PROSPETTIVE TRANSLACHMANNIANE DELL'ECDOTICA

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1 PROSPETTIVE TRANSLACHMANNIANE DELL'ECDOTICA Quando nell'autunno scorso Maria Grazia Profeti mi chiamò al telefono per chiedermi se ero disposto a fare un intervento in questo convegno risposi che, a causa di impegni e scadenze imminenti per lavori in corso su testi non iberici, non sarei stato in grado di trattare con il dovuto approfondimento argomenti specificamente ispanici. Poiché, tuttavia, mi rincresceva declinare il lusinghiero invito, cedendo alle cortesi insistenze dell'amica promisi di svolgere una comunicazione di taglio eminentemente metodologico su certe recenti esperienze editoriali registratesi in ambito galloromanzo e italoromanzo. Ritengo oggi doveroso far presente preliminarmente questo antefatto per chiedere venia ai colleghi ispanisti se quanto dirò, oltre a non avere diretta attinenza col corpus che essi quotidianamente maneggiano, sarà caratterizzato da una senza dubbio inamena astrattezza teorica. L'incubo della soggettività e dell'arbitrio, di quella che si potrebbe definire l'insidia della prevaricazione del iudicium, inquieta da sempre l'editore critico lachmanniano, specialmente se operante non sul latino ma sul volgare. Come è noto, i problemi inerenti alla tradizione manoscritta delle opere volgari solo in parte s'identificano con quelli normalmente affrontati dal filologo classico: in misura notevole essi sono diversi e non di rado assai più complicati. Sebbene, infatti, anche la tradizione manoscritta dei classici latini sia in linea di massima medievale, varia di norma la disposizione psicologica del copista passando dall'una all'altra categoria di testi: cosi, mentre nei confronti delle scritture latine egli assume per solito un atteggiamento di scrupoloso rispetto letterale (al quale viene meno soltanto preterintenzionalmente), nei confronti di quelli volgari viceversa soggiace spesso ad «una considerazione utilitaria e contenutistica del documento» 1, la quale gli consente d'intervenire liberamente sulla lezione, allorché lo ritenga opportuno, alterandola nella sostanza o nella forma in vista di particolari esigenze di comprensibilità e di gusto proprie e/o del destinatario del suo prodotto. Di conseguenza, 1 G. CONTINI, in «Archivum Romanicum», XIX, 1935, 2, pp (ree. a G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934), a p. 335.

2 46 GIORGIO CHIARINI mentre l'editore di testi classici ha per lo più a che fare con una trasmissione meccanica e almeno intenzionalmente «fedele», quello di testi volgari deve invece abitualmente operare con una tradizione «irrispettosa della lettera», che limita l'automatismo delle procedure aumentando proporzionalmente il rischio delle sue responsabilità personali. In tale specifico configurarsi della problematica ecdotica, come ben sanno gli addetti ai lavori, sta la motivazione di fatto per cui il cosiddetto metodo del Lachmann è stato ed è - si può dire - permanentemente in crisi (una crisi che trascorre per fasi alterne di relativa latenza o di virulenta esplosione) soprattutto nell'ambito della filologia romanza. Ciò che va tuttavia rilevato subito, non senza qualche soddisfazione, è che il decorso di tale crisi appare nel complesso orientato, malgrado temporanei deperimenti e abbandoni, verso un accrescimento di risorse concettuali ed un potenziamento ed ampliamento di attitudini operative. Il metodo sembra dunque in grado di sviluppare al suo interno, come un organismo sostanzialmente sano, gli antidoti adatti ai suoi ricorrenti malesseri. Un rapido e sommario flash-back su questa ormai secolare vicenda potrà riuscire, credo, non del tutto inutile ai fini di una soddisfacente caratterizzazione e di una corretta valutazione della situazione attuale. Concepito ed elaborato essenzialmente in servizio della filologia grecolatina allo scopo di conferire un fondamento quanto più possibile scientifico alla costituzione del testo in assenza dell'autografo e in presenza di una tradizione plurima, il metodo lachmanniano come teorizzato dal Lachmann (non senza l'ausilio di predecessori, posto bene in evidenza da Timpanaro 2 ) nei Prolegomena all'edizione di Lucrezio (1850) segnava rispetto ai metodi precedentemente seguiti (quelli del «codex vetustissimus», del «codex optimus», dei «códices plurimi», del «textus receptus») un progresso qualitativo d'incalcolabile rilevanza in virtù della «oggettività della recensio, con l'automatismo della scelta per suo limite» 3 : la scientificità del procedimento consistendo specialmente nell'istituire, sulla base degli errori comuni monogenetici congiuntivi e separativi, una maggioranza «qualificata» di raggruppamenti organici e non d'individui che non rappresentino settori autonomi della tradizione. Alle valutazioni soggettive dell'operatore subentrava cosi il criterio probabilistico quantificabile della «legge della maggioranza». 2 S. TIMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann, Firenze G. CONTINI, La critica testuale come studio di strutture, in La critica del testo. Atti del II Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, Firenze 1971, I, pp , a p. 13.

3 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 47 Malgrado le maggiori garanzie che offre, siffatta metodologia implica però essa pure delle scelte rimesse all'apprezzamento del soggetto, massimamente nella determinazione dell'errore: «II rischio virtuale sempre immanente nella procedura lachmanniana», scrive Contini 4, «è nella possibile predicazione di lezioni adiafore come erronee, a fine pragmatico». E se tale rischio ha un'incidenza statistica tutto sommato modesta in una tradizione fedele e meccanica come generalmente quella dei testi classici, l'incidenza di esso si fa rilevante in una tradizione intrinsecamente innovativa come quella delle scritture volgari: il rischio, insomma, è contenuto nel tipo di tradizione che Vàrvaro 5 ha definito «quiescente», mentre è cospicuo nel tipo «attivo». Fu proprio Gastón París, primo editore critico lachmanniano di un testo romanzo, la Vie de saìnt Alexis (1872), a notare che gli scribi dei testi volgari sono in sostanza dei «renouveleurs», in primo luogo, ovviamente, nell'ordine formale. In quel lavoro determinante per i futuri sviluppi della filologia romanza il París, non soltanto fissò i criteri di ricostruzione testuale delle opere a tradizione pluritestimoniale (nozione di errore comune monogenetico, principio di maggioranza), ma pose altresì la distinzione di grande rilievo metodologico fra critica delle lezioni e critica delle forme. Quella distinzione rispecchia fedelmente le specificità di trasmissione della nuova fattispecie alla quale veniva applicato il lachmannismo, di cui il fondatore della moderna ecdotica romanza ebbe pronta e chiara consapevolezza. E nulla toglie al merito di averla posta il fatto che il París abbia poi dato, al problema della ricostruzione formale, una soluzione (gli elementi obiettivi, accertati in rima o su indizi metrico-prosodici, vengono estesi «fuori dell'ambito strettamente topico [...] secondo la verosimiglianza di luogo e di tempo» 6 ) che ormai, dopo gli studi della Wacker 7 sui dialetti letterari dell'antico francese ripresi e valorizzati da Contini 8 con l'individuazione di una fase conservativa «normanna» ed una innovativa «piccarda», entrambe «valide anche oltre i confini primitivi e atte a produrre pure risultati d'innesto» 9, ci pare francamente inaccettabile. Anch'essa dovette avere, del resto, una parte, per la sua «oltranza [...] di razionalismo paleontologico» 10, nel promuovere la contestazione globale del metodo ad opera di Bédier. 4 Op. cit., p. 14. s A. VÀRVARO, Critica dei testi classica e romanza. Problemi comuni ed esperienze diverse, in Rendiconti dell'accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, XLV, 1970, pp , a p G. CONTINI, Filologia, in Enciclopedia del Novecento, II, 1977, pp , a p G. WACKER, Ueber das Verhcitnìs von Dialekt und Schriftsprache im Altfranzò'sischen, Halle 1916 (in «Beitrage zur Geschichte der rotnanischen Sprachen und Literaturen», Heft II)/ 8 Specialmente in Les dialectes de V anden francais, Fribourg G. CONTINI, Filologia cit., p Ibid.

