Cass. Sez. IV Pen. del 26/10/2015 n A cura di Rolando Dubini

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1 A cura di Rolando Dubini Massima In materia di prevenzione degli infortuni, vi è esclusione della responsabilità del datore di lavoro nel caso il lavoratore ponga in essere condotte atipiche, abnormi o esorbitanti le sue funzioni. La responsabilità dell'imprenditore deve essere esclusa allorché l'infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui è addetto, oppure a causa di inosservanza di precise disposizioni antinfortunistiche. Ai sensi dell'art. 41 cpv., il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all'agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale (v. Cass. Pen. sez. 4 n /2013). La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (v. Cass. Pen. sez. 4, n del 06/11/2009, rv ); e tanto, sul presupposto che, in tema di reati colposi, l'addebito soggettivo dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato (v. Cass. Pen. sez. 4, Sentenza n del 11/03/2010, Rv ). Commento Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro. Non sussiste un automatico addebito ma occorre la verifica della violazione di una regola di prevenzione (generica o specifica), e la prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso, e l esistenza del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso Ovvero occorre dimostrare che se fossero state adottate delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito) l infortunio si sarebbe evitato, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. La decisione La Corte di Appello aveva confermata la sentenza con cui il Tribunale ha condannato alla pena di giustizia un lavoratore autonomo artigiano, incaricato da un committente di effettuare e realizzare lavori di smontaggio, il titolare di un impresa individuale, incaricata di effettuare e realizzare lavori di allestimento e datore di lavoro della persona offesa nonché l amministratore della società committente dei lavori di smontaggio e allestimento di uno stand all'interno di un polo fieristico per avere cagionato a un lavoratore dipendente dell impresa, con colpa e per violazione degli obblighi di protezione che ineriscono alle

2 rispettive posizioni di garanzia, delle lesioni personali, con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo complessivo di 156 giorni. La Corte di Appello ha individuato una colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia e nella violazione di disposizioni specifiche in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro: il datore di lavoro dell infortunato per ha provveduto a fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e per non aver coordinato gli interventi di prevenzione e di protezione dei rischi ai quali erano esposti i lavoratori anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze reciproche tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell opera complessiva (in violazione dell'art. 7 comma lett. h e comma 2 del D.Lgs n. 626/1994) oltre che per non avere sorvegliato sull'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale del proprio lavoratore infortunato che non indossava il necessario D.P.I. (caschetto protettivo) (in violazione dell'art. 4 lett. f del medesimo decreto legislativo). Il ricorso in Cassazione e le motivazioni Avverso il provvedimento della Corte di Appello il datore di lavoro dell infortunato ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo che non vi fosse un nesso causale tra la sua condotta da lui ritenuta diligente e l'infortunio del dipendente. Secondo lo stesso, infatti, l artigiano, in occasione dell infortunio, aveva deciso di compiere le operazioni di smontaggio di un pannello senza rispettare la procedura che gli era stata appositamente illustrata e il lavoratore dipendente da parte sua, chiamato dall artigiano per aiutarlo, era transitato impropriamente sotto il pannello in fase di smontaggio venendo colpito dallo stesso. Sia il lavoratore che l artigiano, secondo l imputato, erano stati compiutamente informati delle procedure operative, avevano seguito un corso di formazione specifico organizzato dall'azienda e avevano ricevuto un manuale di