile, tale cioè che il sistema e l ambiente possano essere ricondotti esattamente al loro stato iniziale. Le trasformazioni reversibili in natura non esistono: possono essere però concepite come trasformazioni ideali, analogamente ai concetti di punto materiale o corpo rigido in meccanica classica. Possiamo comunque senz altro definire le proprietà delle trasformazioni reversibili, che vengono a costituire un limite ideale a cui le trasformazioni naturali devono sottostare. È abbastanza chiaro che l affermazione di irreversibilità di un fenomeno naturale deve tener conto del fatto che è riferita a sistemi isolati. È infatti facile immaginare trasformazioni naturali che invertono le condizioni dei sistemi sopra considerati: ma solo in condizioni di non-isolamento, cioè solo al prezzo di qualche modifica aggiuntiva che deve essere effettuata nell ambiente esterno. Possiamo scindere l acqua in ossigeno ed idrogeno per elettrolisi, ma per farlo dobbiamo cambiare lo stato di una pila e degli elettrodi metallici che utilizziamo nel processo. E possiamo depurare un certo volume d aria da un contenuto eccessivo di anidride solforosa, per esempio facendola passare attraverso dei filtri, ma in questo modo consumiamo i filtri e compiamo un lavoro per pompare l aria nel depuratore. Ora che siamo in grado di descrivere in modo piú o meno completo le trasformazioni naturali, dobbiamo cercare di definirne la caratteristica comune. Questo è precisamente lo scopo del secondo principio della termodinamica, che ha molte possibili formulazioni (tutte comunque equivalenti). Basandoci sostanzialmente su una presentazione tradizionale, affermiamo che Non è possibile una trasformazione che comporti solamente l assorbimento di una certa quantità di calore da un termostato e la sua completa conversione in lavoro Dalla formulazione del secondo principio possiamo ora dedurre una serie di conseguenze fondamentali, che sono sostanzialmente formulazioni alternative del secondo principio stesso, e che ci permetteranno in seguito di definire una funzione che caratterizza le trasformazioni irreversibili in modo preciso:

49 48 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA enunciato di Carnot in un sistema che esegua un ciclo (trasformazione chiusa) reversibile scambiando calore q 1 con un termostato alla temperatura θ 1 e q 2 con un termostato alla temperatura θ 2, il rapporto q 1 /q 2 dipende solo da θ 1 e θ 2 q 1 q 2 = f(θ 1, θ 2 ) (3.1) si noti che usiamo il simbolo θ generico per la temperatura, dato che l enunciato di Clausius non dipende dalla definizione di temperatura. enunciato di Kelvin Il rapporto q 1 / q 2 è q 1 q 2 = T 1 T 2 (3.2) dove T 1, T 2 sono le temperature assolute dei due termostati, che coincidono con la temperatura del gas perfetto come affermato in precedenza. enunciato di Clausius La funzione, definita dalla relazione ds = dq rev T (3.3) detta entropia (dal greco ɛντ ρoπια, trasformazione) è una funzione di stato, cioè ds = 0 (3.4) La variazione di entropia di un sistema isolato che subisca una trasformazione è sempre positiva per una trasformazione naturale, mentre è nulla per una trasformazione reversibile: S iso 0 (3.5) ed il segno di uguaglianza vale solo per una trasformazione reversibile. In una trasformazione infinitesima, per un sistema chiuso generico si dimostra inoltre che ds dq T (3.6) dove dq è il calore scambiato con l ambiente: questa è la famosa diseguaglianza di Clausius. È importante capire che le varie affermazioni di Carnot, Clausius, Kelvin sono collegate ed equivalenti. Possiamo per esempio introdurre il secondo principio partendo dalla affermazione di esistenza di entropia come una funzione caratteristica di un sistema isolato sempre crescente in una trasformazione spontanea, definendone poi la natura - previa definizione della temperatura assoluta - e dimostrandone la caratteristica di funzione di stato, usando le proprietà di un ciclo reversibile a due temperature, ed infine dimostrare come conseguenza la diseguaglianza di Clausius. La presentazione assiomatica è perciò Esistenza dell entropia Per ogni sistema esiste una funzione S, l entropia. l entropia aumenta sempre quando avviene una trasformazione naturale Se il sistema è isolato S iso 0 (3.7)

50 3.2. MACCHINE TERMICHE 49 Definizione dell entropia L entropia di un sistema è definita dal calore scambiato in una trasformazione reversibile ds = dq rev T S = f i dq rev T (3.8) dove T è la temperatura assoluta. Proprietà dell entropia L entropia è una funzione di stato ds = 0 (3.9) L entropia verifica la diseguaglianza di Clausius ds dq T (3.10) A parte l enfasi sul metodo di presentazione assiomatica o tradizionale, è utile ricordare il ruolo dei gas perfetti nella dimostrazione dei vari enunciati del secondo principio. In linea di principio si può infatti evitare il ricorso alle proprietà di questi sistemi specifici, che peraltro permettono di semplificare molte deduzioni. In ogni caso, è determinante il ruolo delle macchine termiche basate su sistemi idrostatici, cioè trasformazioni cicliche che producono lavoro di volume assorbendo e liberando calore. Si può anche rinunciare completamente al riferimento alle macchine termiche e ricorrere ad una presentazione puramente matematica, secondo il metodo di Caratheodory basato sulle proprietà dei differenziali lineari. 3.2 Macchine termiche Allo scopo di dedurre i vari enunciati a partire dalla proposizione principale di affermazione del secondo principio, consideriamo un sistema chiuso idrostatico (che cioè sia descritto da una pressione p ed un volume V : in pratica, un gas racchiuso in un contenitore) che operi reversibilmente secondo il ciclo di Carnot, costituito da due trasformazioni isoterme (AB e CD in Fig. (3.2)) a temperature empiriche θ 1 < θ 2 e due trasformazioni adiabatiche (AD e BC). Si può dimostrare, grazie al primo principio, che il ciclo di Carnot ha l aspetto riportato in Fig. (3.2), cioè che le due adiabatiche non possono intersecarsi, che un isoterma ed un adiabatica possono intersecarsi una sola volta etc. Il sistema opera quindi scambiando un calore q 1 con un termostato a temperatura θ 1 e q 2 con un termostato a temperatura θ 2. Il lavoro compiuto dal o fatto sul sistema è pari all area racchiusa dal ciclo. Si noti, ora e nel seguito, che un termostato è un sistema che assorbe o cede calore senza subire variazioni di volume, avente cioè capacità termica a volume costante nulla; per un termostato, ogni assorbimento o cessione di calore coincide con una variazione della sua energia interna. Alternativamente, si sarebbe potuto considerare un termostato a pressione costante, ed in questo caso lo scambio di calore sarebbe coinciso con una variazione di entalpia. Tornando al ciclo di Carnot, possiamo verificare che q 1 q 2 < 0, cioè che se il sistema cede calore al termostato 1, ne assorbe dal termostato 2 o viceversa.

51 50 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.2: Ciclo di Carnot

52 3.2. MACCHINE TERMICHE 51 Se cosí non fosse, potremmo fare avvenire il ciclo una volta nel verso in cui entrambi i calori sono positivi, poi porre in contatto i due termostati in modo che il termostato piú caldo ceda calore in quantità sufficiente al termostato piú freddo in misura esattamente pari al calore precedentemente ceduto dal termostato freddo al corpo: il risultato sarebbe una trasformazione completa di una certa quantità di calore in lavoro, senza alcuna modifica ulteriore dell universo. Questo contraddice l enunciato del secondo principio. Con un analogo ragionamento si può dimostrare che q 2 > 0 e q 1 > 0 se il ciclo avviene in senso orario. Con un pò piú di difficoltà, ma sempre basandoci esclusivamente sull enunciazione originaria del secondo principio, dimostriamo anche che per il ciclo di Carnot vale l enunciato di Carnot, cioè che il rapporto tra q 1 e q 2 dipende solo dalle temperature dei termostati. Definiamo a questo scopo il rapporto di conversione (o efficienza) del ciclo come ɛ = lavoro netto calore assorbito = w = q 1 + q 2 = 1 + q 1 (3.11) q 2 q 2 q 2 dove l ultima uguaglianza deriva dal primo principio (n.b. q 1 < 0). Possiamo ora dimostrare che l efficienza di due cicli reversibili che operino tra due riserve termiche con le stesse temperature, indipendentemente dalla loro composizione, forma etc. è la stessa, e di conseguenza dipende solo dalle caratteristiche dei termostati, cioè da θ 1 e θ 2. Infatti supponiamo di avere due macchine termiche A e B entrambe operanti tra i due termostati, Fig. (3.3). Possiamo immaginare che A sia piú efficiente di B: produca cioè piú lavoro di quanto ne produca B, a parità di calore assorbito. Possiamo allora fare funzionare B in modo inverso, da frigorifero, cioè in modo tale che assorba calore dal termostato piú freddo e ne ceda al piú caldo, e A in modo diretto. Poiché A è piú efficiente il risultato finale di un ciclo completo delle due macchine è la trasformazione completa di calore in lavoro senza alcuna modifica dei sistemi. Questo contraddice il secondo principio e quindi i due sistemi devono avere la stessa efficienza, cioè lo stesso rapporto q 1 /q 2. A questo punto, possiamo considerare il calore scambiato come una proprietà termometrica. Supponiamo di avere tre isoterme θ 1 < θ 2 < θ 3 e tre cicli che operino fra esse, Fig. (3.4). Ne consegue che i rapporti tra i valori assoluti dei calori scambiati possono essere scritti in funzione di un unica funzione a due variabili f(θ i, θ j ) q 1 q 2 = f(θ 1, θ 2 ) q 2 q 3 = f(θ 2, θ 3 ) q 1 q 3 = f(θ 1, θ 3 ) (3.12) da cui consegue necessariamente che f(θ 1, θ 2 ) = f(θ 1, θ 3 ) f(θ 2, θ 3 ) (3.13) che è compatibile solo con f(θ i, θ j ) = T (θ i )/T (θ j ) dove T (θ) è una funzione ad una variabile. Deve valere che q 3 > q 2 > q 1 (3.14) dato che la quantità di calore prelevata dal termostato piú caldo in un ciclo deve sempre essere maggiore del calore ceduto a quello piú freddo, per verificare il secondo principio. Ne consegue che T (θ 3 ) > T (θ 2 ) > T (θ 1 ) (3.15)

53 52 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.3: Macchine termiche accoppiate

54 3.2. MACCHINE TERMICHE 53 Figura 3.4: Temperatura assoluta

55 54 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA quindi T (θ) è una temperatura; adottando la convenzione di Kelvin (T = come temperatura del punto triplo dell acqua), abbiamo la temperatura assoluta o termodinamica, che è definita in base alle proprietà di un ciclo reversibile e non di un particolare sistema. Si può verificare che è identica alla temperatura di un termometro a gas perfetto. Siamo perciò giunti alla conclusione che l enunciato di Kelvin è vero, ed abbiamo introdotto la temperatura assoluta. ricordiamo ds = dq rev T Consideriamo ora le proprietà della funzione entropia, il cui differenziale ds è definito come, (3.16) dove dq rev è il calore scambiato da un sistema in una trasformazione reversibile infinitesima alla temperatura assoluta T. Vogliamo verificare se S è una funzione di stato, cioè se per un qualunque ciclo reversibile ds = 0 (3.17) Analizziamo prima un ciclo di Carnot. Si ha che ds = ds + ds + ds + ds = q q (3.18) T 1 T 2 AB BC CD DA le due adiabatiche danno infatti contributo nullo (nessun calore scambiato per definizione), mentre le due isoterme avvengono (reversibilmente) a temperatura costante. Tenendo conto dei segni discordi di q 1 e q 2 q 1 q 2 = T 1 T 2 da cui segue che per un ciclo di Carnot effettivamente ds = 0. (3.19) Ma ogni ciclo reversibile può essere approssimato con una precisione arbitraria ad un insieme di cicli di Carnot, Fig. (3.5). Dato un ciclo generico, possiamo sovrapporgli un reticolo di cicli di Carnot C 0, C 1 etc. che insieme formano un ciclo a zig-zag che si sovrappone al ciclo in esame. Per ogni ciclo di Carnot si ha che δq i T i + δq i+1 T i+1 = 0 (3.20) mentre per il ciclo ottenuto sommando il perimetro esterno dei cicli di Carnot si verifica subito che i δq i T i = 0 (3.21) e passando al limite di un numero infinito di cicli di Carnot con le adiabatiche separate da una distanza infinitesima, il ciclo a zig-zag coincide con il ciclo reversibile generico, per il quale vale che dqrev = ds = 0 (3.22) T L entropia è una funzione di stato, in quanto dal fatto che il suo integrale di linea si annulla per un ciclo possiamo subito concludere che una sua variazione per una trasformazione tra due stati dipende solo dai due stati e non dal cammino percorso. L entropia è una coordinata estensiva, e le sue dimensioni nel sistema SI sono quelle di un energia divisa per una temperatura, JK 1. Siamo ora in grado di concludere l esposizione delle proprietà dell entropia dimostrando la diseguaglianza di Clausius, che permette di stabilire un limite alla variazione dell entropia di un sistema. Consideriamo un sistema racchiuso in un contenitore adiabatico, che subisca una trasformazione spontanea da uno stato A ad

56 3.2. MACCHINE TERMICHE 55 Figura 3.5: Ciclo reversibile generico

57 56 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.6: Ciclo parzialmente irreversibile

58 3.2. MACCHINE TERMICHE 57 uno stato B. Per definizione, una trasformazione spontanea è una trasformazione non reversibile. Possiamo riportare però il sistema da B ad A, operando per esempio in modo reversibile mediante un termostato a temperatura T, come è illustrato in Fig. (3.6), per un sistema idrostatico. Dal primo principio, poiché U = 0, si ha che q + w AB + w BA = 0 (3.23) dove q è il calore scambiato con il termostato, w AB è il lavoro coinvolto nel tratto irreversibile A B, e w BA è il lavoro relativo al tratto reversibile w AB. Possiamo dimostrare che il calore q è negativo. Se fosse nullo, il ciclo avrebbe riportato il sistema alle condizioni di partenza senza cambiare il termostato e quindi la trasformazione A B non sarebbe irreversibile; se fosse positivo si sarebbe trasformato calore preso da un unico termostato in lavoro senza modificare il sistema, ciò che contraddice il secondo principio. Ne consegue che per il processo (reversibile) di ritorno ad A da B S A S B = q T < 0 (3.24) Quindi per il processo adiabatico reversibile di andata da B ad A S B S A > 0 (3.25) Quindi se un processo adiabatico avviene irreversibilmente, l entropia del sistema può solo aumentare; se il processo adiabatico avviene reversibilmente, possiamo applicare la definizione differenziale di entropia con dq = 0 per ogni T. In sintesi, per un processo adiabatico qualunque, l entropia di un sistema verifica la diseguaglianza S 0 (3.26) Ora consideriamo un supersistema S formato da un sistema (chiuso) s e da un termostato t, adiabaticamente isolati dal resto dell universo. Il supersistema è un sistema adiabatico. Per una trasformazione infinitesima subita dal sistema si avrà anche una trasformazione del termostato, che scambierà calore. In particolare se il sistema assorbe un certo calore dq, il termostato dovrà cederne una uguale quantità dq (il supersistema è adiabatico). La variazione di entropia del termostato è perciò ds t = dq (3.27) T La variazione di entropia del supersistema totale è per definizione di funzione la somma delle variazioni di entropia del sistema e del termostato. Si ha perciò ds S = ds s + ds t = ds s dq T 0 (3.28) da ciò segue che per un sistema in contatto con un termostato ds s dq (3.29) T se la trasformazione è reversibile, vale l uguaglianza e ritroviamo la definizione di entropia. È importante sottolineare che l affermazione che l entropia di un sistema è una funzione crescente è corretta solo per un sistema chiuso ed adiabatico. In un sistema che possa scambiare energia o materia con l esterno l entropia può diminuire, senza alcuna violazione del secondo principio. Tuttavia, sarà sempre possibile definire un supersistema chiuso ed adiabatico (cioè isolato) formato dal sistema in esame piú tutti i sistemi che interagiscono con esso e tra loro (al limite, l universo intero) la cui entropia, complessivamente, aumenta o resta costante.

59 58 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA 3.3 Determinazione di variazioni entropiche Siamo ora in grado di discutere in modo quantitativo le variazioni di entropia subite da un sistema chiuso ed omogeneo. Consideriamo una sostanza, per esempio acqua od anidride carbonica, racchiuse in un recipiente a pressione costante, ad una data temperatura T i. La sostanza si trova inizialmente in una data fase, cioè una condizione specifica con proprietà intensive costanti in tutto il sistema (per esempio, l acqua è in condizioni solide a 0 C ed 1 bar). Supponiamo di conoscere (e vedremo oltre che non è una conoscenza triviale) l entropia del sistema alla temperatura iniziale, S(T i ). Vogliamo conoscere l entropia S(T f ) del sistema ad una temperatura finale T f. Supponiamo, per fissare le idee di partire da una mole di acqua solida alla temperatura di 0 C ed alla pressione di 1 bar. Se la temperatura finale è inferiore alla temperatura di fusione del ghiaccio in condizioni standard, possiamo scrivere S(T f ) = S(T i ) + Tf T i dq rev T (3.30) dove dq rev è il calore scambiato in una trasformazione reversibile alla temperatura T. Se il riscaldamento avviene a pressione costante ed il sistema compie solo lavoro di volume, possiamo usare la definizione di capacità termica a pressione costante per definire q rev dq rev = C p dt (3.31) e perciò si ha che S(T f ) = S(T i ) + Tf T i C p T dt (3.32) Supponiamo ora che la temperatura T f sia maggiore della temperatura di fusione, T fus, ma inferiore alla temperatura di ebollizione, T eb. Possiamo applicare l espressione precedente al calcolo dell entropia fino alla temperatura di fusione, usando la capacità termica a pressione costante del ghiaccio; dobbiamo tenere conto che alla temperatura di fusione avviene una transizione di fase. Una transizione di fase è la coesistenza di due diverse fasi di una sostanza, ed implica per definizione un trasferimento reversibile di calore perché le due fasi coesistono in equilibrio. Il calore scambiato in una transizione di fase a pressione costante è la differenza di entalpia tra le due fasi della sostanza, per esempio q fus = H fus. Di conseguenza, giunti alla temperatura di fusione dobbiamo aggiungere alla (3.32) il contributo di fusione; la (3.32) diviene perciò S(T f ) = S(T i ) + Tfus T i C p (s) T dt + H fus (3.33) T fus Se la temperatura finale che vogliamo raggiungere è superiore alla temperatura di ebollizione, continuando a riscaldare il sistema dovremo utilizzare la capacità termica dell acqua liquida fino alla temperatura di ebollizione, aggiungere il contributo di ebollizione, ed infine tener conto del riscaldamento del vapore d acqua per T > T fus. Il risultato finale è S(T f ) = S(T i ) + Tfus T i n=1 C p (s) T dt + H fus + T fus Teb T fus C p (l) T dt + H Tf eb + T eb T eb C p (g) dt (3.34) T e per un sistema che subisca N transizioni di fase prima della temperatura T f possiamo scrivere in generale [ N Tn C p (n) S(T f ) = S(T i ) + T n 1 T dt + H ] Tf n C p (N + 1) + dt (3.35) T n T N T

60 3.4. ENTROPIA ASSOLUTA E III PRINCIPIO 59 dove T n e H n sono la temperatura di transizione e la variazione di entalpia per la transizione n esima, C p (n) è la capacità termica per la fase n esima. La misura dell entropia di una sostanza pura dipende dunque da un gran numero di parametri sperimentali. La determinazione dell entropia ad una data temperatura T può essere portata a termine, assumendo di partire dall entropia della sostanza stessa allo zero assoluto T i = 0 K, conoscendo la variazione delle capacità termiche con la temperatura in tutte le fasi attraversate dalla sostanza, e dei calori di transizione corrispondenti ai passaggi di fase stessi. Per le fasi gassose, è di solito possibile rifarsi alle equazioni di stato dei gas (vedi gli Approfondimenti di questo Capitolo); le entropie di transizione di fase possono essere misurate direttamente o stimate, come nella regola di Trouton che afferma Regola di Trouton L entropia per mole di evaporazione di molti liquidi è circa 85 J K 1 mol 1 A temperature molto vicine allo zero assoluto, considerazioni extratermodinamiche, cioè di natura statisticomicroscopica, permettono di affermare che le capacità termiche sono proporzionali al cubo della temperatura assoluta Estrapolazione di Debye Per T 0, C p at Entropia assoluta e III Principio Nota che sia l entropia della sostanza allo zero assoluto, diviene perciò nota l entropia assoluta della sostanza stessa alla temperatura richiesta. Ma la conoscenza dell entropia a 0 K è, sostanzialmente, impossibile, o meglio, l entropia allo zero assoluto è una grandezza non interpretabile in modo chiaro in base a sole considerazioni termodinamiche. Il problema è riconducibile alla natura stessa dell entropia, una grandezza nonmeccanica che deve essere posta in relazione con il grado di disordine interno di un sistema. In questo corso di lezioni vogliamo deliberatamente cercare di restare il piú possibile in un ambito strettamente macroscopico, non molecolare, e quindi preferiamo limitare la discussione che segue ad un livello qualitativo. Allo zero assoluto, che è una temperatura ideale non raggiungibile sperimentalmente, possiamo immaginare che i costituenti microscopici di un sistema (atomi o molecole) siano fermi, cioè non subiscano variazioni di posizione nel tempo. Ciò non implica che il sistema sia ordinato, salvo che in un cristallo perfetto. In pratica possiamo assumere come un enunciato assiomatico la seguente affermazione, detta anche teorema di Nerst, che descrive l osservazione sperimentale ripetuta che le variazioni di entropia tendono a zero per temperature via via piú vicine allo zero assoluto il cambiamento di entropia di un sistema che sia sottoposto ad una trasformazione tende a 0 per T 0 K, purché tutti gli stati del sistema coinvolti siano perfettamente ordinati Segue dall affermazione di Nerst, che in realtà non è molto rigorosa (cosa significa che uno stato di un sistema è perfettamente ordinato?) che se si assume che sia zero l entropia a 0 K degli elementi nella loro forma cristallina perfetta, deve essere zero anche l entropia a 0 K dei composti nella loro forma cristallina perfetta. Possiamo perciò enunciare il terzo principio della termodinamica come l entropia di tutte le sostanze nel loro stato cristallino perfetto a 0 K vale 0

61 60 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA In realtà è piú corretto identificare il terzo principio con lo stesso assioma di Nerst, e considerare la precedente affermazione come la definizione di uno zero entropico convenzionale. Una ridefinizione piú accurata del teorema di Nerst è la seguente, dovuta a Fowler e Guggenheim per qualsiasi processo isotermo, al quale partecipino solo fasi in equilibrio interno, oppure nel caso che una fase si trovi in uno stato di equilibrio metastabile congelato purché il processo non disturbi detto equilibrio si ha lim S = 0 (3.36) T 0 dove il termine equilibrio interno implica che lo stato della fase sia determinato esclusivamente dalla sua temperatura, pressione e composizione (escludendo cioè stati, come i vetri, la cui esatta definizione dipende dalla storia precedente e che quindi non si possono veramente definire stati di equilibrio nel senso termodinamico classico usato in questi appunti di lezione). 3.5 Energia libera ed equilibrio di fase di sostanze pure Solitamente il contenuto energetico di un sistema non è discusso direttamente in termini di energia interna U, entalpia H ed entropia S, quanto piuttosto delle funzioni ausiliarie, come l energia libera di Helmholtz A A = U T S (3.37) e soprattutto, in ambito chimico, dell energia libera di Gibbs G G = H T S (3.38) L importanza di queste funzioni risiede principalmente in due loro caratteristiche: la possibilità di esprimere la direzione spontanea di trasformazione di un sistema nelle condizioni sperimentali piú comuni (volume o pressione costante) e la loro utilità nel descrivere quantitativamente il lavoro effettivo od utile ricavabile da una trasformazione in dette condizioni. Consideriamo un sistema in contatto con un termostato alla temperatura T, in equilibrio; la diseguaglianza di Clausius si può scrivere come ds dq T 0 (3.39) dove dq è il calore ceduto dal sistema al termostato; a volume costante, il calore scambiato è pari alla funzione di stato U, ovvero dq = du e perciò T ds du 0 (3.40) ovvero usando la definizione di A e ricordando che la temperatura è costante da T,V 0 (3.41) in una trasformazione spontanea a T e V costanti l energia libera di Helmholtz tende a diminuire. L energia libera di Helmholtz, che è naturalmente una funzione di stato essendo espressa in termini di U, T

62 3.5. ENERGIA LIBERA ED EQUILIBRIO DI FASE DI SOSTANZE PURE 61 ed S, può anche essere posta in relazione con il lavoro massimo ricavabile a temperatura e volume costanti. Infatti la variazione infinitesima di A in una trasformazione è da = du T ds SdT = dw + dq T ds SdT (3.42) ed in condizioni isoterme da T = dw + dq T ds (3.43) se la trasformazione è reversibile dq rev = T ds da T = dw rev (3.44) quindi la variazione infinitesima di A in una trasformazione isoterma è pari al lavoro ottenibile dal sistema in condizioni reversibili, che è anche il massimo lavoro ottenibile dal sistema. Per una trasformazione finita A = w max (3.45) quindi la variazione di energia libera di Helmholtz di un sistema che subisca una trasformazione tra due stati a temperatura costante è pari al lavoro massimo ottenibile in queste condizioni, cioè al lavoro ottenuto se la trasformazione è effettuata reversibilmente. La maggiore parte delle trasformazioni che avvengono in un laboratorio, o comunque in ambienti compatibili con l esistenza di un osservatore umano, sono di solito riferite a condizioni di temperatura e pressione costanti. Ecco perché, accanto all energia A è utile introdurre un grandezza come l energia di Gibbs che ha proprietà analoghe, ma per trasformazioni a T e p costanti. Consideriamo quindi ora il sistema in contatto con un termostato alla temperatura T, in equilibrio; a pressione costante, il calore scambiato è pari alla funzione di stato H, ovvero dq = dh e perciò T ds dh 0 (3.46) ovvero usando la definizione di G e ricordando che la temperatura è costante dg T,p 0 (3.47) in una trasformazione spontanea a T e p costanti l energia libera di Gibbs tende a diminuire. Anche l energia di Gibbs può essere messa in relazione con il lavoro massimo ottenibile dal sistema, purché si consideri il solo lavoro utile, cioè il lavoro non di volume. La verifica di questa affermazione è analoga a quella svolta nel caso dell energia di Helmholtz. La variazione infinitesima di G in una trasformazione è dg = dh T ds SdT = du + d(pv ) T ds SdT = dw + dq + d(pv ) T ds SdT (3.48) ed in condizioni isoterme dg T = dw + dq + d(pv ) T ds (3.49) se la trasformazione è reversibile dq rev = T ds dg T = dw rev + d(pv ) (3.50)

63 62 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Come abbiamo visto in precedenza, il lavoro può essere distinto in lavoro di espansione o volume w exp e lavoro extra o lavoro utile w e. Per una trasformazione reversibile il lavoro di volume è dw exp = pdv, da cui, tenendo conto del fatto che d(pv ) = dpv + V dp dg T = dw e,rev + V dp (3.51) e a pressione costante dg T,p = dw e,rev (3.52) quindi la variazione infinitesima di G in una trasformazione isoterma e isobara è pari al lavoro non di volume ottenibile dal sistema in condizioni reversibili, che è anche il massimo lavoro utile ottenibile dal sistema. Per una trasformazione finita G = w e,max (3.53) quindi la variazione di energia libera di Gibbs di un sistema che subisca una trasformazione tra due stati a temperatura e pressione costanti è pari al lavoro utile massimo ottenibile in queste condizioni, cioè al lavoro non di volume ottenuto se la trasformazione è effettuata reversibilmente. L energia libera molare di una sostanza pura viene anche detta potenziale chimico, µ = G n (3.54) come vedremo meglio in seguito la definizione di potenziale chimico può essere generalizzata al caso di sistemi a piú componenti, in presenza od in assenza di reazioni chimiche. Tuttavia, possiamo già applicare le proprietà dell energia libera al caso della trasformazione chimico-fisica piú semplice, vale a dire una trasformazione di fase. Consideriamo per esempio un sistema eterogeneo, in condizioni di temperatura e pressione costante, formato da due fasi, 1 e 2, che coesistono in equilibrio. Una trasformazione infinitesima reversibile del sistema corrisponde perciò al passaggio di una quantità infinitesima di moli di sostanza dalla fase 1 alla fase 2 dn = dn 1 = dn 2 (3.55) e possiamo scrivere dg T,p = µ 1 dn 1 + µ 2 dn 2 = (µ 2 µ 1 )dn = 0 (3.56) dove µ 1 e µ 2 sono l energia libera molare nella fase 1 e 2, e l uguaglianza a zero deriva dalla condizione di equilibrio. Ne consegue che µ 1 = µ 2 (3.57) Possiamo quindi concludere che il potenziale chimico di una sostanza pura presente sotto forma di piú fasi coesistenti in equilibrio è lo stesso in tutte le fasi.

64 3.6. APPROFONDIMENTI 63 Figura 3.7: Processo in flusso stazionario 3.6 Approfondimenti Processi a flusso stazionario L entalpia e l energia di Gibbs sono funzioni molto utili per descrivere processi a flusso stazionario, tipici delle produzioni industriali. Consideriamo la Fig. (3.7) che rappresenta un apparecchio C, per esempio una turbina a vapore, attraverso il quale passa un flusso stazionario di materiale, entrando nel tubo A e uscendo dal tubo B. Supponiamo, per fissare le idee, che esistano due pistoni ideali che si spostano da a ad a e da b a b quando una certa quantità di sostanza passa nel sistema. Indichiamo con p a e p b le pressioni costanti in a e b e con V a e V b i volumi di sostanza che si spostano per unità di massa in A e B. Se una quantità di massa m attraversa C, il pistone di sinistra si muove in a, spostando un volume V a m ed il pistone di destra si muove in b, spostando un volume V b m. Dato che le pressioni sono costanti, il lavoro compiuto dalla parte di fluido compresa tra i due pistoni è w = p b V b m p a V a m + w u m (3.58) cioè la somma del lavoro compiuto dal fluido in C per spostare il fluido alla destra di b, del lavoro compiuto dal fluido in C per spostare il fluido alla sinistra di a, e del lavoro utile compiuto dal fluido in C, per esempio il lavoro compiuto dalla turbina. Dal primo principio risulta inoltre (U b U a )m = qm + w (3.59) dove con U a,b indichiamo l energia interna per unità di massa in a e b mentre q è il calore assorbito 1 ; confrontando l espressione precedente con la definizione di entalpia risulta che H b H a = q + w u (3.60) L entalpia ha quindi lo stesso ruolo per i sistemi aperti in flusso stazionario che l energia interna ha per i sistemi isolati, con il lavoro utile al posto del lavoro totale. 1 Si noti che in realtà U dovrebbe essere sostituta con l energia totale, che risulta uguale all energia interna più l energia cinetica del fluido

65 64 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Trasformazioni di sistemi gassosi perfetti Riassumiamo in questa sezione alcune proprietà deducibili per un sistema chiuso formato da un gas perfetto in un volume V, a partire dall equazione di stato pv = nrt (3.61) dove n è il numero di moli e p è la pressione. Come discuteremo in uno dei capitoli successivi, per un gas perfetto 1. l energia interna e l entalpia dipendono solo dalla temperatura; l entalpia è subito ottenuta dall energia interna come H = U + nrt 2. anche le capacità termiche sono funzioni solo della temperatura 3. la relazione tra C V e C p è C p C V = nr (3.62) Trasformazione isoterma Consideriamo un sistema chiuso formato da n moli di un gas perfetto, che compia una trasformazione isoterma, reversibile da un volume V i ad un volume V f, cui corrispondono le pressioni p i e p f. Il lavoro eseguito dal sistema è, ricordando che pv = nrt w = nrt Vf V i dv V = nrt ln V i V f = nrt ln p f p i (3.63) se V f > V i il lavoro è negativo, w < 0, cioè il sistema ha ceduto energia compiendo un lavoro sull ambiente. Si noti che poiché la variazione di energia deve essere nulla per un gas perfetto in una trasformazione isoterma, il calore scambiato q è uguale a w. Trasformazione adiabatica Dato che l energia interna è funzione della sola temperatura C V = U T V du dt (3.64) da cui du = C V dt, e quindi, dal primo principio C V dt = T ds pdv (3.65) Usando l equazione di stato, la precedente equazione può essere riscritta come C V dt T = ds RdV V (3.66) Supponendo che C V sia indipendente da T - un ipotesi abbastanza corretta per molti gas in intervalli di temperatura relativamente larghi, a bassa pressione - possiamo integrare analiticamente l equazione (3.66), da uno stato iniziale i ad uno stato finale f C V ln T f T i = S f S i nr ln V f V i (3.67)

66 3.6. APPROFONDIMENTI 65 che con qualche semplice elaborazione diviene p i V γ i e S i/c V = p f V γ f e S f /C V (3.68) dove γ = C p /C V. Per una trasformazione adiabatica isoentropica, la variazione di entropia deve essere nulla, da cui segue p i V γ i = p f V γ f (3.69) da cui discendono altre relazioni semplici, tenendo conto dell equazione di stato, per esempio ( ) T γ 1 f Vf = T i V i (3.70) Durante una trasformazione adiabatica, il lavoro è immediatamente calcolabile dalla differenza di energia interna; se C V è costante, si ha che U f U i = C V (T f T i ), come segue dalla (3.64), e perciò w = U f U i = C V (T f T i ) = C V R (T f T i ) (3.71) mentre il calore scambiato è naturalmente nullo. Possiamo ora verificare come la temperatura termodinamica sia numericamente uguale alla temperatura del termometro a gas perfetto. Supponiamo per ora di distinguere tra temperatura termodinamica e temperatura del gas perfetto. Sia θ la temperatura del gas perfetto. La legge di stato è definita a partire dalla temperatura θ (è un osservabile sperimentale che riassume una serie di misure di V, p e θ per i gas in condizioni vicine all idealità). Se consideriamo il ciclo di Carnot, come in Figura (3.2), eseguito da un gas perfetto, possiamo applicare le precedenti uguaglianze (usando θ al posto di T, dato che abbiamo per ora distinto le due quantità), ottenendo facilmente dalle proprietà delle trasformazioni isoterme che q 2 = nrθ 2 ln V B V A, q 1 = nrθ 1 ln V D V C (3.72) mentre dalle proprietà delle trasformazioni adiabatiche segue che ln V C = ln V D ln V B = ln V D V A V B V A V A da cui segue che q 1 q 2 = θ 1 θ 2 (3.73) (3.74) Ma in un ciclo di Carnot come quello di figura (3.2), il rapporto tra i calori scambiati con i due termostati dal sistema in esame è, indipendentemente dalle sue proprietà, esprimibile in funzione della temperatura termometrica q 1 q 2 = T 1 T 2 come abbiamo visto nelle sezioni precedenti. Si ha perciò che (3.75) θ 1 = T 1 (3.76) θ 2 T 2 Perciò scegliendo lo stesso valore numerico per il sistema di riferimento (acqua al punto triplo, θ = T = ), ne consegue l uguaglianza numerica di θ e T.

67 66 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.8: Macchina del moto perpetuo di Villard de Honnecort Il moto perpetuo Le macchine del moto perpetuo sono dispositivi immaginari che violano il primo o secondo principio della termodinamica. Le macchine del moto perpetuo di I specie, che violano il primo principio, creano dunque energia dal nulla. Le macchine del moto perpetuo di II specie trasformano completamente il disordine (calore) in ordine (lavoro). Esistono anche dispositivi ipotetici che violano il terzo principio, ma sono relativamente piú rari. I tentativi che si sono succeduti nel corso dei secoli, e che continuano tutt oggi, di violare il primo ed il secondo principio della termodinamica, sono innumerevoli e, a modo loro, affascinanti. La storia (documentata) delle macchine del moto perpetuo inizia almeno nel XIII secolo, con l architetto Villard de Honnecort che nel 1245 descrisse una ruota sbilanciata in grado di ruotare in perpetuo. Ma la prima macchina del moto perpetuo di cui sia abbiano notizie precise è dovuta ad un italiano, tale Marco Antonio Zimara ( ) che dichiarò di aver inventato un mulino in grado di funzionare senza alcuna fonte di energia esterna. Nel 1618 Robert Fludd creò (costruì?) un mulino a ruota, posto in rotazione dall acqua che una vite di Archimede provvedeva a riportare in cima, come in Figura (3.9). Altri inventori di macchine del moto perpetuo sono John Wilkins, vescovo di Chester che nel 1670 propose una serie di macchine basate su ruote sbilanciate, come la macchina di de Honnecort, in cui la gravità avrebbe dovuto riportare i dispositivi al loro stato iniziale. Johan Ernst Elias Bessler, nel XVIII secolo disegnò molti schemi di macchine del moto perpetuo e riuscì effettivamente a costruirne una funzionante per 40 giorni, probabilmente grazie ad un meccanismo nascosto a molla. Anche famosi e seri scienziati credettero nelle macchine del moto perpetuo. Per esempio, Robert Boyle tentò di costruire una macchina del moto perpetuo in cui la capillarità avrebbe dovuto permettere di ottenere una specie di fontana perpetua, con l acqua capace di salire lungo un tubo per adesione capillare e poi di ricadere per gravità. Nell Ottocento, le macchine del moto perpetuo si moltiplicarono a dismisura: allora come oggi, la necessità di dispositivi in grado di produrre lavoro a costi molti bassi era un incentivo molto importante. Possiamo ricordare W. Leaton (1866: ideò un pendolo oscillante perpetuo), E.P. Willis (1866: costruì una macchina basata su ruote sbilanciate per gravità), J.E.W.

68 3.6. APPROFONDIMENTI 67 Figura 3.9: Macchina del moto perpetuo di Robert Fludd Figura 3.10: Macchina del moto perpetuo di Keely

69 68 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Keely (1875: creò un meccanismo complesso, basato sul vapore eterico ). In tutti questi casi, le macchine erano effettivamente dispositivi fasulli con meccanismi ad orologia o a vapore nascosti. Tutti gli esempi precedenti sono macchine di I specie. Tra le macchine di II specie, possiamo ricordare qui il dispositivo di J. Gamgee che nel 1880 inventò il motore zero in cui il calore dell ambiente provocava l ebollizione di ammoniaca liquida che a sua volta muoveva un pistone. La condensazione riportava poi il sistema al suo stato iniziale. Purtroppo la condensazione stessa richiede energia, perché il gas deve essere portato sotto la temperatura ambiente, quindi la macchina non può funzionare. Il Ministero della Difesa americano dell epoca manifestò un certo interesse al progetto e, pare, lo finanziò. Infine Maxwell propose nel 1817 (come esperimento ideale, non come macchina funzionante!) il suo famoso demone, una piccola creatura in grado di distinguere e di lasciare passare attraverso un apertura solo le molecole di un gas sopra una data energia cinetica; nel tempo, si viene cosí a creare una zona con il gas a pressione maggiore ed una con il gas a pressione minore, con la possibilità di compiere una lavoro. La spiegazione dell apparente paradosso (il demone di Maxwell sembra violare il secondo principio poiché tutta la differenza di energia cinetica tra le molecole delle due zone sembra essere convertita in lavoro) è dovuta a Bennet, Szillard, Landauer ed altri, ed è piuttosto complessa: in sintesi è basata sul fatto che il demone deve poter dimenticare i risultati delle sue precedenti operazioni per proseguire la sua attività, e questo fatto contribuisce a creare entropia nell ambiente Altre macchine termiche Le macchine termiche piú comuni sono gli impianti a vapore per la produzione di energia meccanica, basata sul ciclo ideale di Rankine e il motore a combustione interna, basato sul ciclo Otto. Descrizioni semplici di questi dispositivi sono fornite in Calore e termodinamica Vol. I, Cap.7 di M.W. Zemansky, da cui desumiamo questa nota sul ciclo Otto. In un motore a benzina a sei tempi, abbiamo la seguente successione di trasformazioni espansione: vapori di benzina ed aria penetrano nel cilindro, aspirati dal pistone compressione e scoppio : il pistone comprime i vapori; una scintilla elettrica provoca la combustione, a volume ancora costante potenza ed espulsione dalla valvola: il gas ad alta pressione e temperatura si espande e spinge il pistone; il gas viene portato alla stessa pressione esterna mediante espulsione dalla valvola di scarico, con il pistone fermo espulsione il pistone spinge tutto o quasi il gas restante all esterno La descrizione del motore scoppio dovrebbe tenere conto di effetti di attrito, moti turbolenti etc. descrizione idealizzata è basata sul ciclo Otto, che considera solo trasformazioni reversibili di un gas perfetto a capacità termica costante, in assenza di attriti, Figura (3.12). Lo schema del ciclo Otto è il seguente 5 1: immissione isobara, n moli di gas a pressione esterna p 0 entrano nel volume V 1, con p 0 V 1 = nrt 1, dove T 1 è la temperatura esterna 1 2: compressione adiabatica; la temperatura passa a T 2, con T 1 V γ 1 1 = T 2 V γ 1 2 Una

70 3.6. APPROFONDIMENTI 69 Figura 3.11: I 4 tempi del motore a scoppio 2 3: aumento della temperatura a T 3, a volume costante, mediante assorbimento di calore q H da una serie di termostati compresi tra le temperature T 2 e T 3 (è la fase di scoppio idealizzata) 3 4 espansione adiabatica, con abbassamento della temperatura a T 4, con T 3 V γ 1 2 = T 4 V γ abbassamento della temperatura a T 1, a volume costante mediante cessione di calore q C ad una serie di termostati compresi tra le temperature T 4 e T 1 (è la fase di espulsione dalla valvola di scarico idealizzata) 1 5 espulsione isobara, n moli di gas a pressione esterna p 0 escono dal volume V 1. Il calcolo dell efficienza termica, basato sulle proprietà dei gas perfetti fornisce l espressione ɛ = 1 T 4 T 1 T 3 T 2 = 1 1 r γ 1 (3.77) dove r = V 1 /V 2 è il rapporto di compressione. In un motore a scoppio, r < 10, altrimenti si avrebbe scoppio prima dello scoccare della scintilla (pre-accensione); assumendo r = 9 e γ = 1.5 si ottiene ɛ = 0.67, che costituisce un limite superiore all efficienza di un motore a scoppio reale.

71 70 CAPITOLO 3. II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA Figura 3.12: Ciclo Otto

72 Capitolo 4 Grandezze termodinamiche standard 4.1 Definizioni ed uso delle tabelle di grandezze standard di formazione In condizioni di pressione costante una trasformazione esotermica implica una diminuzione di entalpia, mentre una trasformazione endotermica comporta un aumento di entalpia. Un applicazione immediata di questa osservazione si ha nei processi attinenti al campo della termochimica, cioè nella misura del calore prodotto o richiesto in una reazione chimica. Sfruttando la natura di funzione di stato dell entalpia è infatti possibile riferire la variazione di entalpia (e dunque il calore assorbito o prodotto da un sistema in cui avvenga una reazione chimica) alle entalpie dei reagenti (che rappresentano lo stato iniziale di un sistema che subisca una trasformazione chimica, cioè una reazione) e alle entalpie dei prodotti (che rappresentano lo stato finale). Come abbiamo visto in precedenza, lo stato standard di una sostanza: Lo stato standard o di riferimento di una sostanza è lo stato piú stabile della sostanza stessa alla temperatura data ed alla pressione di 1 bar La temperatura convenzionale a cui si riferisce lo stato standard, se non è specificato altrimenti, è 25 C. Consideriamo una reazione chimica a pressione standard, che rappresentiamo in tutta generalità come r 1 R 1 + r 2 R p 1 P 1 + p 2 P (4.1) o piú concisamente come ν i C i = 0 (4.2) dove nella prima espressione indichiamo separatamente i reagenti e i prodotti, mentre nella seconda li raggruppiamo insieme tenendo conto che i coefficienti stechiometrici ν i hanno segno negativo per i reagenti e positivo per i prodotti. Alla reazione, che è una trasformazione, corrisponde una variazione di entalpia standard H del sistema, che è anche pari al calore scambiato se la reazione avviene, come d ora innanzi supporremo, a pressione costante di 1 bar. La reazione può essere pensata come la somma algebrica di varie sottoreazioni e non ha importanza che siano reazioni realmente esistenti nel sistema: poiché l entalpia è una funzione di stato potremo comunque sempre affermare che 71

73 72 CAPITOLO 4. GRANDEZZE TERMODINAMICHE STANDARD la somma delle variazioni delle entalpie standard per le singole reazioni è uguale alla variazione di entalpia standard per la reazione stessa questa è la legge di Hess, null altro che una conseguenza del fatto che H è una funzione di stato. In quali reazioni è conveniente scomporre la reazione in esame per calcolare la variazione di entalpia standard? Possiamo considerare le reazioni di formazione dei componenti chimici a partire dagli elementi, in condizioni standard; chiamiamo entalpie standard di formazione le corrispondenti variazioni entalpiche; per un componente C i indichiamo l entalpia standard di formazione con Hi,f. Dalla legge di Hess abbiamo che per la reazione generica (4.2) r H = i ν i H i,f (4.3) I dati relativi alle entalpie standard di formazione sono disponibili nelle tabelle di proprietà termometriche. Dalla legge di Hess, la variazione con la temperatura dell entalpia standard di una reazione è ricollegabile Sostanza Hi,f (Kcal/mol) Ar 0.00 Etano Propano CO Acqua Tabella 4.1: Alcune Entalpie standard di formazione a K alle variazioni con la temperatura delle entalpie standard di formazione dei singoli componenti, secondo la legge di Kirkhhoff H r (T f ) H r (T i ) = Tf T i ν i Cp,m i (4.4) i conoscendo perciò la dipendenza con la temperatura delle capacità termiche molari a pressione costante dei reagenti e dei prodotti, si ottiene la variazione dell entalpia standard di reazione con la temperatura. Hi,f (Kcal/mol) T (K) Tabella 4.2: Entalpie standard di formazione dell acqua a varie temperature

74 4.1. DEFINIZIONI ED USO DELLE TABELLE DI GRANDEZZE STANDARD DI FORMAZIONE73 L entropia standard assoluta di una sostanza è indicata come S (T ) è ottenuta nell ipotesi che S(0) = 0. L entropia standard della reazione chimica generica (4.2) è calcolabile come l entalpia standard r S = i ν i S i (4.5) dove Si è l entropia standard dell i-esimo componente. L energia libera è la grandezza termodinamica piú utile in ambito chimico, dove le trasformazioni avvengono, solitamente, a temperatura costante e a pressione standard. L energia libera standard della reazione chimica generica (4.2) è calcolabile come l entalpia standard r G = i ν i G i (4.6) dove G i è l energia libera standard dell i-esimo componente; l energia libera standard di reazione è immediatamente ottenibile dall entalpia e dall entropia standard r G = r H T r S (4.7) Conviene inoltre, come con l entalpia, formulare l equivalente della legge di Hess, ovvero esprimere l energia libera standard di reazione in funzione delle energie libere standard di formazione dei componenti a partire dagli elementi nel loro stato standard r G = i ν i f G i (4.8) Come vedremo meglio piú avanti, una reazione chimica spontanea è una trasformazione che comporta un cambiamento di composizione a T, p costanti con r G < 0. Si parla in questo caso di reazione esergonica. Se la variazione di energia libera standard è positiva, la reazione si dice endoergonica, e non può avvenire spontaneamente.