4 48 GIORGIO CHIARINI II quale, si ricorderà, aveva iniziato la sua carriera filologica nel segno del magistero parisiano, di cui è frutto la prima edizione del Lai de l'ombre (1890), d'impianto rigorosamente lachmanniano e che ad onta delle successive palinodie mantiene tuttora un innegabile pregio tecnico. Ma la fiducia nei procedimenti messi a punto dal Paris si fece ben presto in Bédier problematica: messa in forse anche dalle obiezioni non irrilevanti né marginali che lo stesso Paris mosse alla sistemazione stemmatica bédieriana della tradizione manoscritta del Lai. Ne fu certamente alimentata una tensione dialettica, piena di reciproco rispetto, fra i due insigni studiosi; della quale, per parte di Bédier, ha reso partecipe testimonianza Contini: «Personalmente pieno di pietas, Bédier non fece essenzialmente, nella sua vita scientifica, se non capovolgere le tesi fondamentali del suo maestro» n. In particolare, il ripensamento critico della prassi editoriale del Paris fu gravido di conseguenze per la successiva filologia bédieriana (seconda edizione del Lai de l'ombre nel testo del «miglior» manoscritto A [1913]; terza nel testo del codice E [1928]; edizione del Roland secondo il manoscritto di Orford [1921]); ma ancor più rilevante esso fu nel suo esito teorico: il celeberrimo saggio sulla tradizione manoscritta del Lai de l'ombre (1928) a. La contestazione antilachmanniana di Bédier è riducibile, semplificando, a due argomenti fondamentali. Il primo consiste nella osservazione di un sorprendente dato di fatto: che, cioè, la quasi totalità delle edizioni lachmanniane presenta stemmi bipartiti. Bédier lo spiega assumendo che, in mancanza di sussidi oggettivamente validi per la selezione delle varianti nei rami alti della tradizione, lo «spettro metafisico del vero e del falso» 13 insorgerebbe ad ogni lezione nella mente dell'editore, scatenando la «force dichotomique» che impone il ricorso al iudicium salvaguardando «la personale libertà di opzione» M. Il secondo argomento, meno largamente noto, è che ogni eventuale incremento delle testimonianze può smentire lo stemma e modificare radicalmente il testo su di esso elaborato. Alla edizione composita verrebbe dunque a mancare un'effettiva scientificità, perdendosi la fiducia che la lezione critica proposta non sia la somma di una serie d'innumerevoli atti d'arbitrio del curatore. Per non cadere nella fatale trappola della soggettività 11 G. CONTINI, Ricordo di Joseph Bédier, in «Letteratura», III, 1939, 1, pp ; risi, in Un anno di letteratura, Firenze 1942, pp ; ora anche in Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un'appendice su testi non contemporanei - Nuova edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino 1974, pp (da cui si cita), p a La tradition manuscrite du «Lai de l'ombre». Réflexions sur l'art d'éditer les anciens textes, in «Romania», LIV, 1928, pp e G. CONTINI, ree. a G. PASQUALI cit., p G. CONTINI, La critica testuale cit, p. 15.

5 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 49 l'unica precauzione efficace sarebbe allora, secondo Bédier, il ritorno all'oggettività documentaria delle singole testimonianze, il «retour vers la technique des anciens humanistes»: l'edizione condotta «mediante il ricorso a un solo manoscritto, depurato soltanto degli errori evidenti» 15. La requisitoria bédieriana contro il metodo del Lachmann, sostenuta da puntuali riscontri ad un'ampia casistica editoriale, argomentata con lucida logica e formulata in termini indubbiamente efficaci, non poteva non influire sugli sviluppi successivi dell'ecdotica, particolarmente di quella esercitata nel settore neolatino. L'intera filologia romanza, si può dire con espressione continiana riferita a Bédier, «entrò in aporia»: l'aporia dello stemma bipartito. Gli effetti del diffondersi dello scetticismo bédieriano furono paralizzanti dal rispetto teoretico, non meno che frustranti da quello pragmatico. Il verdetto di Bédier, «che non si può modificare un testo in base a un albero che non sia il solo possibile; [...] che l'albero genealogico, in base al quale si può emettere un giudizio definitivo sulla bontà delle varianti, si fonda sopra una petizione di principio» 16, fu assunto diffusamente come inappellabile dando vita conformisticamente ad una sorta di antimetodo: come dice Contini n, il metodo bédieriano fu ridotto «da deposito di angoscia a pigra moda». La cosa non deve però troppo scandizzare: sol che si consideri come il positivo superamento dell'aporia bédieriana richiedesse un tesoro di esperienze quanto meno uguale a quello del grande filologo, una non minore capacità di analisi e di elaborazione teoretica, un adeguato rigore argomentativo. È senza dubbio significativo, comunque, che il degno interlocutore di Bédier abbia attivamente frequentato i suoi seminari di critica del testo; e che fosse altresì un connazionale ed ideale discepolo di Rajna, di Parodi, di Barbi, di Debenedetti. Interlocutore degno per competenza ed intelletto, innanzi tutto, ma anche per continuità d'attenzione alla sua problematica. L'istanza della «risposta» a Bédier è infatti una costante nella riflessione ecdotica continiana durante quasi mezzo secolo: dalla recensione alla Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali, del '35, alla voce Filologia redatta per VEnciclopedia del Novecento nel '77. Il dissenso di Contini da Bédier in fatto di critica testuale, già del tutto esplicito nella suddetta recensione, è senza mezzi termini ribadito nel pur deferente e affettuoso Ricordo dell'«amabilissimo» maestro; un dissenso che, prima ancora che sulle procedure di allestimento, verte sulla natura stessa 15 G. CONTINI, ibid. M G. CONTINI, Ricordo cit., p Filologia cit., p. 964.