istruzioni e, forse perché eccessivamente sicuri delle proprie capacità maturate in oltre tre anni di svolgimento della medesima attività lavorativa, avevano ritenuto di poter compiere diversamente la movimentazione del pannello per cui l infortunio era da ascrivere esclusivamente alla responsabilità dell artigiano e alla condotta imprudente e imprevedibile dell infortunato sufficienti a costituire autonomo nesso causale con l'evento dannoso. Nel ricorso il datore di lavoro imputato ha sottolineato di essersi premurato, in qualità di datore di lavoro, che il suo dipendente frequentasse i corsi di formazione, organizzati dal committente, relativi alle modalità di smontaggio dei pannelli e di avergli fornito tutti i presidi di protezione individuale previsti dalla legge. Per questa ragione l infortunio non poteva essere ritenuto conseguenza di una sua negligenza ma solo l effetto dell'imprudenza del lavoratore autonomo in quanto egli, in assoluto contrasto con la procedura prevista, aveva deciso di rimuovere autonomamente un pannello di 30 kg ad un'altezza di circa due metri, per di più dopo il termine dell'orario lavorativo, quando gli altri operai stavano già radunando gli attrezzi per poi recarsi a casa. Anche mettendo in atto tutte le cautele concepibili e quand'anche fosse stato presente in cantiere, ha sostenuto ancora il ricorrente, non avrebbe potuto prevedere ed evitare un comportamento tanto abnorme nella sua imprudenza. All'avventatezza del lavoratore autonomo si sarebbe sommata l'assoluta imprudenza del suo dipendente che, in contrasto con le regole del buonsenso, ha deciso di transitare sotto l'area dove stava operando il lavoratore autonomo per giunta senza casco. I comportamenti dei due lavoratori sarebbero stati sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso causale e ad interrompere ogni

3 correlazione tra la sua condotta e l'evento dannoso, con esclusione di colpa del datore di lavoro.. Le decisioni della Corte di Cassazione La Corte di Cassazione, pur dichiarando l intervenuta prescrizione, ha nella sostanza accolto il ricorso: non si è spiegato, scrive la suprema Corte, quali fossero stati i motivi per cui i comportamenti dei due lavoratori non fossero stati ritenuti sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso causale e ad interrompere ogni correlazione tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso. La Sez. IV ha confermato, in tal senso, che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso; e tanto, sul presupposto che, in tema di reati colposi, l'addebito soggettivo dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. Sentenza: Fatto 1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente B.C., con sentenza del 19, confermava la sentenza con cui il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, il lo aveva condannato, all'esito di giudizio ordinario, alla pena di mesi uno di reclusione per il reato di cui: all'art. 40 cpv, 590 comma 1, 2 e 3 c.p. perché LM.C.I., in qualità di artigiano della propria impresa individuale e incaricato di effettuare e realizzare lavori di smontaggio in forza di contratto d opera stipulato con l impresa committente E. Design s.a.s., B.C., in qualità di titolare dell'omonima impresa individuale, incaricata di effettuare e realizzare lavori di allestimento in virtù di contratto d opera stipulato con l impresa committente E. Design s.a.s. e datore di lavoro della persona offesa V.E., D.A., in qualità di amministratore della suddetta società E. Design s.a.s., committente dei lavori di smontaggio e allestimento stand all'interno del polo fieristico di Rho-Pero, cagionavano con colpa e per violazione degli obblighi di protezione che ineriscono alle rispettive posizioni di garanzia a V.E., lavoratore dipendente della ditta B.C. lesioni personali consistite in "frattura traumatica di C 1 in sede anteriore sinistra coinvolgente il condilo anteriore articolare di questo lato ed un dubbio focolaio contusivo in sede temporale destra da cui derivava un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo complessivo di 156 giorni. Con colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia e nella violazione delle