75 74 CAPITOLO 4. GRANDEZZE TERMODINAMICHE STANDARD

76 Capitolo 5 Relazioni differenziali La termodinamica studia le leggi che governano le trasformazioni di un sistema, prescindendo dalla descrizione molecolare. Queste leggi sono definite in modo rigoroso mediante l uso di determinati enti matematici, come le derivate parziali, le forme differenziali lineari, gli integrali di linea e di superficie. In questo Capitolo viene presentato un breve e semplice compendio delle nozioni matematiche fondamentali usate in queste dispense. L approccio è intuitivo piú che deduttivo, e lo studente che desideri (ri)appropriarsi in modo piú rigoroso di nozioni apprese ma già dimenticate può senz altro fare riferimento ai testi usati nei corsi matematici fondamentali. È importante però, soprattutto per lo studente di chimica, ricordare che la matematica, nelle sue varie sottocategorie (algebra, geometria, analisi etc.) è solo un linguaggio per riassumere in modo compatto concetti che espressi nel vocabolario corrente richiederebbero molto piú tempo. Non vi è nulla di misterioso ed esoterico nelle espressioni formali della matematica, almeno non al livello applicativo e relativamente modesto richiesto dalla termodinamica classica dei sistemi in equilibrio, che richiede perlopiú i fondamenti del calcolo differenziale delle funzioni reali a piú variabili Funzioni di piú variabili I sistemi termodinamici sono descritti, come abbiamo visto, da un certo numero di variabili o coordinate termodinamiche; la variazione di una o piú coordinate termodinamiche è descrivibile in termini di derivate parziali. Per fissare le idee, consideriamo una funzione z di di due variabili indipendenti x e y. La relazione funzionale z = z(x, y) esprime il fatto che i valori di z sono fissati noti i valori di x e y, vale a dire, nello spazio geometrico consueto, z è una superficie funzione di x e y. Se una delle due variabili indipendenti è costretta a mantenere un valore costante, z è funzione solo della variabile libera, e possiamo definire la variazione di z come il limite di un rapporto incrementale relativo alla sola variabile libera. Le derivate parziali di z sono perciò z x y z(x + x, y) z(x, y) lim x 0 x 1 E ancora una volta possiamo notare come lo sviluppo del calcolo differenziale avvenga, non a caso, tra la fine del secolo XVII e l inizio del secolo XIX, in coincidenza con lo sviluppo della termodinamica classica (5.1) 75

77 76 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI Figura 5.1: Rappresentazione schematica delle derivate parziali di una funzione z = z(x, y). z y x z(x, y + y) z(x, y) lim y 0 y (5.2) (5.3) I suffissi possono essere omessi, poiché è sempre chiaro che la sola variabile libera è quella di derivazione. La derivata parziale z/ x è interpretabile, geometricamente, come la pendenza della retta tangente alla superficie z in un punto, parallela al piano xz, cfr. Fig. (5.1). Le derivate parziali si calcolano secondo le regole consuete delle derivate ordinarie. Derivate parziali di ordine superiore sono definite come le derivate parziali delle funzioni ottenute da una precedente derivazione. Per esempio, per un gas ideale p = nrt/v ; per un sistema chiuso (n costante), assumendo che p sia la variabile dipendente e V, T le variabili indipendenti p V p = RT V 2 T = R V 2 p V 2 = 2 RT V 3 2 p T 2 = 0 (5.7) (5.4) (5.5) (5.6)

78 5.1. FUNZIONI DI PIÚ VARIABILI 77 2 p 2 p V T = T V = R V 2 Le derivate miste sono indifferenti all ordine di derivazione (almeno per funzioni continue). Una identità relativa al prodotto di due derivate parziali è y x = 1 (5.9) x y z z dove si suppone di poter sempre invertire la relazione funzionale z = z(x, y) per avere y = y(x, z), x = x(y, z). Data una funzione generica z = z(x, y) il differenziale totale è dato in termini di derivate parziali prime, e rappresenta la variazione infinetesimale totale subita da z in seguita ad un simultaneo cambiamento infinitesimale di x e y dz = z dx + z x y y x dy (5.8) (5.10) Per una funzione di N variabili, tutte le definizioni precedenti sono facilmente generalizzabili: se z = z(x 1,..., x n ) le n derivate parziali si indicano come z/ x 1,..., z/ x n, mentre il differenziale totale è dz = n i=1 z x i dx i (5.11) Dalla (5.10) derivano varie relazioni utili; per esempio, indicando con α, β una coppia qualunque delle variabili x, y, z, dalla (5.10) discende z = z x + z α x α y β y β x y α β (5.12) ponendo α = x e β = z troviamo z x y = 1 (5.13) x y z y z x Si noti l ordine ciclico con cui compaiono le variabili nella (5.13). Nelle precedenti equazioni abbiamo sempre supposto di essere in grado di ottenere espressioni esplicite del tipo z = z(x, y), x = x(y, z), y = y(x, z). Spesso però si dispone solamente di una relazione implicita F (x, y, z) = 0 non facilmente risolvibile rispetto alle coordinate. Possiamo scrivere il funzionale totale della funzione F come df = F x y,z dx + F y x,z dy + F z x,y dz = 0 (5.14) Se per esempio vogliamo calcolare y/ x possiamo semplicemente eliminare l ultimo termine nella precedente espressione (perché dz = 0 ) da cui F y x y,z = x z F y x,z (5.15)

79 78 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI Per esempio, per un gas che segua la legge di Dieterici (1.31), possiamo immediatamente ricavare la derivata del volume molare V m rispetto alla temperatura definendo F = p(v m b)e a/rt V 2 m RT (5.16) da cui segue F V T m = T p F V m V m,p T,p = R + a T V m RT V m b a Vm 2 (5.17) Altre relazioni utili si possono ottenere considerando che la scelta delle coordinate indipendenti può variare. Cosí se z = z(x, y) e le variabli x e y sono definite in funzioni di altre variabili u e v, cioè x = x(u, v) e y = y(u, v) possiamo applicare la consueta regola della catena per la derivazione di funzioni di funzioni z u v z v u = = z x z x x u x v y y v u + z y + z y y u y v x x v u (5.18) (5.19) Le seguenti relazioni sono facilmente dimostrabili u x + u y = 1 (5.20) x u y u y v x v u x + u y = 0 (5.21) x v y v y u x u Infine, alle volte può essere utile esprimere z in un modo misto, per esempio z = z(x, u); si trova facilmente che z x u = z x y z y x u x u y 5.2 Funzioni omogenee y x (5.22) In termodinamica hanno una certa importanza le funzioni omogenee. Una funzione di n variabili f(x 1,..., x n ) si dice omogenea di grado m se f(λx 1,..., λx n ) = λ m f(x 1,..., x n ) (5.23)

80 5.3. FORME DIFFERENZIALI 79 con λ arbitrario. Vale il seguente teorema (di Eulero) n i=1 f x i x i = mf (5.24) che ci sarà utile quando introdurremo le quantità parziali molari. Le proprietà termodinamiche di un sistema composto da varie specie chimiche dipendono dal numero di moli di ogni componente n 1,..., n N. Le proprietà omogenee di grado 0 rispetto alle coordinate di composizione n i sono dette intensive: e.g. temperatura, pressione, densità, viscosità, indice di rifrazione. Le proprietà omogenee di grado 1 rispetto alle coordinate di composizione n i sono dette estensive: e.g. massa, volume, energia interna, entalpia, energia di Gibbs, energia di Helmholtz e naturalmente la massa. Il rapporto tra due proprietà estensive è una proprietà intensiva (per esempio la densità, rapporto tra massa e volume). 5.3 Forme differenziali In termodinamica si ritrovano spesso le forme differenziali pfaffiane o forme pfaffiane: n dl = X i (x 1,..., x n )dx i i=1 (5.25) cioè funzioni lineari omogenee dei differenziali delle n variabili indipendenti x 1,..., x n (che indichiamo nel seguito concisamente x). le forme pfaffiane hanno alcune interessanti proprietà. Sia dl il differenziale totale di una funzione R(x): n n R dl = X i (x)dx i = dx i X i = R (5.26) i=1 i=1 x i x i Applicando il teorema di Schwarz R = R x j x i x i x j (5.27) segue che X i x j = X j x i (5.28) che è una condizione necessaria e sufficiente perché dl sia un differenziale totale di funzione. Piú in generale, dl = 0 ha un equivalente algebrico unico R(x) = 0 se esistono due funzioni q(x) e R(x) tali che dl = qdr (5.29) Anche in questo caso possiamo ricavare una condizione necessaria (e sufficiente); per ogni terna ijk: C ijk = X i (X j,k X k,j ) + X j (X k,i X i,k ) + X k (X i,j X j,i ) = 0 (5.30) dove X i,j = X i / x j. Le forme differenziali lineari e le loro proprietà sono molto importanti per la definizione assiomatica dei principi della termodinamica.

81 80 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI 5.4 Trasformazione di Legendre Per concludere questo Capitolo, ricordiamo un utile trasformazione, che è spesso impiegata in termodinamica per modificare le forme differenziali (come vedremo tra poco). Consideriamo il differenziale esatto df = Xdx + Y dy (5.31) dove f, X, Y sono funzioni di x e y. Definiamo la funzione g = f Xx; il differenziale di g si calcola come dg = df Xdx xdx = Xdx + Y dy Xdx xdx = Y dy xdx (5.32) che è il differenziale appropriato per una funzione g = g(x, y). funzione h = f Y y, il cui differenziale viene ad essere dh = Xdx ydy Analogamente, potremmo definire una (5.33) oppure, infine, una funzione u = f Xx Y y, il cui differenziale è du = xdx ydy (5.34) Tutti casi descritti sono detti trasformazioni di Legendre, in cui X sostituisce x, Y sostituisce y etc. 5.5 Differenziale fondamentale della termodinamica A questo punto abbiamo a disposizione tutti gli strumenti formali per definire una serie di relazioni differenziali di grande utilità nelle applicazioni della termodinamica classica. Il nostro punto di partenza, per un sistema chiuso idrostatico monofasico ad un componente, è il differenziale fondamentale du = T ds pdv (5.35) insieme alle relazioni tra U, S e tutte le grandezze derivate H = U + pv A = U T S (5.36) (5.37) G = U + pv T S = H T S = A + pv (5.38) Se consideriamo U come funzione di S e V, la prima delle relazioni precedenti non è altro che una trasformata di Legendre che scambia la variabile V con p, permettendoci di esprimere il differenziale di H, come funzione di S e p. Possiamo procedere in modo analogo per A (come funzione di T e V ) e G (come funzione di T e p), da cui seguono le relazioni differenziali derivate dh = T ds + V dp da = SdT pdv dg = SdT + V dp (5.39) (5.40) (5.41)

82 5.5. DIFFERENZIALE FONDAMENTALE DELLA TERMODINAMICA 81 le variabili caratteristiche di ciascuna funzione di stato sono la coppia di variabili indipendenti rispetto alle quali la funzione di stato è definita. differenziale esatto), valgono le seguenti identità T = U = H S S V p p = U = A V V S S = G = A T T p V V = G = H p p infatti per esempio dh = H S p T ds + H p S S T Poiché i differenziali introdotti sono esatti (essendo ottenuti da un (5.42) (5.43) (5.44) (5.45) dp (5.46) da cui seguono la seconda relazione in T e la seconda relazione in V e cosí via. Combinando le relazioni precedenti si ottengono le seguenti espressioni A/T T G/T T V p = U T 2 = H T 2 (5.47) (5.48) dette equazioni di Gibbs-Helmholtz, che utilizzeremo in seguito. Finora abbiamo considerato un sistema ad un solo componente chimico. Benché questa prima parte delle dispense sia riservata alle sostanze pure, per le quali non è necessario introdurre variabili di composizione, può essere utile completare l esposizione delle proprietà differenziali dei sistemi termodinamici estendendole subito a sistemi multi-componenti. Le applicazioni delle definizioni introdotte saranno comunque riprese nella seconda dispensa, dedicata ad applicazioni termochimiche. Supponiamo perciò che il nostro sistema sia omogeneo (una sola fase) ma multicomponente, con n 1, n 2,..., n N numero di moli della prima specie, seconda specie, etc. fino alla N esima specie. Per ciascuna funzione energetica possiamo scrivere una forma funzionale che tenga conto delle variabili caratteristiche e della composizione U = U(S, V, n 1,..., n N ) (5.49) H = H(S, p, n 1,..., n N ) (5.50) A = A(T, V, n 1,..., n N ) (5.51) G = G(T, p, n 1,..., n N ) (5.52)

83 82 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI Figura 5.2: Willard Gibbs è considerato uno dei fondatori della termodinamica moderna. In figura è riportato il frontespizio della suo testo fondamentale sulla termodinamica statistica

84 5.5. DIFFERENZIALE FONDAMENTALE DELLA TERMODINAMICA 83 e i corrispondenti differenziali esatti du = T ds pdv + U i n i dh = T ds + V dp + H i n i da = SdT pdv + A i n i dg = SdT + V dp + G i n i S,V,n i S,p,n i T,V,n i T,p,n i dn i (5.53) dn i (5.54) dn i (5.55) dn i (5.56) dove n i indica tutte le specie meno la n i. Definiamo come potenziale chimico della specie i esima la grandezza, introdotta da Gibbs µ i = G (5.57) n i T,p,n i che è quindi pari all aumento della capacità del sistema di compiere un lavoro non di volume in seguito all aggiunta di una quantità infinitesima della specie, a parità di temperatura, pressione e composizione. La relazione (5.57) coincide con quella già presentata per un sistema monocomponente, per il quale il potenziale chimico non è altro che l energia libera molare. Non è difficile dimostrare che i termini U/ n i etc. sono uguali esattamente a µ i : se per esempio aggiungiamo alla relazione differenziale in du il termine d(pv T S) riotteniamo esattamente la relazione per dg e quindi i termini che moltiplicano i dn i devono essere uguali. In definitiva abbiamo le relazioni differenziali du = T ds pdv + i dh = T ds + V dp + i µ i dn i µ i dn i (5.58) (5.59) da = SdT pdv + i dg = SdT + V dp + i µ i dn i (5.60) µ i dn i (5.61) dove µ i = U n i S,V,n i = H n i S,p,n i = A n i T,V,n i = G n i T,p,n i (5.62) le relazioni (5.58) etc. sono state definite da Gibbs relazioni fondamentali, poiché stabiliscono la dipendenza funzionale fondamentale delle funzioni di stato energetiche. Per sempio, la conoscenza sperimentale di A in funzione di T, V e le varie n i permette di determinare l entropia, il volume e i potenziali chimici del sistema. Ma la conoscenza sperimentale di A in funzione di T, p ed n i equivale solamente a conoscere A/ V da cui si può ottenere il volume V solo a meno di una costante di integrazione.

85 84 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI 5.6 Relazioni di Maxwell Alcune interessanti relazioni differenziali discendono dalle proprietà dei differenziali esatti. Poiché le derivate miste di una funzione sono indipendenti dall ordine di integrazione, devono valere una serie di equivalenze tra le derivate di funzioni termodinamiche; per esempio U = U V S S V ma sappiamo che T = U/ S e p = U/ V, da cui (5.63) T V = p S (5.64) che è un esempio di relazione di Maxwell. Elenchiamo tutte le relazioni di Maxwell, indicando esplicitamente le variabili costanti in ogni derivazione, per completezza (con n al piede intendendo tutte le variabili di composizione) T V S p T p S V S,n T,n S,n T,n = p S = V T = V S = p T p,n p,n V,n V,n (5.65) (5.66) (5.67) (5.68) ed analoghe relazioni per i potenziali chimici, per esempio µ i = S T n p,n i T,p,n i µ i = V p n i T,n T,p,n i (5.69) (5.70) e cosí via. Esistono molte altre relazioni piú o meno utili e significative. Combinando il differenziale di du e l ultima relazione di Maxwell si ottiene U = T p p V T T,n V,n (5.71) che lega fra loro U, T, p e V. Inoltre esistono tutti i prodotti tra derivate parziali che si ottengono quando si esprimano le varie funzioni di stato in funzione di diverse variabili indipendenti. Per esempio, data l energia

86 5.6. RELAZIONI DI MAXWELL 85 interna di un sistema monofasico chiuso in funzione di V e T, la derivata rispetto a T a pressione costante si ottiene come U = U + U T T V p V T V T p (5.72) e valgono inoltre le relazioni cicliche; per esempio, per l energia interna in funzione di T e V U V T = 1 (5.73) T U V V T U Una serie di grandezze fisiche misurabili possono essere messe in relazione fra loro mediante le relazioni differenziali discusse in questo Capitolo. Abbiamo già introdotto il coefficiente di espansione α, il coefficiente di compressibilità κ e le capacità termiche C p,v, di cui riscriviamo per comodità le definizioni (per un sistema monocomponente) α = 1 V V T p κ = 1 V V p T C V = U = T S T T V C p = H = T S T T p V p (5.74) (5.75) (5.76) (5.77) Come possiamo per esempio calcolare il coefficiente di pressione, definito come la derivata della pressione rispetto alla temperatura, divisa per la pressione? Partiamo dalla relazione ciclica p V T = 1 (5.78) T p V V T e per sostituzione diretta di α e κ otteniamo 1 p = α p T pκ V p (5.79) Qual è la relazione tra le capacità termiche? Esprimiamo la derivata dell entropia rispetto alla temperatura S = S + S V (5.80) T T V T p V e sostituendo le espressioni di α e κ troviamo T p C p C V = T V α2 κ Relazioni sistematiche sono ulteriormente discusse nella sezione dedicata agli Approfondimenti. (5.81)

87 86 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI 5.7 Approfondimenti Metodo sistematico per ricavare relazioni differenziali Si possono esprimere facilmente tutte le derivate ( X/ Y ) Z con X, Y, Z pari a p, V, T, S in funzione di α, κ, C p, C V. Il risultato è riportato nella Tabella (5.1). Consideriamo un sistema idrostatico monofasico X Y p V T S Z p V T S T 1 V κ S C V 1 C p V κ α V κ C p S T V α V C p /C V 1 V α T 1 V α T S V κ C V C p V κ V α p V α S 1 C p/c V T V α p C p κ T α κ V α T V α S C p 1 p V α 1 C p/c V S V α V T T C p T C V V T p T p V V α C p/c V 1 Tabella 5.1: Relazioni differenziali per le grandezze p, V, T, S: ogni riga X incrocia una colonna Y, e la casella contiene le derivate rispetto ad una delle due possibili Z; con la relazione C p C V = T V α 2 /κ bastano tre grandezze tra C p, C V, α, κ per descrivere un sistema. chiuso ad un componente; sappiamo che le funzioni termodinamiche che lo descrivono sono p, V, T, S, U, H, A, G. Vogliamo dare una risposta alle seguenti domande V α 1. Qual è il numero minimo di quantità d XY Z = ( X/ Y ) Z indipendenti, con X, Y, Z pari ad una terna qualunque delle funzioni di stato? 2. Esiste un metodo sistematico per ridurre le espressioni differenziali in funzione delle sole derivate indipendenti, una volta che queste siano state scelte? Cominciamo a chiederci quante sono le d XY Z. C p T V α α κ C p T C V T Poiché le funzioni di stato sono 8 e i simboli in ogni derivata sono 3 abbiamo ( ) = 336 derivate, pari al numero di terne ordinate senza ripetizioni che si possono estrarre da un gruppo di 8 oggetti. Queste quantità sono ridotte a funzioni di derivate di sole 4 funzioni di stato, che possiamo scegliere per esempio come T, p, V, S (infatti U, H, A, G sono definite in funzione di T, p, V, S). Se consideriamo le sole derivate che coinvolgono T, p, V, S abbiamo 4 3 ( ) = 24 derivate. Per questo insieme ridotto abbiamo 12 equazioni matematiche X Y = 1 (5.82) Y X Z 4 equazioni matematiche X Y Y Z Z X Z Z X Y = 1 (5.83)

88 5.7. APPROFONDIMENTI 87 4 relazioni fisiche di Maxwell ed 1 relazione fisica di stato. Il totale è di 21 relazioni, da cui segue che bastano 3 derivate in T, p, V, S o grandezze equivalenti, per descrivere tutte le derivate del sistema (per esempio C p, α, κ). Una procedura sistematica per ricavare una qualunque d XY Z è la seguente 1. scrivere il differenziale di X in funzione di Y e Z 2. sostituire du, dh, da, dg con le loro espressioni caratteristiche, se occorre 3. usare le relazioni di Maxwell, facoltativamente, per semplificare il risultato 4. annullare dy e ricavare d XY Z Può essere necessario iterare la procedura piú volte. Per esempio, calcoliamo la derivata di U rispetto a V, a T costante. T S V T du = U V T dv + U T V dt (5.84) du = T ds pdv (5.85) dv + S dt pdv = U dv + U dt (5.86) T V T V T V C V dt + T p dv = U dv + U dt (5.87) T V T V T V dt = 0 U = T P p = T α V T κ p (5.88) T

89 88 CAPITOLO 5. RELAZIONI DIFFERENZIALI

90 Capitolo 6 Proprietà termodinamiche di sostanze pure in precedenza, le proprietà dei gas perfetti sono state discusse partendo dalla sola equazione di stato. Come vedremo nel seguito di questo Capitolo e nel successivo, tutte le proprietà di un sistema possono essere fondate su una sola equazione costitutiva che è di solito scritta in termini di relazione del potenziale chimico (o dei potenziali chimici per sistemi multi-componente) con la temperatura, pressione (e composizione, per sistemi multi-componente). 6.1 Gas perfetti Cominciamo a descrivere un sistema chiuso costituito da un gas perfetto. Il potenziale chimico di un gas perfetto è definito dalla relazione µ = µ + RT ln p p dove µ è funzione della sola temperatura ed è il potenziale chimico standard del gas, vale a dire l energia libera molare di Gibbs a pressione standard p. I coefficienti variazione del potenziale chimico con la pressione e la temperatura per una gas perfetto si trovano derivando la relazione (6.1). Si trova che µ = V m = RT pv = nrt (6.2) p p T µ = S m = dµ p dt + R ln p p (6.3) T dalla prima relazione discende l equazione di stato dei gas, dalla seconda una relazione tra l entropia molare, µ e p. Dalla relazione (6.3) possiamo ricavare l entalpia molare H m = µ + T S m = µ T dµ dt 2 d(µ /T ) = T dt quindi l entalpia di un gas perfetto è indipendente dalla temperatura; inoltre l energia interna è subito ottenuta come (6.1) (6.4) U m = H m pv m = H m RT (6.5) 89

91 90 CAPITOLO 6. PROPRIETÀ TERMODINAMICHE DI SOSTANZE PURE ed è anch essa indipendente dalla temperatura. La relazione tra capacità termiche si trova facilmente nel caso dei gas perfetti applicando la relazione generale (5.81), e si trova (per mole) C p,m C V,m = R (6.6) La variazione di entropia di un gas perfetto è calcolabile nota la funzione µ. In Figura (6.1) è riportato un esempio di variazione dell entropia di un gas perfetto in seguito ad una variazione di volume. 6.2 Gas reali: fugacità I gas reali sono descrivibili dalle equazioni di stato presentate nei Capitoli precedenti, quali l equazione di van der Waals, l equazione di Dieterici etc. o piú in generale dall espansione del viriale, anch essa introdotta in precedenza. Molte delle caratteristiche dei gas perfetti, come per esempio l indipendenza di energia interna ed entalpia dalla temperatura, il valore unitario del rapporto di compressibilità la semplice relazione tra capacità termica, sono perdute per i gas reali. D altro canto, il comportamento del gas perfetto emerge sempre da quello dei gas reali in condizioni di pressione tendente a zero, come si è già accennato durante la descrizione del termometro a gas: un gas perfetto rappresenta il limite ideale di un gas reale, a pressioni tendenti a zero. In pratica la maggioranza dei sistemi gassosi mostra deviazioni apprezzabili dall idealità solo a pressioni significativamente maggiori della pressione standard. È un procedimento comune della termodinamica 1 definire i sistemi reali come dei sistemi ideali con delle correzioni. Tutta la complessità del sistema reale viene racchiusa in coefficienti opportuni, di solito definiti come il rapporto tra una quantità reale ed una quantità ideale, che possono essere misurati o determinati in base a modelli aggiuntivi in modo indipendente (per esempio una equazione di stato). Nel caso dei gas reali, procediamo ancora una volta definendo una relazione generale per l energia libera molare o potenziale chimico (stiamo sempre considerando un sistema monocomponente) µ = µ + RT ln f p f lim = 1 (6.8) p 0 p il potenziale chimico è definito in funzione di un potenziale chimico standard e di una nuova quantità complessa, la fugacità f (con le dimensioni di una pressione). Si noti che la fugacità è definita completamente solo dalla relazione aggiuntiva (6.8), che stabilisce il comportamento limite ideale del gas reale: per p 0, la fugacità tende ad essere indistinguibile dalla pressione. Il potenziale chimico standard è il potenziale del gas a fugacità unitaria (cioè pari alla pressione standard) e dipende solo da T. Per molti gas a p = p il comportamento è praticamente quello di un gas perfetto, quindi µ è, a fini pratici, spesso semplicemente determinato come il potenziale chimico del gas a pressione standard. Il coefficiente adimensionale γ = f/p è detto coefficiente di fugacità, ed è una misura della deviazione dall idealità di un gas reale. La misura del coefficiente di fugacità è effettuata a partire da misure di pressione e densità del gas. Infatti possiamo scrivere la relazione tra energia libera molare e volume molare come µ = V m dµ = V m dp T cost. (6.9) p T 1 Anzi, in generale, di tutte le discipline chimico-fisiche che per definizione hanno a che fare con sistemi complessi, difficilmente riconducibili a modelli semplici. (6.7)

92 6.2. GAS REALI: FUGACITÀ 91 Figura 6.1: S di un gas perfetto al variare del volume.

93 92 CAPITOLO 6. PROPRIETÀ TERMODINAMICHE DI SOSTANZE PURE sostituendo a dµ a T costante l espressione derivata dalla relazione (6.7) si ottiene ( ) f RT d ln p = V m dp T cost. (6.10) e sottraendo da ambo i membri il termine RT d ln(p/p ) otteniamo ( ) ( f Vm d ln = p RT 1 ) dp T cost. (6.11) p Possiamo ora integrare la precedente espressione differenziale a temperatura costante da p = 0 a p = p mis, che è la pressione a cui si vuole conoscere la fugacità ln f p ln f pmis ( Vm p=pmis p = p=0 RT 1 ) dp T cost. (6.12) p 0 poiché però il limite del rapporto tra fugacità e pressione per pressione infinitesime è 1, otteniamo pmis ( ) Z 1 ln γ = dp T cost. (6.13) p 0 dove γ è il cofficiente di fugacità a T e p mis, e l integrando è stato semplificato introducendo il fattore di compressibilità Z. Una serie di misure di Z a T fissata variando p fino a p mis fornisce il modo per valutare γ. Secondo il principio degli stati corrispondenti, il coefficiente di fugacità è determinabile sperimentalmente come una funzione della temperatura e della pressione ridotte T r e p r γ γ(t r, p r ) (6.14) T r p r Eq. (6.14) γ misurato Tabella 6.1: Coefficienti di attività ottenuto per interpolazione da un diagramma di correlazione basato sulla equazione (6.14) e misurato direttamente per Ar (T c = 151K e p c = 48atm); dati da R. Newton, Industr. Engng. Chem. 27, 302. Nelle tabelle sono riportati alcuni dati sperimentali che dimostrano la buona approssimazione della relazione (6.14). L uso di una equazione di stato permette anche un calcolo approssimato del coefficiente di fugacità: per esempio, usando l equazione di Van der Waals non è difficile risolvere per mezzo di un integrale numerico l equazione (6.13) in funzione dei parametri a e b; possono anche essere facilmente ricavati dei casi limite termine repulsivo dominante, p = RT/(V m b) da cui si ottiene subito Z = pv m /RT = 1 + pb/rt che porta a ln f = bp/rt termine attrattivo dominante, p = RT/V m a/vm, 2 cioè pvm 2 RT V m + a = 0; risolvendo si trova V m = [RT ± (RT ) 2 4ap]/2p; se p è piccolo (RT ) 2 4ap, da cui V m = RT/p e Z = 1 ap/(rt ) 2 che porta a ln f = ap/(rt ) 2.

94 6.3. EFFETTO JOULE-THOMSON 93 T r p r Eq. (6.14) γ misurato Tabella 6.2: Coefficienti di attività ottenuto per interpolazione da un diagramma di correlazione basato sulla equazione (6.14) e misurato direttamente per l etanolo (T c = 516.2K e p c = 63.1atm); dati da R. Newton, Industr. Engng. Chem. 27, 302. Figura 6.2: Andamento del coefficiente di fugacità in funzione di p r a varie T r 6.3 Effetto Joule-Thomson Tra i fenomeni piú noti riconducibili ad una deviazione dell idealità di un gas reale è l effetto Joule-Thomson. Consideriamo un setto poroso che separa due zone di un tubo isolato termicamente, e facciamo fluire del gas a velocità costante da sinistra a destra attraverso il setto. Se indichiamo con p 1, T 1, H 1,m e p 2, T 2, H 2,m la pressione, temperatura ed entalpia molare a monte e a valle del setto, abbiamo che H 1,m = H 2,m (6.15) Il sistema è infatti in flusso stazionario 2, non compie lavoro utile e non assorbe calore. Se il gas non è perfetto, la temperatura varia, cioè T 2 T 1. Il coefficiente di Joule-Thomson è appunto la variazione di 2 In condizioni di flusso stazionario la variazione di entalpia è nulla, come è stato verificato in precedenza

95 94 CAPITOLO 6. PROPRIETÀ TERMODINAMICHE DI SOSTANZE PURE temperatura con la pressione, ad entalpia (molare) costante µ JT = T p H m (6.16) Possiamo calcolare il coefficiente di Joule-Thomson usando la relazione ciclica T H m p = 1 (6.17) p T H m H m da cui si ottiene µ JT = 1 C p,m p H m p T T (6.18) che può essere facilmente messo in relazione con altre grandezze come α, κ etc. Applicando lo schema sistematico descritto in precedenza si ottiene per esempio µ JT = V m C p,m (αt 1) (6.19) L effetto di Joule-Thomson non è l espansione adiabatica di un gas, che avviene sempre con l esecuzione di un lavoro (spingendo per esempio un pistone) e quindi con un conseguente raffreddamento del gas (ideale o reale). Nell effetto Joule-Thomson la variazione di temperatura avviene a causa di un espansione irreversibile ad entalpia costante e può causare un riscaldamento, se µ JT è negativo, cioè se αt < 1, un raffreddamento, se µ JT è positivo, cioè se αt > 1, o nessuna variazione di temperatura, come avviene per una gas perfetto per il quale µ JT = 0. L andamento generale delle curve isoentalpiche di temperatura contro pressione permette di razionalizzare la variazione di µ JT che è la pendenza delle curve. Ad una data pressione µ JT ha un valore positivo solo nell intervallo compreso tra le due temperature di inversione superiore ed inferiore. Al crescere della pressione le due temperature si avvicinano fino a coincidere ad una data pressione massima [punto A in Fig. (6.3)] oltre la quale non è possibile raffreddare un gas facendolo fluire in condizioni stazionarie attraverso un setto od una strozzatura. Esiste anche una temperatura massima [punto B in Fig. (6.3)] oltre la quale non può essere ottenuto il raffreddamento. Per l idrogeno per esempio la temperatura massima è -78 C: è quindi necessario raffreddare l idrogeno sotto questa temperatura (per raffreddamento mediante espansione) prima di poter sfruttare l effetto Joule-Thomson per raffreddarlo ulteriormente. 6.4 Proprietà delle fasi condensate Le fasi condensate della materia sono rappresentate dai liquidi e dai solidi. Dal punto di vista microscopicostatistico le fasi condensate sono costituite da molecole con un energia cinetica media molto minore della fase gassosa, che è caratterizzata da un elevata mobilità molecolare; il ridotto moto termico porta a stati della materia aventi limitate possibilità di moto traslazionale (liquidi) o addirittura stati in cui le molecole sono costrette a vibrare attorno a posizioni di equilibrio (solidi). Dal punto di vista termodinamico le fasi condensate sono stati di un sistema (o parti di un sistema, se sono presenti contemporaneamente piú fasi, come vedremo tra poco) definite da valori omogeneamente definiti delle coordinate termodinamiche, per

96 6.4. PROPRIETÀ DELLE FASI CONDENSATE 95 Figura 6.3: Andamento qualitativo delle curve isoentalpiche e valutazione del coefficiente di Joule- Thomson per un gas reale.

97 96 CAPITOLO 6. PROPRIETÀ TERMODINAMICHE DI SOSTANZE PURE le quali le grandezza energetiche principali, come l energia libera di Gibbs, dipendono molto poco dalla pressione. La scelta dell energia di Gibbs come funzione di riferimento è dovuta al fatto che le condizioni operative normali sono a temperatura e pressione costanti: analoghe considerazioni si potrebbero svolgere usando l energia di Helmholtz per sistemi a temperatura e volume costanti. Consideriamo, per fissare le idee, una fase qualunque. La dipendenza dell energia libera di Gibbs dalla temperatura è data dalla relazione di Gibbs- Helmholtz, che abbiamo già incontrato in precedenza (G/T ) = H T T 2 p o la sua equivalente relazione molare (µ/t ) = H m T T 2 p (6.20) (6.21) L equazione (6.20) si ottiene ricordando che la derivata di G rispetto a T è pari S = (G H)/T, si ha perciò G G T T p (G/T ) T p = H (6.22) T = 1 G G (6.23) T T T p sostituendo la seconda identità nella prima si ottiene l equazione (6.20). La relazione di Gibbs-Helmholtz ci dice perciò che la variazione di energia di Gibbs con la temperatura dipende dal contenuto entalpico del sistema. Come vedremo nel Capitolo successivo, la relazione di Gibbs-Helmholtz è di grande utilità per calcolare la variazione con la temperatura di energie libere coinvolte in transizioni di fase. La variazione di G con la pressione è invece data semplicemente dall espressione G = V p T o dal suo equivalente molare µ = V m p T che in forma integrata è semplicemente pf (6.24) (6.25) µ(p f ) = µ(p i ) + dpv m (p), T cost. (6.26) p i La dipendenza del potenziale chimico di una fase pura dalla pressione dipende dal volume molare della fase. Per una gas, il volume molare è relativamente grande; per esempio, considerando un gas ideale che passi da 1 bar a 2 bar a 298 K, stimando V m = RT/p otteniamo una variazione di potenziale chimico di 1.7 Kjmol 1 ; per una mole di acqua, in cui il volume molare è stimabile intorno a 18 cm 3 mol 1 e può essere ritenuto costante (fluido incomprimibile), il passaggio della pressione da 1 bar a 2 bar aumenta il potenziale chimico di soli 1.8 j, cioè mille volte di meno del gas ideale. È evidente come nella stragande maggioranza delle applicazioni la variazione di G con la pressione per una fase liquida o solida possa essere del tutto trascurata.

98 6.4. PROPRIETÀ DELLE FASI CONDENSATE 97 Figura 6.4: Schema dell energia libera per la razionalizzazione di una transizione di fase.

99 98 CAPITOLO 6. PROPRIETÀ TERMODINAMICHE DI SOSTANZE PURE

100 Capitolo 7 Equilibri di fase delle sostanze pure In questo Capitolo discuteremo le trasformazioni di fase in sostanze pure: saranno perciò oggetto della nostra analisi i sistemi monocomponente multi-fasici chiusi. Il nostro scopo principale sarà descrivere le condizioni di coesistenza di fasi diverse in un sistema, in condizioni variabili di temperatura pressione etc. 7.1 Diagrammi di stato e punto critico Una fase è una porzione di un sistema le cui proprietà termodinamiche sono uniformi o al massimo cambiano in modo continuo. Abbiamo fasi gassose, liquide, e varie forme di fasi solide (per esempio il ghiaccio I, II, III, IV, V e VI, lo zolfo monoclino e rombico, il fosforo bianco e nero). Una transizione di fase è la conversione spontanea di una fase in un altra fase, che avviene ad una temperatura e pressione; la temperatura di transizione è caratteristica del passaggio di fase, e si parla di temperatura di fusione (liquidosolido), evaporazione od ebollizione (liquido-vapore), sublimazione (solido-vapore). Un diagramma di stato rappresenta le regioni di pressioni e temperatura in cui le varie sono termodinamicamente stabili; le linee che separano due regioni relative a due fasi diverse sono dette curve di transizione, e rappresentano valori di pressione e temperatura in cui le due fasi coesistono in equilibrio; esistono anche punti tripli in cui coesistono tre fasi distinte (la motivazione relativa a quante fasi in equilibrio possono coesistere, per una sostanza pure od una soluzione, può essere razionalizzata in base alla regola delle fasi e sarà discussa più avanti). Consideriamo per fissare le idee un una sequenza di transizioni di fase per un solido (p.es. ghiaccio) che venga riscaldato, fuso, ed infine vaporizzato: solido liquido vapore. Questi passaggi avvengono con assorbimento di calore, che serve sostanzialmente a vincere l attrazione dei componenti molecolari e a fornire loro sufficiente energia cinetica. Da un punto di vista intuitivo è chiaro che l entalpia molare di una sostanza aumenti ad ogni passaggio di fase H s,m < H l,m < H g,m (7.1) e che aumenti anche il grado di disordine molecolare, cioè il contenuto entropico molare, S s,m < S l,m < S g,m (7.2) Ad una data temperatura T e pressione p, il sistema si porrà nello stato di equilibrio caratterizzato dalla minima energia libera di Gibbs. Se per esempio la fase solida è piú stabile ad una pressione e temperatura, 99

101 100 CAPITOLO 7. EQUILIBRI DI FASE DELLE SOSTANZE PURE Figura 7.1: Diagramma di stato dell anidride carbonica. l energia libera molare, vale a dire il potenziale chimico, sarà minore nel solido, che, poniamo, nel liquido µ s (T ) < µ l (T ) (H s,m T S s,m ) < (H l,m T S l,m ) (7.3) Se per esempio manteniamo costante la pressione, al crescere della temperatura la crescita delle varie entalpie ed entropie molari del solido e del liquido avverrà in modo diverso, sino a raggiungere la temperatura di transizione (in questo caso di fusione) a cui, alla pressione data, i potenziali chimici di solido e liquido si equivalgono ed avviene la transizione di fase µ s (T fus ) = µ l (T rmfus ) (H fus s,m T fus S fus s,m) < (H fus l,m T S fus l,m) (7.4) La transizione di fase è quindi la conseguenza del fatto che i potenziali chimici delle due fasi crescono in modo diverso con la temperatura, fino ad intersecarsi alla temperatura di transizione, cfr. Fig. (6.4). Possiamo illustrare molte delle proprietà generali dei diagrammi di stato commentando alcuni diagrammi relativi a sostanze specifiche. In Fig. (7.1) abbiamo il diagramma di stato dell anidride carbonica. Notiamo la presenza di tre zone ben definite, solido, liquido e gas; la separazione tra solido e gs è data dalla curva inferiore a sinistra, mentre solido e liquido e liquido e gas sono separati dalle due curve superiore, a sinistra e a destra rispettivamente. Il punto triplo si trova a 5.11 atm e K: si noti che alla pressione di 1 atm la curva di transizione separa il solido dal gas, da cui segue che a pressione atmosferica un aumento di temperatura comporta una sublimazione (non una fusione) della CO 2 solida (ghiaccio secco). Sopra la temperatura critica, pari a K, la distinzione tra gas e liquido non ha piú ragione di esistere, ed esiste un unico stato detto fluido supercritico ; il punto critico è individuato dalla pressione e dalla temperatura critica. Il diagramma di stato dell acqua, Fig. (7.2) ha un aspetto abbastanza simile all anidride carbonica, almeno a pressione dell ordine di 1-2 atm. A pressioni elevate compaiono fasi solide (ghiaccio) diverse. Il

102 7.2. EQUAZIONE DI CLAPEYRON E SUE APPLICAZIONI 101 Figura 7.2: Diagramma di stato semplificato dell acqua punto triplo dell acqua è a atm e K; a pressione atmosferica la transizione possibile è tra solido (ghiaccio I) e liquido. La pendenza della curva di transizione solido-liquido per l acqua è negativa, mentre è positiva per la CO 2 e la maggior parte delle altre sostanze: come vedremo tra breve, questo fatto ha delle conseguenze importanti sulla dipendenza dalla pressione della temperatura di fusione dell acqua. Infine, con il diagramma di stato dell ossido di silicio abbiamo un esempio di coesistenza di numerose fasi solide cristalline; della stessa sostanza. Sono presenti tre punti tripli: liquido-cristobalite-quarzo II, cristobalite-tridimite-quarzo II, quarzo II-quarzo I-coesite. 7.2 Equazione di Clapeyron e sue applicazioni In un sistema chiuso, la contemporanea presenza di un liquido e del suo vapore corresponde a punti della curva di transizione liquido-vapore. La pressione di vapore in equilibrio con il liquido si dice tensione di vapore. In presenza di una pressione esterna diversa da zero, dovuta per esempio ad una compressione meccanica oppure ad un gas aggiuntivo, si parla di tensione di vapore parziale. La dipendenza delle condizioni di transizione dalla temperatura e dalla pressione possono essere razionalizzate impiegando le varie relazioni differenziali che determinano la variazione del potenziale chimico che sono state illustrate nei Capitoli precedenti. Iniziamo ricavando la dipendenza delle condizioni di transizione tra due fasi dalla temperatura. In un sistema monocomponente sono definite fasi 1 e 2. I loro potenziali chimici sono rispettivamente µ 1 (T, p) e

103 102 CAPITOLO 7. EQUILIBRI DI FASE DELLE SOSTANZE PURE Figura 7.3: Diagramma di stato semplificato dell ossido di silicio

104 7.2. EQUAZIONE DI CLAPEYRON E SUE APPLICAZIONI 103 Figura 7.4: Tensione di vapore di alcuni liquidi µ 2 (T, p). I possibili stati di equilibrio corrispondono alla curva di intersezione delle due superficie µ i. Lungo questa curva, in ogni punto P eq µ eq 1 = µeq 2 (7.5) e per un punto della curva infinitesimalmente vicino al punto P eq si ha µ eq 1 + dµ 1 = µ eq 2 + dµ 2 (7.6) da cui segue che dµ 1 = dµ 2 (7.7) Poiché le due fasi sono in equilibrio termodinamico, la temperatura e pressione sono le stesse in 1 e 2; possiamo esprimere la (7.7) come eequivalenza di due differenziali totali µ 1 T p dt + µ 1 p tenendo conto delle relazioni µ i T p = S m,i, T µ i p dp = p µ 2 T p dt + µ 2 p T dp (7.8) = V m,i (7.9)

105 104 CAPITOLO 7. EQUILIBRI DI FASE DELLE SOSTANZE PURE otteniamo dp dt = S m,1 S m,2 = S m,trans V m,1 V m,2 V m,trans (7.10) questa è l equazione di Clapeyron, nella sua forma piú generale che esprime la pendenza della curva di transizione tra le fasi 1 e 2 in funzione di parametri termodinamici di transizione. Poiché una transizione di fase è reversibile, possiamo esprimere la differenza di entropia in funzione della differenza di entalpia, ovvero del calore latente di transizione, S m,trans = T H m,trans, da cui segue dp dt = H m,trans T V m,trans (7.11) che permette di esprimere la pendenza in funzione di grandezze misurabili immediatamente come il calore di transizione e la variazione di volume per mole. Le applicazioni dell equazione di Clapeyron variano se si considerano transizioni tra fasi condensate (liquido-solido) o tra fasi condensate e gas (liquido-gas). Consideriamo dapprima una transizione tra fasi condensate, liquido-solido (fusione). Clapeyron diventa dp dt = H m,fus T V m,fus L equazione di (7.12) In prima approssimazione possiamo assumere che il calore di fusione e la variazione di volume siano indipendenti dalla temperatura; integrando otteniamo p p dp = H m,fus V m,fus e quindi T dt T T (7.13) p = p + H m,fus V m,fus ln T T p + H m,fus V m,fus T T T (7.14) dove per piccole variazioni di T si può approssimare il logaritmo alla variazione relativa. La pendenza prevista per la curva solido-liquido è ripida: all aumentare della pressione la temperatura di fusione varia notevolmente. La maggior parte delle sostanze ha una pendenza positiva della curva di fusione (all aumentare della pressione la temperatura di fusione aumenta); l acqua è una nota eccezione, poiché V m < 0 (il ghiaccio I è meno denso dell acqua liquida). Per una transizione fase condensata-gas, per esempio liquido-gas (evaporazione), possiamo in prima approssimazione trascurare il volume molare della fase condensata rispetto al vapore, ed usare la legge dei gas perfetti per stimare il volume molare del vapore; otteniamo cosí dp/dt = H m,vap /T (RT/p) = p H m,vap /RT 2 che opportunamente riarrangiata è l equazione di Clausius-Clapeyron: dln p dt = H m,vap RT 2 (7.15) Possiamo calcolare esplicitamente almeno la dipendenza della variazione di entalpia, usando le relazioni differenziali precedentemente introdotte. funzione di p e T otteniamo d H m,trans = (H m,1 H m,2 ) T p dt + Dall espressione del differenziale totale dell entalpia espressa in (H m,1 H m,2 ) p T dp (7.16)

106 7.2. EQUAZIONE DI CLAPEYRON E SUE APPLICAZIONI 105 Figura 7.5: Confronto tra i diagrammi di stato dell anidride carbonica e dell acqua

107 106 CAPITOLO 7. EQUILIBRI DI FASE DELLE SOSTANZE PURE ma sappiamo che H m,i T p = c p,i (7.17) dove con c p indichiamo per brevità la capacità termica molare precedentemente chiamata C p,m. Usando le relazioni Maxwell invece otteniamo H m,i p T = T V m,i T sostituendo nella (7.16) si trova d H m,trans = c p dt + p + V m,i (7.18) V m T V m T dp (7.19) Poiché dp e dt sono legate dall equazione di Clapeyron, possiamo eliminare uno dei due differenziali (ricordiamo che queste espressioni sono valide solo lungo la curva di transizione), fino ad ottenere l equazione di Planck: d H m,trans dt = c p + H m,trans T H m,trans V m T p (7.20) Per una transizione liquido-vapore l ultimo termine dell equazione di Planck è uguale ed opposto al secondo, se si trascura il volume molare del liquido e si assume la legge dei gas perfetti per il vapore, consentendo perciò di scrivere semplicemente d H m,vap dt = c p (7.21) Se assumiamo che la variazione di capacità termica molare nel liquido e nel vapore sia nulla, la variazione di entalpia è costante rispetto alla temperatura. La forma integrata dell equazione di Clausius-Clapeyron diviene percioò p = p exp [ H m,vap R ( 1 T 1 )] T (7.22) Piú in generale possiamo integrare l equazione di Clausius-Clapeyron assumendo che c p sia costante e diverso da zero, od anche assumere una forma funzionale (ottenuta da dati sperimentali) per c p (di solito espresso in funzione di potenze della temperatura).

108 Capitolo 8 Soluzioni: grandezze fondamentali e miscele gassose Nella terza parte di queste dispense di lezione considereremo i sistemi termodinamici caratterizzati dalla presenza di piú componenti chimici, ma in assenza di reazioni chimiche, cioè di processi che comportino la variazione delle coordinate di composizione dei sistemi stessi. Prima di procedere con la descrizione delle proprietà delle soluzioni ideali e reali, introdurremo una serie di nuove proprietà formali dei sistemi multicomponente, le grandezze parziali molari e l equazione principale che ne descrive le caratteristiche, vale a dire la legge di Gibbs-Duhem. Definiremo inoltre la relazione generale che permette di determinare il numero di gradi di libertà termodinamici di un sistema, 8.1 Grandezze parziali molari Le varie funzioni termodinamiche estensive definite nei Capitoli precedenti V, U, S, H, A, G sono facilmente convertite in grandezze intensive per un sistema ad un componente previa divisione per il numero di moli totali di sostanza del sistema, V m = V/n, U m = U/n etc. Le relazioni differenziali tra le grandezze di stato sono facilmente convertibili, per un sistema monocomponente, nella loro forma molare; cosí per esempio il differenziale fondamentale diviene du m = T ds m pdv m + µdn (8.1) dove µ è per definizione l aumento di energia interna dovuto all aggiunta di un numero di moli di sostanza dn ad entropia e volume costanti (ed è anche uguale alla variazione di energia di Gibbs dovuto all aggiunta di un numero di moli di sostanza dn ad temperatura e pressione costanti etc.). La conoscenza delle grandezze molari e del numero di moli permette di definire completamente il comportamento di un sistema ad un componente. Se ora passiamo a sistemi a piú componenti chimici, l utilità delle grandezze molari viene meno: in un sistema composto da varie specie chimiche infatti, l esistenza di interazioni tra le varie specie chimiche non permette di considerare, in generale, che l energia interna, per esempio, sia la somma delle energie interne molari delle specie presenti moltiplicate il numero di moli di ciascuna specie (a meno di non considerare le soluzioni ideali, cfr. il prossimo Capitolo). Possiamo però definire delle nuove grandezze intensive che 107

109 108 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE permettono di descrivere quantitativamente i sistemi termodinamici reali, definite come grandezze parziali molari. Per una generica funzione di stato estensiva E, con E = U, V etc. definiamo la corrispondente grandezza parziale molare relativa all i-esimo componente come Ē i = E (8.2) n i T,p,n i cioè la variazione di E divisa per la variazione infinitesima delle moli dell i-esima sostanza, a temperatura, pressione e numero di moli di tutte le altre sostanze costanti. Per esempio l i-esimo volume parziale molare è semplicemente V i = V (8.3) n i T,p,n i mentre l energia libera di Gibbs parziale molare è Ḡ i = G µ i n i T,p,n i (8.4) cioè coincide per definizione con il potenziale chimico della specie i-esima. L importanza delle grandezze parziali molari risiede nella seguente caratteristica La somma dei prodotti delle grandezze parziali molari per il numero di componenti è uguale alla grandezza estensiva vale a dire E = i Ē i n i (8.5) L equazione (8.5) permette di calcolare il valore della grandezza estensiva, per esempio il volume totale di una soluzione, note le grandezze parziali molari, per esempio i volumi parziali dei componenti di una soluzione. La relazione può essere ottenuta combinando le proprietà matematiche e fisiche delle grandezze di stato. Cominciamo esprimendo il differenziale totale di E nelle variabili T, p e n i de = E dt + E E dn i E dt + E T p n i T p p,n T,n dp+ i T,p,n i p,n T,n dp+ i Ē i dn i (8.6) questa è una conseguenza matematica del fatto che de che è un differenziale esatto, cioè che E è una funzione di stato. Supponiamo ora di aumentare la massa del sistema a temperatura, pressione e composizione costante, cioè di integrare la precedente relazione da uno stato iniziale E ad uno stato finale E f mantenendo inalterate la temperatura, la pressione e le proporzioni relative tra i vari componenti. Otteniamo E = E f E in = i Ē i n i (8.7) le grandezze parziali molari dipendono solo dalla temperatura, pressione e composizione relativa e dunque restano costanti: questa è un ipotesi fisica, che definisce la natura delle grandezze intensive. L aumento di

110 8.1. GRANDEZZE PARZIALI MOLARI 109 massa può essere espresso, considerando che la funzione è estensiva, come E f = ke dove k è il fattore di aumento di massa. Ne segue che (k 1)E = i Ē i (k 1)n i E = i Ē i n i (8.8) Alternativamente, avremmo potuto ottenere direttamente la (8.5) come una applicazione banale del teorema di Eulero, applicato ad E, grandezza omogenea di grado 1 rispetto ai numeri di moli di ogni componente E = 1 E E = Ē i n i (8.9) i n i T,p,n i i Ogni grandezza estensiva può dunque essere espressa come somma delle relative grandezze parziali molari V = i S = i U = i H = i A = i G = i V i n i S i n i Ū i n i H i n i Ā i n i Ḡ i n i (8.10) (8.11) (8.12) (8.13) (8.14) (8.15) che nel caso di un sistema monocomponente si riducono alle consuete relazioni V = V m n etc. Si può notare come con la medesima semplice tecnica si possano ottenere relazioni integrate a partire da ciascun differenziale fondamentale U = T S pv + i µ i n i (8.16) H = T S + i A = pv + i µ i n i µ i n i (8.17) (8.18) G = i µ i n i (8.19) e queste relazioni sono chiaramente in accordo con le definizioni di H, A e G. Fra le grandezze parziali molari esistono relazioni del tutto analoghe a quelle esistenti fra le grandezze estensive originarie. Per esempio, data la definizione di entalpia, H = U + pv, possiamo differenziale a rispetto a n i tenendo T, p e n i costanti ottenendo subito H i = Ūi + p V i etc. Le grandezze molari piú usate sono (a parte i potenziali chimici, naturalmente) le entalpie parziali molari e i volumi parziali molari. Uno metodo di determinazione sperimentale è illustrato nel seguito per il caso delle entalpie parziali molari di una soluzione a due componenti. Siano H m,1 e H m,2 le entalpie molari dei due componenti puri e H 1 e H 2 le entalpie parziali molari in una soluzione di n 1 moli del componente 1 e n 2 moli del componente 2. Il calore assorbito dalla soluzione all atto del mescolamento è (n 1 H1 + n 2 H2 ) (n 1 H m,1 + n 2 H m,2 ) = n 1 ( H 1 H m,1 ) + n 2 ( H 2 H m,2 ) (8.20)

111 110 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE dividendo per n 1 + n 2 si ottiene il calore assorbito per mole di soluzione H m H m = x 1 ( H 1 H m,1 ) + x 2 ( H 2 H m,2 ) = (1 x 2 )( H 1 H m,1 ) + x 2 ( H 2 H m,2 ) (8.21) La quantità H m può essere misurata sperimentalmente e riportata in grafico contro, per esempio, x 2. Per una valore dato x 2 abbiamo i valori corrispondenti H 1, H 2 e H m; si ottiene inoltre H m x2 =x x = ( H 2 1 H m,1 ) + ( H 2 H m,2 ) (8.22) 2 da cui, eliminando H 2 H m,2 dalla (8.21) per x 2 = x 2 : H 1 H m,1 = H m x 2 H m x 2 x2 =x 2 (8.23) che come si può vedere dal grafico in Figura (8.1), è uguale all intercetta della retta tangente alla curva che esprime H m in funzione di x 2 con l asse verticale a x 2 = 0: infatti H m è il segmento EG, x 2 è il segmento AE, mentre la derivata in x 2 è il rapporto tra FG e CF=AE, da cui risulta che H 1 H m,1 è pari alla differenza tra i segmenti EG e FG, cioè AC; analogamente H 2 H m,2 è ottenuto dall intercetta con l asse verticale a x 2 = 1, cioè il segmento BD. Con una procedura analoga possiamo per esempio valutare i volumi Figura 8.1: Grafico per la determinazione delle entalpie parziali molari di una miscela binaria. parziali molari relativi ai volumi molari dei componenti di una soluzione binaria; anzi in questo caso possiamo anche conoscere i volumi molari, quindi sono noti i volumi parziali molari assoluti. Si noti che le grandezze parziali molari possono essere negative: un volume parziale molare negativo per un componente dato ad una composizione data implica che un aggiunta infinitesima del componente provoca una diminuzione del volume totale della soluzione.