6 50 GIORGIO CHIARINI dell'edizione critica: «II difetto di Bédier è evidentemente quello di non accorgersi che un'edizione critica è, come ogni atto scientifico, una mera ipotesi di lavoro, la più soddisfacente (ossia economica) che colleghi in sistema i dati» 18. Ho voluto ripetere questa citatissima definizione perché c'è in essa un elemento che mi preme porre in opportuna evidenza: si tratta del termine «sistema», in accezione squisitamente tecnica. Esso sta a dimostrare come il superamento dell'apoda bédieriana fosse per Contini da ricercare, già negli anni Trenta, in una prospettiva decisamente strutturalista. In tale prospettiva consiste, come vedremo, tutta la sostanza dell'apporto teorico di Contini, il salto qualitativo da esso determinato nella pratica editoriale. Ma continuiamo a leggere la pagina decisiva in cui si trova la famosa definizione testé riferita: «Quando egli [se. Bédier], perfettamente consequenziario, pubblicò il lai e il Roland sulla base di un solo manoscritto, e per il Roland si affannò a difendere con geniale ostinazione la lezione del manoscritto per molte ragioni migliore anche in infimi particolari poco verosimili, certo non si rendeva conto che conservare criticamente è, tanto quanto innovare, un'ipotesi [...]; resta da vedere se sia sempre l'ipotesi più economica». I successivi approfondimenti rafforzano il convincimento continiano, già qui chiaramente implicito, che l'ipotesi conservativa non è praticamente mai la più economica: «l'arnese più spuntato [se. della critica testuale] - si legge negli Scavi àlessiani 19 è precisamente il manoscritto unico, quello che si suoi chiamare il miglior manoscritto»; e nella voce Filologia : «II ricostruito è più vero del documento». Enunciati siffatti, che potrebbero sembrare dettati da un estremismo polemico, sono invece un distaccato referto stilato sul fondamento delle risultanze prodotte dalla teoria della diffrazione. Siamo cosi giunti alla struttura portante dell'edificio teorico continiano: un edificio, sarà superfluo dirlo, che ha saldissime fondamenta nella prassi. La nozione di diffrazione è stata proposta per la prima volta pubblicamente da Gianfranco Contini nella prolusione fiorentina del '53 (stampata soltanto nel 70, nella miscellanea Mattioli) 21. Essa venne in seguito ampiamente sviluppata e perfezionata, posta al centro della sua assidua teorizzazione ecdotica. La teoria della diffrazione è perciò pervenuta a costituire, non soltanto il più valido complemento e arricchimento del metodo lachmanniano dopo gli apporti di Giorgio Pasquali (essenzialmente, le distinzioni fra recen- 18 Ricordo cit., p G. CONTINI, Scavi àlessiani, in Lingüistica e filologia. Omaggio a Benvenuto Terracini, Milano 1968, pp , a p. 95. a> P G. CONTINI, La «Vita» francese «di sant'alessio» e l'arte di pubblicare i testi antichi, in Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze 1970, pp

7 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 51 sione chiusa e aperta, fra trasmissione verticale e orizzontale), ma anche la matrice delle più importanti innovazioni metodologiche recentemente proposte a. Le quali, se non sempre esplicitamente si collegano al pensiero continiano, tuttavia non a caso si debbono a studiosi formatisi in sostanza (anche se non tutti amministrativamente) alla scuola di Contini. Alludo in primo luogo, ovviamente, ad Avalle e a Segre; inoltre, in rappresentanza almeno delle ultime generazioni, a Maurizio Perugi (sia detto fra parentesi: se la generazione intermedia, alla quale appartengo con Braccini, Menichetti ed altri, appare portatrice di un continismo piuttosto ortodosso, ciò è in larga misura dovuto al concreto configurarsi della specifica fenomenologia trattata: senza voler ignorare per questo le diverse attitudini di ognuno all'invenzione di nuove formule). Ma torniamo alla diffrazione. Allo scetticismo bédieriano, dal quale come abbiamo visto si era prontamente dissociato, Contini contrappose ben presto un rinnovato ottimismo metodico: ottimismo, s'intende, non come metodo (niente a che vedere, quindi, con l'ottimismo della volontà compatibile col pessimismo della ragione), bensì sul metodo, circa il metodo; ottimismo che ho detto rinnovato, in quanto ritrovato passando attraverso lo scetticismo di Bédier. Vicenda, questa, ritenuta da Contini tanto importante da indurlo a dichiarare solennemente, nella citata prolusione 7Ì, «come per essere oggi lachmanniani, sia indispensabile aver attraversato e un tirocinio anti-lachmanniano (cioè Bédier) e un'esperienza post-lachmanniana (cioè, se non altro in filologia classica, Pasquali)». La riconquista dell'ottimismo metodico coincise con l'elaborazione della teoria della diffrazione: nella cui genesi svolsero un ruolo determinante le ricerche sul testo della Vita antico-francese di sant'alessio. Il titolo della prolusione fiorentina lo dichiara inequivocabilmente: La «Vita» francese «di sant'alessio» e l'arte di pubblicare i testi antichi: esso inoltre felicemente allude ai due termini di riferimento costante del discorso continiano, l'edizione parisiana e il saggio bédieriano (il cui sottotitolo è appunto Réflexions sur l'art d'éditer les anciens textes). Ma la Vie de saint Alexis aveva ulteriori titoli per quel ruolo. L'anno successivo alla pubblicazione dello studio di Bédier, infatti, Pio Rajna aveva fatto conoscere un nuovo codice, frammentario 22 Cosa che non è posta nel dovuto rilievo, a mio parere, dalle più recenti ed accurate trattazioni di critica del testo. Nel pur ottimo manuale di Franca Brambilla Ageno (L'edizione critica dei testi volgari, Padova 1975), che presenta una ricca esemplificazione ma esclusivamente italiana, la diffrazione è trattata (alle pp. 110 e ) in termini troppo generici e superficiali per poter essere intesa nella sua portata teorica e nella efficacia operativa dai catecumeni dell'ecdotica. Un maggiore approfondimento c'è senza dubbio nel manuale di D'Arco Silvio Avalle (Princìpi di critica testuale, Padova 1972; , pp ), sebbene esso pure non si spinga sufficientemente oltre la distinzione delle «due categorie». 23 La «Vita» cit., p. 344.

8 52 GIORGIO CHIARINI ma assai interessante, del poemetto francese, reperito nella biblioteca Vaticana (ms. V). La scoperta della nuova testimonianza rendeva possibile la verifica sperimentale del secondo argomento antilachmanniano di Bédier. L'esame sommario dei rapporti di V con gli altri codici (LAPSM) aveva indotto il Rajna a ritenere che V «non fosse razionalmente componibile in un albero genealogico, e che perciò esso provasse l'oralità della tradizione» 24. Ma un più attento e approfondito studio del problema doveva invece portare Contini ad una conclusione del tutto diversa, confortata da una ricca serie di prove (esposte già in parte nella prolusione, poi specialmente nei successivi Scavi alessiani): che, cioè, la tradizione del Saint Alexis non è bipartita come supposto dal Paris (per altro sulla base di una conoscenza indiretta e parecchio inesatta del codice A), ma tripartita nei rami L-AV-PSM. Veniva cosi a cadere per l'appunto il primo stemma bifido di un testo romanzo della «collezione» messa insieme da Bédier, un caso certo dei più famosi nella documentazione addotta a conferma del primo argomento bédieriano. Quanto al secondo, anche alla luce dell'esperienza resa possibile dal ritrovamento del testimone V per VAlexis, in tesi generale valga ciò che è detto conclusivamente nella voce Filologia s : «L'assenza eventuale di lezione stabile [cioè «alla mercé della scoperta di un nuovo testimone, suscettibile di alterare le costellazioni»] è un vizio per Bédier [...]; ma il continuo miglioramento dinamico non si vede come non sia una qualità positiva. Questa marcia di avvicinamento alla verità, una verità per cosi dire frazionaria in opposizione alla verità presuntamente organica dei singoli testimoni, una verità come diminuzione di errore, sembra un procedimento degno della scienza». Ma alla serie di titoli che hanno fatto per Contini della questione testuale déñ'alexis un caso paradigmático se ne deve aggiungere ancora uno, forse il più importante. Esso consiste nell'aver provocato una folgorante congettura del Tobler sul testo del v. 155: la congettura di per «coniuge», di uso raro al maschile, in luogo degli irricevibili seignor o sire o ami offerti dalla tradizione. Congettura folgorante, ho detto, pensando più che altro al processo mentale (vera e propria reazione a catena) da essa innescato nell'intelligenza di Contini. Eccitata dalla brillante soluzione puntuale, la sua mentalità sistematica (quella che Adelia Noferi ha definito la «visione legislativa» del critico delle varianti 26 ), assumendo il caso come esemplare ha reperito la serie,estratto il modello, inventato la categoria. È questa, in sintesi, la genesi 24 Scavi alessiani àt., p. 64.» P A. NOFERI, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini, in Le poetiche critiche novecentesche, Firenze 1970, pp