seguenti disposizioni specifiche in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro: B.C., nella qualità sopra indicata, per non aver provveduto a fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e per non aver coordinato gli interventi di prevenzione e di protezione dei rischi su cui erano esposti i lavoratori anche ed fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze reciproche tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell opera complessiva (in violazione dell'art. 7 comma lett. h) e comma 2 D.lgs 626/1994) oltre che per non aver sorvegliato sull'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale del proprio lavoratore infortunato che non indossava il

4 necessario D.P.I. (caschetto protettivo) (in violazione dell'art. 4 lett f) del medesimo Decreto legislativo); Fatto aggravato perché trattasi di lesioni personali gravi e perché commesso in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro sopra specificate. In Rho-Pero (MI) l'11 febbraio Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, personalmente, B.C., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'alt. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. a. L'assenza di nesso causale tra la condotta (diligente) del datore di lavoro e l'infortunio del dipendente. Erronea applicazione della legge penale e delle norme in tema di infortuni sul lavoro. b. Carenza e manifesta illogicità della sentenza La Corte d'appello di Milano, confermando quanto statuito in primo grado, ha condannato B.C. perché lo stesso, in qualità di datore di lavoro di V.E., non osservando quanto previsto e disciplinato dal D.Lgs. 626/1994, non avrebbe impedito che si verificasse l'infortunio del dipendente. V.E., nello specifico, si era infortunato al termine della giornata lavorativa, alle ore 17:30, poiché, mentre stava radunando gli attrezzi per tornare a casa, si era lasciato convincere da tal LM.C.I. (lavoratore autonomo che operava nel medesimo cantiere) ad aiutarlo a rimuovere dei pannelli del peso di oltre 30 kg. Si evidenzia che, dall'istruttoria dibattimentale sia emerso come il LM.C.I. abbia deciso in tal frangente di compiere le operazioni di smontaggio di un pannello senza rispettare la procedura che gli era stata appositamente illustrata dalla ditta E., di cui era collaboratore esterno, e che il V.E., chiamato dallo stesso LM.C.I. per aiutarlo, fosse "transitato impropriamente sotto il pannello in fase di smontaggio venendo colpito dallo stesso" (cfr. sentenza di primo grado, pag.3). Dalla ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado, e fatta propria dai giudici dell'appello, emergerebbe altresì che "sia ii V.E. che il LM.C.I. erano stati compiutamente informati delle procedure operative, avevano seguito un corso di formazione specifico organizzato dall'azienda e avevano ricevuto un manuale operativo. Le corrette modalità operative, quindi, erano patrimonio conoscitivo di entrambi i lavoratori i quali, forse eccessivamente sicuri delle proprie capacità maturate in oltre tre anni di svolgimento della medesima attività lavorativa, hanno ritenuto di poter compiere la movimentazione del pannello con le modalità prescritte". Si ritiene in ricorso che la Corte d'appello, così come in precedenza il Tribunale di Milano, abbia erroneamente interpretato la normativa in materia di sicurezza sul lavoro e il dettato penale poiché dalle circostanze di fatto, così come individuate attraverso l'istruttoria e sopra sinteticamente riportate, si evincerebbe chiaramente come l'infortunio subito da V.E. sia integralmente ascrivibile alla responsabilità di LM.C.I., lavoratore autonomo che operava nel medesimo cantiere e alla condotta imprudente e imprevedibile dello stesso V.E., sufficienti a costituire autonomo nesso causale con l'evento dannoso. Sarebbe evidente l'assenza di qualsivoglia responsabilità in capo a B.C. nella causazione del sinistro: egli, in qualità di datore di lavoro, si era premurato che il suo dipendente seguisse i corsi di formazione, organizzati dal committente, relativi alle modalità di smontaggio dei pannelli e lo aveva altresì munito di tutti i presidi di protezione individuale previsti dalla Legge.