112 8.2. MESCOLAMENTO DI UNA MISCELA GASSOSA PERFETTA Mescolamento di una miscela gassosa perfetta Analizziamo ora il comportamento del piú semplice esempio di soluzione che possiamo immaginare, cioè una miscela gassosa formata da gas perfetti, detta anche miscela perfetta). Una miscela perfetta è una miscela di componenti chimici diversi non reagenti per ognuno dei quali il potenziale chimico è definibile secondo la relazione: µ i = µ i + RT ln p p + RT ln x i (8.24) dove p è la pressione totale e x i è la frazione del componente. Per definizione, il potenziale chimico standard è indipendente dalla pressione e dalla composizione, e quindi coincide con il potenziale chimico del solo componente i-esimo in forma pura alla pressione standard. Definendo la pressione parziale come p i = x i p (da cui segue ovviamente che i p i = p), l equazione precedente diviene µ i = µ i + RT ln p i p (8.25) Dall espressione che definisce il potenziale chimico del componente di una miscela (gassosa) perfetta, possiamo facilmente calcolare l equazione di stato come µ i = RT p p V i t,n i cioè il volume parziale è uguale per tutti componenti e vale di conseguenza la legge dei gas perfetti V = ( ) RT n i Vi = n i p = nrt p i i (8.26) (8.27) Possiamo ora considerare il processo di formazione di una miscela perfetta a partire dai suoi componenti, a temperatura e pressione totale costanti. Dobbiamo naturalmente fare attenzione a considerare le condizioni di mescolamento. Analizziamo dapprima il comportamento di N componenti chimici gassosi perfetti a temperatura T, ciascuno a pressione p i,in, ognuno presente in misura di n i moli. Mescoliamoli mantenendo constante la temperatura; si trova facilmente che calore di mescolamento: dalla legge di Gibbs-Helmholtz relativa alle entalpie ed energia libere molari risulta µ i/t T p,n = dµ i /T ddt = H i T 2 (8.28) ma questa equazione ci dice che l entalpia molare parziale dipende solo dalla temperatura (perché µ i dipende solo dalla temperatura), quindi deve essere uguale a qualunque composizione, inclusa quella corrispondente al componente i-esimo puro (x i = 1), ed è peraltro uguale all entalpia molare; quindi il calore di mescolamento è nullo, mix H = 0; energia libera di mescolamento: calcoliamo ora l energia libera di mescolamento. L energia libera totale iniziale è G in = ( n i µ i + RT ln p ) i,in p i (8.29)

113 112 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE mentre quella finale è G fin = i ( n i µ i + RT ln p ) i,fin p (8.30) Quindi l energia libera di mescolamento è mix G = RT i n i ln p i,fin p i,in (8.31) mentre l entropia di mescolamento è semplicemente ottenuta tenendo conto che mix H = 0 mix S = mixg T = R i n i ln p i,fin p i,in (8.32) Nel caso in cui le pressioni iniziali di ciascun gas siano uguali alla pressione finale totale, p i,in = p fin, le espressioni precedenti sono semplificate tenendo conto che p i,fin = x i p fin da cui segue che mix G = RT i mix S = R i n i ln x i (8.33) n i ln x i (8.34) Questo tipo di mescolamento si dice a volume costante; per visualizzarne un esempio pensiamo ai gas racchiusi in comparti di un recipiente rigido separati da pareti interne mobili, che inizialmente sono in equilibrio meccanico, cioè con la stessa pressione. Togliendo le pareti interne, il sistema si mescola e la pressione finale è pari alla pressione iniziale di ciascun componente. Il processo comporta una variazione positiva di entropia ed una diminuzione di energia libera (x i < 1), come ci si può aspettare da un processo spontaneo. Cambiando le condizioni di mescolamento, le grandezze di mescolamento possono cambiare. Consideriamo il caso in cui ogni componente sia presente in misura di n i moli, ed occupi un volume fisso V i. In pratica ora consideriamo delle pareti rigide, non mobili, che separano i comparti interni del nostro recipiente. Possiamo per esempio immaginare un sistema di N palloni, a volume noto, separato da rubinetti chiusi, ciascuno contenente un gas diverso. Ora apriamo i rubinetti e permettiamo il libero mescolamento dei gas. La temperatura finale è sempre T mentre la pressione è p fin. L energia libera iniziale è G in = ( n i µ i + RT ln p ) i,in p i = ( n i µ i + RT ln n ) irt V i i p (8.35) mentre quella finale è G fin = ( n i µ i + RT ln p ) i,fin p i = i ( n i µ i + RT ln x ) ip fin p (8.36) Quindi l energia libera di mescolamento è, tenendo conto che x i = n i / i n i e che p fin V = i n irt mix G = RT i n i ln V i V (8.37)

114 8.2. MESCOLAMENTO DI UNA MISCELA GASSOSA PERFETTA 113 Figura 8.2: Mescolamento di una miscela gassosa binaria perfetta a partire da recipienti in equilibrio meccanico. dove V è il volume totale del recipiente. Ancora una volta la variazione è negativa ed il processo è spontaneo. Per un sistema binario l energia libera di mescolamento a volume costante per mole di miscela, in unità RT in funzione della frazione molare di un componente è semplicemente mix G nrt = x 1 ln x 1 + (1 x 1 ) ln(1 x 1 ) (8.38) In Figura (8.4) l energia libera di mescolamento è posta in grafico contro x 1 ; la funzione è sempre negativa, quindi una miscela gassosa perfetta (binaria) si forma spontaneamente a qualunque composizione.

115 114 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE Figura 8.3: Mescolamento di una miscela gassosa binaria perfetta a partire da recipienti di volume dato. 8.3 Equazione di Gibbs-Duhem Tra le grandezze molari parziali sussistono molte relazioni utili. Se consideriamo il differenziale fondamentale di dg, otteniamo le relazioni di Maxwell µ i p µ i T T,n p,n = V i = S i p,n (8.39) (8.40) Tenendo conto che µ i = H i T S i otteniamo facilmente µ i = H i + T µ i µ i/t = H i T T T 2 (8.41) p,n

116 8.3. EQUAZIONE DI GIBBS-DUHEM 115 Figura 8.4: Energia libera di mescolamento in una miscela binaria gassosa perfetta (mescolamento a volume costante). cioè l equivalente dell equazione di Gibbs-Helmholtz per un sistema a molti componenti. Ma la relazione piú importante, per qualunque grandezza parziale molare, è ottenuta differenziando l equazione (8.5) de = i n i dēi + Ēidn i (8.42) combinando questa espressione differenziale con il differenziale di E rispetto a T, p ed n i de = E dt + E dp + Ē i dn i (8.43) T p p,n T,n i si ottiene l importante relazione differenziale che lega tutte le variabili intensive E T p,n dt + E p T,n dp i n i dēi = 0 (8.44)

117 116 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE che a T e p costanti diviene semplicemente, dividendo anche per il numero di moli totali i n i x i dēi = 0 (8.45) i Nel caso dell energia di Gibbs E = G, l equazione (8.44) prende la forma SdT + V dp i n i dµ i = 0 (8.46) la (8.46) è detta equazione di Gibbs-Duhem, e correla le variazioni di temperatura, pressione e potenziali chimici. A temperatura e pressione costanti l equazione di Gibbs-Duhem prende la forma x i dµ i = 0 (8.47) i Per un sistema binario a pressione e temperatura costante possiamo perciò scrivere x 1 dµ 1 + x 2 dµ 2 = 0 (8.48) Una variazione infinitesimale del potenziale chimico di un componente è quindi causa di una variazione infinitesimale del potenziale chimico dell altro componente. 8.4 Miscela gassosa reale Possiamo subito discutere un applicazione dell equazione di Gibbs-Duhem considerando una miscela gassosa reale, per la quale il potenziale di ciascun componente è µ i = µ i + RT ln f i p (8.49) f i lim = 1 (8.50) p 0 p i dove µ i dipende solo da T, ed è identico al potenziale chimico standard del gas reale puro. Il calcolo della fugacità parziale in funzione della pressione a temperatura e composizione costante può essere effettuato in analogia con la fugacità di un gas puro. Si ottiene ln f ( pmis i Vi = p i 0 RT 1 ) dp p (8.51) Il calcolo della fugacità di un componente in una miscela reale è dunque una misura lunga e complessa. È infatti necessario misurare, per una temperatura, pressione e composizione date, tutti i volumi parziali molari in un intervallo di pressioni da 0 alla pressione di misura. In pratica, per esempio in un miscela binaria, si devono misurare le variazioni di volume della miscela a varie composizioni, ad una data pressione; da questi dati si possono ricavare i volumi parziali alla composizione desiderata. La serie di misure si ripete ad una seconda pressione e cosí via. Come possiamo verificare la correttezza dei dati di fugacità cosí ricavati? La risposta viene dalla relazione di Gibbs-Duhem. Per una miscela binaria abbiamo x 1 dµ 1 + x 2 dµ 2 = 0 x 1 d ln f 1 + x 2 d ln f 2 = 0 (8.52)

118 8.5. APPROFONDIMENTI 117 che può facilmente essere posta nella forma, detta di Duhem-Margules ln f 1 ln x 1 + ln f 2 ln x 2 = 0 (8.53) Una descrizione meno accurata delle miscele gassose può essere costituito dalle miscele ideali, per le quali si accetta la definizione µ i = µ i + RT ln x i (8.54) con µ i funzione della temperatura e della pressione; come vedremo una relazione analoga sarà definita in seguito anche per le soluzioni ideali liquide e solide. Le miscele gassose ideali costituiscono un modello approssimato meno restrittivo delle miscele gassose perfette, ed alcune loro proprietà sono descritte negli approfondimenti di questo Capitolo. 8.5 Approfondimenti Miscele gassose ideali In una miscela gassosa ideale il potenziale chimico di ciascun componente gode delle proprietà µ i p µ i/t T T,n p,n = = µ i V i (8.55) p T,n µ i /T H i T T 2 (8.56) p,n quindi, poiché non vi è dipendenza dalla composizione, il volume molare parziale e l entalpia molare parziale sono uguali al volume molare ed all entalpia molare del componente puro. In una miscela ideale il calore di mescolamento ed il volume di mescolamento a pressione e temperatura costanti sono nulli, come in una miscela perfetta. Se si accetta l approssimazione ideale per una miscela reale, possiamo ricavare una stima semplice della fugacità. Combinando infatti la definizione di potenziale chimico di un componente in un miscela reale con la (8.54) otteniamo RT ln f i p x i = µ i µ i (8.57) per definizione il secondo membro di questa equazione non dipende dalla composizione, quindi il primo membro mantiene lo stesso valore per qualunque valore di x i ; per x i = 1 la fugacità f i è la fugacità del componente puro e perciò per una soluzione gassosa ideale RT ln f i p = RT ln f puro x i ip f i = x i f puro i (8.58) questa relazione è nota come regola di Lewis-Randall: in una miscela gassosa ideale la fugacità di ciascun componente è pari alla frazione molare del componente moltiplicata per la fugacità che il componente avrebbe allo stato puro, alla stessa temperatura e pressione.

119 118 CAPITOLO 8. SOLUZIONI: GRANDEZZE FONDAMENTALI E MISCELE GASSOSE

120 Capitolo 9 Soluzioni: proprietà generali e soluzioni ideali Descriveremo in questo Capitolo le proprietà termodinamiche delle soluzioni ideali, che costituiscono una descrizione approssimata delle soluzioni reali; come i gas reali tendono al comportamento del gas perfetto a basse pressioni, cosí le soluzioni reali assumono comportamenti limite analoghi a quelli delle soluzioni ideali in condizione di bassa diluzione (eccesso di solvente). 9.1 Regola delle fasi Prima di tutto, è necessario stabilire una relazione generale tra il numero di gradi di libertà (cioè di variabili intensive che si possono variare liberamente) e numero di fasi e componenti chimici di un sistema multicomponente. Le condizioni di equilibrio termodinamico tra due fasi separate da una membrana sono date dall uguaglianza di pressione (se la membrana non è rigida), di temperatura (se la membrana non è adiabatica) e di potenziale chimico per ogni specie chimica contenuta nelle due fasi (e che possa passare liberamente attraverso la membrana). Per esempio possiamo scrivere per le due fasi 1 e 2 di un sistema monocomponente p 1 = p 2 T 1 = T 2 (9.1) (9.2) µ 1 (T 1, p 1 ) = µ 2 (T 2, p 2 ) (9.3) l ultima eguaglianza esprime la condizione di equilibrio chimico e può essere interpretata come la curva di intersezione delle superficie che rappresentano i potenziali chimici nelle due fasi in funzione della temperatura e pressione. Il sistema ha dunque un solo grado di libertà, cfr. Figura (9.1). È possibile generalizzare il bilancio di variabili intensive e vincoli di equilibrio, per trovare il numero di gradi di libertà di un sistema formato da varie fasi e diversi componenti chimici. Consideriamo dapprima il caso di un sistema in equilibrio termodinamico formato da F fasi e C componenti non reagenti fra loro; ammettiamo che tutti i componenti siano presenti in ogni fase. Lo stato di ciascuna fase è definito dai potenziali chimici, dalla temperatura e dalla pressione, cioè da C + 2 variabili, che però devono essere le stesse in tutte le fasi per la condizione di equilibrio meccanico (pressione), termico (temperatura) e chimico 119

121 120 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI Figura 9.1: Coesistenza di due fasi in un sistema all equilibrio. (potenziali chimici). Quindi tutto il sistema è descritto da C + 2 variabili. Ma per ogni fase deve anche valere una relazione di Gibbs-Duhem, per esempio per la fase 1 si ha S 1 dt V 1 dp + i n i1dµ i = 0; di consequenza il numero di gradi di libertà o varianza è dato dal numero di variabili (C + 2) meno i vincoli (pari al numero di fasi, F ) V = C + 2 F (9.4) questa è la famosa regola delle fasi, ricavata per primo da Gibbs. Si noti che non è necessario che tutti i componenti siano presenti in tutte le fasi; se per esempio il componente j-esimo non esiste nella fase 1, la corrispondente relazione di Gibbs-Duhem resta valida ma non contiene il termine n j1 dµ j. Un modo alternativo, meno elegante ma forse piú immediato di ricavare la regola delle fasi è di contare tutte le variabili e tutti i vincoli, includendo esplicitamente tra i vincoli le condizioni di equilibrio. Se in ogni fase sono contenute tutte le C specie, si hanno senza contare i vincoli di equilibrio 2 + C 1 = C + 1 (cioè temperatura, pressione e frazioni molari) variabili per fase; d altra parte si hanno anche F 1 eguaglianze

122 9.1. REGOLA DELLE FASI 121 tra pressioni per l equilibrio meccanico, F 1 eguaglianze tra temperature (equilibrio termico), e C(F 1) eguaglianze di potenziale chimico (equilibrio chimico per ogni componente). La varianza risulta perciò V = F(C + 1) (C + 2)(F 1) = C + 2 F (9.5) Se un componente manca da una fase si ha una variabile in meno per specificare lo stato della fase, ma anche un vincolo di equilibrio in meno (relativo al potenziale chimico del componente) e quindi la regola resta verificata. La regola delle fasi deve essere modificata in presenza di vincoli aggiuntivi, come per esempio una pressione totale imposta dall esterno, o dalla presenza di membrane semi-impermeabili, che cioè consentono il passaggio solo di alcuni componenti chimici, od infine dalla presenza di reazioni chimiche indipendenti. In effetti, come vedremo nella quarta parte di queste dispense di lezione, una reazione chimica si traduce in una relazione tra i potenziali chimici nella forma i ν iµ i, dove ν i sono i coefficienti stechiometrici della reazione; di conseguenza, se sono R le reazioni chimiche indipendenti, la regola delle fasi risulta modificata V = C R + 2 F (9.6) La regola delle fasi non deve essere applicata in modo meccanico, ma utilizzata in modo intelligente per determinare la varianza di un sistema. Alcuni esempi possono essere utili. 1. l esempio piú semplice è quello di una sostanza pura in una fase in equilibrio con una seconda fase (per esempio liquido/vapore); la varianza è evidentemente 1+2-2=1; 2. se le fasi del sistema in equilibrio sono tre la varianza è 1+2-3=0: il punto triplo di una sostanza è definito da una ben precisa condizione di temperatura e pressione, che non può essere modificata 3. un liquido è in equilibrio con il suo vapore ed un gas insolubile nel liquido stesso, in un pallone chiuso: V = = 2; se la pressione imposta alla miscela vapore-gas dall esterna è costante si ha un vincolo aggiuntivo, e la varianza scende a 1. Consideriamo come esempio ulteriore un sistema chiuso formato da tre specie chimiche A, B e C, tra le quali sussista una reazione chimica nella forma A = B+C, e che possa avere una fase vapore e/o liquida: 1. se il sistema è solo nella fase vapore la varianza V è =3, cioè si possono variare la temperatura, la pressione ed una frazione molare; ma se il sistema è stato preparato a partire solo da A, si possono formare solo numeri uguali di moli di B e C, e ciò costituisce un vincolo aggiuntivo, per cui la varianza è 2; 2. se il sistema è costituito da un vapore misto e da un fase A liquida, la varianza è 2 nel caso generale; ma se il sistema è stato preparato partendo solo da A il vincolo aggiuntivo impone che V = 1; 3. se il sistema è costituito da una fase liquida e vapore, entrambe miste, la varianza è 2, comunque il sistema sia stato preparato, anche a partire solo da A, in quanto viene meno il vincolo dell uguaglianza delle moli di B e C in una delle due fasi, in quanto le solubilità delle due specie nel liquido possono essere diverse.

123 122 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI Figura 9.2: Varianza e fasi in un sistema monocomponente 9.2 Proprietà generali delle soluzioni Consideriamo ora alcune delle relazioni generali esistenti tra le grandezze intensive che descrivono una soluzione. Per fissare le idee, consideremo sempre nel seguito il caso di una soluzione binaria, tranne quando non sarà specificato altrimenti in modo esplicito. Per descrivere correttamente una soluzione (liquida o solida) è necessario innazitutto specificare se è in presenza oppure no di un altra fase. Per esempio, ponendo in soluzione del cloruro di sodio in acqua in un recipiente chiuso possiamo ottenere, a secondo delle condizioni di temperatura, pressione e composizione una soluzione salina in contatto con sale solido e vapore acqueo, od una soluzione solida di acqua e sale in contatto con una soluzione liquida etc. Se entrambi i componenti di una soluzione binaria sono volatili (per esempio acqua ed etanolo) possiamo avere una soluzione liquida in contatto con una miscela gassosa etc. È evidente che la descrizione degli equilibri di fase e del diagramma di stato di una soluzione può essere molto complesso; ci avvicineremo perciò a questa problema per gradi, discutendo dapprima le proprietà generali delle soluzioni che non richiedano speciali definizioni del potenziale

124 9.2. PROPRIETÀ GENERALI DELLE SOLUZIONI 123 Figura 9.3: Varianza e fasi per Al 2 SiO 5 chimico, in questa sezione; poi introdurremo, a livello fenomenologico, alcune caratteristiche sperimentali dei diagrammi di stato delle soluzioni, nella prossima sezione; infine il resto del Capitolo sarà dedicato ad un modello particolare per le soluzioni, il modello delle soluzioni ideali, già in parte introdotto nel Capitolo precendente per le sole miscele gassose. Il Capitolo successivo è dedicato ad una descrizione piú accurata delle soluzioni reali. Distinguiamo le relazioni generali in base al numero e al tipo di fasi presenti. Soluzione monofasica Consideriamo innanzitutto una soluzione binaria monofasica. le variabili intensive sono quattro, per esempio la temperatura T, la pressione p ed i potenziali chimici dei componenti, µ 1 e µ 2, o le frazioni molari x 1 e x 2. È però evidente dalla regola delle fasi che solo tre variabili sono libere, per esempio T, p ed una frazione molare od un potenziale chimico. Ciò discende del resto anche dall equazione di Gibbs-Duhem SdT V dp + n 1 dµ 1 + n 2 dµ 2 = 0 (9.7) che lega fra loro le variazioni dt, dp, dµ 1 e dµ 2. La relazione precedente può essere posta in una forma che coinvolge solo le frazioni molari e i potenziali chimici. Se infatti esprimiamo dµ 1 e dµ 2 in funzione per esempio di T, p e x 1 (le variabili scelte come indipendenti) abbiamo che SdT V dp + n 1 S 1 dt + V 1 dp + µ 1 dx 1 + n 2 S 2 dt + V 2 dp + µ 2 dx 1 = 0 (9.8) x 1 x 1 dove si è fatto uso delle relazioni tra entropia, energia libera e volume parziale molare per ogni componente; si vede subito che i termini in dt e dp vanno a zero (perché per esempio S = n 1 S1 + n 2 S2 ) e quindi n 1 µ 1 x 1 + n 2 µ 2 x 2 = 0 x 1 µ 1 x 1 + (1 x 1 ) µ 2 x 2 = 0 (9.9)

125 124 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI dove la seconda espressione è ottenuta dividendo per n = n 1 + n 2, e le derivate sono intese a T, p costante. Naturalmente questa espressione è vera anche per una fase binaria in contatto con altre fasi: solo che in questo caso sono presenti delle relazioni aggiuntive che riducono ulteriormente il numero di variabili libere. Effetto di un gas inerte sulla tensione di vapore. Si tratta sostanzialmente di un sistema bifasico a due componenti, in cui uno dei componenti esiste nelle due fasi (liquido/solido e vapore), l altro solo nella fase vapore. La varianza del sistema è due. Indichiamo con p la tensione di vapore del componente bifasico e con p tot la pressione totale. Dall uguaglianza dei potenziali chimici del componente bifasico nelle due fasi, dµ g = dµ c, otteniamo µ g T dt + µ g p tot dp tot + µ g x dx = µ c T dt + µ c p tot dp tot (9.10) dove x è la frazione molare del componente bifasico nella fase vapore. Sostituendo le derivate del potenziale chimico in fase vapore con l entropia ed il volume parziale molare si ottiene S g dt + V g dp tot + µ g x dx = S c,mdt + V c,m dp tot (9.11) Se la fase vapore è una miscela perfetta possiamo scrivere µ g = µ (T ) + RT ln p tot + RT ln x (9.12) p e quindi si può calcolare facilmente il volume parziale molare, V g = RT/p tot ; infine tenendo conto che p = xp tot RT d ln p p = ( S g S c,m )dt + V c,m dp tot (9.13) da cui segue che ln p T ln p p tot ptot = T = V c,m RT S g S c,m RT = H g H c,m RT 2 (9.14) (9.15) L equazione (9.14) è analoga alla Clausius-Clapeyron, che però è corretta sotto due approssimazioni: che il vapore sia una fase perfetta e che il volume molare della fase condensata sia trascurabile; la (9.14) è vera solo sotto la condizione che il vapore sia una fase perfetta. La presenza di un gas inerte, che non si sciolga nella fase condensata, rende in un certo senso l uso della relazione di Clausius-Clapeyron (o meglio della (9.14), che è analoga) piú accurata. La (9.15) descrive l effetto della pressione totale sulla tensione di vapore, che è molto modesto, in quanto dipende dal solo volume molare della fase condensata.

126 9.2. PROPRIETÀ GENERALI DELLE SOLUZIONI 125 Soluzione in contatto con due fasi pure. È questo per esempio il caso di una soluzione liquida salina in contatto con vapore d acqua e cloruro di sodio solido. Il numero dei componenti è due ed il numero delle fasi tre, la varianza viene perciò ad essere uno: deve quindi esistere una relazione tra pressione e temperatura, analoga alla legge di Clausius-Clapeyron per un sistema bifasico monocomponente. Indichiamo con µ 1, µ 2 il potenziale chimico dei componenti in soluzione e µ 1, µ 2 il potenziale dei componenti nelle due fasi pure. Per il componente 1 possiamo scrivere µ 1 T dt + µ 1 p dp + µ 1 dx 1 = µ x 1 T µ 1 = µ 1 equilibrio (9.16) 1 µ 1 dt + p dp (9.17) S 1 dt + V 1 dp + µ 1 x 1 dx 1 = S 1,mdT + V 1,mdp (9.18) continuando ad indicare con un apice le grandezze riferite alle fasi pure; semplificando si ottiene µ 1 x 1 dx 1 = (S 1,m S 1 )dt + (V 1,m V 1 )dp (9.19) Procedendo nello stesso modo otteniamo per il componente 2 µ 2 x 1 dx 1 = (S 2,m S 2 )dt + (V 2,m V 2 )dp (9.20) Se moltiplichiamo la (9.19) per x 1 e la (9.20) per (1 x 1 ), sommiamo e teniamo conto della (9.9), otteniamo dp dt = (1 x 1)(S 1,m S 1 ) + x 1 (S 2,m S 2 ) (1 x 1 )(V 1,m V 1 ) + x 1 (V 2,m V 2 ) (9.21) tenendo conto che S i,m S i = T (H i,m H i ) come discende dal fatto che valgono le condizioni di equilibrio µ i = µ i si ottiene dp dt = (1 x 1)(H 1,m H 1 ) + x 1 (H 2,m H 2 ) T [(1 x 1 )(V 1,m V 1 ) + x 1 (V 2,m V 2 )] (9.22) che esprime la variazione di pressione con la temperatura lungo la curva di coesistenza di un equilibrio trifasico in funzione di effetti termici e di volume. Due fasi binarie Gli esempi di sistemi bifasici a due componenti sono molto numerosi, come una soluzione di due liquidi in contatto con la miscela di vapori; due soluzioni di liquidi miscibili con diversa composizione (per esempio etere/acqua). La regola delle fasi ci permette di affermare che questi sistemi sono bivarianti, e consentono di trovare relazioni che correlano la pressione e la temperatura solo se si fissa la composizione di una delle due fasi. La metodologia di studio è sostanzialmente analoga a quella usata nel caso precedente. Ne rimandiamo l analisi al prossimo Capitolo, quando discuteremo le proprietà delle soluzioni reali in connessione con il problema della distillazione.

127 126 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI 9.3 Diagrammi di stato delle soluzioni: dati sperimentali Il diagramma di stato di una soluzione binaria, in cui entrambi i componenti siano presenti in fase vapore, è un grafico che riporta in ascissa una variabile di composizione della soluzione, per esempio la frazione molare del componente 1, e in ordinata le tensioni di vapore dei componenti e la tensione di vapore totale, in ogni punto relativamente al vapore in equilibrio con la soluzione avente la composizione in ascissa. In molti casi, per esempio bromuro di etilene con bromuro di propilene, benzene con cloruro di etilene, benzene con metilbenzene etc. la tensione di vapore di un componente è proporzionale alla sua frazione molare in soluzione: come vedremo, questa è la caratteristica deducibile per le soluzioni ideali. Figura 9.4: Diagramma di stato benzene/metilbenzene L andamento tipico del diagramma di stato per una soluzione ideale (per ora definita come tale solo in base al suo comportamento sperimentale) è illustrato in figura (9.4), per una miscela benzene/metilbenzene.

128 9.4. POTENZIALI CHIMICI PER LE SOLUZIONI IDEALI 127 Come si può vedere, le tensioni di vapore dei due componenti sono direttamente proporzionali alla loro frazione molare in soluzione; la tensione di vapore totale è data naturalmente dalla somma delle due tensioni di vapore parziali: p 1 = p 1x 1 p 2 = p 2x 2 (9.23) p = p 1 + p 2 = p 1x 1 + p 2x 2 = p 2 + (p 1 p 2)x 1 (9.24) La costante di proporzionalità è data, per ogni componente, dalla tensione di vapore del componente puro alla stessa temeratura, che indichiamo con p 1,2. L equazione (9.23) va sotto il nome di legge di Raoult. la maggior parte delle soluzioni liquide non segue la legge di Raoult, e presentano deviazioni negative o positive dal comportamento ideale, come si può vedere in figura (9.5) per le miscele acetone/cloroformio (a) e acetone/cs 2 (b). L analisi delle curve di tensione di vapore delle soluzioni reali come quelle mostrate in figura (9.5) evidenzia due punti importanti 1. quando x i 1 la relazione p i = p i x i acquista validità, in altri termini la curva di tensione di vapore per il componente i-esimo è tangente alla retta di Raoult per concentrazioni molto elevate del componente considerato; p i = p i x i x i 1 (9.25) 2. quando x i 0 può esistere nondimeno una relazione di linearità p i = K i x i, in altri termini la curva di tensione di vapore per il componente i-esimo è comunque tangente ad una retta per diluzioni estreme del componente considerato; la relazione limite per basse concentrazioni è detta legge di Henry p i = K i x i x i 0 (9.26) Le soluzioni per le quali uno dei componenti segue la legge di Raoult (solvente) mentre gli altri seguono la legge di Henry (soluti) si dicono soluzioni ideali diluite. Altri esempi di diagrammi di stato di soluzioni binarie includono le soluzioni di gas in liquidi, e di componenti parzialmente miscibili. La lettura dei diagrammi di stato può essere in questi ed altri casi piuttosto complicata (vedi il Capitolo seguente). 9.4 Potenziali chimici per le soluzioni ideali Il comportamento delle soluzioni sarà ora discusso, come abbiamo fatto in precedenza per i gas ideali, reali e le miscele gassose, introducendo una legge fisica appropriata per il potenziale chimico e deducendo da questa le proprietà osservabili dei diagrammi di stato. Iniziamo considerando le soluzioni ideali. Si dice che una soluzione è ideale se il potenziale chimico di ciascun componente dipende linearmente dal logaritmo della sua frazione molare, secondo la relazione µ i = µ i + RT ln x i (9.27) dove µ i è funzione della temperatura e della pressione. Si noti che

129 128 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI Figura 9.5: Diagramma di stato cloroformio/acetone, con deviazioni negative dall idealità (a) e clorformio CS 2, con deviazioni positive dall idealità (b).

130 9.5. SOLUZIONI IDEALI E LEGGI DI RAOULT ED HENRY una soluzione non deve essere necessariamente ideale in tutto il campo di variazione delle concentrazioni dei componenti; in altri termini la legge (9.27) può essere corretta in un intervallo di composizioni e non valere in un altro; 2. le miscele gassose ideali sono soluzioni ideali Le soluzioni che sono ideali a tutte le concentrazioni sono anche dette soluzioni perfette. 9.5 Soluzioni ideali e leggi di Raoult ed Henry Consideriamo ora una soluzione, la cui fase vapore in equilibrio sia perfetta. Per ogni componente presente in entrambe le fasi, il potenziale chimico in soluzione e nel vapore deve essere uguale. Possiamo perciò scrivere µ sol i = µ vap i (9.28) Se adottiamo la legge (9.27) per descrivere il potenziale chimico del componente in soluzione, e la combiniamo con l espressione del potenziale chimico del componente nella miscela gassosa perfetta, otteniamo µ i + RT ln x i = µ i + RT ln p i p (9.29) dove p i è la tensione di vapore del componente e x i è la frazione molare in soluzione. Si trova facilmente che p i = K i x i K i = p exp[(µ i µ i (9.30) )/RT ] (9.31) Si nota subito che K i è indipendente dalla composizione, perché µ i e µ lo sono. Se la validità del comportamento ideale è presente anche per x i 1, K i p i, tensione di vapore del componente puro, e quindi si ritrova la legge di Raoult relativa al componente in esame; altrimenti, la (9.30) è la legge di Henry. Ne consegue che una soluzione i cui componenti sono descritti dalla (9.27), e la cui fase vapore sia una miscela gassosa perfetta, si comporta come una soluzione ideale diluita nelle regioni in cui uno componenti è prevalente, mentre gli altri sono presenti a diluizione estrema. Consideriamo per chiarire meglio le idee il diagramma di stato di una soluzione binaria in figura (9.6): nella regione di sinistra dove x 1 è piccola, si ha una soluzione diluita approssimativamente ideale del componente 1 nel componente 2 e valgono le leggi Raoult per il componente 2 (p 2 = p 2 x 2) e di Henry per il componente 1 (p 1 = K 1 x 1 ): il significato di µ 2 è quello di potenziale chimico del componente 2 puro; mentre µ 1 rappresenta il potenziale chimico di uno stato - irrealizzabile - del componente 2 puro, ma con proprietà estrapolate dalla condizione di estrema diluizione 1. Analogamente, nella zona di estrema destra si considera una soluzione ideale diluita di 2 in 1, e valgono le medesime considerazioni. Se la fase vapore è imperfetta, le leggi di Raoult ed Henry devono essere espresse in funzione delle fugacità. Uguagliando infatti potenziali chimici della soluzione e del vapore si trova f i = K i x i (9.32) 1 Come se improvvisamente tutte le molecole di 1 fossero eliminate lasciando le poche molecole di 2 nelle stesse condizioni

131 130 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI Figura 9.6: Soluzione ideale diluita.

132 9.6. PROPRIETÀ DI MESCOLAMENTO DELLE SOLUZIONI IDEALI 131 Componente K /(bar kg mol 1 ) pentano benzene 0.18 etanolo 120 cicloesano CCl acetone 23 cloroformio 0.24 CO Tabella 9.1: Coefficienti di Henry in acqua a K; Yaws, C.L.; Yang, H.-C., Henry s law constant for compound in water in Thermodynamic and Physical Property Data, C. L. Yaws, ed(s)., Gulf Publishing Company, Houston, TX, 1992, e se la soluzione resta ideale per x i 1 abbiamo l equivalente della legge di Raoult espressa rispetto alla fugacità del componente puro alla stessa pressione e temperatura della soluzione considerata f i = f i x i. (9.33) 9.6 Proprietà di mescolamento delle soluzioni ideali Le proprietà di mescolamento delle soluzioni ideali possono essere ricavate usando la medesima procedura impiegata per le miscele gassose. Dall espressione (9.27) µ i/t T µ i p µ i T p,n T,n = µ i = = T + R ln x i µ i /T T p µ i p T (9.34) (9.35) (9.36) ricordando che µ i non dipende dalla composizione. Usando ora le definizioni di grandezze parziali molari otteniamo H i T 2 = µ i /T (9.37) T p V i = µ i p T (9.38) da cui segue che in una soluzione ideale le entalpie parziali molari e i volumi parziali molari sono indipendenti dalla composizione. Se la soluzione ideale ad ogni composizione, ne consegue che le entalpie e i volumi parziali molari sono uguali alle corrispondenti grandezze molari e quindi l entalpia ed il volume di mescolamento sono nulli. Ma la maggior parte delle soluzioni hanno un comportamento ideale diluito, quando cioè una delle

133 132 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI specie, il solvente, è presente in eccesso. In questo caso solo l entalpia ed il volume parziale molare del solvente possono essere uguagliate alle grandezze molari, mentre in generale H i e V i per i soluti saranno diversi dalle grandezze molari dei soluti puri. Considerazioni analoghe possono essere svolte per l energia libera di Gibbs e l entropia di mescolamento. Se la soluzione è ovunque ideale si ritrovano facilmente le medesime espressioni già trovate per la miscela gassosa perfetta. 9.7 Dipendenza da T e p degli equilibri di soluzioni ideali Concludiamo questo capitolo chiedendoci quali sia l effetto di pressione e temperatura sui coefficienti di Henry in una soluzione ideale diluita. Partiamo dall uguaglianza dei potenziali chimici, dividendo per la temperatura µ sol i T = µvap i T (9.39) ed uguagliamo i differenziali totali, sostituendo le espressioni dei potenziali chimici di una soluzione ideale a sinistra e di una miscela gassosa perfetta a destra µ sol i /T T dt + 1 T vap µ sol i p dp + 1 µ sol i dx i = µ i /T T x i T dt + 1 T µ vap i p i dp i (9.40) Per le proprietà delle soluzioni ideali e delle miscele gassose perfette otteniamo facilmente H i T 2 dt + V i T dp + R dx i = Hvap i,m x i T 2 dt + R dp i (9.41) p i che può essere riscritta come d ln ( pi x i da cui discende che ln K i T ln K i p ) d ln K i = Hvap i,m H i RT 2 dt + V i dp (9.42) RT p T = Hvap i,m H i RT 2 = V i RT (9.43) (9.44) (9.45) Si noti che H vap i,m H i è il calore assorbito nell evaporazione di una mole di componente dalla soluzione alla temperatura e pressione date. 9.8 Approfondimenti Fasi anisotrope Una mesofase è una fase della materia che esibisce proprietà intermedie tra un solido ed un liquido. Di grande importanza per lo sviluppo della tecnologica di nuovi materiali e per l interpretazione di molti fenomeni

134 9.8. APPROFONDIMENTI 133 biologici, le mesofasi costituiscono uno dei piú moderni ed avanzati campi di studio della chimica fisica. La grande maggioranza delle mesofasi è esibita da sostanza note come cristalli liquidi 2. I cristalli liquidi, dal punto di vista chimico, sono molecole organiche di forma allungata, formate essenzialmente da due parti: una regione rigida che fornisce la classica forma a bastoncino che solitamente si associa a questo tipo di molecole ed una regione mobile che, invece, è responsabile del loro comportamento relativamente disordinato. Questa duplice natura del cristallo liquido è causa delle particolari proprietà che manifesta: la relativa rigidità della struttura è responsabile dell ordine che essi presentano a livello molecolare analogamente a quanto accade nei cristalli, mentre le catene laterali mobili forniscono ad essi proprietà di fluidità e di scorrimento caratteristiche dei liquidi ordinari isotropi. In condizioni normali l anisotropia microscopica dovuta all orientamento medio delle molecole non si manifesta a livello macroscopico (analogamente a quanto accade, ad esempio, nei materiali ferromagnetici) per la struttura a zone (o domini) del cristallo liquido: in ognuna di esse le molecole assumono una determinata orientazione media fissa che però è diversa da una zona all altra. Tra di esse sono presenti singolarità in cui l orientazione delle molecole subisce una rotazione o twist. Tuttavia, applicando un campo magnetico o elettrico esterno, si può indurre in tutto il campione un orientazione preferenziale (perpendicolare o parallela al campo) che dà al cristallo liquido un anisotropia che si manifesta a livello macroscopico. Le proprietà ottiche, magnetiche, elettriche della sostanza esibiscono tutte una marcata anisotropia che rende questi sistemi interessanti per applicazioni tecnologiche di vario tipo (soprattutto di tipo ottico: display). Figura 9.7: Cristalli liquidi: a) nematico; b) smettico A; c) smettico C L orientazione media delle molecole in un cristallo liquido è individuata da un vettore unitario chiamato direttore e indicato dal simbolo n: esso rappresenta la media locale della direzione delle molecole in ogni punto del campione preso in esame. Esistono molte diverse categorie di cristalli liquidi. Una prima classificazione che si può fare distingue queste 2 Questa sezione è tratta da: Dinamica di processi diffusivi in fluidi isotropi ed anisotropi, F. Meneghini, Tesi di Laurea in Chimica, Università degli Studi di Padova, 2001

135 134 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI sostanze in termotropiche e liotropiche, a seconda che la transizione di fase dal liquido isotropo alla fase liquido-cristallina avvenga in seguito ad una variazione di temperatura o di concentrazione. Cristalli liquidi liotropici sono, ad esempio, i tensioattivi che danno strutture micellari in soluzione; cristalli liquidi termotropici sono invece quelli che normalmente vengono usati per la tecnologia di produzione dei display. Una classificazione diversa distingue i cristalli liquidi in base alle proprietà d ordine delle fasi anisotrope. Le classi piú importanti sono essenzialmente due: i nematici che presentano ordine orientazionale, ma non traslazionale e gli smettici che hanno anche un ordine traslazionale (i centri di massa sono distribuiti su piani paralleli tra loro). I cristalli liquidi smettici poi si suddividono ulteriormente in A se il direttore è perpendicolare al piano che individua gli strati; B, analoghi agli A, ma in cui le molecole hanno una disposizione esagonale delle molecole all interno degli strati; C se il direttore è inclinato rispetto alla normale al piano smettico. All interno di queste categorie principali si possono poi individuare fasi particolari come sono ad esempio quelle formate da molecole chirali (fasi colesteriche). In esse il direttore tende a ruotare nello spazio attorno ad un asse formando eliche sinistrorse o destrorse, a seconda dell enantiomero che si usa. A metà strada tra le fasi colesteriche e non, vi sono poi le cosiddette fasi frustrate che, pur essendo sempre formate da molecole chirali, non riescono a formare vere e proprie eliche. Esse compaiono in intervalli di pochi gradi centigradi e sono comunque rare: tra queste si possono nominare le fasi blu e le TGB (twist grain boundary). Le prime tentano di formare doppie eliche con assi perpendicolari tra loro: queste stutture, tuttavia, non riescono a coprire lo spazio tridimensionale uniformemente e quindi si formano difetti che danno luogo strutture piú complesse. Le TGB, invece, sono strutture formate dalla competizione tra la tendenza del cristallo liquido a formare una fase smettica e quella di formare un elica dovuta alla chiralità delle molecole. Quel che ne deriva è una coesistenza delle due strutture in cui grani di fase smettica ruotano a formare un elica. Le fasi piú comuni e piú largamente studiate nei cristalli liquidi sono quelle nematiche. Per descrivere a livello teorico queste fasi si deve poter quantificare l ordine orientazionale che le caratterizza: supponendo che le molecole abbiano simmetria assiale, si potrà definire la funzione di distribuzione f(θ) dell angolo caratteristico θ tra l asse lungo della molecola e l asse z del sistema di riferimento. La funzione f(θ) potrà essere espansa su di una base completa di polinomi ortogonali quali sono i polinomi di Legendre P n (cos θ): di questi contribuiranno solo quelli di ordine pari: f(θ) = c 2 P 2 (cos θ) + c 4 P 4 (cos θ) +... (9.46) I coefficienti dell espansione sono quindi dati da: c i N i = 2π 0 dφ π 0 dθ sin θp i (cos θ)f(θ) = S i (9.47) Gli S i vengono chiamati parametri d ordine e sono quantitativamente indicativi dell ordine della fase: normalmente viene considerato solamente S 2, essendo di gran lunga il maggiore. Il parametro d ordine varia da 0 per una fase completamente disordinata (f non dipende da θ e quindi può essere estratto dall integrale dando S 2 = 0), a 1 per una fase completamente ordinata: valori intermedi danno una fase parzialmente ordinata (normalmente un nematico ha valori di S 2 che variano da 0.3 a 0.7). Rimane ora da determinare l espressione esplicita di f(θ): in base alla teoria di Maier-Saupe si può definire un potenziale di campo medio V mf (θ), il quale dipende solamente dalle forze di Van der Waals ed è invece indipendente dalla temperatura, per cui la funzione di distribuzione può essere scritta come: f(θ) = exp( V mf(θ)/k B T ) Z (9.48)

136 9.8. APPROFONDIMENTI 135 Figura 9.8: Cristalli liquidi: a) e b) fasi blu; c) TGB

137 136 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI Figura 9.9: Cristalli liquidi: MBBA (4-Methoxibenzylidene-4 -n-butylaniline), PAA (4,4 - Dimethoxyazoxy benzene), 5CB (4 -n-pentyl-4-cyanobiphenyl)

138 9.8. APPROFONDIMENTI 137 in cui k B è la costante di Boltzmann, T è la temperatura e Z è l integrale di normalizzazione dato da: Z = 2π 0 dφ π 0 dθ sin θ exp( V mf (θ)/k B T ) (9.49) Anche il potenziale, essendo una funzione di θ, può essere espanso sulla base dei polinomi di Legendre, di cui si può mantenere solamente il termine dominante in P 2. Risulta quindi V mf = c 2 P 2 (cos θ) che è comodo riscrivere come V mf = ɛs 2 P 2 (cos θ), in cui ɛ è un fattore positivo che ha le dimensioni di un energia e dipende dal particolare sistema fisico considerato.

139 138 CAPITOLO 9. SOLUZIONI: PROPRIETÀ GENERALI E SOLUZIONI IDEALI

140 Capitolo 10 Soluzioni: comportamenti non-ideali In questo Capitolo completeremo lo studio delle soluzioni introducendo una descrizione generale delle soluzioni reali, per le quali le leggi di Raoult/Henry cessano di essere valide. Con una procedura che dovrebbe ssere ormai familiare allo studente, procederemo dapprima alla definizione di relazioni generali per descrivere il potenziale chimico dei componenti di una soluzione reale e da queste dedurremo il comportamento della soluzione stessa. Considereremo inoltre inoltre in questo Capitolo in qualche dettaglio il processo di distillazione, per le sue importanti applicazioni tecnologiche, e svilupperemo alcuni modelli per la dipendenza dalla temperatura, pressione e composizione dei potenziali chimici di una soluzione reale. Infine discuteremo quella serie di proprietà delle soluzioni, note come proprietà colligative, che dipendono in modo esiziale dalla composizione della soluzione Coefficienti di attività La descrizione delle soluzioni non-ideali richiede alcune distinzioni. Iniziamo dal considerare il caso di una soluzione in cui tutti i componenti sono liquidi allo stato puro, alla stessa temperatura e pressione della soluzione. In questo caso definiamo il potenziale chimico di ciascun componente della soluzione come µ i = µ i + RT ln γ i x i (10.1) lim γ i = 1 (10.2) x i 1 Il coefficiente adimensionale γ i si dice coefficiente di attività del componente i-esimo, mentre la quantità a i = γ i x i (10.3) si dice semplicemente attività del componente. Per x i 1 il coefficiente di attività tende a 1 per definizione e quindi il termine logaritmico tende a 0: di conseguenza µ i è il potenziale chimico del componente puro alla temperatura e pressione fissate, che corrisponde allo stato standard o di riferimento rispetto al quale il potenziale chimico del componente in soluzione è misurato. Nella maggior parte dei casi, però, è necessario distinguere tra solvente e soluti, cioè tra un componente in eccesso e gli altri componenti, che sono perlopiú solidi o gas. In questo caso si adotta una diversa convenzione per i coefficienti di attività del solvente e del soluto. La definizone di potenziale chimico dei 139

141 140 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI componenti di una soluzione di questo tipo è perciò µ i = µ i + RT ln γ i x i (10.4) lim 0 x 0 1 = 1 solvente (10.5) lim i x i 0 = 1 soluti (10.6) dove per convenzione usiamo l indice 0 per il solvente ed i (i > 0) per tutti i soluti. In pratica, si sceglie ora per il solvente lo stesso stato standard del caso precedente, cioè il solvente puro; mentre per i soluti si sceglie come stato standard lo stato ipotetico corrispondente al soluto puro in una condizione (irrealizzabile) corrispodente all estrapolazione del comportamento basato sulla legge di Henry. Supponiamo che una soluzione non-ideale sia a contatto con una fase vapore (per semplicità assunta perfetta). Applicando le definizioni dei potenziali chimici ed uguagliandole per ciascun componente nelle due fasi, come abbiamo già visto per le soluzioni ideali, possiamo scrivere µ sol i = µ vap i (10.7) ed in forma esplicita µ i sol + RT ln γ ix i = µ i vap + RT ln p i p (10.8) dove p i è la tensione di vapore del componente e x i è la frazione molare in soluzione. Si trova facilmente che p i = K i γ i x i (10.9) K i = p exp[(µ i sol µ i vap )/RT ] (10.10) Se la soluzione è descritta secondo la prima convenzione (soluzione di soli solventi ), per x i 1 si ha γ i 1 e dunque K i, che non dipende dalla concentrazione, deve essere uguale alla tensione di vapore del componente puro, per cui p i = p i γ i x i (10.11) Nel secondo caso, molto piú comune (soluzione solvente + soluti), K 0 è la tensione di vapore del soluto, p 0, mentre una K i con i > 0 è la pendenza, a diluizione infinita, della tensione di vapore del componente, cioè il coefficiente di Henry per il componente stesso. Si noti che dunque operativamente il coefficiente di attività del solvente è misurabile come il rapporto della tensione di vapore del solvente in soluzione e del valore della tensione di vapore previsto dalla legge di Raoult, mentre per un soluto è il rapporto della tensione di vapore del souto in soluzione e del valore della tensione di vapore previsto dalla legge di Henry γ 0 = p i p i x i γ i = p i K i x i (10.12) (10.13)

142 10.2. MOLALITÀ Molalità La frazione molare è una grandezza adimensionale, molto utile per esprimere le concentrazioni di un sistema multicomponente, e dovrebbe essere sempre usata per la sua semplicità di impiego in considerazioni teoriche. Tuttavia, molti dati sperimentali sono riferiti a diversi parametri di concentrazione, e per le soluzioni tra le piú usate è senz altro la molalità. La molalità di un soluto è definita come il numero di moli di soluto disciolte in 1 kg di solvente. Se n 0 e n i sono le moli di solvente e soluto in una soluzione con N soluti e M 0 è il peso molecolare del solvente, espresso in chilogrammi per mole, ma molalità del soluto è m i = n i n 0 M 0 (10.14) mentre la sua frazione molare è x i = n i n 0 + N j=1 n j (10.15) Il rapporto tra molalità e frazione molare `perciò m i = n 0 + Nj=1 n j = 1 x i M 0 n 0 M 0 x 0 (10.16) se la diluzione dei soluti è molto elevata, cioè j n j 0, si ha x 0 1, e quindi (per soluti in soluzioni molto diluite) m i x i M 0 (10.17) Un altra scala di concentrazione ben nota al chimico è la molarità, definita come il rapporto tra il numero di moli del soluto per il volume totale della soluzione, c i = n i /V ; la difficoltà di predire il volume totale di una soluzione reale a partire dai volumi dei suoi componenti rende la molarità una pessima grandezza per modelli termodinamici. Se la densità della soluzione in chilogrammi per metro cubo è ρ, si ha che c i n i V = n i M 0 n 0 + N j=1 M j n j ρ = n i ρ M 0 n 0 + N j=1 M j n j (10.18) da cui segue che c i = ρ(n 0 + Nj=1 n j ) x i M 0 n 0 + N j=1 M j n j (10.19) e per soluzioni diluite si ottiene c i ρx i M 0 = ρm i (10.20) La dipendenza dalla densità della soluzione rende perciò l uso della molarità sconsigliabile rispetto alla molalità.