9 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 53 della teoria della diffrazione come canone di ricostruzione testuale. Tale teoria si sviluppa nell'area concettuale del criterio della «lectio difficilior», come suo prolungamento. A prescindere dall'occasione metodologica offerta dal Tobler, era proprio in quell'area che doveva impegnarsi uno sforzo di rinnovamento e di recupero lachmanniano dopo la critica devastante di Bédier: specialmente ai fini della filologia romanza, nella quale è normale la recensione aperta e quindi anche il ricorso ai criteri interni. L'uso dei quali, per altro, esige estrema cautela: quello della «lectio difficilior», specialmente, «miete vittime fra gli apprendisti stregoni, inclini a riconoscere per tale più d'una insensata deformità» 21. Ora, proprio a questo riguardo, la diffrazione costituisce un prezioso strumento di controllo e di verifica: essa è, asserisce Contini 28, «un consistente elemento di controprova» nell'applicazione di quel criterio, per il configurarsi in strutture delle «figure» della diffrazione. Vediamo come. La «difficilior» è notoriamente «una forma mal comprensibile», che proprio in quanto tale viene «o scambiata con una banale físicamente vicina o surrogata con un sinonimo più corrente». Ma può accadere, anzi generalmente accade quando la tradizione è plurima, che la sostituzione non sia univoca ma multipla. È appunto tale divergenza delle testimonianze che convalida la legittimità del ricorso al criterio della «lectio difficilior»: infatti, osserva Contini 30, «un'innovazione multipla non è sottratta alla ragione: perché tutti i manoscritti (o tutti meno uno, s'intende uno qualunque) hanno innovato, e per di più in modo scolorito? non forse perché c'era un oggettivo ostacolo nell'originale?». La domanda ovviamente è retorica; la diffrazione è dunque «una particolare configurazione» della tradizione, un «aspetto strutturale» di essa che postula appunto «un oggettivo ostacolo nell'originale». Tale ostacolo può essere stato obliterato da una parte (di norma la maggiore) della tradizione, ovvero da tutta: nel primo caso la diffrazione è «in presenza» («la lectio difficilior è serbata da un testimone, e gli altri mutano come possono» 31 ), nel secondo «in assenza» («una certa struttura di relazioni fra i codici che impone il ricorso a una congettura» 2 ). La consapevolezza teorica di questo passaggio, anzi di questo «salto», è quel che Contini ha tratto dall'esempio del Tobler: mentre infatti «normalmente la lectio difficilior è presente nella tradizione testuale e si oppone ad altra (ipotesi implicita 27 G. CONTINI, Filologia cit., p Scavi alessiani cit., p G. CONTINI, filologia cit., p La crìtica testuale cit., p G. CONTINI, La «Vita» cit., p Op. cit., p. 365.

10 54 GIORGIO CHIARINI nel comparativo) o eventualmente a più altre ugualmente presenti», quella proposta dal Tobler per il v. 155 dell'alexis «è una lectio difficilior congetturale assente dalla tradizione» 33. La suggestione prodotta da questo esempio è pertanto la mossa d'avvio di un ragionamento, o meglio di una catena di ragionamenti, che dall'allargamento e approfondimento della fenomenologia ha tratto i fondamenti della teoria. Il metodo operativo è quello della serialità, tipico della mens strutturale di Contini. Mediante il principio della serialità la fenomenologia si razionalizza in tipologia: una tipologia in progressione di cinque «figure» della diffrazione, contrassegnate da Contini con le prime cinque lettere dell'alfabeto. La figura A è l'unica di diffrazione «in presenza»: di contro alla «lectio difficilior» sta una serie di varianti «per sé indifferenti» M. Nella figura B rientra il caso del v. 155 délvalexis, risolto dal Tobler con l'emendamento congetturale per: «le varianti, questa volta però palesemente erronee e non adiafore, sono sostitutive d'una lectio difficilior assente» 35. La figura C, «divergenza di varianti almeno in parte per sé indifferenti in assenza di lectio difficilior», è deducibile dalle precedenti trattandosi di «strutture recensorie privilegiate, se non proprio anomale, che progressivamente, dalla scelta non maggioritaria di A, vengono acquistando, in B per elementare necessità, in C solo grazie alla cornice sistematica, rilevanza emendativa» 36. Rispetto alla figura C, la figura D comporta il coinvolgimento di luoghi paralleli del testo, essendo «caratterizzata da una duplice connessione, orizzontale e verticale, e in particolare include il ricorso alle concordanze» 3n : Contini la esemplifica con i vv. 440, 445, 465 délvalexis dove figure di diffrazione di tipo C riguardano contesti che hanno in comune la presenza del termine merveille, causa delle diffrazioni per l'ipometria prodotta dalla sua sostituzione all'originario arcaismo mereveille. Da questa, che è l'ultima figura della diffrazione vera e propria, si ricava infine la figura E valida per una casistica dove, non sussistendo «varia lectio», la molteplicità è tuttavia istituibile con le concordanze: «se ora si amputa la figura D di una delle sue dimensioni, cioè la molteplicità della tradizione, si ottiene una struttura [...] che collega mediante un identico lessema, di cui si rivela pertanto la viziosità, lezioni erronee in tradizione unica» G. CONTINI, Scavi alessiani cit., p G. CONTINI, La critica testuale cit., p Op. cit., p Op. cit., p Op. cit., p Op. cit., p. 20. Nel caso del cantare del Cid, esempio massimamente illustre di tradizione unitestimoniale nella filologia iberica, il «metodo delle concordanze», combinato col