5 I giudici di secondo grado, tuttavia, facendo proprie le argomentazioni di quello di primo grado, hanno ritenuto che il B.C. avesse violato l'art 7 comma 2 del D.Lgs. 626/1994 (obbligo di cooperazione all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione) e l'art.4 della medesima fonte normativa (sorveglianza sull'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale) basandosi unicamente sul fatto che egli non fosse presente in cantiere il giorno dell'infortunio e i giorni precedenti. Ma tale considerazione non è affatto sufficiente per dimostrare che la condotta del B.C. fosse negligente. Difatti, viene ricordato che, secondo giurisprudenza costante, l'obbligo del datore di lavoro "va inteso nel senso che i soggetti tenuti debbono assicurare, più che la presenza fisica che non è in sé necessariamente idonea a garantire la sicurezza, dei lavoratori, la gestione oculata dei luoghi di lavoro, mediante la predisposizione di tutte le misure imposte normativamente (informazione, formazione, attrezzature idonee e presidi di sicurezza), nonché di ogni altra misura idonea, per comune regola di prudenza e diligenza, a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro (sez. 4 n. 1238/2005). Nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, sarebbe appurato che il B.C. non solo avesse fornito al V.E. tutte le attrezzature e i presidi di sicurezza necessari, ma avesse altresì provveduto a far seguire al proprio dipendente un corso di formazione specifico, grazie al quale costui era perfettamente a conoscenza della procedura adeguata per la rimozione dei pannelli. Sarebbe, altresì, emerso che l'amministratore della società committente, D.A., fosse presente quotidianamente in cantiere, al fine di coordinare i lavori tra i collaboratori esterni alla propria azienda e sarebbe evidente come la presenza di tale soggetto rendesse superflua e del tutto ultronea la contestuale presenza di B.C., considerato che due coordinatori in un cantiere di soli 5 operatori avrebbero potuto creare più confusione che effettivi positivi. Tanto che costui era stato prosciolto in primo grado. Il ricorrente deduce altresì essere stato provato documentalmente che il D.A. non avesse propri dipendenti in cantiere ma che, oltre a lui, ci fossero unicamente il LM.C.I. e quattro operai della ditta "B.C."; la circostanza che egli fosse presente ogni giorno, allo scopo di coordinare i lavori, pur non avendo dipendenti operativi, unitamente al fatto che tutti i lavoratori esterni avessero seguito un corso organizzato dallo stesso D.A., sarebbe perciò indice inequivocabile che ci fosse una delega implicita dal B.C. e dagli altri "esterni" al D.A. e che spettasse a costui assicurare la correttezza delle predisposizioni a tutela della sicurezza nel cantiere. Da tutto quanto sopra argomentato, emergerebbe inconfutabilmente secondo il ricorrente il comportamento diligente di B.C., avendo lo stesso messo in atto tutte le precauzioni possibili al fine di prevenire ed evitare l'evento dannoso. L'infortunio non potrebbe pertanto certamente essere ritenuto conseguenza della condotta negligente del datore di lavoro ma unicamente effetto dell'imprudenza di LM.C.I. in quanto egli, in assoluto contrasto con la procedura prevista, aveva deciso di rimuovere autonomamente un pannello di 30 kg ad un'altezza di circa due metri, per di più dopo il termine dell'orario lavorativo, quando gli altri operai stavano già radunando gli attrezzi per poi recarsi a casa. Anche se B.C. avesse messo in atto tutte le cautele concepibili e quand'anche fosse stato presente in cantiere -si sostiene in ricorso- non avrebbe potuto prevedere ed evitare un comportamento tanto abnorme nella sua imprudenza. All'avventatezza del LM.C.I. si sarebbe affiancata poi l'assoluta imprudenza di V.E. che, in contrasto con le regole di accortezza più comuni e basilari, decideva (per motivi non accertati) di transitare, dopo lo spirare del termine dell'orario di lavoro, sotto l'area dove stava operando il LM.C.I., per giunta senza il presidio protettivo.