143 142 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI Quando si considerino soluzioni di solidi o gas in liquidi, la concentrazione del solvente è di solito espressa in frazione molare, mentre per i soluti si può usare la molalità. Di conseguenza la definizione dei potenziali chimici delle specie presenti viene modificata nel modo seguente µ 0 = µ 0 + RT ln γ 0 x 0 (10.21) lim γ 0 = 1 solvente (10.22) x 0 1 µ i = µ i + RT ln γi m i (10.23) lim m i 0 γ i = 1 soluti (10.24) dove il potenziale standard µ i è uno stato ipotetico in cui γ i = 1 per m i = 1, e non dipende dalla composizione della soluzione; il potenziale standard µ i ed il coeffiente di attività γ i sono diversi dalle grandezze analoghe espresse quando le concentrazioni e lo stato standard sono basati sulle frazioni molari. Il potenziale chimico è invece, naturalmente, lo stesso; si ha perciò µ i + RT ln γ i m i = µ i + RT ln γ i x i (10.25) da cui segue RT ln γ i m i = µ i µ i γ i x i per soluzioni diluite però entrambi i coefficienti di attività vanno ad uno da cui segue (10.26) RT ln m i x i RT ln M 0 = µ i µ i (10.27) che è sempre vera (il secondo membro non dipende dalla concentrazione). Segue perciò che x i γi = (10.28) γ i M 0 m i che fornisce una relazione tra i coefficienti di attività espressi nella convenzione delle frazioni molari (coefficienti razionali) e delle molalità (coefficienti pratici) per qualunque concentrazione Diagrammi pressione-composizione In questa sezione discuteremo alcune proprietà dei sistemi bifasici bicomponenti, con particolare attenzione all interpretazione del meccanismo della distillazione. I sistemi bifasici bicomponenti hanno varianza due, come abbiamo già visto. Consideriamo una soluzione liquida in equilibrio con il suo vapore, dove entrambi i componenti sono volatili. Dall uguaglianza del potenziale chimico di un componente abbiamo sol S i dt + V sol i dp + µsol i dx 1 = x 1 vap S i dt + V vap i dp + µvap i dy 1 (10.29) y 1 dove con x 1 indichiamo la frazione molare del componente 1 in soluzione e con y 1 la frazione molare dello stesso componente nel vapore; oltre a queste due equazioni sussistono anche le relazioni di Gibbs-Duhem µ sol 1 x 1 sol 2 + (1 x 1 ) µ = 0 (10.30) x 1 x 1 µ vap 1 y 1 vap 2 + (1 y 1 ) µ = 0 (10.31) y 1 y 1 (10.32)

144 10.3. DIAGRAMMI PRESSIONE-COMPOSIZIONE 143 Combinando queste quattro equazioni si ottiene µ sol 1 x 1 ( y1 x 1 1 x 1 ) vap sol vap sol dx 1 = [y 1 ( S 1 S 1 ) + (1 y 1 )( S 2 S 2 )]dt + vap sol vap sol + [y 1 ( V 1 V 1 ) + (1 y 1 )( V 2 V 2 )]dp (10.33) quindi in accordo con la regola delle fasi, esiste una relazione che collega fra loro le tre variabili intensivr T, p e x 1. Analizziamo alcune consequenze della (10.33). Se si mantiene la composizione della soluzione artificialmente costante (per esempio continuando ad aggiungere il componente che passa piú facilmente allo stato di vapore) si ottiene p vap y 1 ( H = T T y 1 ( x1 1 V vap 1 H sol 1 ) + (1 y 1)( V sol 1 ) + (1 y 1 )( vap H 2 H sol 2 ) V sol V vap 2 2 ) = H T V (10.34) dove le entropie sono state sostituite con le entalpie divise per la temperatura: il numeratore H è il calore latente differenziale di evaporazione. Clausius-Clapeyron ln p H = T RT x1 2 Se la fase vapore è perfetta, possiamo ottenere l equivalente della (10.35) Un altra importante consequenza della (10.33) è la possibilità di predire comportamenti della temperatura di ebollizione con massimi o minimi. Ricavando infatti le espressioni delle derivate di T e p rispetto ad x 1 si trova T x 1 p y 1 x 1 1 x 1, p x 1 T y 1 x 1 1 x 1 (10.36) e se il vapore ha la stessa composizione della soluzione, queste derivate si annullano; ne consegue che soluzioni il cui vapore ha la medesima composizione hanno un punto di ebollizione massimo o minimo (azeotropi). La razionalizzazione dei comportamenti complessi della fasi a piú componenti è di solito possibile usando i diagrammi pressione composizione e/o temperatura composizione. I diagrammi pressione-composizione riuniscono insieme in unico grafico la tensione di vapore totale contro la composizione del vapore e la composizione del vapore contro la composizione della soluzione. soluzione ideale; la tensione di vapore totale è Prendiamo in esame per esempio una p = p 2 + (p 1 p 2)x 1 (10.37) come segue dalla legge di Raoult; inoltre: y 1 = x 1 p 1 p 2 + (p 1 p 2 )x 1 (10.38) p = p 1 p 2 p 1 + (p 2 p 1 )y 1 queste funzioni sono rappresentate in figura (10.1). (10.39) Consideriamo ora il diagramma in figura (10.2) (a) che riporta in ascissa una frazione molare del componente 1 ed in ordinata una pressione, a temperatura costante. La retta in diagonale rappresenta la tensione di vapore totale di una soluzione di composizione

145 144 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI Figura 10.1: Composizione del vapore contro composizione della soluzione e tensione di vapore totale contro composizione del vapore per una soluzione ideale, a vari valori di p 1 /p 2

146 10.3. DIAGRAMMI PRESSIONE-COMPOSIZIONE 145 data (ascissa come x 1 ); punti sopra la retta sono fasi liquide, poiché la pressione è superiore alla tensione di vapore. La curva rappresenta la tensione di vapore totale di una vapore di composizione data (ascissa come y 1 ); punti sotto la curva sono fasi vapore, poiché la pressione è inferiore alla tensione di vapore. La zone compresa tra la retta e la curva rappresenta la coesistenza delle due fasi: l ascissa in questo caso è la frazione molare totale del componente 1 nel sistema, che indichiamo con z 1. Come è infatti indicato in figura (10.2), la zona superiore, avendo fissato la temperatura, è a varianza 2; quella intermedia è a varianza 1 e quella inferiore è a varianza 2. Come possiamo leggere un diagramma di questo tipo? Analizziamo la figura (10.2) (b): il punto I corrisponde ad uno stato liquido, a pressione p e composizione x 1 = c liq ; diminuendo la pressione, raggiungiamo la retta e inizia a formarsi una quantità infinitesima di vapore a composizione y 1 = c vap, alla pressione p, che è ora anche la tensione di vapore; abbassando la pressione a p abbiamo una soluzione di composizione x 1 = c liq ed un vapore di composizione y 1 = c vap e cosí via, fino ad arrivare al punto F, a pressione cosí bassa che esiste solo vapore alla medesima composizione del liquido originario. Possiamo ricavare un utile Figura 10.2: Diagrammi pressione-composizione. relazione quantitativa tra le composizioni della soluzione e del vapore e i segmenti che uniscono un punto iniziale ad un dato z 1 e i punti di intersezione lungo la retta e la curva, cfr. figura (10.2) (d). Se indichiamo

147 146 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI con n liq e n vap il numero di moli totali di soluzione e di vapore, possiamo scrivere per il primo componente nz 1 (n liq + n vap )z 1 = n liq x 1 + n vap y 1 (10.40) da cui segue n liq (x 1 z 1 ) = n vap (z 1 y 1 ) e posto l liq = x 1 z 1, l vap = z 1 y 1 risulta n liq l liq = n vap l vap (10.41) nota anche come regola della leva Diagrammi temperatura composizione: distillazione Il processo di distillazione è basato sull idea che il componente piú volatile di una soluzione è presente in proporzioni maggiori nel vapore che nella soluzione; condensando il vapore sottratto al sistema si ottiene dunque una soluzione a diversa composizione, che è via via, ripetendo la procedura piú ricco nel componente piú volatile. Per l interpretazione di questo tipo di processi è utile impiegare dei diagrammi temperaturacomposizione, del tutto analoghi ai diagrammi pressione-composizione sopradescritti, ma a pressione costante (di solito 1 atm) invece che a temperatura costante. La zona del liquido è sotto la curva inferiore, che indica la temperatura di ebollizione; la curva superiore indica la composizione di un vapore in equilibrio con un liquido ad una data temperatura. Partendo da un punto situato nella zona liquida a composizione x 1 = c liq e riscaldando da T a T si raggiunge l ebollizione a cui compare un vapore di composizione y 1 = c vap; se questo vapore viene condensato e riportato ad ebollizione alla temperatura T si forma un vapore di composizione y 1 = c vap e cosí via. In una distillazione semplice, in cui un componente è poco volatile, il vapore è praticamente costituito dal solo componente volatile e viene continuamente condensato; in una distillazione frazionata i componenti sono tutti volatili e per arricchire la soluzione nel componente meno volatile o per ottenere una nuova soluzione via via piú ricca nel componente piú volatile si procede condensando e riportando alla ebollizione il vapore, in una serie di cicli successivi. La presenza di fasi azeotrope, caratteristica delle soluzioni non-ideali, rende però il processo di distillazione piú complesso: la possibilità di avere massimi nel diagrammi T vs. composizione, già illustrata formalmente in precedenza, ha come conseguenza la formazione preferenziale dell azeotropo in una distillazione frazionata come per le soluzioni etanolo/acqua (un azeotropo si forma a 78 C con il 4 % di acqua in alcol) Liquidi parzialmente miscibili Consideriamo il caso di due liquidi parzialmente miscibili, con un diagramma di stato come quello illustrato in figura (10.8). Analizziamo dapprima il comportamento delle soluzioni binarie di liquidi parzialmente miscibili, in presenza e in assenza di fase vapore, dal punto di vista della regola delle fasi. A basse frazioni molari del primo componente i due componenti si mescolano e danno luogo ad un comportamento classico; nella zona centrale si formano due fasi liquide a composizione costante (una piú ricca in un componente e l altra nell altro) in equilibrio con una fase vapore; segue poi una zona in cui la fase liquida diviene nuovamente una sola. È evidente che nella zona centrale, a causa della regola delle fasi, il sistema è monovariante (2 componenti e 3 fasi), quindi se si fissa la pressione totale le tensioni di vapore parziali dei due componenti restano le stesse.

148 10.5. LIQUIDI PARZIALMENTE MISCIBILI 147 Figura 10.3: Diagramma schematico temperatura-composizione.

149 148 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI Figura 10.4: Apparato di distillazione di laboratorio.

150 10.5. LIQUIDI PARZIALMENTE MISCIBILI 149 Figura 10.5: Un antico apparato di distillazione. Di interesse sono i diagrammi temperatura-composizione per soluzioni binarie mono o bifasiche di liquidi parzialmente miscibili, in assenza di fase vapore (cioè sotto la temperatura di ebollizione). Nelle regioni di composizione dove i due liquidi non si mescolano, sono presenti due fasi (cioè due soluzioni liquide a diversa composizione) e quindi la varianza è 2; fissata la pressione, per ogni temperatura la composizione delle due fasi è determinata. Se i due liquidi si mescolano completamente, si ha una sola fase, e quindi la varianza è 3: a pressione fissata, sia la temperatura che la composizione della fase possono essere variate liberamente. Possiamo discutere il processo di dissoluzione di due liquidi parzialmente miscibili considerando la figura (10.9), che rappresenta il diagramma temperatura-composizione per due componenti liquidi 1 e 2 in funzione di z 2 (frazione molare totale di 2), a pressione fissata. Per una data temperatura, inferiore alla temperatura critica superiore T c, a basse concentrazioni del liquido 2 si ha un unica fase, ricca in 1; al crescere di z 2 si giunge alla formazione di due fasi, una ricca in 1 (e in maggior quantità), ed una ricca in 2 (in tracce). Le due curve indicano la composizione delle due fasi ad ogni temperatura, e l abbondanza relativa delle due fasi ad una temperatura è data dalla regola della leva n sol. 2 in 1 l sol. 2 in 1 = n sol. 1 in 2 l sol. 1 in 2 (10.42) al crescere di z 2, la composizione delle due fasi non cambia, perché per la regola delle fasi in presenza di due fasi la varianza è due, e la temperatura e la pressione sono già state fissate; aumenta però l abbondanza della seconda soluzione, ricca in 2; infine la quantità di 2 aggiunta è tale da portare alla scomparsa della soluzione ricca in 1 e alla presenza di un unica soluzione ricca in 2. Sopra la temperatura critica, i due liquidi sono completamente miscibili, e quindi la varianza è tre: anche a temperatura e pressione fissata, la composizione dell unica soluzione può cambiare. Si noti che possono essere soluzioni di liquidi parzialmente miscibili con una temperatura critica inferiore (cioè tale che solo sotto T c i liquidi sono completamente miscibili) e soluzioni

151 150 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI Figura 10.6: Esempio di diagramma temperatura-composizione che presenta un azeotropo a basso punto di ebollizione.

152 10.5. LIQUIDI PARZIALMENTE MISCIBILI 151 Figura 10.7: Esempio di diagramma temperatura-composizione che presenta un azeotropo ad alto punto di ebollizione.

153 152 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI Figura 10.8: Diagramma di stato schematico per due liquidi parzialmente miscibili.

154 10.5. LIQUIDI PARZIALMENTE MISCIBILI 153 Figura 10.9: Diagramma temperatura composizione di due liquidi parzialmente miscibili a pressione fissata.

155 154 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI con una temperatura critica sia inferiore che superiore. La distillazione di una soluzione di liquidi parzialmente miscibili può essere naturalmente abbastanza complicata: sostanzialmente si dovranno distinguere due casi principali, quando la temperatura di ebollizione è superiore alla temperatura critica superiore (se esiste) oppure quando è inferiore. Una situazione piuttosto comune è data dal caso di due liquidi parzialmente miscibili, con temperatura critica superiore, e temperatura di ebollizione sempre maggiore della temperatura critica, in equilibrio con una miscela di vapori che forma un azeotropo Soluzioni solido-liquido Infine, consideriamo brevemente la descrizione dei diagrammi temperatura-composizione di soluzioni solidoliquido. Un tipico diagramma di questo tipo è illustrato in figura (10.10), che mostra la variazione del comportamento di una soluzione di due componenti A e B quasi immiscibili in forma solida, e completamente mescolabili in forma liquida. A temperatura elevata il sistema si presenta come una sola fase liquida, Figura 10.10: Diagramma temperatura composizione di una soluzione solido-liquido bicomponente (quindi a varianza 3: a pressione fissata e temperatura fissata la composizione può variare). Scendendo con la temperatura, il sistema entra in una regione in cui sono presenti due fasi, con una soluzione e uno dei due componenti in forma solida, per esempio A; la soluzione ha una composizione indicata dal punto della curva relativa alla composizione totale data e l ammontare relativo di liquido e solido è dato dalla regola della leva; continuando a scendere con la temperatura si giunge alla separazione dei due solidi. Il punto a temperatura piú bassa in cui coesistono la soluzione ed un solido si dice punto eutettico: una soluzione al punto autentico congela senza prima depositare in forma solida uno suoi componenti. In figura (10.11) è mostrato il diagramma temperatura-composizione del sistema acqua-nacl, che forma un eutettico alla composizione del 23 % in peso di NaCl in acqua. Possiamo calcolare la pendenza di una delle curve

156 10.6. SOLUZIONI SOLIDO-LIQUIDO 155. Figura 10.11: Diagramma temperatura composizione del sistema acqua-nacl.

157 156 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI che stabiliscono la composizione di una soluzione nei diagrammi (10.10) e (10.11). Se supponiamo che la soluzione sia ideale ed in presenza del solido puro i-esimo, si ha che µ solido i = µ i + RT ln x i ln x i = µ i RT + µsolido i RT (10.43) dove x i è la frazione molare in soluzione del componente. Derivando l espressione precedente rispetto a T, a p fissata, si ottiene ln x i T p = Hliquido m,i H solido m,i RT 2 = H RT 2 (10.44) dove H liquido m,i e Hm,i solido sono le entalpie molari del componente puro nello stato liquido e solido ipotetico alla temperatura T, che non è la temperatura di fusione alla pressione data del componente puro, in generale: H non è quindi il calore latente di fusione alla temperatura di fusione, ma piuttosto il calore latente di fusione alla temperatura T, una grandezza ottenibile per integrazione della dipendenza delle entalpie molari in funzione della temperatura (cfr. la prossima sezione) Proprietà colligative Discutiamo ora l importante fenomeno delle proprietà colligative, vale a dire quelle proprietà fisiche facilmente misurabili di una soluzione che dipendono in modo diretto dalla composizione, come conseguenza del fatto che il potenziale chimico del solvente diminuisce in presenza di soluti, almeno in soluzioni ideali (cioè in soluzioni reali diluite). Le proprietà colligative propriamente dette sono l abbassamento del punto di congelamento l innalzamento del punto di ebollizione la pressione osmotica Consideriamo innanzitutto l abbassamento del punto di congelamento: sperimentalmente osserviamo che una soluzione, per esempio di sale in acqua congela ad un temperatura inferiore del solvente puro, e che per soluzioni diluite, l abbassamento del punto di congelamento ad un pressione data, cioè la differenza tra T F temperatura di di fusione del liquido puro, e T temperatura effettiva di congelamento della soluzione, vale la relazione T = T F T = K F N x i i=1 (10.45) dove K F è detta costante crioscopica e la somma corre sulle frazioni molari dei soluti. La precedente relazione è ottenibile, sotto opportune approssimazioni, a partire dalla (10.44), supponendo che la soluzione sia ideale. La (10.44) è valida per ogni componente del sistema e quindi anche per il solvente. Consideriamo la variazione con la temperatura del calore latente H; sappiamo che H = c p,m T p (10.46)

158 10.7. PROPRIETÀ COLLIGATIVE 157 dove c p,m è la differenza tra la capacità termica a pressione costante del solvente nello stato liquido e nello stato solido, alla temperatura T. Se ammettiamo che sia circa costante, possiamo scrivere H = H F c p,m T (10.47) dove H F è il calore latente molare di fusione del liquido puro, cioè a temperatura T F. Integrando la (10.44) da 1 al valore x 0 (frazione molare del solvente nella soluzione) otteniamo ln x 0 = H ( F c p,m T 1 R T 1 ) + c p,m R ln T F T T F Se si trascura del tutto la differenza tra H e H F cioè si pone c p,m = 0 si ottiene ln x 0 = H ( F 1 R T 1 ) T F se la soluzione è diluita e la variazione del punto di congelamento è piccola possiamo scrivere (10.48) (10.49) N N ln x 0 = ln(1 x i ) x i, i=1 i=1 1 T 1 T F T T F TF 2 da cui segue facilmente la (10.45), con la seguente stima della costante crioscopica (10.50) K F = RT 2 F H F (10.51) La costante crioscopica è quindi tanto maggiore quanto minore è il calore latente di fusione del solvente puro. Una trattazione analoga permette anche di descrivere il fenomeno dell innalzamento del punto di ebollizione: la temperatura di ebollizione della soluzione è maggiore del solvente puro, secondo una relazione empirica, corretta per soluzioni diluite, data da T = T T E = K E N x i i=1 dove K E è detta costante ebullioscopica e la somma corre sulle frazioni molari dei soluti. ebullioscopica è stimabile come la costante crioscopica secondo l espressione K E = RT 2 E H E dove H E è il calore latente di evaporazione del solvente puro. (10.52) La costante (10.53) Solvente K F /(K/molkg 1 ) K F /(K/molkg 1 ) Benzene Canfora 40 Fenolo Acqua Tabella 10.1: Costanti crioscopiche ed ebullioscopiche di alcuni solventi. Infine, discutiamo il fenomeno dell osmosi e della pressione osmotica, che è la proprietà colligativa probabilmente piú importante ma di interpretazione meno evidente. Supponiamo di avere un sistema diviso in due sezioni, con una soluzione separata dal solvente puro mediante una membrana semipermeabile,

159 158 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI. Figura 10.12: Osmosi e pressione osmotica. tale cioè da permettere il passaggio del solo solvente: la pressione osmotica è la pressione che deve essere esercitata sulla sezione contenente la soluzione per impedire il passaggio del solvente dalla sezione contenente solvente puro a quella contenente la soluzione. La pressione osmotica è una proprietà caratteristica di una soluzione, come il suo punto di congelamento od il suo punto di fusione. La sua causa è la differenza di potenziale chimico del solvente, che è piú basso nella soluzione che nel solvente puro, in seguito alla presenza del soluto: di conseguenza il sistema favorisce la diffusione delle molecole di solvente verso la soluzione, in modo da tendere all uguaglianza dei potenziali chimici del solvente nelle due sezioni. In pratica, siano p e p le pressioni che agisono sul solvente puro e sulla soluzione in condizioni di equilibrio. La differenza è la pressione osmotica, indicata con Π Π = p p (10.54) Per il solvente puro il potenziale chimico è µ (p) mentre per la soluzione, supposta ideale, il potenziale chimico del solvente è µ (p ) + RT ln x 0 : non scriviamo esplicitamente la dipendenza dalla temperatura in µ, poiché è fissata, e usiamo l indice 0 al piede poiché ci riferiamo al solvente. In condizioni di equilibrio µ (p) = µ (p ) + RT ln x 0 RT ln x 0 = µ (p) µ (p ) = p p V m dp (10.55) dove l ultima uguaglianza è basata sulla relazione tra volume molare ed energia libera molare del solvente in rapporto alla pressione; considerando il volume molare come circa costante abbiamo RT ln x 0 = V m Π Π = RT V m ln x 0 (10.56)

160 10.8. GRANDEZZE DI ECCESSO E MODELLI PER I COEFFICIENTI DI ATTIVITÀ 159. Figura 10.13: Misura della pressione osmotica In soluzioni diluite possiamo approssimare il logaritmo della frazione molare del solvente con la somma delle frazioni molari dei soluti, da cui Π = RT V m N i=1 x i = RT V m n N n i i=1 (10.57) per una soluzione molto diluita, il numero di moli totali n è praticamente uguale al numero di moli del solvente, e V m n può ritenersi circa uguale al volume totale della soluzione, da cui segue N Π = RT c i i=1 (10.58) che è nota come legge di van t Hoff, e correla la pressione osmotica con la somma delle molarità dei soluti Grandezze di eccesso e modelli per i coefficienti di attività Le proprietà termodinamiche delle soluzioni reali vengono espresse oggigiorno mediante le grandezze di eccesso che rappresentano la differenza tra l energia libera, l entalpia, l entropia di mescolamento etc. della soluzione e la corrispondente funzione di mescolamento della soluzione ideale alla stessa composizione, temperatura e pressione. In generale, data una grandezza estensiva X, la grandezza di eccesso relativa è definita come X E = mix X ideale mix X (10.59) dove mix X e ideale mix X sono i valori di mescolamento reale ed ideale, rispettivamente. L entità delle grandezze di eccesso rivela naturalmente il grado di deviazione dall idealità di una soluzione, e la definizione

161 160 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI delle grandezze di eccesso in termini di opportune funzioni dei parametri di composizione, temperatura, pressione, dedotte a partire da modelli molecolari od inferite da osservazioni sperimentali, permettono di determinare modelli specifici delle soluzioni reali. Uno dei modelli piú utili è quello delle soluzioni regolari, Figura 10.14: Diagramma dell energia libera di eccesso e di mescolamento per una soluzione regolare.. per le quali si definiscono deviazioni dall idealità dell entalpia di eccesso, mentre si assume che l entropia di eccesso sia nulla. In una soluzione, scegliendo una dipendendenza dalla composizione dell entalpia di eccesso nella forma H E = nβrt x 1 x 2 (10.60) dove β è un parametro adimensionale, e ponendo S E = 0, l energia di Gibbs di eccesso viene ad essere pari all entalpia di eccesso, da cui segue che l energia di Gibbs di mescolamento di una soluzione regolare è G mix = ideale mix G + G E = nrt (x 1 ln x 1 + x 2 ln x 2 + βx 1 x 2 ) (10.61) La conoscenza dell energia libera di eccesso permette di ricavare direttamente i coefficienti di attività dei componenti in soluzione. Poiché infatti G = i n iµ i, tenendo conto della definizione del potenziale chimico di un componente in una soluzione reale, si ha che G = i µ i + RT ln i n i ln x i + RT i n i ln γ i (10.62) per una soluzione ideale, l ultimo termine è nullo, quindi coincide con l energia di Gibbs di eccesso G E = RT i n i ln γ i (10.63)

162 10.9. APPROFONDIMENTI 161 differenziando questa equazione a T costante si ottiene dg E = RT i n i d ln γ i + nrt i ln γ i dn i (10.64) il primo termine del membro di destra dell espressione differenziale è nullo, per l equazione di Gibbs-Duhem; segue perciò che GE = RT ln γ i n i T,p,n i (10.65) Si noti che come conseguenza del fatto che G è estensiva, l espressione di G E deve essere tale che se ogni n i è moltiplicata per una fattore k anche G E sia moltiplicata per k, cioè G E deve essere omogenea di primo grado rispetto alle n i ; deve inoltre tendere a zero nelle condizioni in cui sappiamo che la soluzione è ideale. Per una soluzione binaria, il seguente sviluppo in serie di potenze assicura tutte le proprietà richieste G E = nrt x 1 x 2 [A 0 + A 1 (x 2 x 1 ) + A 2 (x 2 x 1 ) 2 ) + A 3 (x 2 x 1 ) ] (10.66) le soluzioni regolari corrispondono ad arrestare lo sviluppo al termine in ordine zero, con A 0 = β. I coefficienti di attività della soluzione regolarte binaria si trovano subito dalla (10.65) come ln γ 1 = βx 2 2 a 1 = γ 1 x 1 = x 1 e β(1 x 1) 2 (10.67) ln γ 2 = βx 1 2 a 2 = γ 2 x 2 = x 2 e β(1 x 2) 2 (10.68) e grazie alla relazione (10.11) otteniamo p i = x i e β(1 x 1) 2 p i (10.69) Per β = 0 si ritrova cosí la legge di Raoult, mentre per x 1 l equazione precedente prende la forma tipica della legge di Henry, con K i = e β p i Approfondimenti Funzioni empiriche per soluzioni binarie Benché l approccio piú moderno allo studio delle soluzioni (binarie) reali sia quello basato sulle funzioni di eccesso, sono state molto usate nel passato funzioni empiriche che descrivono direttamente la tensione di vapore dei componenti in funzione di parametri determinabili sperimentalmente mediante fitting. Ricordiamo qui le equazioni di Margules ( ) p1 ln p 1 x = (2B A)x (A B)x 3 2 (10.70) 1 ( ) p2 ln p 2 x = (2A B)x (B A)x 3 1 (10.71) 2 che corrispondono all espressione delle soluzioni regolari se si pone A = B = β. Un altra espressione è dovuta a van Laar ( ) p1 ln p 1 x = 1 ( ) p2 ln p 2 x 2 = A ( ) Ax 1 Bx 2 B ( ) Bx 2 Ax 1 (10.72) (10.73)

163 162 CAPITOLO 10. SOLUZIONI: COMPORTAMENTI NON-IDEALI che si riduce ancora all espressione regolare per A = B = β.

164 Capitolo 11 Equilibri chimici Un processo stechiometrico indipendente è costituito da un insieme di relazioni quantitative tra le variazioni del numero di moli di ciascun componente di un sistema, dovuta alla presenza di una reazione chimica indipendente. Nel Capitolo dedicato alle sostanze pure abbiamo già definito il formalismo di base per rappresentare una reazione chimica, che riportiamo qui per completezza. Per una reazione chimica di R reagenti e P prodotti r 1 R 1 + r 2 R r R R R p 1 P 1 + p 2 P p P P P (11.1) o piú concisamente per M specie chimiche M ν i C i = 0 (11.2) i=1 dove nella prima espressione indichiamo separatamente i reagenti e i prodotti, mentre nella seconda li raggruppiamo insieme tenendo conto che i coefficienti stechiometrici ν i hanno segno negativo per i reagenti e positivo per i prodotti. La nozione stessa di processo stechiometrico indipendente richiede alcune precisazioni. Dato un sistema (chiuso) formato da M specie chimiche costituite da N elementi diversi, possiamo scrivere in generale N bilanci di massa, uno relativo a ciascun elemento. Ne consegue che il numero di reazioni chimiche indipendenti è dato da M N. Si noti che a volte il numero di specie chimiche e quindi di reazioni chimiche indipendenti non è neanche facilmente determinabile. Per esempio, comsideriamo un pallone pieno d acqua pura liquida, in equilibrio con il suo vapore. Le specie chimiche presenti sono H 2 O, H 3 O +, OH, ed altre ancora se consideriamo i possibili equilibri di reazione tra specie cariche che determinano la formazione di aggregati di solvatazione degli ioni idrogeno; inoltre possiamo immaginare che siano presenti tracce di altri composti idrogeno-ossigeno, come l acqua ossigenata, nonché forme radicaliche. Tuttavia è certo che il numero di reazione chimiche indipendenti è M 2, dove M è il numero di tutte le specie formate da idrogeno e ossigeno. Se ammettiamo che non siano presenti specie atomiche e radicaliche, e che le sole specie ioniche siano H 3 O + e OH, ne consegue che esiste un solo processo stechiometrico indipendente, vale a dire 2H 2 O H 3 O + + OH (11.3) Nel seguito consideremo esclusivamente sistemi in cui sia presente un unico processo stechiometrico indipendente, rappresentato dalla relazione compatta (11.2). Possiamo definire una variabile unica, che misura il 163

165 164 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI grado di avanzamento della reazione tenendo conto della stechiometria della reazione. In forma differenziale, definiamo il grado di avanzamento ξ come dξ = dn i ν i (11.4) Per esempio per la reazione CH 3 COOH + O 2 2CO 2 + 2H 2 O (11.5) il grado di avanzamento della reazione è definito come dξ = dn CH3 COOH = dn O2 = dn CO2 /2 = dn H2 O/ Condizione di equilibrio chimico Discuteremo in questa sezione il metodo generale per la determinazione delle condizioni di equilibrio di un sistema formato da M specie chimiche diverse, in fase gassosa, in presenza di una reazione chimica indipendente (11.2). Il punto di partenza per la determinazione dell equilibrio chimico è naturalmente una funzione di stato che assuma un valore estremo nelle condizioni di operazione, una volta che il sistema reattivo sia in equilibrio termodinamico. Poiché le condizioni di lavoro normali in un laboratorio sono a temperatura e pressione costante, consideriamo nel seguito come funzione indicatrice l energia libera di Gibbs G. Il differenziale totale dell energia libera del sistema è scritto come M dg = SdT + V dp + µ i dn i i=1 (11.6) dove n i sono le moli del componente i-esimo presenti nel sistema. A pressione e temperatura costanti, il differenziale è semplicemente M dg = µ i dn i i=1 (11.7) La condizione di equilibrio è che il differenziale sia nullo, come accade in corrispondenza di un minimo (la condizione di equilibrio essendo che l energia libera è minima 1 ). Poiché siamo in presenza di un processo stechiometrico indipendente, (11.2), possiamo definire i differenziali del numero di moli in termini del differenziale del grado di avanzamento della reazione, dn i = ν i dξ. Otteniamo perciò che ( M M ) dg = µ i dn i = ν i µ i dξ = 0 (11.8) i=1 i=1 e quindi la condizione di equilibrio chimico del sistema è M ν i µ i = 0 (11.9) i=1 1 Da un punto di vista formale, dovremmo anche verificare che il differenziale secondo d 2 G sia maggiore di zero, per poter affermare che l energia libera totale del sistema sia minima

166 11.2. DIAGRAMMA ENERGIA LIBERA-GRADO DI AVANZAMENTO 165 La grandezza definita a primo membro dell Eq. (11.9) è detta energia libera di reazione, ed è per definizione uguale alla derivata dell energia libera rispetto al grado di avanzamento della reazione M r G = ν i µ i i=1 (11.10) La condizione di equilibrio chimico (a temperatura e pressione constante) si può quindi enunciare semplicemente come A temperatura e pressione costante, un sistema chiuso sede di un processo stechiometrico indipendente è in equilibrio chimico solo se l energia libera di reazione è nulla Si noti che se l energia libera di reazione è negativa il sistema evolve spontaneamente verso la formazione dei prodotti (reazione esergonica); se l energia libera di reazione è positiva il sistema evolve spontaneamente verso la formazione dei reagenti reazione endoergonica); se l energia libera di reazione è nulla il sistema è stabile Diagramma energia libera-grado di avanzamento Per comprendere meglio l applicazione delle proprietà della funzione di Gibbs alla determinazione delle condizioni di equilibrio chimico, e prima di procedere alla discussione del caso generale degli equilibri gassosi, consideriamo l andamento dell energia libera totale di una miscela gassosa perfetta in presenza di una reazione, in un reattore chiuso, a pressione e temperatura definite. Partendo da G = i n i µ i (11.11) otteniamo facilmente G = ( ) ( ) p n i µ i + RT ν i ln p i i + RT i n i ln y i (11.12) previa sostituzione dell espressione del potenziale chimico di ciascun componente: i primi due termini corrispondono all energia libera dei tre gas in recipienti separati a pressione p, mentre l ultimo termine è relativo al mescolamento. Il grado di avanzamento della reazione è definito in forma integrata come ξ = n i n 0 i ν i (11.13) dove n 0 i è il numero di moli inizialmente presenti nel sistema per ciascun componente: la presenza di un processo stechiometrico ha come consequenza che le moli di tutti i componenti sono determinabili dalla precedente relazione (si noti che il valore iniziale ξ 0 è arbitrario e quindi è stato posto pari a zero). Sostituendo nell espressione dell energia libera possiamo scrivere ( ) p G = ξ r G + G 0 + RT (νξ + n 0 ) p + RT i (ν i ξ + n 0 i ) ln ( νi ξ + n 0 i νξ + n 0 ) (11.14)

167 166 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI dove G 0 = i n0 i µ i, ν = i ν i è la somma dei coefficienti stechiometrici e n 0 = i n0 i totali iniziali. La grandezza r G è invece l energia libera standard di reazione M r G = ν i µ i i=1 per p = p possiamo semplificare la precedente espressione G = G 0 + ξ r G + RT ( (ν i ξ + n 0 νi ξ + n 0 ) i i ) ln νξ + n i 0 è il numero di moli (11.15) (11.16) e G 0 è proprio l energia libera dei componenti separati a pressione standard. Per esempio, nel caso di una reazione chimica generica in cui a partire da due reagenti A e B si forma un unico prodotto C, in un reattore chiuso, a temperatura e pressione fissate, in fase gassosa (perfetta) A + B 2C (11.17) abbiamo ν = 0 e se assumiamo p = p, otteniamo [ G = G 0 + ξ r G + RT (n 0 A ξ) ln n0 A ξ + (n 0 B ξ) ln n0 B ξ n 0 n 0 + (n 0 C + 2ξ) ln n0 C + 2ξ ] n 0 (11.18) Per esempio, se n 0 A = n0 B = 1 e n0 C = 0, abbiamo n 0 = 2 e quindi [ ( ) ] 1 ξ G = G 0 + ξ r G + 2RT (1 ξ) ln + ξ ln ξ 2 (11.19) Il diagramma qualitativo di G contro ξ è riportato in Fig. (11.1). Per ξ = 0 l energia libera ha un valore pari all energia libera dei componenti isolati meno il contributo di mescolamento alla composizione iniziale; per ξ = 1 l energia libera è pari a G 0 + r G. In corrispondenza ad un valore intermedio di ξ, che equivale alla composizione del sistema all equilibrio, l energia libera ha un minimo Equilibri chimici in fasi gassose La condizione di minimo della curva G(ξ) è calcolabile partendo dalla (11.9). Sostituendo le espressioni dei potenziali chimici dei componenti di una miscela gassosa perfetta otteniamo ( )] ν i [µ pi i + RT ln p = 0 (11.20) i che può essere facilmente riscritta nella forma ( ) νi pi r G ln = p RT i definendo la costante di equilibrio rispetto alle pressioni della reazione chimica (11.2) (11.21) K p = i ( pi p ) νi (11.22) otteniamo l importante relazione che correla la costante di equilibrio con l energia libera standard di reazione ( RT ln K p = r G K p = exp rg ) (11.23) RT

168 11.3. EQUILIBRI CHIMICI IN FASI GASSOSE 167 Figura 11.1: Andamento qualitativo dell energia libera contro il grado di avanzamento della reazione A + B = 2C. Nel caso in cui la miscela gassosa non si possa considerare perfetta, le definizioni precedenti devono essere modificate sostituendo alle presseioni parziali le fugacità dei componenti. Definendo perciò la costante di equilibrio rispetto alla fugacità per la reazioni (11.2) K f = i ( fi p ) νi (11.24) otteniamo l analoga relazione che correla la K f con l energia libera standard di reazione ( RT ln K f = r G K f = exp rg ) RT (11.25) che naturalmente equivale alla (11.23) nel limite di basse pressioni, corrispondenti a coefficienti di fugacità unitari. Forme alternative della costante di equilibrio K p possono essere facilmente definite a partire dalle concentrazioni molari e delle frazioni molari. La costante di equilibrio rispetto alle concentrazioni molari è semplicemente K c = i c ν i i (11.26) dove c i = n i /V = p i /RT, dato che la fase è perfetta; possiamo esprimere K c in funzione di K p : K c = i ( ni V ) νi = i ( ) ( ) νi pi p ν = K p (11.27) RT RT

169 168 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI dove ν è la somma dei coefficienti stechiometrici definita nella sezione precedente. La costante di equilibrio definita rispetto alle frazioni molari è invece K y = i y ν i i (11.28) e possiamo facilmente calcolare la relazione con K p K y = i ( pi p ) ( ) νi p ν = K p p (11.29) K y dipende esplicitamente dalla pressione totale a differenza di K p (vedi oltre): di conseguenza il suo impiego è sconsigliabile per gli equilibri in fase gassosa, mentre acquista importanza, come vedremo, per lo studio degli equilibri in soluzione Dipendenza da p e T Discuteremo in questa sezione la dipendenza dalla pressione e dalla temperatura delle costanti di equilibrio in fase gassosa. Se la miscela gassosa sede dell equilibrio chimico è perfetta (e si mantiene tale a qualunque composizione) la dipendenza della costante dalla pressione è identicamente nulla. Ciò è chiaro dalla definizione della costante K p che implica una dipendenza solo dalla temperatura, in quanto nella (11.23) compare solo r G, che è definita alla pressione standard. Si noti però che questo non significa che la resa della reazione chimica, comunque sia definita (vedi oltre), non dipenda dalla pressione: solo il valore numerico di K p resta costante, ma tale valore è compatibile con infiniti valori delle pressioni parziali dei componenti, e l imposizione di una pressione specifica influenza la composizione del sistema. Inoltre, se la miscela non è perfetta, l uso della K p si rivela problematico ad alte pressioni perché le correzioni dovute alla differenza tra fugacità e pressioni parziali possono diventare rilevanti, causando una sostanziale dipendenza della K p da p; in questi casi l uso della K f è consigliabile. Alcune di queste considerazioni saranno illustrate nel seguito con degli esempi specifici. La dipendenza dalla temperatura è comunque molto piú rilevante, sia a fini pratici che dal punto di vista teorico. Per una miscela gassosa perfetta riscriviamo la (11.23) nella forma ln K p = 1 R i ν i µ i T derivando rispetto alla temperatura, otteniamo la relazione (11.30) dln K p dt = 1 R i ν i dµ i /T dt = 1 RT 2 ν i H m,i (11.31) i dove è stata usata la realzione differenziale tra derivata dell energia libera ed entalpia; definendo r H = i ν ih m,i come l entalpia di reazione standard, resta l equazione di van t Hoff: dln K p dt = rh RT 2 (11.32)

170 11.5. ALCUNI ESEMPI 169 che può anche essere scritta nella forma d( r G /T ) dt = rh T 2 (11.33) L integrazione dell equazione di van t Hoff è un esercizio interessante, che riveste naturalmente una certa importanza per la sua utilità pratica. Poiché la capacità termica molare di un composto è definita come la derivata rispetto alla temperatura della sua entalpia molare possiamo scrivere d r H dt = d dt ν i H m,i = i i ν i C p,m i (11.34) che è la legge di Kirkhoff, già discussa in precedenza. Se supponiamo di conoscere le capacità termiche in qualche forma funzionale rispetto alla temperatura, per esempio come serie di potenze di T C p,m i = L l=0 a (i) l T l integrando la legge di Kirkhoff otteniamo r H = H 0 + i,l ν i a (i) l T l+1 l + 1 (11.35) (11.36) dove H 0 è una costante di integrazione (con le dimensioni di un energia); sostituendo nell equazione di van t Hoff in forma (11.33) ed integrando si trova facilmente: r G = H 0 T S 0 [ L ν i a (0) a (i) l T l+1 ] i T ln T + l(l + 1) i l=1 L = H 0 T S 0 + a 0 T ln T + a l T l+1, a l = l=1 i ν i a (i) l (11.37) dove S 0 è una seconda costante di integrazione (con le dimensioni di un entropia). Se poniamo tutti i coefficienti a (i) l = 0, cioè assumiamo che l entalpia di reazione sia costante con T, troviamo una semplice relazione lineare di r G con T Alcuni esempi Chiariamo meglio alcune delle applicazioni delle equazioni illustrate nella sezione precedente con due esempi. Iniziamo dalla dipendenza dalla pressione per la reazione di sintesi dell ammoniaca 1 2 N H 2 NH 3 K p = p NH 3 p 1/2 N 2 p 3/2 H 2 p (11.38) La dipendenza dalla pressione può essere discussa da due punti di vista: la dipendenza della costante di equilibrio K p da p e l influenza del valore di p sulla resa. Consideriamo il primo punto. In tabella (11.1) sono riportati alcuni valori di K p contro p a 450 C È evidente che le deviazioni dalla condizione di miscela perfetta sono difficilmente trascurabili, ed è perciò preferibile usare la K f : K f = f NH 3 f 1/2 N 2 f 3/2 p = γ NH3 H 2 γ 1/2 N 2 γ 3/2 K p (11.39) H 2

171 170 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI Figura 11.2: Apparato di laboratorio di Fritz Haber e Robert Le Rossignol per la produzione di ammoniaca; il processo industriale è noto come processo Haber-Bosch. p atm 1 K p Tabella 11.1: K p vs. p per la sintesi dell ammoniaca La misura dei coefficienti di fugacità delle singole specie è complicata, ma può essere resa piú semplice adottando la descrizione di Lewis e Randall per una miscela gassosa ideale f i = y i f puro i f i = f puro i p i p γ i = γ puro i (11.40) dove l indice puro indica una grandezza relativa al componente puro a pressione pari alla pressione totale della miscela. A loro volta, i coefficienti di fugacità dei componenti puri alla pressione data sono ottenibili dal diagramma degli stati corrispondenti che riporta la fugacità (od il coefficiente di fugacità) di tutti i gas in funzione della temperatura e pressione ridotte. I dati di temperatura e pressione critica e ridotta per i tre gas in esame sono riportati in Tabella (11.2), per una temperatura di 450 C e 300 atm di pressione. Il valore calcolato della K f risulta essere quindi a 450 C e 300 atm pari a Infine in Tabella (11.3) sono riportati i valori di K f a 450 C e a varie pressioni. Deviazioni apprezzabili sono osservate solo oltre le 300 atm, quando l approssimazione di Lewis e Randall diventa poco accurata.