11 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 55 Nella tipologia della diffrazione, che ho appena sommariamente descritto, il passaggio tecnicamente più rilevante sta senza dubbio nella estrapolazione della figura C da quelle A e B: allorché, «solo grazie alla cornice sistematica» si localizza un'alterazione testuale che all'interno degli individui singolarmente considerati non sarebbe percepibile, la diffrazione essendo «in varianti adiafore, tali cioè che, se il singolo manoscritto fosse unico, esse sarebbero al riparo da ogni sospetto» 39. In questa considerazione si trova, a ben guardare, l'argomento definitivo della risposta continiana a Bédier: «l'obiezione decisiva contro il mito del manoscritto unico è questa: che, oltre alle innovazioni erronee facilmente emendabili, oltre alle trivializzazioni (lectiones faciliores in caso di più testimoni) correggibili (quando si ammetta di correggere) entro la tradizione, ne esistono pure di adiafore avvertibili solo dietro collazione degli altri testimoni in quanto latori di varianti ugualmente indifferenti» *\ In altri termini, chi si affida al presunto «miglior manoscritto», non solo si priva dell'apporto positivo delle altre testimonianze, ma anche del contributo che queste recano, quando le varianti in presenza non siano qualitativamente superiori, alla localizzazione di tratti testuali in cui il deterioramento dell'originale è stato variamente occultato da «innovazioni mimetizzate». Tratti, si badi, nei quali la fisionomia stilistica dell'autore si mostrava verosimilmente in modo più marcato, dove nella scrittura affioravano gli elementi più personali del suo usus, dove insomma venivano in evidenza aspetti particolarmente significativi del suo sistema espressivo. Tra usus scribendi e «lectio difficilior» c'è infatti un'intima relazione e congruenza che nelle sintesi manualistiche viene regolarmente ignorata o comunque non sufficientemente esplicitata: l'ha messa opportunamente in evidenza Macri nel suo studio sulla Chanson de Roland 41 («la lectio difficilior non è, a nostro parere, un principio o criterio diverso o contrario a quello deil'usus scribendi, ma si riconosce e parifica alì'usus elevato a sistema»). Ottima anche la definizione che Macri da dell'usus come di «una massima estensione del concetto ecdotico di «forma» personale dell'autore e di «stile dell'opera» (Maas); cioè un campo omogeneo, strutturalmente difficilior in ogni sua parte rispetto alla disponibilità trascrittiva e intenzione innovativa del copista» 42. Tale definizione canone metrico da me esperito (G. CHIARINI, Osservazioni sulla tecnica poetica del «Cantar de Mio Cid», in «Lavori Ispanistici», Serie II, 1970, pp. 9-45), consente un restauro critico soddisfacente di buona parte del testo del poema. 39 G. CONTINI, Scavi alessiani cit., p La critica testuale cit., p Per una teoria dell'edizione critica (sul testo della «Chanson de Roland» di C. Segre), in Due saggi, Lecce 1977, pp , a p. 79. «Ibid., n. 2.

12 56 GIORGIO CHIARINI va tenuta presente anche per quanto fra poco dirò riguardo all'edizione rolandiana di Segre. Ma prima devo tornare ancora un momento a Contini per accennare brevemente a due corollari della teoria della diffrazione: la riduzione dell'errore alla categoria dell'innovazione e il configurarsi dell'edizione critica come «edizione nel tempo». La rilevanza che nella teoria della diffrazione assumono le varianti adiafore o indifferenti, la spesso dubbia liceità di qualificare errore in senso stretto lezioni non manifestamente irricevibili di per sé, la coincidenza della corruttela e della modificazione intenzionale inferta dalla trasmissione al testo tradito agli effetti dell'inquinamento dell'originale persuadono della opportunità di «considerare l'errore come un caso particolare di innovazione non autorizzata, privilegiata dagli indizi lasciati di delitto non perfetto» 43. È da credere che al sempre più netto delinearsi di questo orientamento teorico continiano abbia non poco contribuito l'attenzione al tradizionalismo, alla specificità tecnica della poesía tradicional nella quale «ogni intervento, firmato o adespoto che sia, su un testo ereditario [...] ha valore autonomo» 44 ; la quale, certo, richiede «modalità editoriali diverse della ricostruzione, dove si tratta piuttosto di seriare i concorrenti» AS, dato che «in fondo nessuna redazione è più "vera" o "autentica" delle altre» **; ciò che, d'altra parte «non esclude affatto la legittimità della ricerca diacronica, cioè la ricostruzione dell'originale: il ponte fra il settore letterario e il tradicional, fra lo scritto e l'orale, è costituito dall'ovvia considerazione che l'errore è solo una forma particolare d'innovazione, puntualmente riconoscibile per la sua scadente qualità al mero lume della critica interna» 47. Alla categoria dell'innovazione è concettualmente connessa la nozione di «edizione nel tempo». Essa pone in evidenza che l'edizione critica è, appunto, «nel tempo»: cosi nella sua elaborazione («tanto quella delle fonti osserva Contini * quanto quella della tradizione manoscritta sono ricerche sincroniche, da svolgere (e certo la cosa è più facilmente eseguibile nell'ambito strettamente testuale) in senso diacronico»), come nel suo uso e nella sua fruizione. Ogni pagina del testo critico andrebbe letta quindi come una carta di atlante 43 G. CONTINI, Rapporti fra la filologia (come critica testuale) e la linguistica romanza, in Actele celui de-al Xll-lea Congres International de Lingüistica si Filologia romanica, I, Bucurejti 1970, pp , a p G. CONTINI, Filologia cit., p Op. cit., p * Ibid. 47 G. CONTINI, La critica testuale cit., p Ibid.

13 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 57 linguistico, che rappresenta la proiezione orizzontale di una stratificazione verticale, sicché «lo spazio va convcrtito in tempo» 49. La nozione di «edizione nel tempo» dipende e deriva da quella di «testo nel tempo», in cui secondo Contini x si esprime il «problematismo esistenziale» della filologia moderna: consistente nel fatto che questa è in primo luogo «ricostruzione o costruzione di un "passato" e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto»; mentre, d'altra parte, «conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la "presenza" del testo». Sia dunque il testo provvisorio e incompiuto oppure «perfettamente eseguito» e definitivo, la filologia, «quando ne ha i mezzi», procura di rievocare le fasi del processo testuale: anche se il testo è «chiuso», essa lo fa aperto e dinamico, «lo ripropone nel tempo» 51. Non bisogna, del resto, dimenticare che il postulato del testo come «dato immobile», «implicito nell'ovvia lettura, è contraddetto meno - avverte Contini dall'altrettanto ovvia pedagogia del testo come prodotto d'una "lunga pazienza" che dalla rappresentazione, inerente alla riflessione di Mallarmé e soprattutto di Valéry, del testo come prodotto d'una infinitudine elaborativa di cui quello fissato è soltanto una sezione, al limite uno spaccato casuale» S2. La ricerca ecdotica dovrà pertanto proiettarsi in due direzioni, verso il «prima» del testo per rischiararne la genesi e verso il «dopo» per rappresentarne i «momenti della "fortuna" testuale» 53. Per ciò che è della seconda direzione, di nuovo si noterà che è percepibile l'eco delle idee di Menéndez Pidal: alle quali esplicitamente Contini fa riferimento nella relazione al congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, affermando che anche per i testi letterari, si tratti ad es. àéweneide o della Commedia, è importante conoscere «la veste nota ai vari momenti della storia culturale» M. Per ciò che è della prima, va segnalato il significativo riscontro che la «Ibid. 50 Filologia cit., p «Op. cit., p Ibid. 53 Op. cit., p Nella fortuna testuale rientrano, ovviamente, le imitazioni di «scuola»; le quali pongono non di rado allo studioso moderno, quando prossime cronologicamente e stilisticamente ai modelli, ardui problemi d'attribuzione. Di particolare interesse nella sintesi continiana, anche perché l'argomento non trova significativo riscontro in alcuna delle trattazioni analoghe, è il paragrafo sui rapporti fra critica del testo e attribuzionismo. Una eccellente ricerca riconducibile sostanzialmente ai concetti in esso esposti, ma già parzialmente formulati e applicati da Contini in scritti precedenti, ha compiuto Rosanna Bettarini nel suo volume su Jacopone e il Laudario Urbinate (Firenze 1969). 54 La critica testuale cit., p. 21.