6 I comportamenti del LM.C.I. e del V.E., in definitiva, sarebbero sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso causale e ad interrompere ogni correlazione tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso. Richiamata cospicua giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia, il ricorrente deduce come il generico dovere di diligenza a carico del datore di lavoro, impostogli dal D.Lgs. 626/1994, non può assolutamente trasformarsi in responsabilità oggettiva: B.C. non poteva assolutamente prevedere che LM.C.I. decidesse di spostare autonomamente i pannelli, in assoluto contrasto con le direttive impartitegli, per giunta fuori dall orario di lavoro, così come era imprevedibile che un operaio esperto come V.E. decidesse di transitare senza casco sotto l'area di lavoro. Peraltro, si ricorda in ricorso come V.E. fosse anche stato nominato rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST, al 1.2) presso l'azienda in cui era occupato e, in virtù di tale qualifica, avesse particolare contezza degli obblighi e dei doveri di diligenza richiesti agli operai. Il ricorrente ritiene pertanto che, in difformità di quanto ritenuto in diritto dalla Corte d'appello di Milano, che: 1) B.C. non abbia violato alcuna regola cautelare in materia di lavoro; 2) l'evento dannoso non potesse essere assolutamente né previsto né evitato da parte di B.C.; 3) non sussista alcun nesso eziologico tra la condotta di B.C. e l'infortunio subito dal suo dipendente. Di conseguenza, per tutto quanto sopra espresso e argomentato, si ritiene che la sentenza della Corte d'appello di Milano debba essere annullata, ai sensi dell'alt. 606 co. 1 lettera b) ed e) per erronea applicazione della legge penale (e in particolare degli artt. 40 e 41 c.p.) e della normativa richiamata in materia di lavoro, nonché per insufficienza e illogicità della motivazione. Con rinvio, se ritenuto, ad altra sezione di Corte d'appello. Diritto 1.1 motivi sopra illustrati non sono manifestamente infondati e, pertanto, non sussistendo inammissibilità del proposto ricorso ed essendosi validamente incardinato il grado di giudizio, questa Corte di legittimità non può che prendere atto che il reato per il quale il B.C. è stato condannato in primo e secondo grado è ad oggi prescritto. 2. In particolare, non manifestamente infondato appare il profilo di doglianza con cui si deduce vizio motivazionale laddove la motivazione della sentenza impugnata non appare congrua nello spiegare perché, a fronte di un lavoratore che indubitabilmente era stato destinatario di adeguata formazione, al punto di essere responsabile per la sicurezza anche dei suoi compagni di lavoro, i comportamenti del LM.C.I. e del V.E. non siano stati ritenuti sufficienti, di per sé, a costituire autonomo nesso causale e ad interrompere ogni correlazione tra la condotta del datore di lavoro e l'evento dannoso. E' noto, infatti, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità vi è esclusione della responsabilità del datore di lavoro nel caso il lavoratore ponga in essere condotte atipiche, abnormi o esorbitanti le sue funzioni. Questa Corte di legittimità, infatti, ha in più occasioni affermato che la responsabilità dell'imprenditore deve essere esclusa allorché l'infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui è addetto, oppure a causa di inosservanza di precise disposizioni antinfortunistiche. Ai sensi dell'art. 41 cpv., il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all'agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale" (così, tra le altre, la pronuncia di questa sez. 4 n /2013). E, ancora, in conformità si è affermato, come ricorda il ricorrente, che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza

7 della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (sez. 4, n del 06/11/2009, rv ); e tanto, sul presupposto che, in tema di reati colposi, l'addebito soggettivo dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato (sez. 4, Sentenza n del 11/03/2010, Rv ). 