172 11.5. ALCUNI ESEMPI 171 H 2 N 2 NH 3 T c K p c atm T r p r γ Tabella 11.2: Determinazione dei coefficienti di fugacità nella sintesi dell ammoniaca a 450 C e 300 atm p atm 1 K f Tabella 11.3: K f vs. p per la sintesi dell ammoniaca Se comunque supponiamo di operare a pressioni inferiori a 50 am, possiamo ragionevolmente assumere che K p sia costante. Se imponiamo al sistema una pressione costante, come varia la resa della reazione? Siano n 0 H 2 = n 0 N 2 = n 0 e n 0 NH 3 = 0 le moli dei tre gas inizialmente presenti nel reattore, ad una pressione fissata p (partiamo quindi da una miscela equimolare di azoto e idrogeno, senza ammoniaca). All equilibrio le moli formate di ammoniaca siano n; quindi dalla stechiometria della reazione le moli di idrogeno e azoto sono n H2 = n n, n N 2 = n n (11.41) L espressione di K p diviene perciò K p = n(2n 0 n) (n 0 n/2) 1/2 (n 0 3n/2) 3/2 p p (11.42) che può essere facilmente riscritta nella forma r = ɛ2 (1 ɛ) (1 3ɛ) 3 (11.43) dove r = 4p 2 K p /p 2 e ɛ = n/2n 0 è definito come parametro di resa (ɛ = 1 significa resa stechiometrica). L equazione cubica in ɛ può essere risolta per via analitica o numerica. In Figura (11.3) viene illustrato l andamento di ɛ in funzione di r, cioè di p: la resa aumenta con la pressione, come possiamo aspettarci intuitivamente in quanto la reazione fa diminuire il numero di moli del sistema. Come esempio tipico di applicazione della dipendenza della costante di equilibrio dalla temperatura consideriamo la determinazione dell energia libera di formazione dell acqua liquida da dati di costante di

173 172 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI equilibrio della dissociazione di acqua gassosa Figura 11.3: Resa contro pressione per la sintesi di Haber. H 2 (g) O 2(g) H 2 O(g) (11.44) L espressione per l energia libera standard di formazione dell acqua gassosa, ovvero dell energia libera di reazione a pressione standard della reazione precedente è nota in funzione della temperatura r G = 3.92T T ln T T T 3 (11.45) in cal mol 1. Alla temperatura di K l energia libera standard dell acqua gassosa è perciò Kcal per mole. L energia di formazione si riferisce ad uno stato metastabile dell acqua (vapore soprassaturo a 25 C e 1 atm). Per avere l energia libera di formazione dell acqua liquida a in condizioni standard e temperatura ambiente, possiamo supporre di effettuare un processo in piú stadi, che dal vapore soprassaturo porti all acqua liquida H 2 (g) O 2(g) H 2 O(g, 760Torr), G 1 = (11.46) H 2 O(g, 760Torr) H 2 O(g, 23.8Torr), G 2 = (11.47) H 2 O(g, 23.8Torr) H 2 O(l, 23.8Torr), G 3 = 0 (11.48) H 2 O(l, 23.8Torr) H 2 O(l, 760Torr), G 4 = 0.43 (11.49) Tutte le energie sono in calorie per mole. Il primo stadio è la sintesi dell acqua gassosa; il secondo è la compressione del vapore soprassaturo fino alla formazione della prima traccia di acqua liquida; se consideriamo il vapore come un gas perfetto, la variazione di energia libera di questo stadio è data semplicemente come G 2 = V H2 O(g)dp = RT dp p = (11.50)

174 11.6. PRESENZA DI SOLIDI O LIQUIDI IMMISCIBILI 173 dove 23.8 Torr è la tensione di vapore dell acqua a 25 C. Il terzo stadio è la condensazione del vapore, che avviene con una variazione di energia libera nulla (per la presenza di un equilibrio di fase). L ultimo stadio è la compressione dell acqua liquida ad 1 atm: assumendo che il volume molare dell acqua liquida sia costante e pari a 18 cm 3 per mole, otteniamo G 4 = V H2 O(l) dp = 0.43 (11.51) un valore del tutto trascurabile. La formazione di acqua liquida ad 1 atm e 25 C è data dalla somma dei quattro processi H 2 (g) O 2(g) H 2 O(l) (11.52) e la variazione di energia libera è la somma dei quattro contributi G 4 = Kcal mol Presenza di solidi o liquidi immiscibili La presenza di fasi solide o liquide che non formino soluzioni in equilibri chimici che coinvolgono fasi gassose può essere trattata in modo specifico, mediante l introduzione di costanti di equilibrio parziale che tenogno conto delle sole variabili di composizione (pressione) delle specie gassose. Sia dato un sistema di M componenti e supponiamo che sia presente un processo stechiometrico indipendente definito da (11.2). Ammettiamo che le specie da 1 a m siano gas, e che formino per semplicità una miscela perfetta, mentre quelle da m + 1 a M siano solidi e/o liquidi puri (non sono presenti cioè soluzioni liquide e/o solide). La condizione di equilibrio può essere subito espressa come M m M ν i µ i = 0 ν i µ i + ν i µ i = 0 (11.53) i=1 i=1 i=m+1 sostituendo le espressioni dei potenziali chimici delle sole specie gassose otteniamo RT m i=1 ln p ν i i + m ν i µ i + M ν i µ i = 0 (11.54) i=1 i=m+1 definendo la costante di equilibrio parziale relativa alle sole specie gassose la precedente espressione diventa K p = RT ln K p = m p ν i i i=1 m i=1 ν i µ i + M i=m+1 (11.55) ν i µ i (11.56) ma la dipendenza dei potenziali chimici delle specie non-gassose dalla pressione è molto modesta, tenendo conto della consueta proprietà delle sostanze in fasi condensate di avere volumi molari trascurabili rispetto alle fasi gassose; possiamo perciò trascurare la dipendenza da p dei µ i riferiti alle specie condensate e sostituire i potenziali chimici con i potenziali standard. Otteniamo dunque la relazione M RT ln K p = ν i µ i = r G (11.57) i=1

175 174 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI Si noti che l approssimazione di considerare costanti i potenziali chimici delle specie condensate non è accettabile qualora siano presenti delle soluzioni, poiché in questo caso la dipendenza dalle variabili di composizione deve essere considerata in modo esplicito. La presenza di fasi solide o liquide non miscibili può causare negli equilibri di reazione dei comportamenti peculiari. Consideriamo per esempio la reazione di decomposizione del carbonato di calcio CaCo 3 (s) CaO(s) + CO 2 (g) (11.58) La costante di equilibrio parziale è semplicemente la pressione parziale della CO 2 K p = p CO 2 p (11.59) e di conseguenza la reazione chimica si prefigura come una reazione che può essere portata completamente a destra (formazione stechiometrica dell ossido di calcio) o a sinistra (formazione stechiometrica del carbonato di calcio), solo mantenendo la pressione parziale dell anidride carbonica inferiore o superiore al valore K pp. In realtà una presenza in traccie di entrambi in solidi deve essere assicurata per la stessa esistenza dell equilibrio Approfondimenti Sistemi con piú reazioni indipendenti Le condizioni di equilibrio qualora siano presenti piú processi stechiometrici indipendenti sono analoghe a quelle già discusse nel caso sia presente un solo processo indipendente. In generale, se in un sistema sono presenti M specie chimiche distinte il numero R di reazioni chimiche indipendenti può essere determinato in vari modi. Per esempio si può procedere alla definizione di tutte le reazioni di sintesi a partire dagli elementi di tutti i composti presenti, dopodiché si eliminano sistematicamente per mezzo di combinazioni lineari opportune tutte le specie atomiche che siano sicuramente assenti dal sistema: le reazioni ottenute sono in numero pari al numero di reazioni indipendenti, anche se questo non significa che siano le reazioni effettivamente esistenti nel sistema. Per esempio, consideriamo un sistema formato da idrogeno molecolare, metano, etano e propano; le possibili reazioni formali di sintesi sono 2H H 2 C + 4H CH 4 2C + 6H C 2 H 6 3C + 8H C 3 H 8 (11.60) (11.61) (11.62) (11.63) eliminando le specie atomiche H e C otteniamo 2CH 4 C 2 H 6 + H 2 3CH 4 C 3 H 8 + 2H 2 (11.64) (11.65) due rezioni indipendenti sono quindi presenti nel sistema. Il numero minimo di specie chimiche C, o componenti, è definito come il numero minimo di specie chimiche necessario per preparare una qualunque miscela del sistema arbitrariamente scelta all equilibrio, ed è pari al numero di specie effettivamente esistenti meno

176 11.7. APPROFONDIMENTI 175 il numero di reazioni chimiche indipendenti, cioè C = M R. Nel caso in questione i componenti chimici del sistema sono perciò C = 4 2 = 2. Avendo definito il numero di processi stechiometrici indipendenti, le condizioni di equilibrio del sistema si possono ottenere scrivendo l espressione del differenziale totale dell energia dell energia libera, tenendo conto dei vincoli stechiometrici imposti dalle reazioni indipendenti, e ponendo a zero i termini differenziali relativi ai gradi di avanzamento delle reazioni stesse, definiti dalle relazioni lineari differenziali dn i = R r=1 ν (r) i dξ r (11.66) che esprimono la variazione infinitesima di ogni specie chimica in funzione degli R gradi di avanzamento ξ r. La variazione di G a T e p costante è perciò dg = i = i,r µ i dn i µ i ν (r) i dξ r = r ( i ) µ i ν (r) i dξ r (11.67) che si annulla se valgono le R condizioni indipendenti i µ i ν (r) i = 0 (11.68) a cui corrispondono R espressioni di costanti di equilibrio. naturalmente dalla conoscenza del comportamento chimico effettivo del sistema. La scelta delle reazioni indipendenti dipende

177 176 CAPITOLO 11. EQUILIBRI CHIMICI

178 Capitolo 12 Equilibri di reazione in soluzione Le condizioni di equilibrio in soluzione sono del tutto analoghe a quelle esistenti nelle miscele gassose. Tuttavia la diversa dipendenza dei potenziali chimici dalle variabili di composizione rende il trattamento degli equilibri in soluzione leggermente piú complesso. Nel seguito distingueremo il caso delle soluzioni non elettrolitiche dal caso delle soluzioni elettrolitiche, in cui cioè sono presenti specie ioniche. Le caratteristiche e l importanza applicativa delle soluzioni ioniche suggerisce infatti una descrizione a parte. Solo dopo aver chiarito gli aspetti fondamentali delle soluzioni ioniche in equilibrio passeremo nel capitolo successivo allo studio dei fondamenti dell elettrochimica all equilibrio Equilibri in soluzioni non elettrolitiche Lo studio degli equilibri chimici in soluzioni non elettrolitiche può essere formalmente ricondotto allo studio degli equilibri di reazione nel vapore in equilibrio con la soluzione stessa. È infatti evidente che se una soluzione è in equilibrio chimico anche il vapore deve essere nelle stesse condizioni. Tuttavia è utile trattare direttamente gli equilibri in soluzione, definiti in diretta dipendenza dalle attività delle varie specie chimiche in soluzione. Il nostro punto di partenza per la descrizione di una soluzione di M specie chimiche, sede di un processo stechiometrico indipendente all equilibrio (11.2) è naturalmente ancora una volta l equazione che pone a zero l energia libera di reazione, r G = i ν iµ i = 0. Se esprimiamo i potenziali chimici in funzione delle attività dei componenti chimici espresse secondo le loro frazioni molari otteniamo ν i µ i + RT ν i ln γ i x i = 0 (12.1) i i che può essere riscritta nella forma RT ln K = G (12.2) G = i K = i ν i µ i (γ i x i ) ν i (12.3) (12.4) dove K è la costante di equilibrio della reazione in funzione delle attività relative alle frazioni molari; i potenziali chimci µ i sono riferiti ad opportune condizioni di composizione (secondo la convenzione prescelta 177

179 178 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE per il componente i-esimo) alla temperatura e pressione di lavoro. Se la convenzione adottata è basata sulle molalità abbiamo la relazione equivalente alle (12.1) nella forma ν i µ i + RT ν i ln γi m i = 0 (12.5) i i da cui segue RT ln K = G G = i ν i µ i (12.6) (12.7) K = i (γ i m i ) ν i (12.8) dove m i è la molalità del componente i-esimo divisa per la molalità unitaria m. Naturalmente le costanti di equilibrio hanno valori diversi, se espresse in attività riferite alle frazioni molari o alle molalità. È chiaro però a questo punto che in generale un equilibrio chimico riferito ad un processo stechiometrico (11.2) è esprimibile in funzione delle attività (o fugacità nel caso dei gas) delle specie chimiche in condizioni di equilibrio: K = i a ν i i (12.9) e dove le attività a i sono intese divise per la grandezza standard corrispondente (p.es. p per le fugacità o m per le attività in soluzione secondo la convenzione delle molalità) e la costante K è definita in funzione della variazione di energia libera standard della reazione RT ln K = G = i ν i µ i (12.10) dove i potenziali chimici standard µ i sono definiti rispetto agli standard delle specie chimiche: il gas puro a fugacità unitaria (componente gassoso), il liquido puro (per una soluzione, secondo la convenzione delle frazioni molari), la soluzione ipotetica ideale a molalità unitaria (per una soluzione, secondo la convenzione delle molalità). La scelta degli stati standard è di solito decisa in maniera da fare coincidere i potenziali chimici standard con le energie libere di formazione delle specie chimiche. In generale, nel caso delle soluzioni, per le sostanze presenti come soluti in soluzione acquosa i dati di energia libera sono riportati quasi sempre per lo stato di soluzione ideale a molalità unitaria. Nel caso in cui tutte le specie siano ottenibili sotto forma di liquidi puri è conveniente utilizzare le espressioni basate sulle frazioni molari, e le energie libere di formazione sono riferite ai singoli componenti puri. La dipendenza delle costanti di equilibrio in soluzione dalla temperatura e dalla pressione può essere analizzata usando gli strumenti formali già introdotti nei precedenti capitoli. Consideriamo, tanto per fissare le idee, una costante di equilibrio espressa dalla (12.4), cioè in funzione delle frazioni molari. Tenendo conto della (12.3) si trova R ln K = i ν i µ i T Rd ln K = i ν i (µ i /T ) dt + 1 T T µ i p dp (12.11) Ogni termine che contiene la derivata rispetto a T di µ i /T corrisponde all entalpia molare del componente (se vale la convenzione di coefficiente di attività unitario per x i 1, solvente) o all entalpia parziale molare

180 12.2. SOLUZIONI ELETTROLITICHE 179 del componente in una soluzione ideale a molalità unitaria(γ i 1 per m i 0, soluto), divisa per T 2 : quindi complessivamente i ν i (µ i /T ) T = rh T 2 (12.12) dove con r H indichiamo il calore di reazione o variazione di entalpia quando ciascun componente si trovi nello stato limite in cui si comporta in modo ideale secondo la convenzione scelta. Analogamente, i termini sommati di derivata rispetto alla pressione sono uguali alla variazione di volume ideale. Resta perciò Rd ln K = H r T 2 da cui segue che ln K = rh T RT 2 ln K = rv p RT dt rv dp (12.13) T (12.14) (12.15) in pratica la dipendenza dalla pressione è molto modesta, cioè a fini pratici r V 0. Se la costante di equilibrio è espressa in funzione delle molalità si trovano le stesse relazioni, ma r H e r V si riferiscono all entalpia e volume di reazione in condizioni corrispondenti allo stato di molalità unitaria e comportamento ideale per ogni specie chimica nel solvente in cui la reazione prende luogo Soluzioni elettrolitiche Un elettrolita è un composto chimico che in soluzione si dissocia dando origine a specie cariche, i cationi carichi positivamente e gli anioni carichi negativamente M p+ A p solvente p + M z+ (solv) + p A z (solv) (12.16) dove p ± sono il numero di cationi e anioni generati da una molecola 1 dell elettrolita di partenza, di carica z ±. Gli elettroliti sono classificabili in elettroliti forti e deboli, sostanzialmente in dipendenza della grandezza della costante di equilibrio per la reazione (12.16). La scala di concentrazione usata per le soluzioni elettrolitiche è la molalità, e quindi i potenziali chimici sono definiti secondo la convenzione per cui i coefficienti di attività tendono ad uno per diluizione infinita (molalità nulla). Da molti punti di vista le soluzioni elettrolitiche non sembrerebbero diverse dalle soluzioni trattate nei capitoli precedenti, e le reazioni di dissociazione come la (12.16) non dovrebbero meritare alcuna descrizione speciale. In realtà, esiste una differenza molto significativa, che è di natura sostanzialmente pratica: le soluzioni elettrolitiche devono rispettare il principio di elettroneutralità, vale a dire non è possibile che esista un numero di cariche positive significativamente diverso dal numero di cariche negative. L elettroneutralità ha numerose conseguenze, che saranno brevemente discusse nelle sezioni successive. Tra le piú ovvie, per 1 Intesa come unità stechiometrica; in molti casi l elettrolita di partenza non è formato da molecole: come è noto i cristalli ionici sono in realtà aggregati di ioni

181 180 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE esempio, è la riduzione del numero di componenti, nel senso della regola delle fasi: non è possibile variare indipendentemente la popolazione dei cationi rispetto a quella degli anioni. Come consequenza, le grandezze molari parziali che sono definite come variazioni infinitesime indipendenti rispetto al numero di moli, a parità del numero di moli di tutte le altre specie, perdono di significato. Se per esempio consideriamo i potenziali chimici delle specie cariche, definiti come µ + = G, µ = G n + n T,p,n,n0,nu T,p,n+,n0,nu (12.17) dove n +, n sono le moli in soluzione di cationi e anioni, n 0 indica il numero di moli del solvente, e n u è il numero di moli di elettrolita non dissociato in soluzione (per il caso di un elettrolita debole) vediamo che la definizione di µ +, µ implica una variazione infinitesima di una specie carica lasciando l altra specie costante, ciò che è impossibile da attuarsi, sperimentalmente, in modo significativo Grandezze standard di formazione di sostanze ioniche solvatate Il problema si presenta in realtà già al livello della definizione delle grandezze standard di formazione delle sostanze ioniche in soluzione: non è possibile misurare l entalpia, l entropia e dunque l energia libera di formazione di una specie cationica od anionica in soluzione. Tutto quello che si può fare è misurare l entalpia, entropia ed energia libera di una reazione di solvatazione degli elementi in condizioni stabili per dare luogo alla formazione di una soluzione, che naturalmente deve essere neutrale. Nel seguito faremo sempre riferimento esclusivamente a soluzioni acquose. Cosí per esempio nella reazione di dissociazione ionica del sale in soluzione acquosa NaCl H 2O Na + (aq) + Cl (aq) (12.18) possiamo misurare l energia libera di formazione della coppia ionica idrogeno-cloro. Non è invece possibile misurare la corrispodente grandezza per uno dei due ioni separatamente, vale a dire relativamente alle reazioni Na(s, p ) Na + (aq) + e (12.19) 1 2 Cl 2(g, p ) + e Cl (aq) (12.20) Tuttavia, è utile disporre di tabelle con grandezze termodinamiche di formazione relative ai singoli ioni. Ciò è possibile stabilendo una scala arbitraria, vale a dire ponendo a zero l energia libera di formazione di uno ione particolare, e e determinando le energie libere di formazione di tutti gli altri riferendole in questa scala. La convenzione piú diffusa è la seguente L energia libera di formazione dello ione idrogeno in una soluzione ipotetica ideale a molalità unitaria a partire da idrogeno gassoso a p = p = 1 atm vale zero a tutte le temperature. Poiché la scala delle energie libere è definita in questo modo a tutte le temperature, ne consegue che anche l entalpia di formazione e l entropia di formazione dello ione idrogeno in soluzione acquosa valgono zero per convenzione. Riassumendo, ad ogni temperatura 1 2 H(g, p ) H + (aq) + e, f G = f H = 0, S = 0 (12.21)

182 12.4. COEFFICIENTE DI ATTIVITÀ MEDIO 181 Su questa base è possibile calcolare i valori numerici, arbitrari ma coerenti, delle grandezze termodinamiche di formazione di tutti gli altri ioni. La metodologia per conseguire questo risultato è basata sostanzialmente sulla legge di Hess, cioè sulla costruzione di cicli termodinamici che contengono la reazione di formazione degli ioni stessi. Per esempio, il ciclo termodinamico piú semplice per la determinazione dell energia libera di formazione di uno ione alogenuro, che indichiamo genericamente con X (X = F, Cl, Br, I) 1 2 X 2(g, p ) X (aq) + e può essere scritto come (12.22) H + (g) + X(g) + e H + (g) + X (g) (12.23) H + (g) + X (g) H + (g) + X (aq) (12.24) H + (g) + X (aq) H + (aq) + X (aq) (12.25) H + (aq) + X (aq) 1 2 H 2(g) X 2(g) (12.26) 1 2 H 2(g) X 2(g) H(g) X 2(g) (12.27) H(g) X 2(g) H + (g) X 2(g) + e (12.28) H + (g) X 2(g) + e H + (g) + X(g) + e (12.29) vale a dire la formazione di alogenuro ionico gassoso (1), la solvatazione degli ioni (2 e 3), la formazione delle specie gassose a partire dalla soluzione (4), la formazione di idrogeno molecolare gassoso (5), e la sua ionizzazione (6), la formazione di ione alogenuro gassoso (7). a p = p. Tutte le reazioni in fase gas sono riferite Le energie libere dei diversi stadi sono misurabili o stimabili a partire da dati di energia di ionizzazione ed affinità elettronica, e l energia libera di formazione dello ione alogenuro è data dalla somma di tutti i contributi. X f H /(kjmol 1 ) f G /(kjmol 1 ) S /(JK 1 mol 1 ) F (aq) Cl (aq) Br (aq) I (aq) Tabella 12.1: Entalpie, energie libere ed entropie di formazione per gli ioni alogenuro 12.4 Coefficiente di attività medio Dato il principio di elettroneutralità, non è possibile, come abbiamo già visto, misurare il potenziale chimico delle specie ioniche in soluzione separatamente. Consideriamo un elettrolita in soluzione (acquosa) definito dalla reazione (12.16). La variazione infinitesima di energia a temperatura e pressione costante è dg = µ u dn u + p + µ + dn + + p µ dn + µ 0 dn 0 = µ u dn u + p + µ + (dn dn u ) + p µ (dn dn u ) + µ 0 dn 0 = (µ u p + µ + p µ )dn u + (p + µ + + p µ )dn + µ 0 dn 0 (12.30)

183 182 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE dove indichiamo con n il numero totale di moli dell elettrolita in soluzione. La reazione di dissociazione all equilibrio è caratterizzata dall uguaglianza µ u = p + µ + + p µ (12.31) analogamente ad un qualunque equilibrio in soluzione. La variazione infinitesima di energia libera del sistema all equilibrio si può qundi scrivere come dg = (p + µ + + p µ )dn + µ 0 dn 0 (12.32) dove indichiamo con n il numero di moli totali di elettrolita in soluzione. Possiamo definire allora la grandezza µ, potenziale chimico dell elettrolita in soluzione, come µ = G = p + µ + + p µ (12.33) n T,p,n0 questa grandezza è perfettamente misurabile, in quanto la sua definizione non viola l elettroneutralità. Si può notare come il potenziale chimico complessivo dell elettrolita sia uguale al potenziale chimico dell elettrolita indissociato, µ = µ u. Possiamo ora definire una grandezza che misuri la deviazione dall idealità di un elettrolita, vale a dire un coefficiente di attività riferito all elettrolita nel suo complesso. Partiamo dalla definizione dei potenziali chimici delle specie in soluzione secondo la convenzione delle molalità µ + = µ + + RT ln γ + m + µ = µ + RT ln γ + m µ u = µ u + RT ln γ + m u (12.34) (12.35) (12.36) Tenendo conto della definizione (12.33) troviamo µ = p + µ + + p µ + RT ln γ p + + γ p m p + + m p (12.37) le quantità p + µ + + p µ e γ p + + γ p sono misurabili perché sono riferiti a variazioni del numero di moli dell elettrolita nel suo complesso. In particolare, possiamo definire il coefficiente di attività ionico medio dell elettrolita come γ ± = (γ p + + γ p ) 1/p (12.38) dove p = p + + p è il numero totale di ioni. Possiamo anche definire una molalità media, detta anche molalità ionica media, mediante una relazione analoga m ± = (m p + + m p ) 1/p (12.39) Dalla definizioni precedenti segue che possiamo scrivere il potenziale chimico dell elettrolita in soluzione come µ = p + µ + + p µ + prt ln γ ± m ± (12.40) Nel caso degli elettroliti forti la ionizzazione è praticamente completa e possiamo definire immediatamente la molalità ionica media in funzione della molalità complessiva m m + = p + m, m = p m m ± = (p + p ) 1/p m (12.41)

184 12.5. MODELLO DI DEBYE-HUCKEL 183 Nel caso di elettroliti deboli possiamo scegliere di definire m + e m in accordo con le precedenti espressioni, e di definire conseguentemente nello stesso modo la molalitàs ionica media. In questo caso di parla di coefficienti di attività stechiometrici, che vengono perciò a dipendere, tra gli altri fattori, anche dal grado di ionizzazione dell elettrolita Modello di Debye-Huckel La caratteristica principale delle soluzioni elettrolitiche è la presenza di specie cariche che interagiscono mediante forze coulombiane, che sono tipicamente forze a lungo raggio. Le deviazioni dal comportamento ideale sono quindi molto rilevanti, ed è utile ed interessante cercare di razionalizzare i parametri che le misurano (cioè i coefficienti di attività) in funzione di grandezze misurabili come le concentrazioni delle specie chimiche e le cariche degli ioni. Uno dei modelli piú semplici, ma ancora oggi piú usati per la sua semplicità e profondita è costituito dalla trattazione di Debye-Huckel, basata sull idea che uno ione in soluzione è circondato da una sfera di solvatazione, detta atmosfera ionica, che scherma il potenziale elettrico risentito dallo ione stesso, e formato dalle molecole di solvente piú vicine allo ione. Il modello è basato su una serie di ipotesi ed approssimazioni che sono descritte in sintesi nella sezione di approfondimento di questo capitolo. La previsione principale del modello è rappresentata dalla legge limite di Debye-Huckel, che descrive la dipendenza del coefficiente di attività medio per soluzioni molto diluite mediante l espressione, valida in acqua a 25 C log γ ± = z + z I 1/2 (12.42) dove I è un parametro adimensionale detto forza ionica I = 1 zi 2 m 2 i 2 i (12.43) la somma corre su tutte le specie ioniche, e naturalmente m i è la molalità divisa per la molalità unitaria dello ione i-esimo Approfondimenti Teoria delle soluzioni elettrolitiche di Debye-Huckel Le teorie moderne per l interpretazione del comportamento all equilibrio delle soluzioni elettrolitiche costituiscono l evoluzione di idee originarie di Ghosh (1920) e soprattutto successivamente di Debye e Hückel (1923). L idea principale alla base della teoria di Debye e Hückel (DH) è costituita dalla definizione di una zona, a simmetria sferica, che circonda ogni ione secondo una distribuzione statistica localmente piú ricca di ioni positivi (intorno ad uno ione negativo) o di ioni negativi (intorno ad uno ione positivo), detta atmosfera ionica. Secondo la teoria DH, l esistenza di un atmosfera è responsabile dell energia libera in eccesso di una soluzione ionica reale rispetto ad una soluzione ideale. Il calcolo dei coefficienti di attività si riduce perciò a trovare un espressione dell energia libera di eccesso in termini di proprietà misurabili della soluzione. Consideriamo l atmosfera ionica intorno ad uno ione centrale come una distribuzione continua

185 184 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE Figura 12.1: Grafico del logaritmo decimale del coefficiente di attività media in funzione della forza ionica (curve: dati sperimentali; rette: equazione di Debye-Huckel.) di carica, trascurando la natura discreta degli ioni che la formano. Il potenziale elettrico φ è collegato alla densità di carica elettronica dall equazione di Poisson, nota come un risultato standard dell elettrostatica 2 φ = ρ ɛ (12.44) dove ɛ è la costante dielettrica del mezzo. La densità ionica non è nota al momento. Nella teoria DH una stima di ρ può essere ottenuta con considerazioni statistiche. Sia V il volume totale della soluzione, formato da ioni di vario tipo, ciascuno caratterizzato da una carica z i (maggiore o minore di zero per i cationi o gli anioni) e presente in numero di N i. Per l elettroneutralità deve valere la relazione N i z i = 0 n i z i = 0 (12.45) i i dove n i = N i /V è il numero di ioni di tipo i-esimo per unità di volume. Il principio di elettroneutralità è vero per qualunque volume definito rispetto ad una posizione fissa di soluzione (e grande a sufficienza rispetto

186 12.6. APPROFONDIMENTI 185 Figura 12.2: Modello qualitativo dell atmosfera ionica: in nero sono indicati i cationi, in bainco gli anioni. alle dimensioni ioniche: cioè è corretto a livello idrodinamico, e non molecolare). Se però consideriamo un elemento di volume dv che segua il moto di uno ione specifico, per esempio un catione, il principio di elettroneutralità non è verificato, vale a dire è presente un atmosfera ionica con carica netta diversa da zero (negativa nel caso del catione). In pratica il principio di elettroneutralità resta verificato in una posizione fissa dello spazio (e in un volume sufficientemente grande) perché il moto degli ioni è casuale (stocastico) in seguito all agitazione termica e per tempi sufficientemente nulli la carica media è nulla; ma per un osservatore solidale con il catione, l atmosfera ionica ha una carica netta. Nel seguito della derivazione della teoria DH, il nostro punto di riferimento è solidale con lo ione centrale. Consideriamo dunque uno ione, assunto come ione centrale, intorno al quale si è creato un campo di potenziale elettrico secondo la legge di Poisson. Secondo i principi della meccanica statistica, la carica netta di un elemento di volume dv può essere calcolata dalla distribuzione di Boltzmann: l energia di uno ione di carica z j e nel campo di potenziale elettrico φ è data da z j eφ, quindi secondo la distribuzione di Boltzmann il numero di ioni di tipo j in dv è ( dn j = n j exp ez ) jφ dv k B T (12.46)

187 186 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE Figura 12.3: Calcolo della distribuzione di carica attorno ad un catione: l osservatore M è in moto con il catione, e vede una carica netta media diversa da zero in un elemento di volume ad una posizione fissa rispetto al catione; l osservatore F è in quiete, e vede una carica netta media nulla in un elemento di volume in quiete. dove k B = R/L è la costante di Boltzmann definita rispetto R ed al numero di Avogadro L; ovvero la densità di tutti gli ioni in dv è ρ = ( ez j n j exp ez ) jφ k i B T (12.47) da cui segue che l equazione di Poisson in φ può essere scritta nella forma 2 φ = e ( z j n j exp ez ) jφ ɛ k B T j (12.48) Per semplificare questa espressione, possiamo assumere che la temperatura sia abbastanza elevata da poter sviluppare l esponenziale in funzione di potenze di ez j φ/k B T ; arrestando lo sviluppo ai primi due termini si ottiene ρ = j ez j n j e2 k B T zj 2 n j φ j (12.49)

188 12.6. APPROFONDIMENTI 187 il primo termine va a zero per la (12.45), e resta perciò una stima della densità di carica dell atmosfera ionica solidale con uno ione data da ρ = e2 k B T zj 2 n j φ j ed un equazione di Poisson semplificata per il potenziale elettrico (12.50) 2 φ = e2 k B T ɛ j z 2 j n j φ = φ r 2 D (12.51) dove r D è una lunghezza definita come 1 r 2 D = e2 k B T ɛ zj 2 n j j (12.52) sul cui significato fisico torneremo fra breve. L equazione di Poisson può essere ulteriormente semplificata assumendo una simmetria sferica per l atmosfera ionica 1 φ r 2 r2 r r = φ rd 2 (12.53) dove r è la distanza dallo ione centrale al punto considerato e φ è ora funzione solo di r. La soluzione generale è data nella forma φ = A 1 exp( r/r D ) r + A 2 exp(r/r D ) r (12.54) Le condizioni al contorno del problema sono le seguenti: a grandi distanze il potenziale elettrico deve andare a zero, come conseguenza delle leggi fondamentali dell elettrostatica, quindi A 2 = 0; per r 0 il potenziale elettrico deve assumere la forma del potenziale elettrostatico dovuto allo ione centrale di carica z i e in un dielettrico di costante ɛ, in assenza di atmosfera ionica, che è dato dalla legge di Coulomb φ Coulomb = ez i 4πɛr (12.55) confrontando il potenziale φ con A 2 = 0 e r 0 (cioè espandendo in serie di McLaurin il termine esponenziale e tenendo solo il contributo in ordine zero, pari ad 1) si determina A 1 = ez i /4πɛ. Il potenziale calcolato in r dovuto al sistema ione centrale+ atmosfera ionica è perciò φ = ez i 4πɛr exp( r/r D) (12.56) ed ha la forma di un potenziale di Coulomb schermato, dove r D, detta lunghezza di Debye, rappresenta la costante di schermo. determinato come differenza φ atm = φ φ Coulomb = In una soluzione elettrolitica reale il potenziale della sola atmosferica ionica è ez i 4πɛr [exp( r/r D) 1] (12.57) Il potenziale dovuto alla sola atmosferica ionica nella posizione dello ione centrale è dato dalla precedente espressione valutata per r 0. Il limite si calcola facilmente come: φ 0 atm = ez i 4πɛr D (12.58)

189 188 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE Secondo l approssimazione fondamentale di DH, l energia di solvatazione, cioè il lavoro necessario a solvatare lo ione, è calcolata come un lavoro puramente elettrostatico. Se si aggiunge una carica infinitesima dq ad una regione di potenziale φ 0 atm, il lavoro elettrico infinitesimo è φ 0 atmdq. Partendo da una carica centrale, e aggiungendo carica fino ad arrivare a z i e, il lavoro totale risulta essere zi e q w e = dq = e2 zi 2 (12.59) 0 4πɛr D 8πɛr D Definiamo ora, secondo l approssimazione DH, l energia libera di eccesso della specie per una mole di specie i-esima, cioè la differenza tra l energia libera nella soluzione rispetto ad una soluzione ideale, come Lw e, e scriviamo quindi il logaritmo del coefficiente di attività potenziale chimico della specie i-esima ln γ i = Lw e RT = w e k B T = e2 zi 2 = z2 i F 2 (12.60) 8πɛk B T r D 8πɛLRT r D dove abbiamo usato il faraday F = Le, cioè la carica di una mole di cariche e. La lunghezza di Debye può essere calcolata in termini di molalità; infatti n j = c j L dove c j è il numero di moli dello ione j diviso per il volume della soluzione; passando alle molalità possiamo scrivere n ρm j L, dove ρ è la densità del solvente. Sostituendo nell espressione di r D otteniamo r D = ( ɛrt ) 1/2 2ρF 2 Im Infine possiamo calcolare direttamente il coefficiente di attività medio. elettrolita secondo (12.16) vale la relazione (12.38), da cui segue (12.61) Per un sistema derivato da un ln γ ± = p +w e,+ + p w e, (p + + p )k B T = (p +z p z 2 )F 2 8πɛ(p + + p )LRT r D (12.62) poiché però p + z + + p z = 0 si ha che p + z + + p z = 0 (p + z + + p z )(z + + z ) = 0 p + z p + z + z + p z 2 + p z + z = 0 p + z p z 2 = (p + + p )z + z p +z p z 2 p + + p = z + z = z + z (12.63) e segue dunque l espressione ln γ ± = z +z F 2 8πɛLRT r D (12.64) passando ai logaritmi decimale e sostituendo l espressione di r D in funzione della forza ionica si ottiene la legge limite DH log γ ± = A z + z I 1/2 e la costante A è data dalla relazione F 3 ( ) ρm 1/2 A = 4πL ln 10 2ɛ 3 R 3 T 3 (12.65) (12.66) per l acqua a 25 C si ritrova il valore A = La legge limite di DH che abbiamo ricavato è valida solo in condizioni di soluzioni eletttrolitiche diluite, o a bassa forza ionica. Sono possibili naturalmente trattamenti anche molto piú sofisticati della teoria DH,

190 12.6. APPROFONDIMENTI 189 che portano ad espressioni valide per esprimere il coefficiente di attività medio in funzione della forza ionica anche a concentrazioni elevate. La legge estesa di Debye-Huckel, che dipende da due nuovi parameteri α e β log γ p m = A z +z I 1/2 1 + αi 1/2 + βi (12.67) è sostanzialmente un espressione empirica che si può considerare accettabile fino a molalità intorno a 0.1 mol kg 1, e che è stata razionalizzata da Huckel mediante varie ipotesi ed emendamenti aggiuntivi rispetto alla teoria DH originale, come il trattamento degli ioni in forma discreta e non come distribuzione di carica continua, l inclusione di una costante dielettrica variabile con la distanza dallo ione centrale e la formazione di coppie ioniche.

191 190 CAPITOLO 12. EQUILIBRI DI REAZIONE IN SOLUZIONE

192 Capitolo 13 Celle elettrochimiche Una cella elettrochimica è un dispositivo formato da due elettrodi in contatto con un elettrolita. I due elettrodi possono risiedere in due diversi elettroliti, che sono in questo caso connessi da un ponte salino o separati da un setto poroso. Una cella elettrochimica che produce elettricità in seguito ad un processo chimico spontaneo è detta cella galvanica o pila, mentre una cella elettrochimica in cui avvenga una reazione non-spontanea a causa di un flusso indotto dall esterno di corrente elettrica è detta cella elettrolitica. L elettrochimica è il complesso di metodologie fisiche e chimiche per lo studio dei processi che comportano la trasformazione di energia elettrica in energia chimica e viceversa, sia in condizioni di equilibrio (le uniche di cui ci occupiamo in questo corso), sia in condizioni di non-equilibrio. Dal punto di vista chimico, l elettrochimica è lo studio di processi di ossidoriduzione che avvengono sia in fasi omogenee che in fasi eterogenee, con una particolare attenzione a quanto avviene nelle zone di interfaccia tra gli elettrodi e le soluzioni. L elettrochimica è una delle branche piú antiche della chimica-fisica modernamente intesa - cioè come disciplina scientifica basta sul metodo sperimentale - ed alcuni dei suoi massimi esponenti furono attivi in Europa già nel XVIII secolo: in realtà le prime ricerche elettrochimiche sono state spesso parallele allo studio della fisica elettrostatica e dei fenomeni dell elettromagnetismo: possiamo ricordare per esempio Galvani e Volta in Italia e Faraday in Gran Bretagna. Le tecniche elettrochimiche furono di notevole importanza per la comprensione dei fenomeni fondamentali della chimica fisica: per esempio Nernst in Germania diede contributi importanti all elettrochimica e ne trasse le osservazioni sperimentali che sono alla base della sua enunciazione del III principio della termodinamica Celle galvaniche e pile Come è noto dalla chimica generale parliamo di reazione di ossidoriduzione (redox), quando sono presenti molecole che cambiano il loro stato di ossidazione, acquisendo elettroni (riduzione) Cu 2+ (aq) + 2e Cu(s) (13.1) oppure perdendo elettroni (ossidazione) Zn(s) Zn 2+ (aq) + 2e (13.2) le precedenti reazioni sono dette semireazioni. Le semireazioni si scrivono per convenzione sempre sotto forma di riduzione, ed ogni reazione di ossidoriduzione può essere costruita come differenza di due semireazioni. 191

193 192 CAPITOLO 13. CELLE ELETTROCHIMICHE Figura 13.1: Dall alto, in senso orario: Galvani, Volta, Nernst e Faraday.

194 13.1. CELLE GALVANICHE E PILE 193 Cosí il processo spontaneo di riduzione del rame ed ossidazione dello zinco si scrive come differenza delle due semireazioni [ ] [ ] + Cu 2+ (aq) + 2e Cu(s) Zn 2+ (aq) + 2e Zn(s) Cu 2+ (aq) + Zn(s) Cu(s) + Zn 2+ (aq) (13.3) Una cella galvanica è sostanzialmente un dispositivo in cui avviene una reazione redox con le semireazioni localizzate in due zone distinte, ciascuna formata dall elettrodo e da una certa quantità di elettrolita (o da due elettrodi separati, in questo caso collegati da un ponte salino). Ogni zona è detta semicella. In Figura (13.2) è disegnata una cella galvanica basate sulle coppie redox Zn/Zn 2+ e Cu/Cu 2+, nota come pila Daniell. Un elettrodo di zinco è immerso in una soluzione, per esempio 1 M, di ZnSO 4 ed un elettrodo di Figura 13.2: Un esempio di cella galvanica: pila Daniell. rame è immerso in una soluzione di CuSO 4. Le due soluzioni sono separate da un setto poroso, che non permette il passagio dei cationi, oppure collegate da un ponte salino, pieno di un elettrolita di supporto, per esempio Na 2 SO 4, che permette il passaggio di corrente ma impedisce il mescolamento delle due soluzioni, come nello schema indicato in Fig. (13.3). La rappresentazione schematica della cella galvanica in Fig. (13.2) è Zn ZnSO 4 (1.0M).CuSO 4 (1.0M) Cu (13.4) mentre la rappresentazione della cella in Fig. (13.3) è Zn ZnSO 4 (1.0M) CuSO 4 (1.0M) Cu (13.5)

195 194 CAPITOLO 13. CELLE ELETTROCHIMICHE Figura 13.3: Un esempio di cella galvanica. Ogni simbolo rappresenta un interfaccia, e quindi l unica differenza tra le due celle considerate è nella presenza di un contatto, sia pure indiretto, tra le due semicelle nel primo caso, indicato dal simbolo centrale., mentre questo contatto è assente nel secondo caso, simbolo. Per definizione, l elettrodo presso il quale avviene una reazione di ossidazione è l anodo R 1 O 1 + νe (13.6) mentre l elettrodo sede della riduzione è il catodo O 2 + νe R 2 (13.7) dove ν è il numero di elettroni scambiati. In una cella galvanica si ha il passaggio di una corrente elettrica diversa da zero, causata dalla reazione spontanea complessiva data dalla somma delle semireazioni che avvengono nelle due semicelle. Il passaggio di corrente è dovuto alla differenza di potenziale tra i due elettrodi. In una cella galvanica il catodo ha quindi un potenziale elettrico maggiore dell anodo: la specie chimica che si riduce sottrae elettroni dall elettrodo, mentre all anodo la specie che si ossida cede elettroni. In una pila l anodo è sempre l elettrodo di ossidazione, ma gli elettroni sono sottratti dalla semicella perché l ossidazione non è spontanea, mentre al catodo, che è sempre per definizione l elettrodo dove avviene la riduzione, vengono forniti elettroni. Quindi in una pila l anodo ha un potenziale elettrico maggiore di quello del catodo. Per convenzione, la reazione di cella è la reazione chimica complessiva della cella scritta in modo che l elettrodo a destra sia il catodo; quando si scrive la rappresentazione schematica (13.5), si assume perciò che il catodo corrisponda al rame, mentre l anodo corrisponda allo zinco, e che la reazione corrispondente sia (13.3). È possibile stabilire a priori, date le semireazioni, se la reazione risultante è spontanea, cioè la rappresentazione è relativa ad una cella galvanica, come vedremo in una sezione successiva.

196 13.2. FORZA ELETTROMOTRICE ED ENERGIA LIBERA DI REAZIONE DELLA CELLA Forza elettromotrice ed energia libera di reazione della cella Il potenziale elettrico responsabile del passaggio di corrente è la somma delle differenze di potenziale che si instaurano in corrispondenza di tutte le interfaccie che formano una cella. In presenza di un setto poroso tra le due semicelle, per esempio, si instaura una differenza di potenziale elettrico dovuto alla diversa mobilità degli ioni attraverso il setto. Con un ponte salino, questa differenza di potenziale, detta potenziale di contatto liquido, viene molto ridotta, perché dipende soprattutto dalle variazioni di concentrazione dell elettrolita di supporto, che è stabile. La presenza del ponte salino è anche importante per assicurare la possibilità di effettuare misure della differenza di potenziale tra gli elettrodi in condizioni di reversibilità, come discuteremo tra breve. La misura della differenza di potenziale tra gli elettrodi è detta potenziale di cella. Il potenziale di cella è riferito alle condizioni in cui attraverso la cella passa una corrente diversa da zero: il lavoro elettrico compiuto dal sistema (la cella) è dovuto al processo irreversibile che avviene nel sistema stesso, cioè la reazione chimica complessiva. Il lavoro elettrico (cioè non di volume) massimo che la cella può compiere è legato alla variazione di energia libera complessiva della cella, a pressione e temperatura costanti, ed è pari al lavoro compiuto in condizioni di reversibilità w e,max = G (13.8) e G è la variazione di energia libera della reazione alle condizioni di temperatura, pressione e composizione date. Quindi la misura del lavoro massimo deve essere vista come un preocesso al limite, in cui la cella opera in condizioni di reversibilità, cioè sostanzialmente di corrente nulla. La differenza di potenziale elettrico tra i due elettrodiin condizioni di corrente nulla si dice forza elettromotrice E (fem) della cella E = lim i 0 φ catodo φ anodo. (13.9) Si noti che solo in condizioni di reversibilità (corrente nulla) possiamo applicare la (13.8) e quindi fare delle considerazioni quantitative tra potenziale elettrico (fem) e variazione di energia libera. Se rappresentiamo la reazione complessiva nel consueto modo compatto (11.2), possiamo scrivere la variazione infinitesima dell energia libera a T e p costanti come dg = µ i dn i = i ν i µ i dξ = r Gdξ (13.10) dove ξ è il grado di avanzamento della reazione. Per una variazione infinitesima di dξ, il lavoro elettrico in condizioni reversibili è perciò dw e = r Gdξ (13.11) In seguito all avanzamento della reazione di dξ, sia avrà il passaggio di νdξ elettroni dall anodo al catodo, corrispondenti alla carica di νf dξ, dove F = el è il Faraday, che abbiamo già incontrato in precedenza. Il lavoro elettrico per il passaggio di una carica attraverso una diffrenza di potenziale è dato dal prodotto della cariva per la diffrenza di potenziale; quindi nel nostro caso dw e = νf Edξ. Ne consegue che νf E = r G (13.12)

197 196 CAPITOLO 13. CELLE ELETTROCHIMICHE che è l equazione alla base dello studio delle celle in condizioni reversibili. Dalla misura della fem si può quindi ottenere il r G della reazione di cella. Si noti che da misure ripetute in diverse condizioni di temperatura possiamo misurare la r S, dalla relazione di Gibbs-Helholtz r S = rg T p = νf E T p (13.13) e quindi la r H, che risulta semplicemente r H = r G + T r S = νf E + νf E T p (13.14) A questo punto ricordiamo come la condizione di reversibilità di una cella non sia sempre facilmente ottenibile. La presenza di contatti liquidi rende la cella parzialmente irrevesibile, mentre l uso di ponti salini avvicina molto il raggiungimento di condizioni di reversibilità. L eliminazione completa di contatti liquidi è la soluzione migliore, ed è possibile in celle specifiche, come la cella Weston Cd(Hg) CdSO 4 (s), Hg 2 SO 4 (s) Hg (13.15) 13.3 Equazione di Nerst Il passo successivo è di porre in relazione la fem della cella con le attività delle specie chimiche che partecipano alla reazione complessiva. Se la reazione è rappresentata da (11.2), tenendo conto della defizione del potenziale chimico di una specie nella forma generica µ i = µ i + RT ln a i (dove con µ i indichiamo in modo generico il potenziale chimico standard, comunque definito, e con a i l attività della specie divisa per la corrispondente grandezza unitaria, per esempio pressione o molalità), otteniamo per sostituzione nella definizione di r G r G = r G + RT i ln a ν i i = r G + RT ln i a ν i i r G + RT ln Q (13.16) dove Q = i aν i i è il quoziente di reazione. Dividendo per νf otteniamo E = E RT νf ln Q (13.17) che è la famosa equazione di Nernst. La grandezza E è la forza elettromotrice standard della cella, ed è definita come E = rg νf In condizioni di equilibrio chimico Q = K costante di equilibrio della reazione e E = 0, da cui segue ln K = νf E RT La forza elettromotrice standard è perciò in relazione diretta con la costante di equilibrio della reazione. (13.18) (13.19)

198 13.4. POTENZIALE DI ELETTRODO Potenziale di elettrodo Possiamo classificare le semicelle in varie categorie. Tra gli elettrodi piú semplici abbiamo gli elettrodi metallici, in cui un metallo è in contatto con una soluzione dello stesso ione, per esempio argento con nitrato di argento in soluzione Ag Ag + (c) (13.20) Spesso conviene usare un elettrodo costituito da un amalgama del metallo con il mercurio, per ridurre effetti di polarizzazione o per ovviare al fatto che il metallo puro reagirebbe con la soluzione, come per il sodio NaHg(c 1 ) Na + (c 2 ) (13.21) Si noti che se l amalgama è satura nel metallo l elettrodo è equivalente ad un elettrodo in metallo puro (perché ha lo stesso potenziale chimico). Gli elettrodi a gas sono costituiti da una lamina di metallo non reattivo (platino od oro) in contatto con un gas o una soluzione di gas in liquido. Il piú noto come vedremo tra breve è l elettrodo ad idrogeno Pt(s) H 2 (g) H + (aq) (13.22) Figura 13.4: Elettrodo ad idrogeno. Ricordiamo ancora gli elettrodi non metallici e non a gas (metallo inerte a contatto con una fase liquida o solida, come la semicella bromo-bromuro, in cui il metallo inerte è il platino); gli elettrodi a ossido-riduzione, in cui il metallo inerte è immerso in una soluzione con due ioni dello stesso elemento ma a diverso stato di ossidazione, come platino a contatto con ioni ferrici e ferrosi; gli elettrodi a metallo-sale insolubile (metallo inerte a contatto con un suo sale poco solubile, come argento-argento cloruro). In teoria, non è possibile determinare la fem di una cella come differenza diretta del potenziale elettrico dei due elettrodi. In pratica però possiamo adottare il potenziale di un elettrodo come uno standard, ponendone

199 198 CAPITOLO 13. CELLE ELETTROCHIMICHE arbitrariamente a zero il valore. L elettrodo standard prescelto è l elettrodo ad idrogeno, per il quale si pone E = 0. Il potenziale di ogni altro elettrodo si determina come la fem standard della cella costruita con l elettrodo di idrogeno a sinistra (anodo). Per esempio il potenziale standard dell elettrodo ad argento Ag + /Ag è la fem standard della cella Pt(s) H 2 (g) H + (aq) Ag + aq Ag(s) (13.23) e vale E = 0.80 V. Un potenziale standard elevato significa che la coppia redox è fortemente ossidante, un basso potenziale standard indica che la coppia è riducente. La fem standard di una cella generica potrà essere trovata come il potenziale standard dell elettrodo di destra (catodo) meno il potenziale standard dell elettrodo di sinistra (anodo). Per esempio la cella Ag(s) Ag + (aq) Cl (aq) AgCl(s) Ag(s) (13.24) è equivalente alle due celle in serie Ag(s) Ag + (aq) H + (aq) H 2 (g) Pt(s) Pt(s) H 2 (g) H + (aq) Cl AgCl(s) Ag(s) (13.25) e quindi la fem della cella è data come E = E (AgCl/Ag, Cl ) E (Ag + /Ag) = 0.58V (13.26) Se la fem standard è positiva la cella è una cella galvanica, altrimenti per ottenere un processo spontaneo si devono invertire le due semicelle.