14 58 GIORGIO CHIARINI concezione continiana (ampiamente dispiegata nei lavori critici sulle varianti d'autore di Petrarca e di Leopardi) trova nell'eccellente paragrafo dei Principi di critica testuale di Avalle dedicato alla Fenomenologia dell'originale: dove, fra l'altro, si precisa che «il concetto di originale deriva da una concezione statica, modellistica, dell'opera letteraria, mentre le singole opere di uno scrittore costituiscono a rigore una sezione a volte casuale e provvisoria e non sempre operata dall'autore stesso [...] - di quel flusso continuo di adattamenti e di spostamenti successivi attraverso cui si esprimono le tendenze fondamentali di un sistema letterario» s. La pratica del canone ricostruttivo della diffrazione abitua, anzi costringe, a un'attenzione estremamente vigile alla «varia lectio», a un'escussione meticolosa dei testimoni; e altresì a reperire, al di là delle testimonianze disponibili, realtà testuali primitive in tutto o in parte travolte dalle vicende della trasmissione. Essa educa, insomma, a una lettura il più possibile sagace e sensibile della tradizione. Ben si comprende come da un arduo tirocinio di questo tipo, gestito certo con non comuni attitudini personali di lettore e d'interprete, Cesare Segre abbia tratto esperienze assai utili per la sua acutissima analisi della tradizione della Chanson de Roland, in vista dell'allestimento dell'edizione critica del poema S6. Edizione esemplare, come tutti sanno, per la funzionalità della impostazione e della strumentazione ecdotica S1, che innova audacemente rispetto alla prassi editoriale rolandiana precedente, dominata dalla figura ormai mitica di Joseph Bédier. L'impostazione ecdotica predisposta da Segre tiene pienamente conto della entità specifica della documentazione, non certo copiosa ma singolarmente non omogenea, talché i connotati del testo mutano profondamente da un testi- 55 Pp Il dinamismo diacronico del testo è tecnicamente esplicitato, ad esempio, nella mia edizione dell'opera ruiziana (Juan Ruiz arcipreste de Hita, Libro de buen amor, edizione critica a cura di Giorgio Chiarini, Milano-Napoli 1964), dal rapporto dialettico fra lezione critica e varianti della fascia superiore dell'apparato: presentazione editoriale pertinente, non già della presunta doppia redazione (manca infatti all'insieme GT, quale ricostruibile allo stato attuale delle nostre conoscenze al riguardo, l'organicità strutturale di una vera e propria stesura primitiva), bensì dell'originale come «flusso», in accezione avalliana. 56 La Chanson de Roland, edizione critica a cura di Cesare Segre, Milano-Napoli, Ad essa opportunamente rinvia Valeria Bertolucci Pizzorusso nella sua pregevole edizione del Milione toscano (MARCO POLO, Milione. Versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V.B.P., Milano 1975), quale modello di trattamento di una tradizione che si divarica in un ramo «che si presenta come trascrizione» e in un altro «che si presenta come rimaneggiamento» (p. 352). Conseguenza teoricamente rimarchevole di una siffatta situazione, che si prospetta considerando i materiali raccolti nell'apparato della edizione di Segre, è l'eventuale opportunità di una diversificazione della metodologia ecdotica in funzione del variare della fenomenologia della tradizione di uno stesso testo.

15 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 59 mone all'altro: nell'ordine linguistico, in quello metrico, nell'estensione, nella disposizione e nella trattazione della materia. Non indugerò ad allustrare i molteplici pregi tecnici di un'opera che molti dei presenti avranno certo attentamente esaminato, anche per incitamento dello stimolante studio di Macri: studio che per l'intensità dell'impegno, per l'ampiezza dell'analisi, per la quantità di osservazioni e di proposte interessanti nate dal travaglio di un appassionato confronto «a tu per tu» col poeta e con l'editore, ha generato - posso renderne testimonianza - qualche complesso di colpa fra più d'uno dei romanisti nostrani: il che torna in gloria dell'ispanistica italiana che ha in Macri uno dei suoi più autorevoli e versatili rappresentanti; anche se debbo confessare che, piuttosto che lo specialista di studi iberici, vedo in questo lavoro brillantemente all'opera il critico militante, vorace lettore di poesia di tutti i tempi e di tutti i paesi, avidissimo per formazione e condizione generazionale, come lui stesso dice, «di complessi testuali organici e strutturati alle origini e nei minimi portatori del fatto espressivo su terreno qualificato» S8. Mi limiterò dunque ad indicare sommariamente quali siano a mio parere, nel libro di Segre, gli aspetti più nuovi ed istruttivi dal punto di vista tecnico. Primo di tutti quello di configurarsi, nella struttura e nella presentazione del materiale, come modello ineccepibile di edizione nel tempo. Se c'è un testo romanzo degno più d'ogni altro di esemplificare la nozione di testo nel tempo, tale mi sembra essere proprio la Chanson de Roland: qualità che l'assetto procurato da Segre evidenzia limpidamente, mentre restava nella penombra in quelli di Bertoni e Roncaglia ed era addirittura rimossa in quello di Bédier, offrendosi in esso il poema irrigidito e come ibernato nella veste dell'oxoniense. A restituirgli vitalità, dopo che da tanti decenni l'assetto bédieriano costituiva la «vulgata», non poteva bastare il puro e semplice affastellamento (da altri esperito infelicemente in anni lontani) delle varianti della tradizione beta: occorreva confrontare puntualmente le due tradizioni, tenerle costantemente in contatto e osservarle simultaneamente, inquadrarle insieme in quella che Segre chiama «lettura stereoscopica», vera e propria visione binoculare che conferisce all'immagine testuale un rilievo che è un divenire, processo nella diacronia che subentra a un irreale statico appiattimento nella sincronia. Segre ha dunque riaperto il processo nella direzione del prima, verso il recupero di tratti di una fisionomia originaria già in certa misura alterata in alfa; e nella direzione del dopo, che ha i momenti più dinamici in gamma e soprattutto in delta. Se tali sviluppi redazionali erano in termini estremamente vaghi intuibili, ora Segre li mostra e dichiara puntualmente nel loro prodursi: non solo in 58 Per una teorìa cit., p. 78.