3. I fatti, invero sono incontestati. In data 11 febbraio 2008 LM.C.I. e V.E. stavano operando all'interno del cantiere ubicato presso il Polo Fieristico Rho-Pero per lo smontaggio dei pannelli dello stand della società E. Design, che aveva incaricato la ditta del B.C. e l'artigiano LM.C.I. di procedere allo smontaggio dell'allestimento. In particolare, il LM.C.I. stava procedendo alla rimozione di un pannello di rivestimento posizionato sopra una porta utilizzando un trabattello, avvalendosi su sua richiesta dell'ausilio di V.E., dipendente della B.C. e, mentre effettuava la manovra di rimozione dei pannello, del peso di oltre 30 chilogrammi, questo, sfuggitogli dalla mani, precipitava a terra colpendo il V.E. che in quel momento stava transitando proprio sotto l'area di lavoro. Il giudice di primo grado riteneva che tanto il LM.C.I. (anch'egli condannato con la stessa sentenza) che il B.C. avevano serbato una condotta gravemente negligente rispetto all'attività lavorativa loro affidata dalla E., sia con riferimento alla posizione di ditta individuale del LM.C.I., che quale datore di lavoro del V.E. per ciò che concerneva il B.C. Si riteneva, infatti, essere emerso dall'istruttoria dibattimentale che entrambi non avevano cooperato all'attuazione delle misure di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva, come prescritto dall'art. 7 comma 2 del D.Lgs. n.626/94. La stessa dinamica dell'infortunio veniva ritenuto confermare l'assunto accusatorio poiché, come accertato, il LM.C.I. aveva coinvolto il V.E. nell'impropria operazione di rimozione del pannello, consentendogli di transitare nell'area sottostante mentre movimentava il medesimo, con ciò dimostrando grave negligenza e imprudenza atteso che l'unico rischio prevedibile, e contenibile, connesso alla specifica attività lavorativa, consisteva proprio nella possibilità di caduta del pannello. Quanto al B.C., datore di lavoro del V.E., veniva valorizzata negativamente la sua assenza in cantiere, non solo nello specifico momento dell'infortunio, ma neppure nei giorni precedenti, con ciò dimostrando secondo i giudici del merito, in concreto, l'omesso coordinamento e cooperazione contestatigli. Nemmeno, per le stesse ragioni, si riteneva potesse avere positivamente operato quella funzione di vigilanza e controllo rispetto all'adozione da parte del suo dipendente dei dispositivi di protezione individuale, che certamente al momento dell'infortunio il V.E. non utilizzava (era infatti privo del caschetto protettivo). Ebbene, il B.C. sollevava in appello la questione dell'assenza del nesso causale tra la sua condotta di datore di lavoro e l'infortunio del dipendente. L'infortunio -secondo la tesi proposta- sarebbe stato, infatti, ascrivibile alla responsabilità del LM.C.I. ed alla condotta imprudente ed imprevedibile dello stesso V.E., sufficienti a costituire autonomo nesso causale con l'evento dannoso.

8 Era, infatti, emerso che tutti i soggetti che operavano quel giorno nel cantiere avevano seguito un corso di formazione e che fossero perfettamente a conoscenza della procedura da rispettare nella rimozione dei pannelli, che prevedeva nello specifico che due operai congiuntamente cooperassero allo smontaggio, nonché l'uso del trabattello. Senonché LM.C.I. aveva deciso di rimuovere autonomamente un pannello del peso di oltre 30 chilogrammi che, sfuggitogli dalle mani, precipitava a terra colpendo il V.E., che in quel momento stava proprio transitando sotto l'area di lavoro. La Corte territoriale, in risposta, si dilunga sulla posizione di garanzia del B.C. (che tuttavia non pare essere mai stata messa in discussione), sulla sua mancata presenza in cantiere (anch'essa incontestata), ma fa un riferimento assai generico alla mancata predisposizione di normative antinfortunistiche e sull'omissione di ogni attività di coordinamento e di cooperazione all attuazione delle stesse, così come in relazione alla costante presenza del D.A. Su tale complessiva carenza motivazionale i motivi di ricorso, come si diceva in precedenza, non paiono manifestamente infondati. Deve allora prendersi atto che -riscontrata l'assenza di sospensioni della prescrizione (in tal senso ritenendo il Collegio di aderire all'orientamento giurisprudenziale espresso da sez. 1 n del , Vigna, rv , secondo cui nel calcolo del tempo di sospensione della prescrizione, non deve tenersi conto del termine indicato dal giudice di primo grado per il deposito della sentenza, in questo caso di 60 gg.), il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e mezzo, risulta decorso il S'impone, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essersi il reato ascritto al B.C. estinto per intervenuta prescrizione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché estinto il reato per prescrizione. Così deciso in Roma l'8 ottobre 2015

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