200 Capitolo 14 Cinetica chimica: definizioni e metodi Quanto tempo impiega una sistema chimico a raggiungere l equilibrio? In altri termini, qual è la cinetica di una (o più) reazioni chimiche? Queste domande trovano delle risposte dallo studio della velocità di reazione o reattività chimica. Per comodità, l argomento è diviso in tre parti: definizioni e metodi (1), applicazioni (2), calcolo di costanti cinetiche (3) Velocità di reazione e legge cinetica Iniziamo con alcune definizioni. Definiamo prima di tutto, in modo non troppo rigoroso per ora, una reazione chimica elementare o processo chimico elementare come una reazione chimica che avvenga in un solo passaggio chimico, coinvolgendo contemporaneamente alcune specie chimiche. In generale, le reazioni chimiche osservate sperimentalmente sono la combinazione di vari processi elementari (successivi o contemporanei) che danno luogo nel loro complesso ad un meccanismo di reazione (vedi oltre), e che possono anche coinvolgere specie chimiche non direttamente osservabili, almeno con metodi semplici. Per esempio, consideriamo la reazione di sintesi dell ossido di azoto, che avviene in fase gas. Sperimentalmente si osserva la seguente reazione complessiva: 2NO + O 2 2NO 2. Questa è però il risultato di un meccanismo di reazione formato da tre reazioni elementari distinte 2NO N 2 O 2 N 2 O 2 2NO (14.1) N 2 O 2 + O 2 2NO 2 dove compare la specie transiente N 2 O 2. In generale la velocità di formazione/scomparsa di una specie chimica è semplicemente la derivata temporale del numero di moli della specie stessa (o della sua concentrazione) v = dn(t) dt (14.2) La velocità di una reazione chimica elementare, che scriviamo nella consueta forma compatta (per M specie chimiche C i, i = 1,..., M) ν i C i 0 (14.3) i 199

201 200 CAPITOLO 14. CINETICA CHIMICA: DEFINIZIONI E METODI è data in funzione del grado di avanzamento ξ precedentemente definito, come v = dξ dt = 1 dn 1 ν 1 dt =... 1 ν i dn i dt =... (14.4) In un sistema a volume costante V, dividendo il numero di moli n i del componente i-esimo per V semplicemente otteniamo v = 1 ν i dc i dt (14.5) dove c i è la molarità della specie i-esima. Data una reazione chimica, è quindi sempre possibile scrivere la definizione della velocità corrispondente. Per esempio, nella reazione tra trietilammina e bromuro di etile, si ha che (C 2 H 5 ) 3 N + C 2 H 5 Br (C 2 H 5 ) 4 NBr (14.6) v = d[(c 2H 5 ) 3 N] dt = d[c 2H 5 Br] dt = d[(c 2H 5 ) 4 NBr] dt (14.7) La misura sperimentale della velocità di una reazione chimica richiede apparati di diversa complessità, che dipendono sostanzialmente dalla scala temporale della reazione stessa. È di importanza fondamentale assicurare un buon controllo delle condizioni delle condizioni sperimentali, e soprattutto della temperatura, perchè come vedremo in seguito la dipendenza della velocità di una reazione chimica dalla temperatura è spesso molto rilevante. È necessario inoltre disporre di metodologie che permettano di campionare in modo quantitativo la concentrazione di una o più specie in funzione del tempo. Sperimentalmente, sono disponibili in pratica varie classi di metodi: per reazioni chimiche che decorrono in tempi relativamente lunghi (ore, giorni) etc. può essere sufficiente prelevare ad intervalli regolari campioni dal sistema, sottoporli a raffreddamento per bloccare il decorso della reazione e procedere ad un analisi chimica quantitativa per reazioni che decorrono in tempi relativamente veloci (da minuti fino a millisecondi) si possono impiegare semplici tecniche fisiche per seguire il decorso della reazione nel tempo, come per esempio 1. spettri di assorbimento 2. misure di costanti dielettriche 3. misure di conducibilità elettrica 4. misure dell indice di rifrazione 5. metodi dilatometrici 6. misure di variazione di pressione (in fase gas) infine nel caso di reazioni rapide (microsecondi) si possono usare metodi basati su sistemi a flusso o metodi di rilassamento (vedi oltre)

202 14.1. VELOCITÀ DI REAZIONE E LEGGE CINETICA 201 Soprattutto nel caso di reazioni rapide in soluzioni di interesse biologico (come per esempio le reazioni enzimatiche), il controllo delle condizioni iniziali, la termostatazione del sistema etc. richiede apparati e metodi ad hoc. Una parziale soluzione è data dal metodo di flusso interrotto: i reagenti vengono fatti fluire insieme e mescolati in un tempo molto rapido. Il flusso viene interrotto in modo estremamente veloce e i reagenti o i prodotti presenti nella camera di mescolamento sono analizzati con metodologie appropriate, di solito spettroscopiche. La determinazione esatta del tempo di inizio della reazione è di Figura 14.1: Schema di un apparato a flusso interrotto per lo studio di cinetiche enzimatiche. difficile determinazione, perchè deve tenere conto del tempo di mescolamento dei reagenti e del tempo di eliminazione delle turbolenze nel reattore. L analisi del dato sperimentale è particolarmente difficile poichè per esempio un rapido mescolamento comporta un maggior tempo di eliminazione delle turbolenze (cioè il raggiungimento di un equilibrio meccanico) e viceversa.

203 202 CAPITOLO 14. CINETICA CHIMICA: DEFINIZIONI E METODI 14.2 Ordine di reazione Fin qui, è stato definito un oggetto di studio sperimentale - la velocità di reazione - vale a dire una quantità misurabile sperimentalmente e soggetto ad interpretazione, cioè un osservabile. I dati sperimentali a nostra disposizione, quando si voglia svolgere uno studio di cinetica di reazione, sono di solito di questo tipo: un insieme di specie chimiche note è presente in un ambiente controllato (reattore) e le loro concentrazioni variano nel tempo; sono noti (per esempio sotto forma di tabelle o grafici) gli andamenti delle concentrazioni o delle loro derivate temporali (velocità). Supponiamo di sapere che in un reattore esistono (sono osservabili) le sostanze chimiche C 1, C 2 etc., legate da una reazione chimica, che può corrispondere a vari processi elementari. Una serie di misure sperimentali accurate permettono di ricavare la seguente legge cinetica per la velocità di formazione/scomparsa della specie i esima C 1 i dc i dt = F i(c 1, c 2..., c M ) (14.8) la legge cinetica è quindi la relazione, osservata sperimentalmente, tra la velocità di una specie e le concentrazioni di tutte od alcune specie presenti. In molti casi - ma non sempre - la legge cinetica relativa ad una specie chimica può essere scritta nella forma dc i dt = kca 1 1 ca ca M M (14.9) Si dice in questo caso che la reazione chimica complessiva del sistema è di ordine a = a 1 + a a M rispetto alla specie C i, con una costante cinetica k. Per esempio, nel caso visto in precedenza della sintesi di NO 2, si osserva sperimentalmente che d[no] = k[no] 2 [O 2 ] (14.10) dt e quindi si dice che la reazione è del terzo ordine ordine rispetto al monossido di azoto, con una costante di velocità pari a k; le dimensioni delle costanti di velocità dipendono dalla definizione della concentrazione e dall ordine: per esempio, se si usano le molarità, per una reazione del primo ordine [k] = s 1, per una reazione del secondo ordine [k] = mol 1 dm 3 s 1 etc.; per una reazione di ordine generico a, le dimensioni sono [k] = s 1 (mol/dm 3 ) 1 a. L ordine di una reazione chimica è un dato sperimentale, e può anche non essere definibile. Consideriamo per sempio la sintesi dell acido bromidrico H 2 +Br 2 2HBr. Un analisi accurata della velocità di formazione dell acido bromidrico porta a definire la seguente legge cinetica d[hbr] [H 2 ][Br 2 ] 1/2 = k 1 dt k 2 + [HBr] [Br 2 ] (14.11) e quindi non è possibile definire un ordine di reazione rispetto all acido bromidrico. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le reazioni chimiche sono descritte da cinetiche apparentemente semplici di primo o secondo ordine. 1 D ora in avanti, in mancanza di altri chiarimenti, impieghiamo il simbolo C i per indicare una sostanza chimica e c i per indicarne la concentrazione, di solito intesa come molarità [C i]

204 14.2. ORDINE DI REAZIONE Molecolarità A differenza dell ordine di reazione, la molecolarità è definita esclusivamente per una reazione elementare. Data infatti una reazione elementare con M reagenti, che scriviamo ora nella sua forma reagenti prodotti r 1 R 1 + r 2 R p 1 P 1 + p 2 P (14.12) la molecolarità è data dal numero totale di molecole di reagenti, m = r 1 + r r M che partecipano alla reazione elementare. La molecolarità è importante perchè coincide con l ordine di reazione della reazione elementare,. In altre parole, per una reazione elementare possiamo sempre scrivere v = 1 r i d[r i ] dt = 1 p j d[p j ] dt = k[r 1 ] r 1... [R M ] r M (14.13) Per esempio, per la reazione elementare di sintesi dell ossido di azoto da monossido di azoto e ozono NO + O 3 NO 2 + O 2 la velocità di reazione è esattamente v = k[no][o 3 ] (14.14) con una molecolarità pari a due. Il motivo dell identità ordine di reazione/molecolarità per una reazione elementare è nella natura stessa di una reazione elementare, che si deve interpretare come un evento concertato in cui le molecole dei reagenti si incontrano e reagiscono (generando di solito un complesso attivato o stato di transizione, vedi oltre); la velocità di scomparsa di un reagente o di formazione di un prodotto dipende perciò dalla probabilità che le molecole di reagenti si incontrino per dare luogo alla reazione, proporzionale al prodotto delle rispettive concentrazioni elevate ai rispettivi coefficienti stechiometrici. È abbastanza evidente che reazioni di molecolarità superiori a tre sono molto rare (in pratica inesistenti): maggiore è il numero di molecole coinvolte in una reazione, minore è la probabilità che si incontrino contemporaneamente. La maggior parte delle reazioni elementari sono monomolecolari o bimolecolari, in pochi casi trimolecolari Esempi Analizziamo i questa sezione, con alcuni esempi, varie reazioni (elementari e non) di primo, secondo e terzo ordine. La discussione di meccanismi di reazione più o meno complessi è riservata al capitolo successivo, insieme all analisi di alcuni esempi specifici (reazioni a catena, catalisi). Primo ordine Una reazione chimica al primo ordine rispetto ad una specie chimica è caratterizzata da ordine pari ad uno. Consideriamo una reazione monomolecolare generica, che indichiamo con R p 1 P 1 + p 2 P (14.15) in cui la molecola di reagente R genera i prodotti P 1, P 2 etc. La reazione è del primo ordine. La legge cinetica è perciò v = d[r] dt = 1 p 1 d[p 1 ] dt = 1 p 2 d[p 2 ] dt... = k[r] (14.16)

205 204 CAPITOLO 14. CINETICA CHIMICA: DEFINIZIONI E METODI Consideriamo una reazione generica del tipo R prodotti che segue una legge al primo ordine v = k[r]. Siano per semplicità x(t) = c 0 [R] le moli per decimetro cubo di reagente che si sono consumate al tempo t, con la condizione iniziale che al tempo t = 0 la concentrazione del reagente valga c 0 = [R] t=0. La legge cinetica può essere scritta come un equazione differenzanziale lineare di primo ordine ai cofficienti costanti: dx dt = k(c 0 x) (14.17) x(0) = 0 (14.18) L equazione (14.17) si risolve separando le variabili x e t ed integrando dx x c 0 x = kdt 0 ln t (c 0 u)du = k 0 ) ( c0 c 0 x dτ = kt x = c 0 (1 e kt ) [R] = [R] 0 e kt (14.19) La dipendenza dal tempo, in forma integrata, della concentrazione di una specie che segue una legge cinetica del prima ordine, è esponenziale. Una grandezza utile per caratterizzare una cinetica chimica è il cosidetto tempo di dimezzamento t 1/2, cioè il tempo necessario perchè la specie chimica sotto esame raggiunga una concentrazione pari alla metà di quella iniziale. Nel caso di una cinetica al primo ordine, ponendo [R] = [R] 0 /2 nella relazione precedente, si ottiene un valore di t 1/2 pari a t 1/2 = ln 2 k (14.20) In una reazione al primo ordine il tempo di dimezzamento è indipendente dalla concentrazione iniziale. Per esempio per una reazione al primo ordine con k = s 1, il tempo necessario per dimezzare una qualunque concentrazione iniziale di reagente è sempre ln 2/ = s. La maggior parte delle reazioni monomolecolari sono isomerizzazioni o decomposizioni: es. isomerizzazione del ciclopropano a propano, ionizzazione di un alogenuro alchilico e così via. Più in generale, cinetiche al primo ordine sono osservate spesso in natura per numerose reazioni chimiche non elementari. Per esempio nelle reazioni di sostituzione nucleofila di un alogenuro ad un carbonio alifatico secondo il meccanismo S N 1, alla reazione complessiva RX + Y k RY + X (14.21) corrisponde la cinetica al primo ordine v = d[rx] dt = k[rx] [RX] = [RX] 0 e kt (14.22) che però è il risultato di un meccanismo di reazione formato da tre reazioni elementari. Un altro caso molto importante di reazioni al primo ordine, in questo caso senz altro monomolecolari, è dato dai decadimenti di nucleotidi radioattivi, come per esempio Ra k Rn + α (14.23)

206 14.2. ORDINE DI REAZIONE 205 cui corrisponde la legge v = d[ra] dt = d[rn] dt = k[ra] [Ra] = [Ra] 0 e kt (14.24) mentre il prodotto segue la legge (ricordando che [Ra] + [Rn] = [Ra] 0 ) ( [Rn] = [Ra] 0 1 e kt) (14.25) Figura 14.2: Decadimento radio/radon Il diagramma del logaritmo della concentrazione di una specie che segua un decadimento del primo ordine contro il tempo è un diagramma lineare, la cui pendenza è la costante di decadimento con il segno cambiato (per esempio nell esempio generico iniziale, che ln[r] = ln[r] 0 kt). Secondo ordine In una reazione cinetica caratterizzata da una legge al secondo ordine la somma degli esponenti è due. Consideriamo una reazione bimolecolare generica, che indichiamo con R 1 + R 2 p 1 P 1 + p 2 P (14.26) in cui le molecole di reagente R 1 e R 2 generano i prodotti P 1, P 2 etc. La reazione è del secondo ordine. La legge cinetica è perciò v = d[r 1] dt = d[r 2] dt = 1 p 1 d[p 1 ] dt = 2 p 2 d[p 2 ] dt... = k[r 1 ][R 2 ] (14.27) R 1 ed R 2 possono anche ovviamente essere due molecole della stessa specie 2R p 1 P 1 + p 2 P (14.28)

207 206 CAPITOLO 14. CINETICA CHIMICA: DEFINIZIONI E METODI in cui due molecole di reagente R generano i prodotti P 1, P 2 etc. La legge cinetica è sempre del secondo ordine v = 1 d[r] = 1 d[p 1 ] = 1 d[p 2 ]... = k[r] 2 (14.29) 2 dt p 1 dt p 2 dt Proviamo a trovare le leggi cinetiche integrate di due reazioni chimiche che seguano rispettivamente la legge (14.27) e (14.28). Nel primo caso, R 1 + R 2 prodotti, sia x(t) le moli per decimetro cubico di reagente 1 che hanno reagito, pari evidentemente alle moli di reagente 2 che hanno reagito; come condizioni iniziali abbiamo c 10 = [R 1 ] 0 e c 20 = [R 2 ] 0 per i due reagenti. La legge cinetica è dx dt = k(c 10 x)(c 20 x) (14.30) x(0) = 0 (14.31) Separando le variabili x e t si ottiene la legge integrata 1 = ln c 20(c 10 x) = kt (14.32) c 10 c 20 c 10 (c 20 x) Nel secondo caso, un po più semplice, siano x(t) = c 0 [R] le moli per decimetro cubo di reagente che si sono consumate al tempo t, con la condizione iniziale che al tempo t = 0 la concentrazione del reagente valga c 0 = [R] t=0. La legge cinetica è (ponendo k = 2k per semplicità) dx dt = k(c 0 x) 2 (14.33) x(0) = 0 (14.34) che risolta permette di ottenere l andamento di x x c 0 (c 0 x) = kt 1 [R] 1 = kt (14.35) [R] 0 In questo caso possiamo per esempio calcolare facilmente il tempo di dimezzamento, che vale t 1/2 = 1 k[r] 0 (14.36) e dipende quindi dalla concentrazione iniziale. Gli esempi di reazioni elementari bimolecolari sono moltissimi, ed anche di più sono i casi di meccanismi molecolari o reazioni complesse che esibiscono cinetiche dl secondo ordine. Per sempio le sostituzioni nucleofile S N 2 sono caratterizzate da cinetiche del secondo ordine: la reazione osservata è ancora la (14.21), per la sostituzione di un gruppo alogenuro ad un carbonio alifatico, ma la cinetica osservata è v = d[rx] dt = k[rx][y ] (14.37) Le cinetiche di secondo ordine corrispondono spesso a meccanismi di reazione complessi; nel caso, visto in precedenza, della sintesi del biossido di azoto, la cinetica è del secondo ordine, ma corrisponde ad un meccanismo di reazione con tre passaggi elementari.

208 14.2. ORDINE DI REAZIONE 207 Reazioni di ordine superiore a due Reazioni di ordine superiore a due sono piuttosto rare, e sono praticamente sempre il risultato di un meccanismo di reazione complesso, piuttosto che di una singola reazione elementare che comporti il contemporaneo incontro reattivo di tre o più corpi. È piuttosto complicato, e di utilità minima, considerare esplicitamente tutti i casi possibili, che comunque sono risolvibili con i metodi semplici di analisi matematica accennati in precedenza. Consideriamo come esempio un ipotetica reazione elementare del tipo 2R 1 + R 2 prodotti; siano [R 1 ] 0 = c 10 e [R 2 ] 0 = c 20 le concentrazioni iniziali dei reagenti; siano x le moli per decimetro cubo di reagente 2 che si sono consumate al tempo t (e quindi 2x le moli per decimetro cubo che si sono consumate di reagente 1); la legge cinetica in forma differenziale è dx dt = k(c 10 2x) 2 (c 20 ) (14.38) con la solita condizione x(0) = 0. Integrando, otteniamo [ 1 2x(2c20 c 10 ) (2c 20 c 10 ) 2 c 10 (c 10 2x) + ln c ] 20(c 10 2x) = kt (14.39) c 10 (c 20 x) Per una reazione generica R prodotti che segua la legge d[r] dt = k[r] n (14.40) con [R] 0 concentrazione iniziale ed n 2, la legge cinetica integrata è semplicemente 1 [R] n 1 1 [R] n 1 0 = (n 1)kt cui corrisponde un tempo di dimezzamento pari a t 1/2 = 1 ( ) 2 n n 1 k[r] n 1 0 (14.41) (14.42)

209 208 CAPITOLO 14. CINETICA CHIMICA: DEFINIZIONI E METODI

210 Capitolo 15 Applicazioni 15.1 Esempi di meccanismi di reazione L analisi della cinetica di una reazione chimica non elementare è uno studio complesso, che però fornisce molte informazioni indirette sul meccanismo della reazione stessa, (cioè sull insieme di reazioni elementari che sono responsabili della reazione effettivamente osservata). Lo studio della cinetica chimica da un punto di vista teorico è profondamente correlato ai principi della meccanica statistica. In questa raccolta di appunti non considereremo queste problematiche in modo approfondito, limitandoci a descrivere alcuni esempi comuni di meccanismi di reazione che si incontrano comunemente, soprattutto in ambito biochimico. Nel seguito quindi defineremo un insieme di reazioni elementari e commenteremo le leggi cinetiche risultanti per le varie specie chimiche coinvolte, discutendo brevemente alcuni esempi Equilibrio Il primo caso che intendiamo analizzare è quello di un semplice equilibrio chimico. Consideriamo due reazioni bimolecolari, una opposta all altra, che coinvolgano per semplicità due reagenti e due prodotti R 1 + R 2 P 1 + P 2 (15.1) l espressione precedente deve essere letta come l affermazione che avvengano contemporaneamente sia la reazione diretta che la reazione inversa R 1 + R 2 P 1 + P 2 k d P1 + P 2 k i R1 + R 2 (15.2) (15.3) con due costanti di velocità k d e k i. La velocità di formazione/scomparsa delle varie specie è calcolata, in un meccanismo di reazione, come la somma delle velocità ottenute da ciascuna reazione elementare. Così per esempio, le velocità relativa alla concentrazione di R 1 ed R 2 sono d[r 1 ] dt = d[r 2] dt = k d [R 1 ][R 2 ] + k i [P 1 ][P 2 ] (15.4) 209

211 210 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI la velocità relativa alla concentrazione di P 1 e P 2 sono uguali ed opposte etc. In condizioni di equilibrio le concentrazioni delle varie specie devono restare costanti, quindi le loro velocità di formazione/scomparsa devono essere pari a zero. ne consegue che d[r 1 ] dt = d[r 2] dt = k d [R 1 ][R 2 ] + k i [P 1 ][P 2 ] = 0 [P 1][P 2 ] [R 1 ][R 2 ] = k d k i (15.5) Se consideriamo la reazione chimica (15.1) come un processo stechiometrico indpendente in una soluzione ideale in condizioni di equilibrio termodinamico, vale la relazione 1 K = [P 1][P 2 ] [R 1 ][R 2 ] (15.6) da cui consegue l identità K = k d k i (15.7) che correla direttamente le costanti di velocità e la costante di equilibrio. Sia pure con una certa cautela, e tenendo conto in casi più generali della deviazione dall idealità, dalla presenza di altre reazioni elementari etc., è quindi spesso possibile mettere in relazione costanti di equilibrio e costanti cinetiche. Spesso per esempio la misura della costante di velocità diretta è relativamente semplice, mentre quella della costante di velocità è di difficile attuazione; l uso della relazione (15.1), insieme alla conoscenza della costante di equilibrio (che può essere nota a partire da dati termochimici) consente di determinare k i Reazioni consecutive Uno schema di reazione molto importante è dato dalle reazioni consecutive. Discutiamo nel seguito in dettaglio il caso di tre specie chimiche R 1, R 2 ed R 3 legate da due processi chimici elementari monomolecolari k R a k b 1 R2 R3 (15.8) Siano x 1, x 2 ed x 3 le concentrazioni al tempo t delle tre sostanze. Valgono le tre equazioni differenziali dx 1 dt dx 2 dt dx 3 dt = k a x 1 = k a x 1 k b x 2 = k b x 3 (15.9) Si può notare che dx 1 dt + dx 2 dt + dx 3 dt (15.10) che non è altro che l affermazione che non si possono creare nuove molecole, ma solo, in base al meccanismo dato, trasformare 1 in 2 e 2 in 3. Come condizione iniziale, assumiamo che al tempo t = 0 sia presente 1 Esprimendo le molalità o le frazioni molari, impiegate per descrivere solitamente la soluzione, in termini di molarità

212 15.1. ESEMPI DI MECCANISMI DI REAZIONE 211 solo la specie 1, con una concentrazione c 0. La soluzione di questo insieme di equzioni lineari a coefficienti costanti è relativamente semplice. Si ottiene x 1 = e k at k a c [ ] 0 x 2 = e (k b k a )t 1 k b k a x 3 = c 0 ( e k bt 1 k be kat k b k a k ae kbt k b k a ) (15.11) Con un po di attenzione si può notare come gli andamenti di x 1, x 2 e x 3 corrispondano ad una scomparsa esponenziale di 1, alla formazione e successiva scomparsa dell intermedio 2, ed alla formazione di 3. Tra le reazioni che seguono il meccanismo appena illustrato troviamo per esempio la pirolisi dell acetone (CH 3 ) 2 CO CH 2 = CO + CH 4 CH 2 = CO 1 2 C 2H 4 + CO La concentrazione del chetene intermedio aumenta fino ad un massimo e poi diminuisce fino a scompa- Figura 15.1: Reazioni consecutive: k b /k a = 0.5. rire. In generale la concentrazione dell intermedio è tanto più piccola quanto maggiore è il rapporto tra k b (che misura la rapidità con cui l intermedio scompare) e k a (che misura la rapidità con cui l intermedio si forma). Nelle due Figure è riportata la concentrazione delle tre specie per c 0 = 1 e k b /k a = 0.5 e 10, rispettivamente: nel secondo caso la concentrazione dell intermedio è molto bassa. In questo caso la reazione può esser descritta in pbuoina approssimazione da una reazione del primo ordine con costante di velocità pari al valore del passaggio più lento (k a ): la formazione dell intermedio agisce da collo di bottiglia della reazione complessiva e controlla la cinetica. Il meccanismo delle reazioni consecutive può essere anche adottato per sequenze di reazioni elemenatri superiori a due: nel caso del decadimento radioattivo da 238 U a 206 Pb troviamo ben quattordici decadimenti successivi.

213 212 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI Figura 15.2: Reazioni consecutive: k b /k a = Reazioni parallele Consideriamo infine il caso di una sostanza che possa partecipare a varie reazioni chimiche elementari, generando diversi prodotti; esempi numerosi sono dati per esempio da reazioni di decomposizione di composti organici che generano più prodotti contemporaneamente. Per semplicità supponiamo di avere due prodotti ottenuti dallo stesso reagente mediante due reazioni monomolecolari: k 1 P1 R k 2 P2 (15.12) Se inizialmente la concentrazione del reagente è c 0, le concentrazioni dei prodotti, che indichiamo con x 1 e x 2, seguono la legge dx 1 dt dx 2 dt = k 1 (c 0 x 1 x 2 ) (15.13) = k 2 (c 0 x 1 x 2 ) (15.14) e sotto la condizione che le concentrazioni iniziali dei due prodotti siano nulle otteniamo: x 1 = x 2 = k 1 c [ ] 0 1 e (k 1+k 2 )t (15.15) k 1 + k 2 k 2 c [ ] 0 1 e (k 1+k 2 )t (15.16) k 1 + k 2 da cui possiamo osservare che x 1 /x 2 = k 1 /k 2 : il rapporto tra le concentrazioni resta costante e pari al rapporto tra le costanti di velocità (ma nel caso di reazioni elementari di ordine superiore la relazione non è così semplice). Un esempio semplice è dato dalla disidratazione di alcol etilico ad etilene ed aldeide acetica k 1 C2 H 4 + H 2 O C 2 H 5 OH k 2 CH3 CHO + H 2

214 15.1. ESEMPI DI MECCANISMI DI REAZIONE 213 Figura 15.3: Decadimento dell uranio 238.

215 214 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI La composizione della miscela dei prodotti è determinata dal rapporto tra le costanti di velocità delle reazioni parallele, che competono fra loro: l uso di opportune condizioni (temperatura, impiego di catalizzatori etc.) permette di aumentare la concentrazione dell uno o dell altro prodotto Reazioni a catena Passiamo ora a discutere due esempi molto importanti di meccanismi di reazione che trovano molte applicazioni nell intepretazione di sistemi complessi, anche di natura biologica. Il primo eszempio che analizzremo nel dettaglio è dato dalle reazioni a catena. Una reazione a catena è una sequenza di eventi reattivi elementari che è descrivibile con il seguente schema, abbastanza generale 1. Inizio della catena: una o più reazioni elementari che producono molecole in grado di iniziare la catena 2. Propagazione della catena: una o più reazioni che producono intermedi di reazione che propagano in modo ciclico la catena, e prodotti 3. Inibizione della catena: reazioni che producono intermedi di propagazione ed altre specie, non prodotti 4. Terminazione della catena: reaazioni che provocano la scomparsa dei propagatori Le reazioni a catena possono dare luogo a leggi cinetiche piuttosto complesse, e rappresentano meccanismi di reazione abbastanza diffusi in natura. Come esempio consideriamo la sintesi dell acido bromidrico a partire dagli elementi, in fase gas. La reazione chimica complessiva è H 2 + Br 2 2HBr (15.17) Sperimentalmente, la velocità di formazione dell acido bromidrico segue la legge, piuttosto strana a prima vista: d[hbr] dt = k a[h 2 ][Br 2 ] 1/2 k b + [HBr] [Br 2 ] (15.18) quando la costante empirica k b è molto maggiore di [HBr]/[Br 2 ], la legge cinetica approssimata che risulta è di ordine 3/2; all inizio della reazione, quando la concentrazione di acido bromidrico è bassa, prevale quindi questa legge semplificata. Successivamente l acido bromidrico che si accumula agisce da inibitore, cioè diminuisce la velocità di reazione. L interpretazione della legge (15.18) è possibile con il seguente meccanismo a catena k Br 1 2 k Br + H 2 2 k H + Br 3 2 H + HBr 2Br k 4 k 5 2Br HBr + H HBr + Br H2 + Br Br2

216 15.2. REAZIONI A CATENA 215 La prima reazione elementare produce atomi di bromo, che propagano la catena insieme agli atomi di idrogeno nella seconda e terza reazione; la quarta reazione inibisce la catena e la quinta la termina. Per dedurre dal meccanismo la legge cinetica, invece di ricorrere ad una soluzione esatta che è impossibile da ottenere (anche se si può ricorrere ad una soluzione numerica), adottiamo un approssimazione di grande utilità, anche successivamente, detta approssimazione dello stato stazionario (SS): nel caso in un meccanismo di reazione siano presenti specie transienti, che non compaiono cioè tra i reagenti ed i prodotti osservati a concentrazioni apprezzabili sperimentalmente, assumiamo che la loro concentrazione sia costante, cioè che la loro velocità di formazione/scomparsa sia nulla. La giustificazione formale dell ipotesi dello stato stazionario esula dai limiti di questo corso, e trova le sue basi più solide nella trattazione della termodinamica dei processi di non-equilibrio. Qui possiamo limitarci a considerare lo SS come una generalizzazione dell osservazione che abbiamo fatto nel caso delle tre reazioni consecutive al primo ordine: in quell occasione abbiamo visto che in condizioni opportune la concentrazione della specie intermedia poteva essere trascurata, o meglio, era possibile trascurare la sua variazione tranne che negli istanti iniziali. Analogamente, nella maggior parte dei casi di interesse, l ipotesi SS può essere applicata alle specie chimiche labili o transienti di un meccanismo complesso. Nel caso in questione, applichiamo l ipotesi dello SS alle specie atomiche H e Br. Segue dalla defizione delle loro velocità di reazione d[br] = 2k 1 [Br 2 ] k 2 [Br][H 2 ] + k 3 [H][Br 2 ] + k 4 [H][HBr] 2k 5 [Br 2 ] = 0 (15.19) dt d[h] = k 2 [Br][H 2 ] k 3 [H][Br 2 ] k 4 [H][HBr] = 0 (15.20) dt da queste due equazioni possiamo ricavare le concentrazioni di bromo e idrogeno che sostituiamo nell espressione per la velocità di reazione del prodotto, HBr: d[hbr] dt = k 2 [Br][H 2 ] + k 3 [H][Br 2 ] k 4 [H][HBr] (15.21) Il risultato è: d[hbr] dt = 2k1/2 1 k 2 k 3 k4 1 k 1/2 5 [H 2 ][Br 2 ] 1/2 k 3 k4 1 + [HBr] [Br 2 ] (15.22) che ha la stessa forma della (15.18), ma che ci permette di esprimere le costanti empiriche k a e k b in funzione delle costanti delle reazioni elementari della catena Reazioni di polimerizzazione e reazioni esplosive Una delle applicazioni più importanti del meccanismo delle reazioni a catena è l interpretazione delle reazioni di polimerizzazione, in cui una molecola (polimero) si forma per accrescimento assorbendo unità molecolari (monomeri). Le reazioni di polimerizzazione sono di grande importanza per varie produzioni industriali, per lo più di materie plastiche: ricordiamo per esempio la sintesi del polistirene dallo stirene, del teflon dal tetrafluoroetilene, del PVC dal cloruro di vinile e così via. Ma le reazioni di polimerizzazione sono anche fondamentali per la biochimica: le proteine sono fondamentalmente polimeri formati da unità fondamentali

217 216 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI monomeriche (gli amminoacidi); da un certo punto di vista il DNA può essere visto come un polimero di quattro molecole fondamentali etc. 2 Le reazioni di polimerizzazione possono essere ricondotte ad un meccanismo generale della forma Reazione Tipologia Velocità? R Iniziazione r i R + M R R i + M R i+1 Propagazione k p [M][R i ] R i + R j? Terminazione k t [R i ][R j ] Il propagatore di catena in questo caso è proprio il polimero in fase di accrescimento, che ingloba un monomero dopo l altro, fino a subire una terminazione che dipende dalla concentrazione del monomero, dalle condizioni di temperatura e pressione etc. È evidente che in una reazione di polimerizzazione il prodotto può essere costituito da catene di diversa lunghezza, con una conseguente distribuzione di pesi molecolari. Si noti che le polimerizzazioni possono avvenire per via radicalica (in cui il meccanismo di propagazione avviene, come nel caso della sintesi dell acido bromidrico, mediante radicali liberi) o per via ionica mediante ioni (sia cationi - polimerizzazione del vinilbenzene in presenza di acidi forti - che anioni - polimerizzazione dello stirene in ammoniaca liquida). Infine, la teoria delle reazioni a catena permette di interpretare varie caratteristiche delle reazioni esplosive: si tratta di reazioni che decorrono in modo molto rapido, spessa con una notevole liberazione di calore (reazioni esotermiche), cosa che può contribuire ad aumentare ulteriormente la velocità di reazione (vedi oltre). In effetti, lo sviluppo di calore ed il conseguente aumento delle costanti di velocità è solo uno dei possibili motivi per cui alcuni reazioni esibiscono un comportamento esplosivo. In molti casi, infatti, una reazione esplosiva avviene a causa della formazione di catene ramificate, con il seguente schema R k 1 P 1 P 1 + A k 2 P 2 + αp 1 k P 3 1 prodotti vari Se il parametro α è maggiore di 1 la produzione di P 1 aumenta in modo considerevole (il propagatore di catena P 1 assume il ruolo di pseudo-catalizzatore della reazione). L influenza di fattori esterni, come la pressione, può fare cambiare drammaticamente l andamento di una reazione esplosiva; nel caso della sintesi dell acqua a partire da idrogeno ed ossigeno, per esempio, esistono due limiti di pressione, inferiore e superiore, che delimitano zone di pressione a cui la reazione avviene oppure non avviene in modo esplosivo. La corretta comprensione di questi meccanismi complessi dipende da vari fattori, tra i quali la definizione di tutti i processi elementari e la dipendenza delle costanti di velocità dalla temperatura. 2 Anche se la biochimica della sintesi naturale delle macromomolecole biologiche è del tutto diversa da quella discussa brevemente in questa sezione

218 15.2. REAZIONI A CATENA 217 Figura 15.4: Limiti di esplosione di una miscela stechiometrica idrogeno-ossigeno.

219 218 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI 15.3 Catalizzatori ed inibitori Catalisi omogenea ed eterogenea Secondo Wilhelm Ostwald (premio Nobel 1909, docente di Arrhenius, van t Hoff e Nerst) un catalizzatore è una sostanza che fa variare la velocità di una reazione chimica, senza comparire essa stessa nel prodotti finali. Un catalizzatore ha la caratteristica di abbassare l energia richiesta alle molecole di reagenti per trasformarsi in prodotti: come si potrà capire meglio in seguito, il catalizzatore abbassa l energia di attivazione di una reazione elementare. Se l unico effetto di una catalizzatore è di cambiare la velocità di una reazione chimica (elementare), riducendone l energia di attivazione, anche la reazione opposta subisce lo stesso effetto. Un catalizzatore non cambia però la natura (l energia libera) dei reagenti e dei prodotti: di conseguenza l equilibrio chimico resta lo stesso. Il complesso di fenomeni e processi chimici generati da un catalizzatore va sotto il nome generale di catalisi. Si possono distinguere catalisi eterogenee ed omogenee. Le prime avvengono in corrispondenza delle interfacce tra fasi diverse, tipicamente solido//liquido o solido/gas. Le seconde avvengono in fasi omogenee (soluzioni). Esempi di catalisi eterogenea sono la sintesi di Haber (sintesi dell ammoniaca a partire dagli elementi), che è catalizzata da ferro metallico, o l idrogenazione dei legami insaturi carbonio-carbonio, catalizzata dal nichel. I fenomeni di catalisi eterogenea sono complessi; sono fattori discriminanti: 1. la diffusione dei reagenti sulla superficie del catalizzatore 2. l adsorbimento ed il deadsorbimento dei composti di reazione sulla superficie del catalizzatore, 3. la reazione chimica vera e propria, che avviene tra le molecole vincolate 4. il deadsorbimento dei prodotti e la loro successiva diffusione Lo studio delle catalisi eterogenee è molto importante per la maggior parte delle applicazioni industriali (per esempio il cracking degli idrocarburi, la sintesi di materiali plastici etc.). Le catalisi omogenee hanno invece luogo all interno di una fase (di solito liquida o gassosa). Gli esempi sono moltissimi, e comportano sempre la realizzazione di un meccanismo di reazione alternativo (alla singola reazione chimica elementare od al meccanismo che si verifica in assenza di catalizzatore). Un esempio istruttivo è dato dalla decomposizione dell acqua ossigenata H 2 O 2 (aq) + I (aq) OI (aq) + H 2 O(l) H 2 O 2 (aq) + OI (aq) H 2 O(l) + O 2 (g) + I (aq) L anione iodio catalizza la reazione di decomposizione generando l intermedio IO, che rigenera successivamente l anione Reazioni enzimatiche La natura fa ampio uso di catalizzatori altamente specifici, i cosidetti enzimi. Può apparire banale, ma è bene ricordare che non esistono laboratori chimici che funzionino con l efficienza, la velocità e il controllo dei processi di una cellula vivente. In buona misura ciò è dovuto al fatto che ogni reazione chimica è controllata

220 15.3. CATALIZZATORI ED INIBITORI 219 Figura 15.5: Catalisi eterogenea: idrogenazione del legame -C=C-.

221 220 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI Figura 15.6: Schema generale del meccanismo di una catalis enzimatica. da un catalizzatore ad hoc, un enzima appunti, formato da una proteina più o meno complessa (che può essere un oligopeptide od avere il peso molecolare di migliaia di Dalton). Senza pretendere di iniziare una trattazione approfondita delle catalisi enzimatiche (che deve essere affrontata da un punto di vista chimico, biochimico, fisico e matematico), questa sezione è dedicata ad un analisi del più semplice meccanismo di reazione per interpretare una tipica catalisi enzimatica: il modello o meccanismo di Michaelis-Menten (MM). Il modello spiega come inizialmente, all aumentare anche di poco della concentrazione del substrato disponibile all enzima, la velocit della reazione aumenti fino al raggiungimento di un massimo. In queste condizioni il substrato satura completamente l enzima presente, e quindi un ulteriore aggiunta di substrato non cambia apprezzabilmente la velocità. Indichiamo l enzima libero con E il substrato S ed il complesso enzima-substrato con ES; il complesso si scompone liberando l enzima e generando il prodotto P. Lo schema MM è dunque dato da una coppia di reazione opposte (non un pre-equilibrio) seguito da una reazione monomolecolare: E + S k 1 k ES 2 E + P k 1 (15.23) Applicando l ipotesi SS all intermedio ES, otteniamo: d[es] dt = k 1 [E][S] k 1 [ES] k 2 [ES] 0 (15.24) quindi la concentrazione di complesso enzima-substrato è data dall espressione: [ES] = k 1[E][S] k 1 + k 2 = [E][S] K m (15.25) dove si definisce la costante di Michaelis K m = k 1 + k 2 k 1 (15.26)

222 15.3. CATALIZZATORI ED INIBITORI 221 Figura 15.7: Velocità di reazione di una catalis enzimatica. La velocità della reazione (formazione del prodotto, ovvero scomparsa del substrato) è ottenuta come v = d[s] dt = k 2 [ES] = k 2[E][S] K m (15.27) Sperimentalmente è nota la sola concentrazione iniziale dell enzima [E] 0, ed è conveniente esprimere la velocità in funzione di questo parametro. Dato che vale il bilancio di massa [E] + [ES] = [E] 0, si trova che: [ES] = [E 0][S] K m + [S] (15.28) e quindi si ottiene l equazione di Michaelis-Menten v = k 2[E 0 ][S] K m + [S] (15.29) La velocità massima di reazione si raggiunge per [S] K m : V max = k 2 [E] 0 (15.30) È conveniente convertire l equazione di Michaelis-Menten in una relazione lineare tra l inverso della velocità di reazione e l inverso della concentrazione del substrato 1 v = K m V max 1 [S] + 1 V max (15.31) La relazione così ottenuta permette di rappresentare la cinetica enzimatica sotto forma di un diagramma di Lineweaver-Burk.

223 222 CAPITOLO 15. APPLICAZIONI

224 Capitolo 16 Calcolo delle costanti cinetiche 16.1 Dipendenza della costante di velocità dalla temperatura La dipendenza delle costanti cinetiche dalla temperatura è uno dei fenomeni più studiati della chimica fisica, sia da un punto di vista sperimentale, dato che ovviamente la variazione della costante di velocità di una reazione al variare della temperatura consente di controllare in qualche misura l andamento della reazione stessa, che teorico: la comprensione delle cause, a livello atomico-molecolare, delle variazioni delle costanti cinetiche è in pratica al centro dello studio teorico delle reazioni chimiche. Lo studio sperimentale delle costanti cinetiche in funzione della temperatura è stato iniziato da Svante Arrhenius, che già nel 1889 propone la seguente relazione generale per descrivere la dipendenza dalla temperatura di una costante cinetica k per una reazione elementare ( k = A exp E ) a RT (16.1) dove A è il fattore preesponenziale o fattore di frequenza, ed E a è l energia di attivazione. Il diagramma logaritmico della costante di velocità contro 1/T è una retta, la cui pendenza è pari a E a /R e la cui intercetta è il logaritmo di A: la verifica della legge di Arrhenius è quindi relativamente semplice, ed è possibile verificare che, purchè la reazione sia effettivamente elementare, la legge descrive piuttosto bene l andamento di k rispetto a T. L interpretazione intuitiva ma sostanzialmente corretta della legge di Arrhenius è la seguente: una reazione chimica avviene solo quando le molecole di reagente hanno una energia superiore ad una data reazione di soglia, l energia di attivazione. Il numero di molecole con un energia superiore ad un valore dato E a è proporzionale al fattore di Boltzmann (vedi la parte VII di questa serie di dispense) exp( E a /RT ); la costante di velocità dipenderà quindi da questo termine e da altri fattori (legati essenzialmente alle proprietà steriche delle molecole), cumulativamente riassunti dal termine A. Una visualizzazione grossolana ma utile di una reazione chimica è data da un diagramma energia/coordinata di reazione. Supponendo di visualizzare il decorso di una reazione chimica come il moto di una particella lungo una curva di potenziale, la rappresentazione dell evento reattivo è data dal superamento della barriera energetica presente (la collina da superare) tra i reagenti (la valle in cui la particella risiede inizialmente) e i prodotti (la valle in cui la particella si viene a trovare alla fine). La coordinata di reazione che rappresenta l evoluzione della particella può essere pensata come una coordinata molecolare di qualche tipo (per esempio la distanza tra due atomi 223

225 224 CAPITOLO 16. CALCOLO DELLE COSTANTI CINETICHE Figura 16.1: Diagramma schematico energia/coordinata di reazione. od un angolo di legame) oppure come una combinazione complessa di coordinate; in casi semplici possiamo individuare una grandezza geometrica molecolare assimilabile ad una coordinata di reazione (per esempio una lunghezza di legame); nella maggior parte dei casi la coordinata di reazione è una funzione di più parametri geometrici. La descrizione della dinamica di una reazione consiste quindi, in questa visione intuitiva, nel prevedere i) la frequenza con cui la particella esce dalla buca (i reagenti raggiungono la cima della collina che li separa dai prodotti), ii) la frequenza con cui la particella supera la collina, proporzionale al fattore di Boltzmann. La legge di Arrhenius, pur essendo sostanzialmente corretta, è però un approssimazione della dipendenza complessiva di k da T : sia l energia di attivazione che il fattore preesponenziale presentano in realtà, sperimentalmente, una debole dipendenza dalla temperatura; inoltre la relazione dell espressione (16.1) con le caratteristiche elettroniche delle molecole reattive deve essere chiarita. La necessità di rispondere a queste e ad altre domande ha portato ad un grande sviluppo delle metodologie teoriche per il calcolo delle costanti cinetiche, la più nota delle quali è discussa ad un livello molto semplice nelle sezioni che seguono. Lo studente dovrebbe però però essere consapevole che saranno impiegati alcuni concetti (livelli energetici ed orbitali di una molecola, distribuzioni di probabilità, funzioni di ripartizione) che dovranno essere approfonditi in seguito Teoria dello stato di transizione In realtà una teoria delle velocità di reazione non può essere generale. Le reazioni monomolecolari per esempio devono essere in qualche modo essere trattate come casi a parte, ed dovrebbe essere chiaro che la reattività delle molecole è in generale diversa se considerata in fase gas o in soluzione. Nel seguito,

226 16.2. TEORIA DELLO STATO DI TRANSIZIONE 225 concentremo la nostra attenzione su una reazione bimolecolare, e molte delle considerazioni che faremo saranno sostanzialmente valide in fase gas. Consideriamo dunque una reazione bimolecolare A + B k P. Storicamente, il primo tentativo di prevedere la costante cinetica di una reazione è stato fondato sulla teoria delle collisioni: si tratta in pratica di un approccio statistico che tenta di valutare separatamente l importanza dei vari fattori che influenzano la costante k, vale a dire le caratteristiche di forma (fattore sterico) delle molecole A e B la velocità media con cui le molecole A e B si possono incontrare l energia minima (energia di attivazione) che le molecole devono possedere per dare luogo alla molecola P quando si incontrano L approccio statistico è di grande interesse, ma è di difficile applicazione a molecole complesse, ed in soluzione, anche se ha il pregio di essere un metodo rigoroso. Da un punto di vista applicativo, oggigiorno è considerato invece come paradigma un approccio più chimico nelle sue ipotesi di partenza, il cosiddetto modello dello stato di transizione (ST) o del complesso attivato. Per quanto sia il metodo correntemente più applicato, deve essere chiaro che l approccio ST è aperto a molte critiche, ed in realtà non è applicato nella sua formulazione originale, che qui seguiremo in modo abbastanza stretto, dovuta ad Eyring nel Tuttavia il metodo ST resta una teoria sufficientemente agile ed accurata per fornire almeno una interpretazione dell ordine di grandezza delle costanti cinetiche, ed è utile per un interpretazione sensata dei dati sperimentali. Alla base di qualunque interpretazione teorica delle proprietà delle costanti cinetiche è comunque, oggigiorno, una visione molecolare. Le molecole di reagenti e prodotti devono essere descritte come un sistema che evolve in modo continuo lungo una superficie di potenziale multidimensionale, che dipende da alcune coordinate nucleari del sistema stesso: l equivalente cioè del semplice diagramma energia/coordinata di reazione di cui abbiamo parlato in precedenza. La reazione è vista come la trasformazione degli stati legati degli atomi costituenti le molecole di reagenti (minimo iniziale) negli stati legati costituenti le molecole di prodotti (minimo finale) seguendo un cammino di reazione; le reazioni che avvengono su un unica superficie di potenziale sono dette reazioni adiabatiche. Esistono naturalmente reazioni, dette non-adiabatiche, in cui la reazione chimica coinvolge più di una superficie di energia potenziale: in questo caso l evento reattivo comporta il passaggio da una superficie potenziale all altra. Ricordiamo a questo proposito gli studi seminali di R.A. Marcus per l interpretazione dei fenomeni di trasferimento elettronico (1950). Ulteriori complicazioni sorgono, naturalmente, quando si considerino reazioni in soluzione in cui il sistema reattivo è fortemente influenzato dall accoppiamento con il solvente, ed in cui quindi il cammino di reazione non è definito dalla sola energia potenziale. Consideriamo dunque il caso di una reazione bimolecolare adiabatica, e non consideriamo esplicitamente l effetto dell intorno. In altri termini, consideriamo una reazione che avvenga in una fase gassosa perfetta. L ipotesi fondamentale dello ST formulata da Eyring è la seguente: la reazione decorre con la formazione di un intermedio non direttamente rilevabile, ma in equilibrio con i reagenti, che decade a prodotti. L ipotesi ST postula quindi che la formazione dell intermedio, ovvero dello stato di transizione, possa essere descritta come un pre-equilibrio, seguito dalla trasformazione vera e propria in prodotti. Lo schema della reazione è

227 226 CAPITOLO 16. CALCOLO DELLE COSTANTI CINETICHE Figura 16.2: Cammino di reazione. dunque A + B K AB ν P (16.2) dove K è la costante di equilibrio per la formazione dello ST, mentre ν è la frequenza di passaggio sopra la barriera da parte del complesso, per dare i prodotti: K = p AB p p A p B p AB = K p Ap B p (16.3) Esprimendo le pressioni parziali in funzione delle concentrazioni molari (come deriva dalla legge dei gas perfetti, p A = RT [A] etc.) si ottiene: [AB ] = RT p K [A][B] (16.4) La velocità di formazione dei prodotti è data dal prodotto di ν per la concentrazione dello ST: v = d[p ] dt = ν [AB ] = ν RT p K [A][B] (16.5) e poichè per una rezione bimolecolare abbiamo posto v = k[a][b], ne consegue che k = ν RT p K (16.6)

228 16.2. TEORIA DELLO STATO DI TRANSIZIONE 227 Figura 16.3: Formazione dello stato di transizione (pre-equilibrio) ed evoluzione a prodotti. Valutiamo ora, impiegando alcuni strumenti della termodinamica statistica 1 il prodotto ν K : in effetti, il grande vantaggio della teoria di Eyring consiste proprio nella possibilità di valutare, da proprietà molecolari, la costante di pre-equilibrio di formazione dello stato di transizione. La costante K è infatti ottenibile in funzione delle funzioni di ripartizione molecolari per unità di volume per le molecole A, B e per il complesso AB : K = N q q A q B e E 0/RT (16.7) dove E 0 rappresenta l energia di una mole di stato di transizione meno le energie di una mole di reagenti nel loro stato più basso: E 0 = E 0 (AB ) E 0 (A) E 0 (B); N è il numero di Avogadro. Le funzioni di ripartizione standard molari q sono somme pesate con i fattori di Boltzmann dei livelli energetici accessibili alle molecole, e come tali dipendono dalla struttura elettronica e nucleare delle molecole stesse. Nel caso dei reagenti A e B, il calcolo delle funzioni di ripartizione è sostanzialmente possibile, noti che siano i livelli energetici elettronici, vibrazionali e rotazionali delle molecole. Nel caso dello stato di transizione, è possibile separare un grado di libertà rilevante, di solito di natura vibrazionale. L evoluzione di questo grado di libertà rappresenta la rottura di un legame chimico, cioè il passaggio sopra la barriera di potenziale, ed il decadimento dello stato di transizione a prodotti. La frequenza del grado di libertà vibrazionale è in pratica coincidente, secondo l ipotesi di Eyring, con la frequenza di formazione dei prodotti, ν. Per un grado di libertà vibrazionale: q v = 1 1 e hν /k B T (16.8) 1 vedi parte VII di questa serie di dispense

229 228 CAPITOLO 16. CALCOLO DELLE COSTANTI CINETICHE e poichè si tratta di una vibrazione anomala, che si sta trasformando in una traslazione (rottura di legame), si può supporre che (hν << k B T ); espandendo in serie l esponenziale segue che q v = 1 1 e hν /k B T = 1 ( 1 k BT hν +... ) k BT hν (16.9) La funzione di ripartizione per il complesso attivito viene quindi scritta come il prodotto della funzione di ripartizione per la sola coordinata di vibrazione speciale e della funzione di ripartizione ridotta del complesso attivato, senza la vibrazione: q = q v q = k BT hν q da cui deriva che la costante di pre-equilibrio è ottenuta come K = k BT hν K K = N q q A q B e E 0/RT (16.10) (16.11) (16.12) In realtà la precedente derivazione deve essere considerata come un interpretazione estremamente semplificata di un processo complesso. L aggiunta di fattori correttivi (e fatte salve le ipotesi fortemente limitanti di adiabaticità e disaccoppiamento con il solvente) è fondamentale. Si utilizza questo proposito un fattore di trasmissione κ, di solito compreso tra 0.5 e 1, che almeno in linea di principio dovrebbe tener conto in maniera cumulativa del discostamento dalla condizione di pre-equilibrio nella formazione dello stato di transizione. L equazione (16.6) si scrive pertanto come k = κν RT p K e da questa discende l equazione di Eyring: k = κ k BT h RT p K = κ k BT h dove la costante K c è semplicemente (RT/p ) K. K c (16.13) (16.14) Interpretazione termodinamica Se consideriamo K come una vera costante di equilibrio chimico (anche se questa ipotesi non è del tutto corretta poichè una coordinata dello stato di transizione è stata eliminata dalla definizione statistica di K ), possiamo scrivere: G = RT ln K e quindi l equazione (16.14) assume la forma k = κ k BT h RT p e G/RT (16.15) (16.16) Dalla definzione di energia libera, possiamo scrivere G come la somma di un contributo entalpico e di un termine entropico: G = H T S (16.17)

230 16.2. TEORIA DELLO STATO DI TRANSIZIONE 229 le grandezze G, H e S sono dette energia libera, entalpia ed entropia di attivazione. È conveniente riscrivere l equazione di Eyring nei termini delle grandezze di attivazione, includendo il fattore di trasmissione nel fattore entropico: k = Ae S /R e H/RT (16.18) dove A = N (k B T ) 2 /hp. Se ora torniamo alla legge di Arhhenius, notiamo che in generale, per un fattore pre-esponenziale ed un energia di attivazione anche dipendenti dalla temperatura, vale l identità k = Ae E a/rt E a = RT 2 k T (16.19) da cui segue, per confronto con la relazione (16.18) E a = H + 2RT A = Ae 2+ S/R (16.20) (16.21) L impiego delle grandezze di attivazione per descrivere una cinetica chimica è oggi molto diffuso. Il valore sperimentale dell entropia di attivazione fornisce infatti informazioni importanti sulla natura dello stato di transizione: se è maggiore di zero, l entropia del complesso è maggiore di quella dei reagenti (per esempio, in un reazione di apertura di una struttura ad anello è possibile attendersi un entropia di attivazione maggiore di zero) e viceversa, se ha il segno negativo, l entropia del complesso è minore di quella dei reagenti (aumento di ordine). Il confronto diretto tra le grandezze di attivazione e le grandezze di equilibrio (energia libera, entalpia ed entropia di reazione) va sotto il nome di analisi di correlazione: per esempio spesso esiste una relazione approssimativamente lineare tra G e G, con l implicazione che la reazione chimica aumenta la propria velocità quando divenga termodinamicamente più favorita. Varie relazioni empiriche lineari tra G e G sono oggi note, con il nome di relazioni lineari di energia libera, per serie omologhe di reazioni chimiche.