16 60 GIORGIO CHIARINI virtù della osservazione «sinottica» del mobile atteggiarsi delle tradizioni, ma anche dell'esercizio sistematico di una chiosa assidua e illuminante, mai ingiuntiva e didascalica, sempre sollecitante e problematica. Se è vero, come fermamente credo, che la qualità di un'edizione che vuoi essere veramente critica si misura anche sul coinvolgimento dell'utente, nella partecipazione attiva che invoca all'operazione ecdotica, il Roland di Segre non può che avere una quotazione altissima sul mercato dei valori filologici. Di quel coinvolgimento, parecchi di noi detengono certo privatamente una prova nella ricca messe di annotazioni e appunti di lettura; quanto a prove di pubblico dominio, basterà in questa sede appellarsi ancora una volta alla cospicua recensione-contributo di Macrí. Debbo dire al riguardo che sono convinto che le più interessanti osservazioni in essa contenute (ad es. sulla progressione nella similarità, sul formulismo non meccanico ma genialmente creativo grazie ad un ricco «sintagmario di commutazione» - in quel grande poeta che è il sedicente Turoldo; sul «transito dall'epico-eroico al romanzesco e avventuroso», con degrado manieristico delle modalità stilistiche turoldiane in beta) sarebbero impensabili in margine a una diversa impostazione editoriale: impensabili, tanto appaiono condizionate e come contagiate dalla peculiarità dello strumento bibliografico che in una presentazione testuale opportunamente formalizzata integra un discorso esegetico nel quale è disseminata una moltitudine di suggestioni critiche. La valutazione tecnica dell'entità specifica della tradizione rolandiana ha condotto Segre ad una elaborazione concettuale interamente originale, sulla quale dobbiamo ora un poco soffermarci: quella relativa alle «correzioni mentali». In breve, si tratta di proposte dell'editore «non suffragatili da una sufficiente convergenza di argomenti», mentre però «non si può escludere che esse colgano nel vero» S9. Segre fa notare che gli interventi del critico per colmare lo spazio tra la documentazione e l'originale riposano, di volta in volta, sopra un'argomentazione la cui plausibilità è variabile in termini probabilistici: quando una proposta, pur sorretta dall'intimo convincimento di chi la formula, non può per carenza di elementi verificabili essere suffragata da prove o da indizi d'indiscutibile consistenza, dev'essere situata in una zona d'immediata contiguità al testo, ma senza penetrare in esso. In una concezione «prospettica» m dell'edizione critica deve, insomma, risultare anche dalla collocazione il coefficiente di affidabilità delle lezioni. A norma di tale concezione, la sede delle «correzioni mentali» non potrebbe che essere l'appa- * C. SEGRE, Correzioni mentali per la «Chanson de Roland», in La tradizione della «Chanson de Roland», Milano-Napoli 1974, pp , a p Op. cit., p. 191.

17 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 61 rato, il cui uflecio sarà allora quello di fornire un'immagine soltanto «virtuale» dell'archetipo allorquando le testimonianze siano «tanto eterogenee da permettere si [...] di traguardare l'aspetto originario del testo, ma non di giungere a una sua ricostruzione precisa» él. Trovo davvero che tali considerazioni vadano ben oltre la fattispecie che le ha suggerite e che le «correzioni mentali» tornino utili anche per tipi di tradizione meno innovativa di quella della Chanson de Roland. In particolare, l'assunzione stessa del canone della diffrazione si avvantaggerebbe a mio parere del ricorso ad esse nei casi «in assenza», quando non si disponga di congetture adeguatamente suffragabili. La forma della presentazione testuale deve corrispondere al massimo al canone operativo: quando esso sia lachmanniano (col prefisso neo- o trans-) 62 ) la presentazione non può prescindere dal fatto che la lezione si avvicina inegualmente all'originale; mentre il testo bédieriano, come avverte Segre a, «resta fermo, rifiuta i passi avanti resi possibili dal confronto tra i manoscritti». Opportuni artifici di presentazione, ad es. con gioco tipografico di corpi diversi o altri espedienti diacritici, si potrebbero forse escogitare anche per luoghi o zone di sospetta contaminazione. Almeno quando questa si ritenga sporadica o intermittente, comunque non sistematica. Proprio sul tema della contaminazione terminerò rapidamente la mia esposizione. Tutti ricordano la pessimistica conclusione al riguardo che si legge nel libretto del Maas («contro la contaminazione non si è ancora scoperto alcun 61 Op. cit., p L'apparato critico viene pertanto ad essere, nell'opinione di Segre a mio avviso senz'altro plausibile, il luogo più tecnicamente qualificante dell'edizione: perché sintetizza la tradizione, da considerare «sincrónicamente, come un diasistema, mentre ogni manoscritto o gruppo di manoscritti costituisce un sistema unitario, con le sue leggi linguistiche e stilistiche», e perché «svolge un vaglio completo, anche se non sempre conclusivo, delle lezioni» (C. SEGRE, La critica testuale, in Atti del XIV Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia romanza (Napoli, aprile 1974), I, Napoli 1978, pp , a p. 495); in quanto, cioè, in esso ha sede, con la varia lectio, «una potenzialità euristica, un deposito di verità adombrate che il testo critico necessariamente esclude» (ibid.): appunto, insomma, le «correzioni mentali», che possiedono una indubbia «validità sèmica», anche quando non è dato determinare con certezza la forma linguistica della lezione originaria. 62 L'aggettivo «translachmanniano» è usato da Contini, nella voce Filologia (p. 962), in riferimento al tipo di diffrazione «imposto dall'associazione di pluralità e banalità delle varianti». Estendo il termine alle proposte metodologiche dei romanisti più o meno direttamente influenzati dalla teoria continiana. La quale, oltre a fornire determinati strumenti operativi, comporta l'assunzione di un ben preciso atteggiamento mentale nei confronti dei problemi della trasmissione testuale delle scritture medievali e della loro ricostruzione critica. Atteggiamento che, con gli opportuni aggiornamenti e le necessarie integrazioni, si può dire ancora fondamentalmente lachmanniano. 63 C. SEGRE, La critica testuale cit., p. 494.

18 62 GIORGIO CHIARINI rimedio»). La romanistica italiana più tecnicamente agguerrita non si è però lasciata demoralizzare da questo lapidario giudizio. Citerò soltanto, a conferma, le contromisure esperite proficuamente da Segre sulla tradizione del Bestiaire del Fornival e da Avalle su quella del canzoniere di Peire Vidal, anche perché sono state oggetto di importanti ripensamenti teorici da parte degli autori. Quello di Segre M abbozza una classificazione della fenomenologia contaminatoria secondo modalità (semplice, frazionata o multipla) e secondo intensità (sporadica, fitta, completa); fornisce inoltre sommarie indicazioni sull'uso di criteri statistici. Quello di Avalle 65 formula tre criteri, dei quali sono del tutto nuovi il secondo e il terzo, mentre il primo («Un teste [...] apparterrà piuttosto ad una famiglia con cui ha in comune ad esempio una lacuna, che ad un'altra con cui ha in comune errori di minore evidenza od una serie di lezioni caratteristiche» *) è derivato dal Maas. Di gran lunga il più interessante è il secondo («l'attenzione di chi collaziona è attratta in genere più dalle varianti macroscopiche che da quelle rilevabili solo attraverso un certo grado di concentrazione (le varianti grafiche, fonetiche, morfologiche, le particelle ed in genere i monosillabi); molto più probabile quindi, quando mancano lacune o guasti evidenti, che un teste faccia parte di una tradizione con cui ha in comune una serie cospicua di scarsa rilevanza, che non di un'altra di cui riproduca solo talune varianti maroscopiche» 67 ); mentre il terzo si limita a sancire ancora una volta il principio della economicità («andrà scelta l'ipotesi più economica, quella cioè che limita al minimo le sedi e le fonti di contaminazioni» * 8 ). D'indubbio interesse metodologico, sempre in fatto di contaminazione, anche se talvolta sconcertante nell'applicazione, è la strategia ricostruttiva recentemente predisposta - sulla base dei rimedi avalliani e dei modelli operativi continiani in ordine alla diffrazione da Maurizio Perugi nella sua edizione critica delle canzoni di Arnaut Daniel 69. Gli strumenti approntati in servizio di quella strategia sono definiti da Perugi «teoria dello iato» e «teoria dell'intersezione»: teorie elaborate entrambe selezionando costanti 64 C. SEGRE, Appunti sul problema delle contaminazioni nei testi in prosa, in Studi e problemi di critica testuale. Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i Testi di Lingua (7$ aprile 1960), Bologna 1961, pp D'A. S. AVALLE, Di alcuni rimedi contro la «contaminazione^, in La letteratura medievale in lingua d'oc nella sua tradizione manoscritta, Torino 1961, pp «Op. cit., pp Op. cit., p «Ibid. Le canzoni di Arnaut Daniel, edizione critica a cura di Maurizio Perugi, Milano-Napoli 1978.