231 230 CAPITOLO 16. CALCOLO DELLE COSTANTI CINETICHE

232 Capitolo 17 Struttura atomica Questa sesta raccolta di dispense è dedicata alla presentazione dei principi dell meccanica quantistica applicata alla chimica. Data la complessità della materia, che può richiedere concetti matematici e principi formali un poco più avanzati del curriculum di base di uno studente del primo o secondo anno, non sarà possibile dare molto di più di una panoramica delle tematiche considerate. Alcune sezioni (identificabili per i titoli in corsivo) devono essere considerate approfondimenti facoltativi Radiazione elettromagnetica In questa prima Sezione ricordiamo alcuni concetti fondamentali relativi alla rappresentazione classica della radiazione elettromagnetica (Maxwell, 1864). Una radiazione elettromagnetica è un oscillazione(onda) di un campo elettrico e magnetico ortogonalmente alla direzione di propagazione. L equazione che descrive un campo elettrico oscillante è scritta come: [ ] 2π E y (z, t) = xe 0 cos λ (z ct) (17.1) dove c è la velocità della radiazione nel vuoto = m/s; la lunghezza d onda λ è legata al periodo di oscillazione della radiazione; le tipiche unità di misura delle lunghezze d onda sono il micrometro, 1 µm = 10 6 m, il nanometro, 1 nm = 10 9 m, il picometro, 1 pm = m, ed infine l angstrom, 1 Å= 0.1 nm, che rappresenta la tipica distanza tra atomi adiacenti nelle molecole. La frequenza è inversamente proporzionale alla lunghezza d onda: Periodo dell oscillazione: T λ/c Frequenza della radiazione ν 1/T = c/λ (normalmente in Hertz: Hz= 1/s) Numero d onda ν = 1/λ (normalmente in cm 1 ) La relazione tra frequenza e lunghezza d onda dipende dalla velocità di propagazione della radiazione: ν = c λ = cν (17.2) 231

233 232 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA Figura 17.1: Radiazione elettromagnetica: campo elettrico e magnetico oscillanti rispetto a E e B; la direzione di propagazione è x; il campo elettrico è diretto lungo y. Come esempio, calcoliamo la frequenza e il numero d onda di una radiazione con lunghezza d onda di 5000 Å λ = 500nm = m = = cm ν = 1 λ = 20000cm 1 ν = c λ = s 1 = Hz 17.2 Quanti e materia Alla fine del diciannovesimo secolo, la fisica è considerata una scienza chiusa, i cui postulati fondamentali sono cioè definiti e la cui applicabilità è una pura questione di aggiungere cifre decimali aggiuntive alla determinazione sperimentale delle proprietà osservabili del mondo. Ma una serie di osservazioni fondamentali aprono la strada ad una crisi radicale della fisica classica (meccanica razionale + equazioni dell elettromagnetismo), ed ad una sua revisione dapprima sporadica ed in seguito sistematica, basata cioè su nuovi assiomi o postulati interpretativi della realtà, da parte di scienziati come Planck, Einstein, De Broglie, Bohr, Schrödinger,

234 17.3. LA CATASTROFE ULTRAVIOLETTA 233 Heisenberg. Le discipline chimiche, inizialmente, non risentono eccessivamente della rifondazione della fisica su basi quantistiche. Sono degli anni 50 del secolo successivo le prime vere applicazioni della meccanica quantistica alla chimica (p.es. ricordiamo il lavoro di Linus Pauling). in seguito però, con l evoluzione esplosiva dei metodi e degli strumenti di calcolo l uso di metodologie quantistiche per la simulazione e la previsione di proprietà molecolari è divenuto sempre più diffuso ed è oggi uno strumento comune in molti laboratori di chimica organica ed inorganica La catastrofe ultravioletta Ogni corpo a T > 0K costituisce una sorgente di radiazione elettromagnetica; se investito da una radiazione, ne assorbe una parte, e riflette la parte restante. equilibrio. A temperatura costante, il corpo è in uno stato di Un corpo nero ideale è un oggetto che assorbe tutta l energia radiante incidente su di esso, senza rifletterne alcuna. A temperatura costante emette dunque radiazione su tutte le lunghezze d onda. La migliore realizzione sperimentale di un corpo nero è un corpo cavo isolato mantenuto a temperatura costante: la radiazione termica viene osservata da una piccola fessura aperta nel corpo. Il problema è determinare la distribuzione spettrale della radiazione, cioè la frazione di energia irradiata E(ν)dν entro un intorno dν di una data frequenza ν. Secondo la fisica classica, all equilibrio possiamo supporre che le varie frequenze della radiazione (oscillatori armonici monodimensionali) siano presenti nella cavità con un energia media pari ɛ c = kt per il principio di equipartizione dell energia: kt/2 per l energia cinetica e kt/2 per l energia potenziale. La distribuzione dell energia tra le varie frequenze si riduce a determinare il numero di vibrazioni permesse in un intervallo di frequenze dν. Il risultato classico per il numero di onde stazionarie in un contenitore chiuso di volume V è dn = 4πV c 3 ν2 dν Qundi l energia della radiazione dovrebbe crescere indefinitamente con ν, visto che ogni oscillatore ha energia media pari a kt : è questa la cosiddetta catastrofe ultravioletta: la radiazione dovrebbe crescere indefinitamente in intensità. In realtà, per una data temperatura, l energia di emissione ha un massimo, in corrispondenza di una frequenza ν max = T Hz, e decade esponenzialmente a frequenze maggiori. L interpretazione di Planck è la seguente: ogni oscillatore ammette energie discrete nhν, con n 0, dove h è una costante da determinarsi. L energia media per oscillatore si può calcolare con i metodi della meccanica statistica usando la distribuzione di Boltzmann e porta al risultato ɛ q = hν exp(hν/kt ) 1 La densità di energia di radiazione è ora data dalla precdente espressione per il numero di oscillatori per unità di volume, eq. (17.3) per l energia media quantistica ɛ q. Il risultato (moltiplicato per due, poichè in un campo elettromagnetico oscillano sia il campo elettrico che quello magnetico) è la legge di Planck: E( u) = 8πhν3 c 3 1 exp(hν/kt ) 1 che è in ottimo accordo con i dati sperimentali di Lummer e Pringsheim, sostituendo a h il valore di Js.

235 234 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA 17.4 L effetto fotoelettrico Nel 1887, Hertz illumina con luce ultravioletta un catodo metallico e scopre che emette elettroni. Osservazioni successive mettono in evidenza che per quanto l intensità di corrente elettrica dipenda dall intensità luminosa, mostra anche una dipendenza dalla frequenza della luce con cui il metallo viene irradiato, e che anzi esiste una frequenza di soglia, sotto la quale non avviene emissione di elettroni. La velocità degli elettroni è inoltre dipendente solo dalla frequenza della radiazione. La soluzione al problema dell interpretazione dell effetto fotoelettrico è data da Einstein, nel Einstein assume che la luce consiste di pacchetti di energia discreti, detti fotoni; ogni fotone è portatore di un energia E = hν un elettrone lascia il metallo se è urtato da un fotone con un energia sufficiente a vincere l energia potenziale φ che lo lega al metallo; secondo il principio di conservazione dell energia vale perciò 1 2 mv2 = hν φ (17.3) la frequenza di soglia corrisponde a ν 0 = φ/h. Dalla assunzione fondamentale che l energia luminosa è quantizzata, Einstein riesce ad interpretare quantitativamente il fenomeno dell effetto fotoelettrico, che non è comprensibile nell ambito della fisica classica. per la quale dovrebbe essere l intensità della radiazione luminosa a controllare la corrente elettrica: la radiazione dovrebbe cioè fornire energia agli elettroni del metallo, che dovrebbero oscillare tanto più violentemente, quanto maggiore è l intensità della luce stessa, fino a staccarsi dal metallo con una velocità ancora proporzionale all intensità della luce Il modello di Bohr La presenza di righe discrete negli spettri di emissione di atomi in stato gassoso (Balmer) e le misure sperimentali di diffrazione di particelle da parte di lamine metalliche (Rutherford) sono, all inizio del secolo, evidenze sperimentali della presenza di stati discreti negli atomi e di una struttura di tipo planetario, con un nucleo denso ed elettroni diffusi intorno al nucleo stesso. Il modello planetario di Rutherford (1911) prescrive la presenza di elettroni in orbite stabili attorno ad un nucleo. Da un punto di vista classico, il modello di Rutherford è assurdo, poichè cariche in moto accelerato (quali gli elettroni che si muovono lungo traiettorie circolari od ellittiche) perdono energia sotto forma di radiazione: gli atomi dovrebbero perciò essere entità instabili. Vediamo di chiarire meglio questo punto. Gli esperimenti di Rutherford dimostrano in realtà solo che il nucleo (protoni + neutroni) è concentrato in una regione molto più piccola (1/100000) delle dimensioni atomiche, mentre gli elettroni sono distribuiti nello spazio. All epoca è già note che gli elettroni hanno una massa molto minore dei nuclei: m e = massa dell elettrone massa del protone/1800 Dato il rapporto delle masse, possiamo ritenere che il moto dell elettrone non influenzi la dinamica del nucleo. Quindi possiamo analizzare direttamente il moto relativo dell elettrone, in pratica considerando il

236 17.5. IL MODELLO DI BOHR 235 nucleo come immobile. Il potenziale di interazione di natura elettrostatica tra nucleo ed elettrone può essere specificato come funzione della loro distanza r U(r) = 1 q elettrone q nucleo 4πɛ 0 r = 1 e 2 4πɛ 0 r (17.4) dove ɛ 0 è la costante dielettrica del vuoto ed e è la carica (in valore assoluto) dell elettrone. N.B. Dato che un Faraday F = 96485C, è definito come la carica di una mole di elettroni, misurabile ad esempio come quantità di carica per depositare 1/2 mole di rame per elettrolisi di una sua soluzione secondo il processo 1 2 Cu2+ aq + e = 1 2 Cu(s) si può dedurre la carica dell elettrone secondo la relazione F = N (17.5) N essendo il numero di Avogadro. Esiste una stretta analogia tra il modello classico del moto dell elettrone con il moto planetario attorno al Sole, data la presenza in ambedue i casi di un potenziale attrattivo U(r) = α/r con la stessa dipendenza dalla distanza r (ovviamente la costante di proporzionalità α è diversa nei due casi). Quindi dalla soluzione delle equazioni del moto di Newton si ottengono per gli stati stabili le stesse soluzioni nella forma di traiettorie periodiche (orbite). Nel caso di una orbita circolare di raggio r, l analisi classica determina i seguenti valori per l energia totale E (somma dell energia cinetica e dell energia potenziale) e per il periodo T dell orbita E = α T = 2π m/α r 3/2 (17.6) 2r Quindi orbite a raggio decrescente corrispondono a diminuzioni sia dell energia che del periodo: dal punto di vista classico però il sistema risulta instabile in seguito alla perdita di energia per emissione di radiazione elettromagnetica e conseguente caduta dell elettrone sul nucleo. Da un altro punto di vista, ricordiamo la Figura 17.2: Modello planetario definizione di momento di dipolo elettrico: date due cariche +q e q a distanza d, il momento di dipolo

237 236 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA Figura 17.3: Orbite periodiche µ è definito come il vettore lungo la congiungente delle due cariche, che punta verso la carica postiva e con modulo µ = qd L elettrone ruotante attorno al nucleo di idrogeno corrisponde ad un momento di dipolo ruotante, e quindi ad una componente di dipolo oscillante con frequenza ν = 1/T lungo una direzione nel piano dell orbita. Ma classicamente, un dipolo oscillante con frequenza ν agisce da antenna di emissione di radiazione elettromagnetica con la stessa frequenza: data l instabilità di tali orbite, la meccanica classica non può descrivere la struttura dell atomo. L altra considerazione importante da fare a questo punto è che anche lo spettro di emissione dell idrogeno, che si ottiene per eccitazione degli atomi per mezzo di una scarica elettrica (via collisione tra atomi e cariche accelerate) e successiva osservazione della radiazione messa per diseccitazione, non è interpretabile da un punto di vista classico. La previsione della fisica classica è che l emissione avvenga con frequenze decrescenti come un continuo in seguito alla diseccitazione (perdita di energia radiante). Invece sperimentalmente si osserva emissione per un insieme discreto di frequenze (o numeri d onda) che possono essere rappresentate come (Rydberg, 1890) ( 1 ν = R H n 2 1 ) 1 n 2 (17.7) 2 con R H = cm 1 detta costante di Rydberg, e n 1 = 1, 2, 3,, n 2 = n 1 + 1, n 1 + 2,.

238 17.5. IL MODELLO DI BOHR 237 Figura 17.4: Spettro dell atomo di idrogeno Niels Bohr propone una nuova metodologia interpretativa della struttura dell atomo, basata essenzialmente sulle seguenti ipotesi il modello planetario di Rutheford è corretto, però non valgono a livello atomico le leggi di Maxwell il momento angolare di un elettrone orbitante è quantizzato L = mvr = hn (17.8) La forza centrifuga che spinge l elettrone fuori da una traiettoria circolare deve essere equivalente alla forza di attrazione elettrostatica mv 2 r = Ze2 4πɛ 0 r 3 (17.9) da questa relazione (classica) e dalla nuova relazione di quantizzazione del momento angolare, (17.8), discende la quantizzazione del raggio dell orbita, che è data come r = a 0n 2 Z a 0 = ɛ 0h 2 = nm (17.10) πme2 dove a 0 è il raggio di Bohr; e la quantizzazione dell energia dell orbita, che si può valutare sommando l energia cinetica e potenziale E = me4 Z 2 8ɛ 2 0 h2 n 2 (17.11)

239 238 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA La transizione tra due livelli energetici (due orbite) è dovuta all emissione o all assorbimento di un quanto di energia. L espressione risultante è ν = E ( 1 E 2 1 = R h n 2 1 ) 1 n 2 R = me4 2 8ɛ 2 (17.12) 0 ch3 che è l espressione analoga a quella ricavata sperimentalmente da Rydberg; la costante fondamentale R differisce di meno dell uno per cento dal dato sperimentale. Il modello di Bohr giustifica la discretizzazione delle frequenze di emissione, però non spiega perchè le energie delle orbite siano quantizzate I principi della meccanica quantistica Perchè le energie atomiche sono quantizzate? La risposta a tale domanda è stata ottenuta solo con lo sviluppo della Meccanica Quantistica, alla base della quale è il principio di indeterminazione di Heisenberg (1925) p x h/2 h h/2π dove x e p sono rispettivamente le incertezze nella misura contemporanea della posizione e dell impulso (p = mv) di una particella. È a causa del principio di Heisenberg che si deve affermare come le traiettorie classiche, che implicherebbero la possibilità di determinare contemporaneamente la posizione e l impulso (velocità) di una particella, non possono essere considerate un utile strumento informativo a meno di non considerare corpi macroscopici per i quali l effetto di h è trascurabile. Per descrivere il moto elettronico dobbiamo usare uno strumento diverso dalle traiettorie e compatibile con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Esso è rappresentato dalla funzione d onda Ψ( r), vale a dire da una funzione distribuita su tutto lo spazio e a cui si attribuisce il significato: Ψ( r) 2 dv = probabilità che l elettrone sia localizzato sull elemento di volume dv = dxdydz centrato su r. Integrando su tutto lo spazio (cioè sommando i contributi di tutti gli elementi di volume) si ottiene una probabilità unitaria dv Ψ( r) 2 = 1 (17.13) che determina la condizione di normalizzaione della funzione d onda. Le funzioni d onda stazionarie si ottengono come soluzioni dell equazione di Schroedinger indipendente dal tempo (1925) ĤΨ( r) = EΨ( r) (17.14) dove Ĥ è l operatore hamiltoniano ( ) Ĥ = h2 2 2m x y z 2 + V ( r) (17.15) dove per operatore si intende che Ĥ agisce su una funzione per trasformarla in una altra funzione; ad esempio se f( r) = x allora Ĥf( r) = V ( r)x f( r). La funzione d onda deve soddisfare la proprietà che Ĥ agendo su Ψ( r) genera la stessa funzione a meno una costante ĤΨ( r) Ψ( r) (17.16) La costante di proporzionalità (detta autovalore associato all autofunzione Ψ) è l energia E dello stato descritto dalla funzione d onda Ψ( r). Il problema matematico consiste nell individuare i possibili stati del sistema dati come funzioni d onda e corrispondenti energie.

240 17.7. APPROFONDIMENTI Approfondimenti Presentazione assiomatica della meccanica quantistica Consideriamo un sistema avente coordinate generalizzate r per indicare l insieme delle coordinate del sistema. Indicheremo anche con dr un elemento di volume nello spazio delle coordinate del sistema. L integrale di volume di una funzione generica f(r) verrà indicato come f = drf(r) (17.17) Infine con i simboli O, ˆP etc. definiremo semplicemente un operatore, cioè un insieme di istruzioni che modificano una generica funzione f. Avendo definito queste poche nozioni matematiche di base, la descrizione quantistica del sistema è definita dai seguenti postulati Postulato I. Lo stato fisico di un sistema al tempo t è descritto da una funzione, detta funzione d onda, a valori complessi, Ψ(r, t); la funzione d onda deve essere continua, finita e monotona per tutti i punti r. Postulato II. Una grandezza fisica osservabile sperimentalmente è rappresentata da un operatore lineare hermitiano. Un operatore lineare gode della proprietà O(af + bg) = aof + bog (17.18) un operatore hermitiano soddisfa la condizione [ drf Og = ] rg Of (17.19) Postulato III. Siano ˆx e ˆp gli operatori che rappresentano gli osservabili posizione e momento lineare lungo un medesimo asse di una particella generica del sistema. Deve valere la relazione: [ˆx, ˆp] = i h (17.20) dove [A, B] = AB BA si dice commutatore degli operatori A, B. Postulato IV. In una serie di misure ripetute di un osservabile rappresentata dall operatore generico O, il valore medio risultante è pari al valore d attesa dell operatore sulla funzione d onda del sistema O = drψ OΨ drψ Ψ (17.21) Postulato V. La probabilità che il sistema sia in un intorno r + dr del punto r, cioè che sia rinvenibile in un elemento di volume r intorno al punto r è proporzionale a Ψ(r) 2 dr Postulato VI. La variazione nel tempo della funzione d onda Ψ(r, t) è descritta dall equazione di Schrödinger i h Ψ t = HΨ (17.22)

241 240 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA Ψ(r, 0) = Ψ 0 (r) (17.23) dove H è l operatore hamiltoniano, che è l operatore rappresentativo dell osservabile energia totale del sistema (cioè della funzione hamiltoniana classica). La presentazione degli assiomi o postulati della meccanica quantistica può variare, anche in dipendenza del linguaggio e del formalismo matematico impiegato. Data la prescrizione fondamentale tra l operatore posizione e il corrispondente operatore momento (Postulato III), se si definisce l uno, resta definito l altro. Scegliamo di utilizzare la cosiddetta Rappresentazione della posizione: ˆx x, ˆp ( h/i) x L operatore posizione è semplicemente la moltiplicazione per x, mentre l operatore momento è proporzionale alla derivata prima in x. ; l opposto nel caso della rappresentazione del momento. Dati gli operatore momento e posizione, gli altri operatori rappresentativi delle varie osservabili classiche sono ottenuti usando il principio di corrispondenza, sostituendo cioè alle posizioni ed ai momenti i corrispondenti operatori Autofunzioni ed autovalori In meccanica quantistica assume grande importanza il concetto di autofunzione od autostato di un operatore Oψ = o n ψ n (17.24) o è l autovalore associato all autofunzione ψ dell operatore O. L importanza del concetto di autofunzioneautovalore è particolarmente evidente quando si discuta la teoria della misura di un osservabile. Consideriamo un operatore O avente autofunzioni ψ n ; nel seguito supporremo che le autofunzioni siano normalizzate ed ortogonali drψ nψ n = δ n,n (17.25) e che ogni stato del sistema sia esprimibile come combinazione lineare delle autofunzioni stesse, cioè che il set di autofunzioni sia completo Ψ = n c n ψ n (17.26) Se lo stato di un sistema coincide con un autostato, Ψ = ψ n, il valore di attesa di O coincide con o n. Altrimenti, un rapido calcolo algebrico permette di dedurre che il valore di attesa è una combinazione lineare dei vari autovalori O = n c n 2 o n (17.27) Quindi, solo se lo stato di un sistema è puro, cioè coincide con un autostato, misure ripetute portano ad unico risultato, o n ; altrimenti si ottiene una combinazione lineare di autovalori, pesati dai valori c n 2, cioè dai quadrati dei pesi delle autofunzioni che contribuiscono a definire lo stato del sistema.

242 17.7. APPROFONDIMENTI Il principio di indeterminazione Sperimentalmente, un sistema è descritto da un insieme di proprietà fisiche, rappresentate dagli operatori A, B e così via. Possiamo misurare contemporaneamente due proprietà osservabili con precisione arbitraria? Possiamo cioè individuare gli autostati comuni ad un set di operatori? Consideriamo una coppia di osservabili e sia ψ un autostato comune, tale cioè che Aψ = aψ e Bψ = bψ. Vale il seguente, importante teorema: se due o più operatori ammettono un insieme completo di autofunzioni comuni, commutano e viceversa, se commutano, ammettono un insieme completo di autofunzioni comuni. Cioè osservabili multiple sono conoscibili simultaneamente con precisione arbitraria se e solo i loro operatori commutano. Nel caso di un operatore posizione e momento, vale il famoso principio di indeterminazione x p x 1 2 h (17.28) che limita la possibilità di conoscere con precisione arbitraria il momento e la posizione di una particella, simultaneamente.

243 242 CAPITOLO 17. STRUTTURA ATOMICA

244 Capitolo 18 Sistemi semplici 18.1 Particella libera in una scatola Assumiamo che l energia potenziale sia nulla all interno della scatola ed infinita all esterno. La funzione d onda è dunque definita solo per 0 x L. L equazione di Schrödinger indipendente dal tempo assume la forma 1 : d 2 h2 2m dx 2 ψ E(x) = Eψ E (x) (18.1) dove m è la massa della particella. Valgono le condizioni al contorno ψ E (0) = 0, ψ E (L) = 0 (18.2) L Eq. (18.1) è un equazione differenziale ordinaria a coefficienti costanti del secondo ordine. La sua soluzione generica ha la forma ψ E (x, t) = A 1 exp(α 1 x) + A 2 exp(α 2 x) (18.3) dove α 1,2 sono le radici dell equazione h2 2m α2 = E (18.4) vale a dire α 1,2 = ±i 2mE. Sostituendo nelle condizioni al contorno si ottiene h 2 A 1 + A 2 = 0 (18.5) 2mE 2mE A 1 exp il h 2 + A 2 exp il h 2 = 0 (18.6) che è un sistema lineare omogeneo in A 1 e A 2, risolvibile solo se il determinante dei coefficienti è nullo. Si trova così la condizione in E: 2mE exp 2iL h 2 = 1 (18.7) 1 Ci poniamo nella rappresentazione continua, in modo da lavorare direttamente con funzioni della variabile x 243

245 244 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI le cui soluzioni sono E = h2 π 2 k 2 2mL 2, k N (18.8) Gli autostati di una particella chiusa in un pozzo infinitamente profondo sono quantizzati come i quadrati dei numeri interi; sono anche inversamente proporzionali alla massa della particella e alla larghezza del pozzo. Vale a dire: per una massa molto grande, od un pozzo molto largo, gli autovalori sono molto vicini tra loro (lo spettro diviene quasi continuo), e il comportamento della particella si avvicina al comportamento previsto dalla meccanica classica. Le autofunzioni si trovano subito tenendo conto A 1 = A 2 ; imponendo la condizione che siano normalizzate in [0, L] si trova: ( ) 2 kπ ψ k (x) = L sin L x Supponiamo ora che la particella sia inizialmente al centro del pozzo: (18.9) ψ(x, 0) = δ(x L/2) (18.10) Da cui segue che al tempo t la funzione d onda è ψ(x, t) = 2 [ k2 hπ 2 ] ( ) ( ) kπ kπ exp L 2mL 2 t sin L x sin 2 k 1 ma il seno di kπ/2 vale è zero per k pari; per k = 2n + 1 dispari, con n 0, vale ( 1) n ; perciò ψ(x, t) = 2 [ (2n + 1)2 hπ ( 1) n 2 ] ( ) kπ exp L 2mL 2 t sin L x n 0 (18.11) (18.12) Naturalmente per una scatola con pareti infinite tutte le autoenergie sono discrete (non esistono stati liberi della particella) Oscillatore armonico L oscillatore lineare o armonico è un altro esempio di sistema risolvibile analiticamente, ovvero tale che le sue autofunzioni sono esprimibili in termini di funzioni note. Il potenziale è definito come una parabola, con una curvatura mω 2 : V (x) = mω2 2 x2 ω è la frequenza dell oscillatore. Consideriamo l hamiltoniano del sistema: d 2 h2 2m dx 2 + mω2 2 x2 (18.13) ψ E (x) = Eψ E (x) (18.14) La soluzione generica può essere ottenuta con metodi elementari. L autofunzione generica è data dall espressione: ( ) mω 1/4 ( 1 ψ n (x) = π h (2 n exp mω ) [ (mω ) 1/2 n!) 1/2 2 h x2 H n x] (18.15) h cui corrisponde l autovalore ( E n = n + 1 ) hω 2 (18.16)

246 18.3. ROTATORE RIGIDO Rotatore rigido Consideriamo ora il caso di una particella costretta a muoversi lungo una circonferenza (rotatore planare). di raggio r = a. L equazione di Schrödinger assume la forma: h2 2I d 2 dφ 2 Ψ E(θ) = EΨ E (φ) (18.17) dove I = ma 2 è il momento di inerzia. Risolvendo, si trova come nel caso della particella nella scatola monodimensionale: Ψ E (θ) = A 1 exp(im l φ) + A 2 exp( im l φ) (18.18) dove m l = 2IE/ h 2. Le condizioni al contorno sono da ricercarsi nelle proprietà fondamentali delle funzioni d onda di un sistema quantomeccanico, che devono sempre dar luogo ad una densità di probabilità univoca: nel caso in questione questo implica che la funzione calcolata in φ o in φ + 2π (quindi nello stesso punto), deve essere uguale: Ψ E (φ + 2π) = Ψ E (φ) (18.19) quindi m l deve essere un numero intero. Gli autovalori sono dunque: E = m2 l h2 2I, m l N (18.20) Lo stato di una particella con autoenergia E è dunque descritto da una somma di due esponenziali complessi, che rappresentano in realtà due moti sovrapposti, in un senso (m l ) e nel senso opposto ( m l ). Supponiamo di aver preparato la particella con un unico senso di rotazione, A 2 = 0; la costante di normalizzazione dell autofunzione rimanente si ottiene integrando Ψ E (φ). Si ottiene infine: 1 Ψ ml (φ) = 2π exp(im lφ) (18.21) 18.4 La soluzione dell equazione di Schrödinger per l atomo di idrogeno I sistemi fisici di interesse in chimica fisica (strutture atomiche e molecolari) sono sistemi a più dimensioni, di impossibile risoluzione analitica. Concludiamo questa Sezione con un sistema chimico semplice, risolvibile analiticamente: il calcolo dello spettro di autoenergie e delle relative autofunzioni per l elettrone di un atomo di idrogeno con un nucleo a riposo. In generale, se il nucleo non è a riposo dobbiamo semplicemente sostituire alla massa dell elettrone la massa ridotta del sistema protone/elettrone. L hamiltoniano del sistema è perciò: H = h2 2µ ˆ 2 e2 1 4πɛ 0 r (18.22) dove µ è la massa ridotta e il secondo termine è il potenziale coulombiano attrattivo tra il nucleo con carica +e e l elettrone con carica e a distanza r. Il potenziale è a simmetria radiale. Possiamo perciò procedere senza perdere tempo come nel caso della particella racchiusa in una sfera: i) introduzione di coordinate sferiche; ii) fattorizzazione della funzione d onda in una parte angolare dipendente da θ e φ e in una parte radiale dipendente da r; iii) imposizione di condizioni al contorno per il calcolo delle autoenergie. La parte

247 246 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI angolare dell autofunzione non cambia, ed è data ancora dalle funzioni armoniche sferiche: in realtà ciò è vero per qualunque potenziale a simmetria sferica, cioè dipendente solo dal modulo r: Ψ E (r, θ, φ) = R(r)Y lml (θ, φ) (18.23) Sostituendo nell Eq. di Schrödinger si trova l equazione per la parte radiale: 1 d dr l(l + 1) r 2 r2 dr dr r 2 R + 2m ( ) h 2 E + e2 1 R = 0 (18.24) 4πɛ 0 r Lo spettro degli autovalori sarà discreto per E < 0, e continuo per E > 0 (il potenziale coulombiano tende a zero per r e a per r 0). A questo punto possiamo procedere come in tutti i casi precedenti: l equazione differenziale in R, con le condizioni al contorno R finita a r 0 e R è riconoscibile com l equazione che ha per soluzione delle funzioni note: le funzioni associate di Laguerre (moltiplicate per l esponenziale di r). In definitiva gli autostati e le autoenergie dell atomo di idrogeno a riposo sono: Ψ n,l,ml (r, θ, φ) = R nl (r)y lml (θ, φ) (18.25) dove le funzioni radiali R nl sono R nl = 2 (n l 1)! na 2n [(n + l)!] 3 ρl L 2l+1 n+l (ρ) exp( ρ/2) (18.26) e gli autovalori corrispondenti sono E n,l,ml = µe4 32π 2 ɛ 2 0 h2 1 n 2 dove ρ = 2r/na ed a = 4πɛ 0 h 2 /µe 2. Gli autostati discreti sono negativi e dipendono solo da 1/n 2. (18.27) 18.5 L atomo di idrogeno Commentiamo ora le principali proprietà dell atomo di idrogeno. Gli stati elettronici possibili per l atomo di idrogeno sono catalogabili sulla base di un insieme di indici interi (n, l, m) detti numeri quantici numero quantico principale: n = 1, 2, 3, numero quantico di momento angolare: l = 0, 1,, n 1 = = numero quantico magneticom = l, l + 1,, l 1, l Ogni funzione d onda per stato lo stato elettronico, detta orbitale, è caratterizzata dai valori dei tre numeri quantici Ψ n,l,m ( r). L energia però viene a dipendere dal solo numero quantico principale in accordo con la formula di Bohr E n = hc R H n 2 R H = m ee 4 32π 2 ɛ 2 0 h2 (18.28) Gli orbitali con l = 0 (e quindi m = 0) vengono detti di tipo s e vengono indicati con ns per differenziarli secondo il numero quantico principale (ad esempio orbitali 1s, 2s, 3s, etc.) Ψ 1s = 2 a 3/2 e r/a 0 0

248 18.5. L ATOMO DI IDROGENO 247 (18.29) Ψ 2s = Ψ 3s = 1 (2 r/a 3/2 0 )e r/2a 0 8a a 3/2 0 (6 4r/a 0 + 4r/9a 0 )e r/3a 0 dove a 0 è il cosiddetto raggio di Bohr a 0 = 4πɛ 0 h 2 m e e 2 = nm (18.30) Figura 18.1: Rappresentazione degli orbitali dell atomo di idrogeno in termini di densità elettronica Il secondo numero quantico descrive il momento angolare orbitale, che corrisponde alla grandezza classica L = r p. Il momento angolare orbitale è quantizzato 2 come h l(l + 1). Gli orbitali s (l = 0) hanno momento orbitale nullo essendo a simmetria sferica. Gli orbitali privi di simmetria sferica sono: orbitali np (di tipo p): l = 1, n = 2, 3, orbitali nd (di tipo d): l = 2, n = 3, 4, orbitali nf (di tipo f): l = 3, n = 4, 5, Nello spazio essi possono assumere diverse orientazioni quantizzate secondo il numero quantico magnetico m = l. l + 1,, l 1, l; ad esempio per gli orbitali np (n 2): m=-1,0,1. 2 cioè gli orbitali sono funzioni dell operatore momento angolare orbitale con autovalori pari a h l(l + 1)

249 248 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI Numero quantico di spin Per caratterizzare in modo completo lo stato elettronico, bisogna specificare anche lo spin elettronico. Come vedremo in modo più approfondito in una delle Sezioni successive, l elettrone ha un momento angolare intrinseco, che può essere visualizzato come la rotazione della particella su se stessa 3. Di fatto esso può assumere solo due configurazioni, per rotazioni orarie o antiorarie, a cui è associato il numero quantico di spin che può assumere i due valori m s = 1/2 e m s = 1/2. In definitiva lo stato elettroni è descritto da quattro numeri quantici n, l, m, m s. Gli stati elettronici sono raggruppati in gusci secondo il numero quantico principale. La meccanica quantistica consente quindi di valutare in modo accurato la distribuzione Figura 18.2: Gusci raggruppati secondo il numero quantico. spaziale e l energia degli orbitali elettronici dell atomo di idrogeno. Come vedremo soprattutto nel caso delle molecole, è inoltre possibile predire in modo soddisfacente le transizioni elettroniche che avvengano per assorbimento od emissione di un fotone Assorbimento: E iniziale + hν = E finale Emissione: E iniziale = E finale + hν Non tutte le transizioni elettroniche sono però possibili. In particolare, per l atomo di idrogeno si hanno le seguenti regole di selezione: 4 l = ±1 m = 0, ±1 (18.31) mentre non si hanno regole di selezione che coinvolgono il num ero quantico principale (quindi tutte le transizioni tra coppie n 1, n 2 di stati sono possibili, come in effetti si osserva sperimentalmente. 3 Si tratta però di una pura analogia, utile da un punto di vista intuitivo, ma che può essere fuorviante 4 Ottenute sulla base della conservazione del momento angolare totale

250 18.6. HAMILTONIANI ATOMICI E MOLECOLARI Hamiltoniani atomici e molecolari La definizione dell hamiltoniano completo di un sistema atomico o molecolare non è affatto un problema semplice. Trascurando termini di interazione con campi elettrici e magnetici, che sono peraltro di grande importanza per l interpretazione di osservabili spettroscopici, ed ignorando correzioni di natura relativistica, restano da considerare in dettaglio i vari termini di interazione elettrostatiche e magnetiche dei nuclei e degli elettroni. Consideriamo prima di tutto alcuni hamiltoniani relativi a sistemi atomici e molecolari semplici: l atomo H, l atomo He e la molecola H + 2, limitandoci ad includere nell energia potenziale i soli termini di interazione elettrostatica. L atomo di idrogeno, H, è un sistema descritto da due particelle tridimensionali: il nucleo R di massa m H e l elettrone r e di massa m e L hamiltoniano dell atomo di idrogeno è dato come: H = h2 2m H ˆ 2 R h2 2m e ˆ 2 e 2e2 4πɛ 0 1 R r e (18.32) dove con ˆ 2 e e ˆ 2 R indichiamo il laplaciano rispetto ai vettori r e e R. I gradi di libertà complessivi del sistema sono dunque 6. L atomo di elio, He, è un sistema descritto da tre particelle tridimensionali (il nucleo e due elettroni). L hamiltoniano dell atomo di elio è dato come: ( ) H = h2 ˆ 2 2m R h2 ( He 2m ˆ ˆ 2 2) 2e2 1 e 4πɛ 0 R r R r 2 + e2 4πɛ 0 1 r 1 r 2 (18.33) dove con ˆ 2 1,2 indichiamo i laplaciani rispetto a r 1 e r 2. I gradi di libertà complessivi del sistema sono dunque 9. La molecola di idrogeno ionizzata, H + 2, è ancora un sistema descritto da tre particelle tridimensionali (due nuclei e un elettrone). L hamiltoniano è dato come: ( ) H = h2 ( ˆ 2 2m A + ˆ ) 2 B h2 ˆ 2 H 2m e e2 1 e 4πɛ 0 R A r e + 1 R + e2 1 B r e 4πɛ 0 R B R (18.34) A dove con R A ed R B indichiamo la posizione dei nuclei, con r e quella dell elettrone. I gradi di libertà complessivi del sistema sono sempre 9. Definiamo ora con un certo grado di generalità l hamiltoniano, limitato ai soli termini di interazione elettrostatica, per una molecola di M nuclei ed N elettroni. Siano R p (p = 1,..., M) i vettori posizione dei nuclei e r i (i = 1,..., N) i vettori posizione degli elettroni. L hamiltoniano molecolare non-relativistico con i soli termini elettrostatici è allora scritto come: H = h2 2 M r=1 1 m p ˆ 2 p h2 2m e N i=1 ˆ 2 i + e2 M,M 4πɛ 0 p<q Z p Z q R p R q + e2 N,N 4πɛ 0 i<j 1 r i r j e2 M,N 4πɛ 0 p,i Z p R p r i (18.35) È conveniente nel seguito introdurre un insieme di unità di misura ad hoc, dette unità atomiche, che permettano di definire grandezze fisiche riscalate in modo semplice. Nella Tabella 1 sono definite le principali unità atomiche: di particolare importanza sono l unità di lunghezza, detta Bohr, e l unità di energia, chiamata Hartree. Nel seguito si useranno sempre unità atomiche, se non verrà espressamente indicato altrimenti.

251 250 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI massa m u m e = Kg lunghezza l u a 0 = 4πɛ 0 h 2 m ee = m 2 momento angolare L u h = J s 1 e energia E 2 u 4πɛ 0 a 0 = J carica e e = C Tabella 18.1: Unità atomiche L hamiltoniano molecolare elettrostatico in unità atomiche diventa: H = M p=1 1 2m p ˆ 2 p 1 2 N i=1 M,N ˆ 2 Z r i R p r i + p,i N i<j 1 M r i r j + Z p Z q R p R q. (18.36) Indichiamo per semplicità con gli indici i, j coordinate elettroniche, con gli indici p, q coordinate nucleari. Il primo problema che ci poniamo è la possibilità di separazione tra le coordinate nucleari ed elettroniche. Fisicamente, la massa dei nuclei, molto maggiore rispetto a quella degli elettroni, ci consente di affermare che il moto dei primi avviene su una scala dei tempi molto più lenta rispetto al moto dei secondi. Ciò equivale al fatto che, con buona approssimazione, le proprietà degli elettroni possono essere definite assumendo che lo scheletro della molecola, formato dai nuclei, sia immobile. Fondamentalmente, questa è l approssimazione di Born-Oppenheimer (BO), grazie alla quale si definisce un hamiltoniano elettronico, privo del termine di energia cinetica relativo ai nuclei. p<q 18.7 Stati di spin Ad ogni particella è associato un momento di spin. La definizione completa dello coordinate di una particella deve includere dunque anche la descrizione del suo stato di spin. La giustificazione formale delle proprietà di spin richiede una formulazione della meccanica quantistica in modo che sia consistente con la teoria della relatività ristretta. Il problema, affrontato da P.A.M. Dirac, conduce alla definizione in modo non arbitrario di una proprietà assimilabile ad un momento angolare, che è descritta dall operatore (vettoriale) di spin S. Le componenti dell operatore di spin (S x, S y, S z ) obbediscono alle consuete regole di commutazione delle componenti di un operatore momento angolare generico: [S x, S y ] = is z [S z, S x ] = is y [S y, S z ] = is x [S 2, S x ] = [S 2, S y ] = [S 2, S z ] = 0 Le autofunzioni dell operatore di momento di spin sono ottenibili come: (18.37) S 2 S, M S = S(S + 1) S, M S S z S, M S = M S S, M S (18.38) con S M S S Le autofunzioni dell operatore di spin sono ortonormali. Per esempio, Per S = 1/2 sono permessi i valori M S = ±1/2 : M S = +1/2 α = 1/2, +1/2 M S = 1/2 β = 1/2, 1/2 (18.39)

252 18.8. PRINCIPIO DI INDISTINGUIBILITÀ 251 Le pseudo-coordinate di una particella avente spin S = 1/2 saranno quindi completamente definite solo dopo aver specificato le coordinate spaziali (x, y, z) e il numero quantico di spin M S che può essere 1/2 (stato α) o 1/2 (stato β) Principio di indistinguibilità Se una proprietà misurabile dipende dalle coordinate di un insieme di particelle indistinguibili, ogni misura di detta proprietà deve essere indifferente al tipo di classificazione delle particelle. Consideriamo per semplicità il caso di due sole particelle indistinguibili il cui stato sia descritto da una determinata funzione d onda Ψ. Se definiamo: la probabilità di trovare 1 in q 1 e 2 in q 2 : Ψ[q 1 (1), q 2 (2)] 2 dq 1 dq 2 ; la probabilità di trovare 1 in q 2 e 2 in q 1 : Ψ[q 2 (1), q 1 (2)] 2 dq 1 dq 2 ; ne consegue che le due probabilità devono essere uguali: Ψ[q 1 (1), q 2 (2)] 2 = Ψ[q 2 (1), q 1 (2)] 2 (18.40) Quindi, poiche si puo sempre scegliere una funzione d onda in modo che sia reale (almeno in assenza di campi vettoriali, come un campo magnetico esterno), la funzione d onda può solo cambiare di segno quando le coordinate delle due particelle siano scambiate fra loro: Ψ[q 1 (1), q 2 (2)] = ±Ψ[q 2 (1), q 1 (2)] (18.41) In generale, vale la seguente classificazione: Tutte le particelle con momenti di spin multipli dispari di 1/2 sono descritti da funzioni d onda antisimmetriche; p. es.: elettrone, protone, neutrone, 3 2 He2+ (e i nuclei a numero di massa dispari). Tali particelle sono dette FERMIONI e seguono la statistica di Fermi-Dirac. Tutte le particelle con momenti di spin multipli pari di 1/2 sono descritti da funzioni d onda simmetriche; p. es.: fotone (S = 1), deuterone (S = 1), 4 2 He2+ (e i nuclei a numero di massa pari). Tali particelle sono dette BOSONI e seguono la statistica di Bose-Einstein. Gli elettroni sono fermioni con S = 1/2 e di conseguenza la funzione d onda elettronica di una molecola deve essere una funzione antisimmetrica rispetto allo scambio di coordinate tra due elettroni qualunque (principio di Pauli). In generale data una collezione di bosoni indistinguibili rappresentata dalla funzione d onda Ψ bosoni, se si definisce con P un generico operatore di permutazione (che opera un certo numero di scambi tra le coordinate delle particelle, argomenti della funzione d onda), vale che PΨ bosoni = Ψ bosoni (18.42) cioè la funzione d onda non cambia. Se è data invece una collezione di fermioni indistinguibili, con funzione d onda Ψ fermioni, gli scambi di coordinate portano ad un possibile cambio di segno della funzione d onda: PΨ fermioni = ( ) P Ψ fermioni (18.43) dove ( 1) P indica la parità della permutazione P.

253 252 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI 18.9 Struttura degli atomi polielettronici Il calcolo delle funzioni d onda per sistemi a più elettroni è possibile solo in modo approssimato. L approccio più noto è l approssimazione di campo medio (Hartree-Fock), in cui sia ssume una distribuzione spaziale indipendente degli elettroni Ψ( r 1, r 2, r 3, ) = φ a ( r 1 )φ b ( r 2 )φ c ( r 3 ) (18.44) cioè l elettrone 1 stà nell orbitale (atomico) φ a, l elettrone 2 nell orbitale φ b, l elettrone 3 nell orbitale φ c e così via (in verità la funzione d onda è invariante rispetto allo scambio di elettroni, ma volontariamente omettiamo questo aspetto allo scopo di semplificare la descrizione). Quindi il problema consiste nella determinazione dei possibili orbitali atomici risolvendo l equazione di Schroedinger. Si verifica che, almeno approssimativamente, gli orbitali degli atomi polielettronici hanno la stessa struttura di quelli dell idrogeno, e quindi possono essere catalogati secondo gli stessi numeri quantici (n, l, m), però tenendo conto che 1. l aumento della carica nucleare Ze (dove Z è il numero atomico) produce una contrazione degli orbitali atomici. 2. l energia associata ad ogni orbitale viene a dipendere dal numero atomico, ed in particolare la degenerazione all interno del singolo guscio viene rimossa. 3. L energia totale è valutabile (approssimativamente) come somma dei contributi dei singoli orbitali atomici occupati. La configurazione elettronica degli atomi nello stato fondamentale si ottiene con una procedura di riempimento (come se fossero delle caselle o scatole vuote, ciascuna con due posti disponibili) degli orbitali atomici secondo le seguenti regole (aufbau) I. Ordine di occupazione secondo la sequenza 1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 4s, 3d, 4p, 5s, 4d, 5p, 6s, 5d, 4f, II. Secondo il principio di esclusione di Pauli (due elettroni non possono avere la stessa configurazione), ciascun orbitale può accomodare al massimo due elettroni con spin opposto III. Nel caso di orbitali degeneri, si occupano singolarmente orbitali differenti prima di realizzare la doppia occupazione. IV.È privilegiata la configurazione con uguale spin Ecco alcuni esempi di aufbau di atomi del II periodo: He : 1s 2 Li : 1s 2 2s = [He]2s C : [He]2s 2 2p 2 F : [He]2s 2 2p 5

254 18.9. STRUTTURA DEGLI ATOMI POLIELETTRONICI 253 Ne : [He]2s 2 2p 6 Na : [Ne]3s Il riempimento sistematico degli orbitali risulta nella periodicità delle configurazione nella tavola degli elementi, con atomi che hanno configurazioni elettroniche ed proprietà chimiche analoghe, ad esempio He e Ne, Li e Na etc. o gli elementi di transizione (riempimento degli orbitali tipo d), e i lantanidi e attinidi (riempimento degli orbitali tipo f). La periodicità delle proprietà atomiche è evidenziata da varie caratteristiche chimico-fisiche degli elementi, come ad esempio: Raggio atomico: metà della distanza interatomico nel solido atomico (ad esempio metalli) o nelle molecole biatomiche (ad esempio H 2 ); il raggio atomico riflette la dimensione degli orbitali esterni (ultimi occupati) Energia di ionizzazione I: differenza tra l energia dello ione e dell atomo nel processo di ionizzazione dallo stato fondamentale dell atomo isolato (gas = g) X(g) X + (g) + e Figura 18.3: Periodicità del raggio atomico L energia di ionizzazione misura la facilità con cui si può togliere un elettrone e formare il catione. esempio per l atomo di idrogeno Ad I H = E E 1 = hcr H = J (18.45)

255 254 CAPITOLO 18. SISTEMI SEMPLICI Normalmente si fa riferimento ad una mole di sostanza (moltiplicando per N ) e si ottiene I H = 1312kJ/mol. Un unità di misura alternativa è l ev (elettron Volt), pari al lavoro necessario per innalzare l energia di un elettrone di un Volt = e 1 Volt = J; si vede subito che N ( ev) = N Volt = F Volt =. kj/mol. Infine ricordiamo l affinità elettronica, che è la differenza di energia tra l atomo (nello stato fondamentale) ed il monoanione, ed è quindi l energia rilasciata nel processo X(g) + e X (g)

256 Capitolo 19 Struttura molecolare Passiamo ora a discutere, in modo estremamente semplificato, alcuni concetti importanti relativi alla struttura elettronica dei sistemi molecolari. Lo studente deve esser consapevole che la discussione è mantenuta ncessariamente ad un livello elementare, ed è invitato senz altro ad approfondire gli argomenti esposti in testi specifici La molecola di idrogeno Iniziamo la nostra presentatione dalla molecola di idrogeno, H 2. La rappresentazione semplificata di Lewis, ben nota ai chimici, evidenzia un (doppietto di legame) H H H H la rappresentazione realistica della molecola di idrogeno è quella di due elettroni attorno ai due protoni (nuclei) posti a distanza R Figura 19.1: Molecola di idrogeno Come abbiamo visto in precedenza, data la notevole differenza di masse, la dinamica elettronica è molto più veloce di quella nucleare. Quindi nell analizzare la struttura elettronica, si possono considerare i nuclei immobili a distanza R (approssimazione di Born-Oppenheimer). Il potenziale di interazione contiene i seguenti contributi elettrostatici 1. la repulsione tra i due elettroni con posizioni r 1 e r 2 255

257 256 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE 2. la repulsione tra i due protoni con posizioni R A e R B 3. l attrazione per ogni coppia elettrone-nucleo Il potenziale elettrico di interazione è perciò V = (19.3) e 2 1 4πɛ 0 r 2 r 1 + e2 1 4πɛ 0 R A R B e 2 ( ) 1 4πɛ 0 r 1 R A + 1 r 1 R B e 2 ( ) 1 4πɛ 0 r 2 R A + 1 r 2 R B (19.1) (19.2) Come per l atomo di elio, il sistema è descritto da una funzione d onda per le coordinate dei due elettroni Ψ( r 1, r 2 ) che però in questo caso dipende (parametricamente) dalla distanza intenucleare R. Analogamente la funzione d onda può essere decomposta secondo gli orbitali per i due elettroni Ψ( r 1, r 2 ) = φ α ( r 1 )φ β ( r 2 ) (19.4) con gli orbitali φ α e φ β che ora si estendono su tutta la molecola e per questa ragione sono detti orbitali molecolari. Gli orbitali molecolari possono essere costruiti utilizzando l approssimazione LCAO = Linear Combination of Atomic Orbitals, Combinazione Lineare di Orbitali Atomici. La base logica dell approssimazione LCAO è la seguente: a grandi distanze R, la funzione d onda è descritta dai due orbitali atomi 1s, ciascuno accupato da un elettrone: φ 1sA ( r), φ 1sB ( r) Per atomi interagenti, si generano due orbitali molecolari dalla combinazione dei due orbitali atomici. Le due combinazioni lineari possibili sono: combinazione simmetrica φ 1sσ, detta orbitale di legame combinazione antisimmetrica φ 1sσ, detta orbitale di antilegame I due orbitali molecolari sono perciò: φ 1sσ ( r) φ 1sA ( r) + φ 1sB ( r) (19.5) φ 1sσ ( r) φ 1sA ( r) φ 1sB ( r) (19.6) Con l orbitale di legame si ha una sovrapposizione (overlap) positiva corrispondente ad un incremento della densità elettronica tra i due nuclei, e ciò porta ad una diminuzione dell energia del sistema a causa del parziale effetto di schermo sulla interazione repulsiva tra i due nuclei. Al contrario con l orbitale di antilegame si ha una sovrapposizione negativa che non contrasta la repulsione nucleare. Lo stato fondamentale (cioè ad energia più bassa) della molecola di idrogeno si ottiene ponendo i due elettroni (con spin opposto) nell orbitale di legame. Per opportuni valori della distanza internucleare R esiste un guadagno energetico rispetto allo stato di atomi separati per R, e questo guadagno costituisce l energia di legame Il minimo della curva di energia relativa all orbitale di legame definisce la distanza di legame R e = nm e l energia di dissociazione D e = 436 kj/mol.

258 19.1. LA MOLECOLA DI IDROGENO 257 Figura 19.2: Orbitali di legame e di antilegame della molecola di idrogeno

259 258 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE Figura 19.3: Potenziali degli orbitali di legame ed antilegame di H Molecole biatomiche Analogamente al caso degli atomi, la procedura di costruzione della struttura elettronica delle molecole biatomiche procede in base all occupazione degli orbitali molecolari da parte degli elettroni. Con lo stesso tipo di orbitali molecolari si può per sempio analizzare l ipotetica molecola di He 2, ponendo una coppia di elettroni anche nell orbitale di antilegame: non si prevede la formazione di una specie molecolare stabile per l assenza di un guadagno energetico significativo rispetto agli atomi isolati. In generale si utilizza la procedura LCAO per la costruzione degli orbitali molecolari. L unica difficoltà deriva dalla necessità di effettuare combinazioni lineari di più orbitali atomici. Consideriamo prima il caso delle molecole biatomiche omonucleari (cioè con nuclei uguali), per le quali si possono utilizzare le seguenti approssimazioni 1. Gli orbitali interni (orbitali di core) al guscio di legame non si combinano, essendo troppo distanziati per avere una significativa sovrapposizione. 2. Si combinano solo gli orbitali con pari energia: 2s A con 2s B, 2p A con 2p B. 3. Si combinano a coppie solo gli orbitali aventi la stessa simmetria generando orbitali molecolari (di legame e di antilegame) a simmetria assiale (orbitali di tipo σ) o a simmetria planare (orbitali di tipo π) La configurazione elettronica per lo stato fondamentale si ottiene per riempimento progressivo degli orbitali a partire da quelli ad energia più bassa. Un legame singolo, doppio o triplo è definito sulla base dell ordine di legame: ordine di legame = n n 2 (19.7) dove n e n sono il numero di elettroni rispettivamente in orbitali di legame e di antilegame. Le energie di legame aumentano con l ordine di legame (F 2 =155 kj/mol, O 2 =497 kj/mol, N 2 =945 kj/mol). Nel caso di molecole biatomiche eteronucleari (atomi diversi) gli orbitali atomici hanno energie diverse. La seconda regola di aufbau si generalizza assumendo che la combinazione lineare si realizzitra la coppia di orbitali ad

260 19.2. MOLECOLE BIATOMICHE 259 Figura 19.4: Metodo LCAO per molecole biatomiche omonucleari

261 260 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE energia più vicina. Per esempio nel caso di HF, l orbitale 1s dell idrogeno si combina con l orbitale 2p del fluoro per generare un orbitale di legame ed uno di antilegame con simmetria σ. Però in questo caso, non essendo i due atomi interscambiabili, i due orbitali atomici non hanno ugual peso nella combinazione lineare, e quindi nell orbitale molecolare. Nel caso dell orbitale di legame di HF prevale il contributo dell orbitale atomico 2p del Fluoro. Ne deriva che il baricentro elettronico è spostato verso il fluoro, situazione che è rappresentabile assegnando una parziale carica positiva δq all atomo di Idrogeno, ed una carica opposta δq all atomo di Fluoro. Quindi la distribuzione elettronica nella molecola di HF determina un momento di dipolo diverso da zero. La polarità del legame viene descritta in termini di elettronegatività degli atomi, cioè della loro capacità di attrarre gli elettroni di legame (in particolare il fluoro è più elettronegativo dell idrogeno). La scala delle eletronegatività, introdotta da Linus Pauling sulla base della polarità dei legami, permette di fare valutazioni quantitative sull entità del momento di dipolo di una molecola Molecole poliatomiche Siamo ora in grado di affrontare il caso più complesso delle molecole poliatomiche La presenza di più di due nuclei implica che il numero di parametri geometrici (coordinate interne nucleari) sia maggiore di uno. Si devono considerare infatti varie distanze ed angoli di legame. Gli orbitali molecolari sono in generale ottenuti combinando (se si resta nellambito dellipotesi LCAO) tutti gli orbitali atomici degli atomi costituenti (cioè non solo coppie di atomi adiacenti). Consideriamo ad esempio l acqua H 2 O. Mentre nel caso delle molecole biatomiche era sufficiente precisare la distanza interatomica (distanza di legame) per definirne la geometria, ora sono necessari più parametri, e precisamente due distanze di legame ossigeno-idrogeno (uguali per simmetria) un angolo di legame. Per determinare a priori la geometria si può utilizzare il metodo VSEPR (Valence Shell Electron Pair Repulsion): secondo il quale le coppie di elettroni (di legame e di non legame) si respingono e tendono ad assumere la configurazione di massima distanza. Nel caso dell acqua, con quattro doppietti, se questi vengono considerati come equivalenti, si predice una struttura tetraedica, con un angolo di legame di 109.5, molto vicino a quello sperimentale di 107. Però combinando direttamente gli orbitali atomici, e precisamente gli 1s degli idrogeni ed una coppia di orbitali 2p ortogonali dell ossigeno, si otterrebbe un angolo di legame di 90. Si deve quindi generalizzare la procedura di costruzione degli orbitali molecolari, costruendoli a partire non dagli orbitali atomici puri ma da loro combinazioni lineari dette orbitali atomici ibridi. Le comuni ibridizzazioni di un guscio di legame sono Ibridizzazione sp: combinazione lineare tra un orbitale s ed un orbitale p h 1 = s + p h 2 = s p Ovviamente rimangono 2 orbitali p ortogonali a disposizione. Ibridizzazione sp 2 : combinazione lineare tra un orbitale s e 2 orbitali p. Tali orbitali ibridi hanno una struttura trigonale piana con angoli di 120. Rimane libero un orbitale p ortogonale al piano.

262 19.3. MOLECOLE POLIATOMICHE 261 Figura 19.5: Livelli energetici LCAO per l acido fluoridrico HF

263 262 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE Figura 19.6: La struttura della molecola d acqua Ibridizzazione sp 3 : combinazione tra tutti gli orbitali s e p di un guscio. Si generano quattro orbitali tra di loro equivalenti salvo la diversa orientazione secondo i vertici di un tetraedo. Per l acqua si utilizza l ibridizzazione sp 3 che assicura il corretto angolo di legame, costituendo due orbitali molecolari (ed i corrispondenti orbitali di antilegame che però non sono occupati) dalla combinazione lineare di un ibrido 2sp 3 dell Ossigeno con l orbitale 1s di un Idrogeno, ciascuno contenente una coppia di legame. I rimanenti due ibridi 2sp 3 non formano orbitali molecolari e sono ciascuno occupati da una coppia di elettroni (di non-legame). Data la differenza in elettronegatività tra ossigeno ed idrogeno, i legami O-H sono polarizzati con una carica δq su ciascun idrogeno ed una carica 2δq sull ossigeno. Ciò significa che ogni legame possiede un momento di dipolo, ed il momento di dipolo totale µ = µ 1 + µ 2 (19.8) è ottenuto dalla somma vettoriale dei due momenti parziali ed è orientato secondo la bisettrice dell angolo di legame Altri esempi di strutture molecolari sono: 1. l ammoniaca NH 3 (3 doppietti di legame dalla combinazione di 1s degli idrogeni e 2sp 3 dell azoto, e un doppietto di non legame sull ultimo 2sp 3 dell azoto) con una struttura a piramide trigonale 2. il metano CH 4 (4 doppietti di legami dalla combinazione degli 1s dell idrogeno e gli ibridi sp 3 del carbonio) con una struttura tetraedica. 3. un esempio di ibridizzazione sp 2 si realizza con l etilene (etene) CH 2 CH 2, in cui ciascun carbonio forma 3 legami σ utilizzando gli ibridi sp 2 (rispettivamente con due idrogeni e con l altro carbonio), ed un legame π (con l altro carbonio) utilizzando l orbitale 2p disponibile. 4. un altro esempio è dato dal gruppo carbonilico nelle aldeidi e chetoni, ad esempio l aldeide formica H 2 CO che ha una struttura planare imposta dalla ibridizzazione sp 2 del carbonio, il secondo legame tra carbonio e ossigeno essendo formato dagli orbitali 2p non ibridizzati.

264 19.4. CONIUGAZIONE, FLESSIBILITÀ ED INTERAZIONI MOLECOLARI (CENNI) 263 Figura 19.7: Orbitali atomici ibridi sp ed orbitali molecolari per l acetilene 5. l acetilene (etino) costituisce invece un esempio di ibridizzazione sp che determina una struttura lineare, con triplo legame carbonio-carbonio derivante dalla combinazione di una coppia sp (legame σ) e da due coppie ortogonali di orbitali 2p (legame π) Coniugazione, flessibilità ed interazioni molecolari (cenni) Coniugazione Consideriamo il caso specifico del butadiene. Secondo la procedura precedentemente illustrata si introduce una ibridizzazione sp 2 su ciascun atomo di carbonio, e su questa base si ottiene una struttura planare per ciascuna metà della molecola. Quindi ci si aspetterebbe una relativa libertà di rotazione attorno al legame singolo centrale. Nei fatti la molecola ha una notevole rigidità assumendo una configurazione globalmente planare. Una spiegazione accurata del fenomeno si basa sulla costruzione di orbitali molecolari distribuiti Figura 19.8: La struttura del butadiene su tutti gli atomi della molecola che prevede quindi una significativa sovrapposizione tra gli orbitali 2p

265 264 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE degli atomi di carbonio centrali, a cui corrisponde un guadagno energetico che sfavorisce le corrispondenti rotazioni del legame centrale. Una spiegazione semplificata che mantiene la pittura degli orbitali molecolari di legame derivanti dalla sovrapposizione di orbitali atomici adiacenti fa uso delle formule di risonanza: esistono più strutture di legame possibile e la funzione d onda del sistema è in risonanza (cioè una sovrapposizione) tra queste. È implicita l ipotesi che l esistenza di più formule di risonanza stabilizzi il sistema. Nel caso del butadiene le formule di risonanza possibili comprendono strutture che escludono la rotazione attorno al legame C-C centrale. Le formule di risonanze sono spesso invocate per spiegare l aromaticità del benzene, secondo le strutture di Kekulè. Un altro caso di grande importanza applicativa è il legame peptidico R-CO-NH-R per cui viene previsto una struttura planare Flessibilità molecolare Finora sono state esaminate molecole semplici a struttura rigida (non considerando la dinamica vibrazionale). Le molecole complesse, e particolarmente quelle di interesse biologico, sono caratterizzate da una struttura flessibile. A titolo esemplificativo esaminiamo la molecola di etano CH 3 CH 3. La struttura di legame è facilmente deducibile, utilizzando una ibridizzazione sp 3 per ambedue gli atomi di carbonio. Quindi i quattro legami di un carbonio sono disposti (approssimativamente) come un tetraedo, e la molecola globalmente come la sovrapposizione di due tetraedi allineati secondo l asse del legame σ C-C. Però l angolo (torsionale) tra i due tetraedi rimane libero, ed a priori può assumere qualsiasi valore. Calcoli quanto-meccanici accurati del sistema permettono di determinare l energia del sistema come funzione dell angolo torsionale (il profilo energetico risultante viene anche denominato come potenziale interno U(θ). Ne risulta un profilo energetico con tre minimi (equivalenti per simmetria) in corrispondenza della configurazione sfalsata dei legami C-H. Tale configurazione corrisponde alla situazione di massima distanza dei doppietti di legame dei due metili. La molecola non assume necessariamente solo la configurazione dei minimi, date le (relativamente) piccole variazioni di energia richieste per lo spostamento da tali geometria. In questi casi bisogna descrivere il sistema in termini di probabilità che un certo valore di angolo torsionale venga assunto, sulla base della legge di distribuzione di Boltzmann per la probabilità di uno stato ad energia E P = exp( E/k BT ) Q (19.9) Q essendo un opportuno fattore di normalizzazione (la somma delle probabilità su tutti gli stati deve essere unitaria) e k B è la costante di Boltzmann k B = R/N. Una scrittura alternativa è P = exp( N E/RT ) Q (19.10) con EN che rappresenta una energia per mole (ad esempio data in kj/mol, mentre RT = 2.48kJ/mo a temperatura ambiente. Con tale relazione si può determinare la probabilità rispetto all angolo torsionale. Si evidenzia facilmente una distribuzione (dipendente dalla temperatura) centrata sui minimi di potenziale, ma con valori non trascurabili anche per angoli vicini. Si noti che la distribuzione torsionale non si realizza nel caso per esempio dell etilene, poichè la rotazione attorno al legame C-C implica la rottura del legame π e quindi elevati incrementi energetici, che rendono poco probabili fluttuazioni dell angolo torsionale. Una simile analisi puó essere effettuata per il potenziale interno relativo all angolo torsionale centrale del butano,

266 19.4. CONIUGAZIONE, FLESSIBILITÀ ED INTERAZIONI MOLECOLARI (CENNI) 265 Figura 19.9: Conformazioni e potenziale interno per il butano

267 266 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE il sistema prototipo per gli alcani lineari. In questo caso il sistema non è pi`simmetrico rispetto a rotazioni di 120 e gli incrementi energetici sono più elevati. Si individuano tre conformazioni, la conformazione trans per θ intorno a 180 e conformazioni gauche± ruotate di ± Interazioni intermolecolari La meccanica quantistica permette di analizzare anche le interazioni intermolecolari, ad esempio calcolando l energia di interazione tra due molecole come funzione della mutua distanza. Il caso più semplice è rap- Figura 19.10: Potenziale di Lennard-Jones per due atomi di argon presentato da sistemi formati da atomi (gas nobili) per i quali si ottiene per l energia di interazione una dipendenza dalla distanza interatomica r rappresentabile secondo il potenziale di Lennard-Jones (LJ) V (r) = 4ɛ [ (σ r ) 12 ( ) ] σ 6 r (19.11) dove σ è la cosiddetta distanza di contatto ed ɛ è l energia di stabilizzazione; σ/2 viene anche indicato come raggio di van der Waals, cioè il raggio della sfera rappresentativo dell atomo nell escludere gli altri atomi. Anche se si puà riscontrare una certa assomiglianza del potenziale LJ con il profilo di energia di legame, la situazione fisica è completamente diversa. Infatti le energie coinvolte sono ordine di grandezza più piccole e comparabili a k B T. Quindi tra due atomi interagenti con un potenziale LJ non si viene a stabilire un legame chimico vero e proprio. Inoltre le interazioni intermolecolari sono addittive, nel senso che per un dato atomo tutti gli atomi circostanti in condizione di contatto portano un analogo contributo (mentre l energia di legame è esclusiva di due atomi legati). Tale stabilizzazione tra atomi adiacenti rende possibili le fasi condensate (i liquidi in particolare) compensando la perdita entropica rispetto alla fase gassosa. Una situazione di questo tipo si ritrova nei fluidi molecolari con forze intermolecolari a corto raggio descrivibili secondo il potenziale di Lennard-Jones di due atomi a contatto appartenenti a due molecole diverse. Però nel caso dei fluidi molecolari di natura polare esistono anche contributi a lunga distanza attribuibili alle interazioni di tipo elettrostatico tra i dipoli (la

268 19.5. INTERAZIONI INTERMOLECOLARI 267 configurazione allineata dei dipoli viene favorita). Il caso degli ioni disciolti che presentano forti interazioni (allineamento) con i dipoli va considerato come un caso a parte. Ovviamente l intensità di tali interazioni elettrostatiche vengono a dipendere dalla polarità molecolare (cioè dall entità del dipolo elettrico molecolare); esse hanno un ruolo secondario negli idrocarburi (alcani) con basso momento di dipolo, mentre sono fondamentali in fluidi altamente polari quali l acqua che in particolare presenta il fenomeno del legame ad idrogeno: debole legame (sovrapposizione) tra un idrogeno già legato ed un doppietto di non legame di un ossigeno adiacente.

269 268 CAPITOLO 19. STRUTTURA MOLECOLARE

270 Capitolo 20 Spettroscopie In questa settima ed ultima raccolta di appunti di lezione saranno presentati alcuni concetti elementari relativi alle tecniche spettroscopiche più comuni, che sono gli strumenti conoscitivi più importanti per la chimica moderna. Poichè però è probabile che lo studente difetti di concetti fondamentali per una piena comprensione di molti aspetti delle indagini spettroscopiche (p.es. una conoscenza anche solo accennata della simmetria molecolare, una chiara distinzione tra fenomeni dinamici ed indipendenti dal tempo, alcune tecniche teoriche di base come la teoria delle perturbazioni etc.), le note che seguono sono necessariamente molto limitate in scopo ed estensione. L obiettivo primario per lo studente dovrebbe essere conoscere l esistenza delle principali spettroscopie ottiche e magnetiche e saper distinguere, a grandi linee, il tipo di informazioni che da queste si possono ricavare. La dispensa è chiusa da un capitolo dedicato ai metodi statistici per la descrizione delle proprietà molecolari, con una discussione di alcuni casi specifici soprattutto da un punto di vista applicativo. Anche in questo caso la trattazione resta ad un livello elementare, ma dovrebbe risultare utile allo studente che sia interessato ad una visione d insieme delle nozioni apprese in precedenza Le principali tecniche spettroscopiche I metodi spettroscopici sono tecniche sperimentali basate sull interazione tra energia e materia per la determinazione di proprietà fisiche e chimiche. Spettroscopie ottiche assorbimento-emissione UV-visibile fluorescenza, fosforescenza, spettroscopia infrarossa; Raman Spettroscopie magnetiche risonanza magnetica nucleare, NMR risonanza elettronica di spin, ESR Scattering 269

271 270 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE diffrazione raggi X scattering neutronico Le spettroscopie magnetiche saranno discusse nel prossimo capitolo e sono in generale basate sulle transizioni tra diversi livelli energetici dovuti alla presenza di momenti di spin (nuclaere od elettronico) diversi da zero. Nel caso dei nuclei, lo spin (rotazione) di alcuni nuclei atomici (paramagnetici) su sé stessi è associato ad un momento magnetico: la carica in rotazione genera un campo magnetico. La misura dellassorbimento di energia da parte di nuclei paramagnetici si dice nuclear magnetic resonance (NMR). Analogamente, il fenomeno detto electron spin resonance (ESR) è la spettroscopia di assorbimento di energia da parte di elettroni paramagnetici (spaiati) presenti in specie chimiche radicaliche o complessi inorganici. Lo spin dellelettrone spaiato genera un momento di dipolo magnetico. le spettroscopie di scattering misurano la diffrazione di particelle (es. neutroni o elettroni) o radiazioni incidenti su una strttura molecolare. Tra le spettroscopie di scattering più note troviamoi La cristallografia a raggi X, che è una tecnica della cristallografia in cui l immagine, prodotta dalla diffrazione dei raggi X attraverso lo spazio del reticolo atomico in un cristallo, viene registrata e quindi analizzata per rivelare la natura del reticolo. In genere, questo porta a determinare il materiale e la struttura molecolare di una sostanza. La cristallografia a raggi X il metodo principale per determinare le conformazioni molecolari delle macromolecole biologiche, particolarmente delle proteinee degli acidi nucleici come il DNA e l RNA. Le tecniche di misura spettroscopiche ottiche misurano l interazione delle sostanze chimiche con una radiazione elettromagnetica. Le molecole interagiscono con una radiazione elettromagnetica assorbendo o cedendo energia, passando cioè da stati ad energia minore a stati ad energia maggiore (assorbimento) o da stati ad energia maggiore a stati ad energia minore (emissione). Una molecola assorbe od emette radiazioni quando subisce un cambiamento del suo livello energetico (autovalore dell hamiltoniano molecolare); dalla frequenza di emissione o di assorbimento E = E finale E iniziale = hν (20.1) si possono avere informazioni sui livelli energetici coinvolti, E iniziale, E finale e quindi sulla struttura della molecola. Il processo di assorbimento od emissione di un fotone è dovuto all interazione tra i due stati, misurata dal momento di transizione, che è proporzionala all intensità della riga µ transizione = Ψ finale ˆµ Ψ iniziale (20.2) Il momento di transizione può essere messo in relazione alla forma degli stati iniziale e finale e dell operatore momento di dipolo di transizione µ (principio di Franck-Condon) 20.2 Spettroscopie ottiche le principali tipologie di spettri ottici possono essere classificate in base alla frequenza della radiazione interagente: Microonde E = kj mol 1, ν = Hz ( cm 1 ); sono coinvolti livelli energetici rotazionali; si ottengono informazioni su distanze internucleari

272 20.2. SPETTROSCOPIE OTTICHE 271 Figura 20.1: Stati iniziali e finali in una transizione elettronica: tipologie di sovrapposizione tra stato fondamentale e stato eccitato Infrarosso lontano E = kj mol 1, ν = Hz (3-300 cm 1 ); sono coinvolti livelli energetici rotazionali e vibrazionali; si ottengono informazioni costanti di forza di legame Infrarosso E = 4 40 kj mol 1, ν = Hz ( cm 1 ); sono coinvolti livelli energetici vibrazionali; si ottengono informazioni costanti di forza di legame, momenti di dipolo Raman E = kj mol 1, ν = Hz ( cm 1 ); sono coinvolti livelli energetici rotazionali e vibrazionali; si ottengono informazioni costanti di forza di legame, momenti di dipolo, distanze internucleari UV-visibile E = kj mol 1, ν = Hz ( cm 1 ); sono coinvolti livelli energetici elettronici; si ottengono informazioni costanti di forza di legame, etc. più energia di dissociazione dei legami Ricordiamo che l energia di una molecola è data dalla somma dei (1) contributi elettronici (livelli energetici corrispondenti a diversi stati elettronici); (2) contributi vibrazionali (livelli energetici corrispondenti a diversi stati vibrazionali; (3) contributi rotazionali (livelli energetici corrispondenti a diverse orientazioni nello spazio). L energia quantizzata totale di una molecola (trascurando il moto traslazionale) è pertanto E E elet + E vib + E rot (20.3) I livelli energetici sono approssimativamente separati in livelli energetici elettronici, vibrazionali e rotazionali. Ad ogni livello energetico elettronico corrisponde una sottodivisione in livelli vibrazionali, che a loro volta sono suddivisi in livelli rotazionali. Da questa semplice considerazione possiamo indicare le seguenti relazioni dirette tra tipo di transizione e spettroscopia: Transizioni tra livelli elettronici spettroscopia UV-visibile

273 272 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE Transizioni tra livelli vibrazionali spettroscopia IR Transizioni tra livelli rotazionali spettroscopia micronde L analisi dei segnali di emissione/assorbimento in una generica spettroscopia ottica può avvenire in linea di principio in base alla soluzione completa dell equazione di Schrödinger per la molecola o le molecole coinvolte nella transizione. Di fatto, sono convenientemente introdotte varie approssimazioni 1 Born-Oppenheimer per separare i livelli elettronici dai moto roto-vibrazionali Oscillatore armonicoper descrivere i livelli vibrazionali Rotatore rigido per descrivere i livelli rotazionali 20.3 Spettroscopia elettronica La spettroscopia elettronica o UV-Visibile studia l assorbimento di luce UV e visibile dalle molecole, che causa la promozione di un elettrone da uno stato ad energia minore ad uno stato ad energia maggiore l emissione di luce UV e visibile dalle molecole, che causa la discesa di un elettrone da uno stato ad energia maggiore (eccitato) ad uno stato ad energia minore fluorescenza, fosforescenza La spettroscopia elettronica lavora nell ambito dell ultravioletto e della luce visibile (lunghezza d onda λ tra 190 e 800 nm. L assorbimento o l emissione UV-visibile presenta bande generalmente molto larghe, perch sono costituite dalla sovrapposizione di transizioni vibrazionali e rotazionali. L eccitazione di un elettrone legato dall Highest Occupied Molecular Orbital (HOMO) al Lowest Unoccupied Molecular Orbital (LUMO) è misurata in un esperimento di assorbimento. Il decadimento dal LUMO all HOMO è misurato in un esperimento di emissione: la presenza di bande allargate è dovuta ai livelli roto-vibrazionali presenti in ogni livello elettronico. L interpretazione di uno spettro UV/visibile è basata su varie considerazioni, relative soprattutto ai livelli energetici elettronici coinvolti nelle transizioni molecoari osservate. In generale l emissione di radiazione UV-visibile da uno stato eccitato con momento di spin elettronico totale nullo (singoletto) allo stato fondamentale elettronico di una molecola è detta fluorescenza, mentre l emissione da uno stato elettronico con momento di spin totale pari ad uno (tripletto) è detta fosforescenza. I diagrammi che descrivono le transizioni possibili tra i diversi livelli energetici (elettronici e vibrazionali), si dicono diagrammi di Jablonski. Le seguenti definizioni sono molto utili per discutere le caratteristiche principali degli spettri UV-Visibile: cromoforo: gruppo di atomi che assorbe luce auxocromo: gruppo che estende la coniugazione di un cromoforo condividendo elettroni liberi Shift batocromico: spostamento dell assorbimento a lunghezze d onda maggiori Shift ipsocromico: spostamento dell assorbimento a lunghezze donda minori 1 Anche se oggi esistono approcci volti ad una completa soluzione del calcolo di spettri

274 20.3. SPETTROSCOPIA ELETTRONICA 273 Figura 20.2: Schema delle transizioni di assorbimento ed emissione UV-visibile Effetto ipercromico: aumento dell intensità di assorbimento Effetto ipocromico: diminuzione dellintensità di assorbimento Legge di Lambert-Beer La luce incidente su di un sistema macroscopico può essere riflessa, trasmessa, rifratta, diffusa o assorbita. La frazione di luce assorbita dipende dalla natura della sostanza (cioè dai fenomeni di assorbimento da parte delle molecole), dallo spessore del mezzo considerato ed anche dalla lunghezza d onda della radiazione. Uno spettro UV-Visibile si ottiene di solito facendo passare della luce di una lunghezza d onda definita (luce monocromatica) attraverso una soluzione diluita in un solvente non-assorbente. L intensità della banda di assorbimento si misura come la percentuale di luce incidente che passa attraverso il campione Trasmittanza percentuale = 100 I (20.4) I 0 dove I è l intensità della luce trasmessa e I 0 è l intensità della luce incidente. L assorbimento della luce è funzione della concentrazione delle molecole assorbenti, ed esiste una legge quantitiva che lega l assorbanza (collegata alla trasmittanza) in funzione della concentrazione, detta legge di Lambert-Beer: ( ) I A = log = ɛcl I0 (20.5) Nell equazione di Lambert-Beer, ɛ è il coefficiente di assorbimento molare, c è concentrazione molare del soluto, l è la lunghezza della cella (in cm).

275 274 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE Figura 20.3: Bande di assorbimento ed emissione UV-visibile Lo spettro si ottiene di solito da una soluzione molto diluita (1 mg in 100 ml di solvente). Una porzione di soluzione si ripone in una cella (o cuvetta); una cella analoga piena di solvente (bianco o riferimento) viene posta in una sezione adiacente dello spettrofotometro a doppio raggio Due raggi luminosi identici Figura 20.4: Schema di uno spettrometro UV-visibile vengono fatti passare per le due cuvette. L intensità delle due trasmittanze viene misurata su tutto il range di lunghezze d onda disponibili. Lo spettro viene rappresentato come log(i 0 /I) in ordinata contro λ in ascissa, anche se in letteratura si possono trovare ɛ vs. λ oppure log(ɛ) vs. λ. Una serie di considerazioni relative al rapporto esistente tra bande osservate e struttura elettronica possono essere di grande aiuto nell interpretazione di uno spettro UV-Visibile. In pratica ai legami chimici o

276 20.4. SPETTROSCOPIA INFRAROSSA 275 ai livelli energetici coinvolti possiamo associare classi di composti σ σ (alcani) σ π (carbonili) π π (alcheni, carbonili, alchini, azocomposti) Senza alcuna pretesa di completezza, riportiamo alcune semplici regole intepretative: Se lo spettro di un composto esibisce una banda di assorbimento ad intensità bassa nella regione nm, e nessun altro assorbimento sopra i 200 nm, il composto contiene un solo cromoforo non coniugato Se lo spettro presenta molte bande, anche nel visibile, il composto contiene probabilmente catene coniugate o gruppi aromatici. Se il composto è colorato possono esistere almeno 4,5 cromofori coniugati e gruppi auxocromi (con l eccezione di alcuni nitro-, azo-, diazo-, and nitroso-composti che sono colorati). Un valore di e tra and generalmente rappresenta un semplice chetone a,b-insaturo o un diene. Bande con ɛ tra 1000 e normalmente mostrano la presenza di un gruppo aromatico. Se il gruppo aromatico ha dei gruppi funzionali possono comparire bande con ɛ maggiore di Spettroscopia infrarossa La spettroscopia infrarossa studia l assorbimento di luce nella regione dei raggi infrarossi, corrispondente ai livelli energetici vibrazionali (modifiche delle lunghezze dei legami chimici e degli angoli di legame). La radiazione coinvolta è nell intervallo dell infrarosso: lunghezza d onda λ tra 2.5 e 25 µm o numeri d onda tra 4000 e 400 cm 1. Uno spettrometro IR è formato da una sorgente di luce infrarossa (lampada IR), da un contenitore per il campione, da un prisma per separare la luce nelle varie componenti, da un rivelatore, e da un registratore (video, stampa etc.) La spettrometria IR misura transizioni tra livelli vibrazionali. Il calcolo dei livelli energetici di una molecola in uno stato elettronico determinato richiede la definizione del potenziale elettronico (livello energetico elettronico) e la soluzione dell equazione di Schrödinger relativa al moto vibrazionale dei nuclei nel potenziale elettronico. In pratica i vari modi normali di vibrazione (= tipi di vibrazione interne della molecola) si possono considerare come indipendenti l uno dall altro e, almeno in linea di di principio, ciascuno responsabile di un segnale IR. In generale una molecola di N atomi ha 3N 6 gradi di libertà vibrazionali modi di vibrazione; se la molecola è lineare i gradi vibrazionali sono 3N 5. La giustificazione formale è semplice: i gradi di libertà nucleari totali di una molecola sono 3N (tutte le coordinate dei nuclei); di queste, tre descrivono la traslazioone della molecola come un oggetto rigido e tre (o due nel caso di una molecola lineare) la rotazione della molecola come un oggetto rigido. Restano pertanto 3N 6 o 3N 5 gradi di libertà interni. Consideriamo per semplicità una molecola biatomica, per (es. H 2 ). Calcoliamo i livelli energetici vibrazionali per la molecola nel suo stato fondamentale. oscillatore armonico di massa µ = m 1m 2 m 1 + m 2 Descriviamo il moto relativo dei nuclei come un (20.6)

277 276 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE Figura 20.5: Schema di uno spettrometro IR dove m 1,2 sono le masse dei nuclei; µ è la massa ridotta. La curvatura del potenziale è legata alla forza di legame V (x) = 1 2 kx2 (20.7) dove k è la costante di forza e x è la distanza di legame. L equazione di Schroedinger per l oscillatore armonico è (vedi Dispensa n. 6) Ĥψ(x) = Eψ(x), dove l hamiltoniano Ĥ è dato dalla somma dell energia cinetica e potenziale Ĥ = h2 2µ 2 + V (x) (20.8) 2 x La soluzione è quantizzata ψ n (x) = N n exp 1 ( ) h 2 1/2 ( ) x 2 h 2 1/4 H N x (20.9) 2 kµ kµ ( ) 1 E n = 2 + n hν n : intero 0 (20.10) Nella precedente equazione la frequenza di oscillazione ν è definita come ν = ω 2π = 1 2π k µ. La presenza di molti modi di vibrazione (=oscillatori armonici) in una molecola, ciascuno descritto da una frequenza propria e da una serie di livelli vibrazionali, rende uno spettro IR sensibile alla struttura molecolare. L interpretazione delle bande IR rivela diversi possibili movimenti interni della molecola, dovuti alla presenza di gruppi funzionali specifici. Non tutti i modi vibrazionali sono però visibili in uno spettro IR: in particolare

278 20.4. SPETTROSCOPIA INFRAROSSA 277 quelli per cui il momento di transizione è nullo non sono rilevabili. I modi più comuni sono detti di stretching o stiramento. Le frequenza di stretching (stiramento) si possono determinare con la regola empirica ν = 4.12 k µ (20.11) dove k è la costante di forza in dyne cm 1, che vale per un legame singolo k = dyne cm 1, per un legame doppio k = dyne cm 1, per un legame triplo k = dyne cm 1 ; µ è la massa ridotta espressa in grammo-moli. Per esempio, nel caso del legame doppio carboni-carbonio (C=C): ν = 4.12 ( /12 12/( ) = 1682cm 1 il valore 1682 (calcolato) è da confrontarsi con 1650 cm 1 (misurato). I fattori che influenzano la frequenza di assorbimento sono molteplici. I principali sono: le masse atomiche: C-H (3000 cm 1 ), C-C (1200 cm 1 ), C-O (1100 cm 1 ), C-Cl (750 cm 1 ), C-Br (600 cm 1 ), C-I (500 cm 1 ) l ordine di legame: C C (2150 cm 1 ), C=C (1650 cm 1 ), C-C (1200 cm 1 ) l ibridizzazione: C-H sp (3300 cm 1 ), C-H sp 2 (3100 cm 1 ), C-H (sp 3 ) (2900 cm 1 ). Come per - ed anzi in misura maggiore - gli spettri UV-visibile, l analisi di uno spettro IR è basata su varie linee-guida. In particolare, si possono associare gruppi funzionali a zone di assorbimento specifico nello spettro: Esiste un gruppo carbonile ( cm 1 ) Acidi O-H ( cm 1 ) Ammidi N-H ( 3400 cm 1 ) Esteri C-O ( cm 1 ) Anidridi, 2 assorbimenti C=O ( cm 1 ) Aldeidi C-H (2850 e 2750 cm 1 ), chetoni (nessuno dei gruppi precedenti) Il gruppo C=O non esiste: Alcoli O-H ( cm 1 ); confermato da C-O ( cm 1 ) Ammine N-H (3400 cm 1 ) ed eteri C-O ( cm 1 ) Legami doppi/anelli aromatici: C=C (1650 cm 1 ), C=C aromatici ( cm 1 ), vinile C-H ( 3000 cm 1 ) Legami tripli CN (2250 cm 1 ), CC (2150 cm 1 ), acetilene C H (3300 cm 1 ) Nitrogruppi N-O ( e cm 1 )

279 278 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE 20.5 Proprietà magnetiche Una molecola può essere dotata di un momento magnetico permanente, oltre che di un momento indotto da una campo magnetico esterno (così come può possedere un momento di dipolo elettrico permanente ed indotto). Quando un campo magnetico agisce su un materiale, gli effetti dipendono dalla densità del flusso magnetico B, le cui unità di misura SI è il tesla (T), dove 1 T = Kg s 2 A 1, che corrisponde nel sistema cgs a 10 4 gauss. Un campione macroscopico esibisce una magnetizzazione M, o momento magnetico per unità di volume, che dipende da B e da H, cioè l intensità del campo magnetico: M = B µ 0 H (20.12) dove µ 0 è la permeabilità del vuoto, pari a 4π 10 7 N/A 2. Per un materiale isotropo B = µ H, dove µ è la permeabilità del materiale (quantità adimensionale); da ciò deriva una relazione diretta tra H e M M = χ H, χ = µ µ 0 1 (20.13) χ è la suscettività magnetica del materiale, che può essere positiva (materiale paramagnetico, µ 1), p.es. aria, alluminio, magnesio, platino) o negativa (materiale diamagnetico, µ < 1), p. es.acqua, argento, oro, piombo). Nel primo caso il campo magnetico nel materiale è maggiore che nel vuoto, nel secondo caso è minore. Nel caso il campo magnetico sia molto maggiore si parla di materiale ferromagnetico (µ 1), p. es. cobalto, ferro, nichel). Una relazione generale - dedotta da Langevin (1905) - tra la suscettività magnetica molare e le proprietà molecolari in molti materiali è la seguente χ m = M ( ) ρ χ = N α + p2 3k B T (20.14) dove M è il peso molecolare, α è il momento magnetico indotto, p è il momento magnetico permanente e ρ è la densità. Le caratteristiche magnetiche di una sostanza sono conseguenza diretta delle proprietà molecolari, come si vede dalla formula di Langevin. Una molecola è sede di molti momenti magnetici, che a loro volta dipendono dai vari momenti angolari: orbitali elettronici, di spin elettronici, di spin nucleari. In particolare, il paramagnetismo è legato al momento angolare degli elettroni. La relazione classica tra il momento magnetico di un atomo (idrogenoide per semplicità) con un elettrone che si muova lungo un orbita circolare ed il momento angolare è stimabile con considerazioni elementari come p = γ L (20.15) dove γ = e/2m e è detto rapporto giromagnetico. I due vettori sono antiparalleli e diretti perpendicolarmente all orbita. Da un punto di vista quantistico, il momento angolare dell elettrone è quantizzato, secondo il numero quantico l, ed assume solo i valori l(l + 1) h. In presenza di un campo magnetico esterno, il momento angolare precede attorno alla direzione del campo, e la componente diretta lungo il campo assumere i valori quantizzati m h, dettati dal numero quantico magnetico. I valori permessi della componente diretta lungo il campo (per semplicità assumiamo che sia diretta lungo l asse z di laboratorio) sono p z = mµ B (20.16) dove µ B = e h/2m e si chiama magnetone di Bohr e vale J T 1.

280 20.5. PROPRIETÀ MAGNETICHE 279 Figura 20.6: Linee di campo nei materiali magnetici L elettrone possiede un momento angolare intrinseco, detto spin, che causa un momento magnetico. Un elettrone spaiato è perciò un piccolo magnete. Anche in questo caso possiamo trovare una relazione di proporzionalità diretta tra momento magnetico e momento angolare di spin, ma il rapporto giromagnetico è (circa) il doppio di quello del caso orbitalico, γ = e/m e ; la quantizzazione del modulo dipende dal numero quantico di spin s, che peraltro per un elettrone vale 1/2, secondo la solita relazione s(s + 1) h, ed in presenza di una campo magnetico la componente lungo il campo è quantizzata nei due valori ± h/2. Il corrispondente momento magnetico è perciò un magnetone di Bohr, (e/m) ( h/2) = µ B ; lo studio dell influenza di un campo magnetico sulla quantizzazione dei momenti magnetici risultanti dalla presenza di elettroni spaiati e la loro dipendenza dall intorno chimico sono brevemente discussi nella sezione che segue dedicata alla spettroscopia EPR. Infine, le proprietà magnetiche di una molecola sono dettate anche dal momento magnetico dei nuclei atomici, che lungi dall essere delle cariche puntiformi positive, come finora abbiamo supposto, sono in realtà dotati spesso (non sempre) di momento angolare di spin intrinseco, e quindi di momento magnetico; lo studio dell influenza di un campo magnetico sulla quantizzazione dei momenti magnetici nucleari, le transizioni tra livelli energetici magnetici nucleari e la loro dipendenza dall intorno chimico sono brevemente discussi nella prossima sezione dedicata alla spettroscopia NMR.

281 280 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE Figura 20.7: Quantizzazione del momento magnetico orbitalico 20.6 Risonanza magnetica nucleare Lo spin di un nucleo è descritto da un numero quantico, che indichiamo con I, ed è associato al vettore momento di spin I. Per nuclei con numero di massa dispari, I è un multiplo dispari di 1/2, mentre per nuclei con numero di massa pari I è un multiplo pari di 1/2. Il momento magnetico è parallelo (dato che la carica è positiva) al momento angolare, ed assume i valori p N = g N µ N I(I + 1) dove gn è il fattore g nucleare, che dipende da nucleo a nucleo (per l idrogeno g N = ) e µ N è il magnetone nucleare e h/2m p = J T 1. In presenza di una campo magnetico esterno B 0, in analogia a quanto è stato già discusso nellaq sezione precedente, la componente del momento magnetico nucleare diretta lungo il campo assume valori quantizzati, che corrispondono anche a livelli energetici rivelati dalla struttura iperfine delle righe spettrali. Per un nucleo con numero di spin nucleare I, la componente assume i valori p N,z = M I g N µ N (20.17) dove M I = I, I + 1,..., I 1, I; l energia associata ai livelli è data dalla semplice espressione E = p N,z B 0 = M I g N µ N B 0. I livelli risultano quindi equispaziati con una differenza di energia tra livelli adiacenti ( M I = ±1) E = g N µ N B 0 = γ N hb 0 (20.18) dove γ N è il rapporto giromagnetico del nucleo considerato. Tipicamente queste energie corriponsdono alle onde radio; per sempio nel caso del 19 F g N = , e per B 0 = 1 T si ha E = J, cui

282 20.6. RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE 281 Figura 20.8: Transizioni tra livelli magnetici corrisponde ν = E/h = MHz. In generale la frequenza di transizione tra livelli energetici adiacenti è detta frequenza di Larmor o frequenza di risonanza: ν = γ NB 0 2π (20.19) Le transizioni tra questi livelli energetici sono osservabili con picchi di assorbimento, da esprimersi in opportune unità (vedi oltre). In pratica, nei moderni spettrometri NMR, il campione è soggetto ad un campo magnetico molto intenso che genera lo splitting dei livelli. L eccitazione avviene mediante onde radio e l assorbimento in corrispondenza delle diverse frequenze di risonanza viene registrato. Quindi, in sintesi, in uno spettro NMR in ascissa abbiamo una misura della frequenza di assorbimento ed in ordinata un assorbanza Chemical shift L utilità della spettroscopia NMR discende da un importante considerazione: i nuclei attivi risentono del loro intorno chimico formato da altri atomi che li circondano, con i loro elettroni. Il campo magnetico applicato induce, sull intorno elettronico di ogni nucleo, un campo magnetico locale opposto (fenomeno di induzione). La nube elettronica provoca cio una modulazione locale del campo applicato, detta schermatura. Il

283 282 CAPITOLO 20. SPETTROSCOPIE Figura 20.9: Schema di uno spettrometro NMR campo residuo effettivo è B = B 0 (1 σ). Al variare dell intorno chimico di un certo nucleo, la frequenza di risonanza risultare più bassa di un fattore 1 σ, poichè solitamente il campo magnetico indotto opposto a quello applicato. Diversi valori di σ corrispondono a diversi intorni chimici. Un modo conveniente di definire il comportamento di un nucleo è dato dallo spostamento chimico o chemical shift che si ricava mettendo in relazione le costanti di schermo dei vari nuclei con un composto standard. Per studi NMR basati sul protone e sul 13 C si usa come standard il tetrametilsilano (Si(CH 3 ) 4, TMS). L atomo di silicio è infatti il meno elettronegativo dei tre elementi che costituiscono il TMS (elettronegatività: Si=1.91; H=2.1; C=2.55), è ciò causa un altissima schermatura del carbonio e dell idrogeno. Inoltre, grazie all alta simmetria della molecola, tutti gli atomi di carbonio e tutti gli atomi di idrogeno sono schermati nella stessa misura. Il chemical shift è definito in modo rigoroso come la frequenza di assorbimento del nucleo, meno la frequenza del riferimento, diviso per la frequenza del riferimento moltiplicato per 10 6 e cioè in parti per milione (ppm) δ = ν ν rif ν rif 10 6 (20.20) Spesso si descrive il comportamento di un determinato nucleo in termini di posizioni relative nello spettro. Per esempio, un picco con shift δ = 10 ppm è detto a campi bassi (o deschermato) rispetto ad un picco a 5 ppm, tenendo presente che la massima schermatura in linea di principio è a 0 ppm. L analisi di uno spettro NMR può essere molto complessa, ma anche estremamente informativa sulla struttura e la dinamica molecolare. Di particolare importanza risulta essere il fenomeno detto accoppiamento spin-spin (spin-spin coupling), che è responsabile di molte delle caratteristiche che rendono la spettroscopia NMR così utile per determinare la struttura di una molecola. Consideriamo come esempio l etanolo,

284 20.6. RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE 283 Figura 20.10: Chemical shift CH 3 CH 2 OH, di cui è riportato lo spettro 1 H NMR ad alta risoluzione in figura. Lo spettro mostra che nella posizione del metile (CH 3 ) sono presenti tre picchi ed in quella del metilene (CH 2 ) sono presenti quattro picchi. Ciò accade a causa di una piccola interazione (accoppiamento) tra i due gruppi di protoni. Si può verificare come la distanza tra i picchi del tripletto metilico e tra i picchi del quartetto metilenico sia uguale: questa quantità, di solito espressa in Hertz, è detta costante di accoppiamento, J. Qual è la causa della presenza dei picchi? Consideriamo i protoni del metilene: sono due, e ciascuno può avere una di due possibili orientazioni (allineato od opposto al campo magnetico), il che porta a quattro possibili configurazioni, nella prima delle quali gli spin sono entrambi opposti al campo: questo causa una lieve diminuzione del campo risentito dai protoni del metile (e quindi si vede uno spostamento a campi un po più alti); delle altre tre configurazioni, due hanno gli spin in opposizione l uno all altro e quindi non influenzano i protoni metilici; l ultima rafforza il campo (essendo gli spin entrambi paralleli al campo stesso) e quindi i protoni metilici si spostano a campi un po più bassi. Il risultato è che i protoni del metile si vedono come un tripletto con intensità (rapporto fra le aree) 1:2:1. Allo stesso modo, l effetto dei protoni del metile sui protoni del metilene è razionalizzabile dalle otto possibili combinazioni dei tre protoni; di queste abbiamo due gruppi di tre con lo stesso effetto magnetico. Si hanno perciò quattro possibili effetti, che portano ad uno splitting del metilene in quattro picchi con intensità 1:3:3:1. In uno spettro, assumendo che il chemical shift tra gruppi di protoni interagenti sia molto maggiore delle loro costanti di accoppiamento, l intepretazione dei picchi è molto semplice la molteplicità di un multipletto è data dal numero di protoni equivalenti vicini più uno i nuclei equivalenti non interagiscono fra loro la costante di accoppiamento è indipendente dal campo applicato Isotopi L isotopo paramagnetico più usato ed abbondante è 1 H, con un chemical shift non grande, ma segnali molto stretti; il deuterio 2 H è di solito impiegato come tale in solventi deuterati (per non interferire con l idrogeno), ma anche come sonda per membrane fosfolipidiche, cristalli liquidi etc. L isotopo di elio 3 He è molto sensibile, ma è presente in percentuali piccole nell elio naturale, che quindi deve essere arricchito artificialmente (è usato per lo studio dei fullereni). Il 13 C è molto usato, anche se è presente in basse percentuali: l acquisizione degli spettri è quindi molto lenta; è usato per marcare composti in studi di sintesi e metabolismo, ha una bassa

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