19 ECDOTICA E TESTI ISPANICI 63 comportamentali della tradizione arnaldiana, poi verifícate nella tradizione di altri trovatori. L'attenzione di Perugi si concentra su fatti seriali, perché essi soltanto possono a suo avviso rivelare le tracce dell'andamento verticale della tradizione, pur nei continui sbandamenti e nelle innumerevoli interferenze reciproche delle linee ascendenti di uno stemma. La teoria dello iato si fonda sulla ricerca di fenomeni iatici originari, occultati nella trasmissione sotto la sedimentazione di una varietà molteplice di risarcimenti sillabici; la teoria dell'intersezione affronta specificamente i fatti diffrazionali, la cosiddetta intersezione essendo il luogo mentale di convergenza, nel processo ricostruttivo, delle due linee di tendenza rawisabili nella fenomenologia della metamorfosi testuale di lezioni a vario titolo eccentriche rispetto alla media vigente nell'ambiente linguistico in cui il copista opera: la tendenza alla sinonimia e quella alla allonimia grafica. Le due teorie sono impiegate da Perugi per istituire raggruppamenti delle testimonianze, non esclusivamente sul fondamento degli errori comuni, ma secondo «modelli strutturali di ricodificazione» visibili piuttosto a livello grafematico. Su base, appunto, essenzialmente grafematica sono verifícate le genealogie proposte per i componimenti del trovatore perigordino. Queste le procedure programmate: soltanto il controllo minuzioso della loro attuazione, previo paziente riscontro sulle fonti manoscritte, potrà consentire un giudizio di merito sulla correttezza della ricostruzione dei testi cosi compiuta; ma credo si possa intanto prendere in considerazione e segnalare anche ai non provenzalisti la proposta di metodo. Un'ultima proposta ancora vorrei sottoporvi brevemente, prima di concludere: quella avanzata da Aldo Rossi nella sua edizione decameroniana del '77. Essa intende avviare a soluzione razionalmente lo spinoso problema delle redazioni dell'opera. Invertendo la tendenza ad una proliferazione incontrollata delle stesure autografe (tre redazioni prima della definitiva, secondo la Simonelli; di «elaborazione [...] almeno in cinque o sei direzioni diverse» parla il Branca nella edizione del '51-'52, più genericamente di «varie redazioni diacroniche» in quella del '76), Rossi individua due fondamentali assetti del testo, più una fase intermedia di transizione dall'uno all'altro. Utilizzando singoli codici relativi al primo assetto e alla fase di transizione si sarebbe poi attuata, alla fine del '300, una redazione «compendiosa» non autografa. Tale vicenda redazionale è ricostruita da Rossi mediante una analisi dei componenti della copiosa tradizione, che non posso ovviamente neppure rias- 70 GIOVANNI BOCCACCIO, II Decameron, edizione critica a cura di Aldo Rossi, Bologna 1977.

20 64 GIORGIO CHIARINI sumere. Quel che però mi preme di segnalarvi è il metodo direttivo della ricostruzione, che si avvale abilmente di procedure tassonomiche dell'insiemistica 71 : cosa che trova puntuale riflesso nella presentazione editoriale per ciò che è dello schema di diffusione e dell'apparato. Anziché le rigide geometrie di un albero genealogico, che spesso travisano nella esenzialità delle loro linee rette percorsi in realtà di labirintica complicatezza, Rossi ci presenta tre insiemi corrispondenti alle fasi redazionali d'autore più un quarto per la «compendiosa», inquadrati dagli assi ortogonali di un sistema di coordinate che indica la cronologia relativa dei testimoni e la posizione che al testo di cui è portatore ciascuno presumibilmente spetta nella genealogia. A parte possibili perplessità circa la precisa ubicazione di singoli codici, questa rappresentazione della tradizione senza dubbio ne da un'immagine ben più efficace e storicamente verosimile, nel suo valore simbolico, di quelle disegnate dagli altri studiosi del Decameron: i quali, per altro, si erano di norma limitati a tracciare gli ipotetici legami fra i quattro codici principali (il berlinese, il Mannelli, il laurenziano XLII 3, il capponiano). Nel suo grafico, invece, Rossi include tutti i testimoni utili alla restitutio: una massa d'individui che, guardando esclusivamente ai quattro privilegiati, tutti i boccaccisti prima di lui hanno accantonato alla rinfusa, incapaci di vederci chiaro. Rossi è dunque il primo, si può dire, che procura di ordinare quel caos, se non ancora in un cosmo perfettamente strutturato, in tre nebulose disposte secondo una suggestiva ipotesi di aggregazione. Ipotesi controllabile agevolmente nell'apparato, che non ospita la miriade di «singulares» ma solo le varianti redazionali, ponendo in risalto la dinamica testuale del libro nello spazio e nel tempo. Pongo qui fine a questo mio arido e farraginoso ragguaglio: inventario un po' casuale di orientamenti teorici sui quali resta, naturalmente, ancora molto da dire. Esso non presume di essere esauriente, è semmai allusivo e sintomatico. Spero valga almeno a dare un'idea di un certo tipo di problematica: poiché invero di tal genere, se non tali appunto, sono le angosce metodologiche dei filologi romanzi lachmanniani in questa nostra inquieta età «postmoderna» 72. GIORGIO CHIARINI 71 Con criteri sostanzialmente lachmanniani è stata condotta le recensio delle singole redazioni: come si vorrebbe risultasse da un'apposita sottofascia dell'apparato critico, davvero troppo «laconico». 72 Nella quale vengono sempre più spesso contestati i tradizionali fondamenti ideologici del sapere, a causa della «delegittimazione» delle cosiddette «grandi narrazioni» (positivismo, idealismo, storicismo, marxismo, psicanalisi ecc): cfr. JEAN-FRANCOIS LYOTARD, La condition postmoderne, París 1979.

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