Il rischio cardiovascolare globale: il ruolo dei lipidi plasmatici

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1 RASSEGNA Il rischio cardiovascolare globale: A.L. Catapano*, L. Catapano *Dipartimento di Scienze Farmacologiche, Università degli Studi di Milano Abstract L aterosclerosi è una malattia multifattoriale. Questa affermazione è supportata da una grande mole di dati, raccolti nel corso degli ultimi 30 anni, sia nel corso di studi osservazionali che di intervento clinico. Sono stati, nel corso degli anni, identificati un gran numero di fattori di rischio e di condizioni che si associano allo sviluppo di aterosclerosi, ma i principali sono, senza dubbio, le dislipidemie, l ipertensione arteriosa, il diabete mellito, il fumo di sigaretta e la familiarità. I fattori di rischio interagiscono fra loro con modalità complesse e non del tutto chiarite, venendo a creare quello che si definisce rischio cardiovascolare globale. È chiaro, quindi, che il rischio cardiovascolare deve essere calcolato (con strumenti matematici o approssimato mediante carte del rischio) per ogni singolo soggetto. Coloro che presentano più fattori di rischio contemporaneamente sono a maggiore rischio di eventi cardiovascolari, e proprio in tali soggetti un più stretto controllo dei fattori di rischio conduce a risultati migliori nella prevenzione degli eventi clinici. L ipercolesterolemia, secondo questo concetto, assume sempre più una connotazione dinamica ; le più recenti linee guida nella gestione del paziente dislipidemico pongono l accento sulla necessità di un più stretto controllo metabolico in quei pazienti in prevenzione secondaria ed in coloro che, pur in prevenzione primaria, sono gravati da un carico di fattori di rischio tali (come ad esempio i diabetici) da equiparare il loro rischio a quello di soggetti che hanno già sofferto di un evento cardio-vascolare. Parole chiave: Aterosclerosi; Fattori di rischio; Rischio cardiovascolare globale; Ipercolesterolemia Atherosclerosis is a multifactorial disease. This is supported by a great number of evidences coming from observational and clinic studies designed during the last 30 years. Hyperlipidemia, hypertension, diabetes, cigarette smoking and genetic are the most important and well known risk factors. They interact and, together, contribute to the global cardiovascular risk. The global cardiovascular risk should be calculated for each person affected by one or more risk factors; patients presenting with several risk factors are the ones who could benefit most from a strict control of metabolic parameters and blood pressure. Desired levels of blood lipids (therapeutic goals) should be, then, decided for each person considering the burden of other cardiovascular risk factors (person who have a greater global cardiovascular risk should reach lower levels of blood lipids). Key words: Atherosclerosis; Risk factors; Global cardiovascular risk; Hypercholesterolemia Secondo i dati recentemente pubblicati dall Organizzazione Mondiale della Sanità le malattie cardiovascolari, in particolare la cardiopatia ischemica, rappresentano la principale causa di morbilità in tutto il mondo, con un contributo rilevante da parte delle aree in via di sviluppo. Nel corso delle ultime due decadi è stato meglio definito il ruolo causale dell ipercolesterolemia nella patogenesi delle lesioni aterosclerotiche e delle loro manifestazioni cliniche, in particolare la cardiopatia ischemica. Questi substrati fisiopatologici hanno reso possibile lo sviluppo di numerosi studi clinici mirati a verificare l ipotesi che la riduzione della colesterolemia potesse condurre ad una riduzione della morbilità e della mortalità per cause cardiovascolari. La maggioranza di tali studi hanno, infatti, dimostrato una riduzione di eventi cardiovascolari consensuali alla riduzione dei valori di colesterolo plasmatico. Il rapporto fra ipercolesterolemia e malattie cardiovascolari fu evidenziato per la prima volta negli anni 30 in studi indipendenti condotti da Muller e 22

2 Thannhauser; entrambi notarono un eccesso di patologie coronariche ed infarti del miocardio, rispetto alla popolazione generale, in pazienti affetti da xantomatosi ereditaria. Kannel e collaboratori confermarono tale osservazione nel corso dei primi anni 70, riportando una forte correlazione fra colesterolemia totale ed incidenza di cardiopatia ischemica in più di 5000 soggetti nell ambito dello studio Framingham. 1 Partendo da tali osservazioni Martin e colleghi esaminarono l associazione fra rischio cardiovascolare e livelli di colesterolo plasmatico in oltre uomini nell ambito dello studio MRFIT (Multiple Risk Factor Intervention Trial), rilevando una stretta relazione fra i livelli di colesterolo al momento dell arruolamento dei soggetti e la mortalità per patologie cardiovascolari, in un periodo di osservazione di sei anni. A livelli crescenti di colesterolo plasmatico si associava un rischio crescente di mortalità cardiovascolare, e tale associazione rimaneva evidente fino a 12 anni di follow-up. Dati analoghi sono stati ottenuti nel corso di altri studi osservazionali svolti su coorti comprendenti donne, soggetti di razza nera e soggetti di età maggiore di 60 anni. 2 Il rapporto fra colesterolemia ed eventi cardiovascolari è evidente sia in prevenzione primaria (eventi cardiovascolari in soggetti peraltro sani prima dell evento), che in prevenzione secondaria (recidiva dell evento cardiovascolare in soggetti con storia documentata di cardiopatia ischemica). 3 La presenza di strie lipidiche nell aorta di soggetti giovani, deceduti per cause non cardiovascolari, ed il riscontro di lesioni aterosclerotiche in soggetti di età media si correla ai livelli di colesterolo totale ed alla sottofrazione LDL (lipoproteine a bassa densità). Numerosi studi angiografici hanno dimostrato una correlazione positiva fra la presenza di coronaropatie e livelli di colesterolo totale, colesterolo LDL ed apolipoproteina B. 4 Sulla base di tali osservazioni l Istituto nazionale di Sanità e la Società Europea dell Aterosclerosi sono stati concordi nell evidenziare un nesso di causalità fra ipercolesterolemia e malattia cardiovascolare, e, quindi, la necessità di ridurre i livelli di colesterolo plasmatico, sia in prevenzione primaria che in prevenzione secondaria. RIDUZIONE DEI LIVELLI DI COLESTEROLO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE Fin dai primi anni 50 le informazioni ottenute in modelli animali suggerivano che l innalzamento della colesterolemia totale induceva un aumento dell infiltrazione lipidica della parete arteriosa, e più in generale la comparsa di modificazioni istopatologiche, a livello della parete stessa, analoghe a quelle osservate nelle fasi precoci dell aterosclerosi umana. Le informazioni relative alla correlazione tra colesterolemia e malattia ateromasica nell uomo erano, al contrario, piuttosto scarse in quel periodo. Due studi pilota di epidemiologia osservazionale, effettuati negli Stati Uniti ed in Europa, si sono rivelati una fonte preziosa di dati su questo argomento. Lo studio di Framingham, condotto nell omonima cittadina statunitense, vicino a Boston, iniziò in quel periodo la raccolta di informazioni sullo stile di vita, le caratteristiche antropometriche, i valori pressori ed alcuni parametri di biochimica plasmatica (tra cui la colesterolemia totale e la glicemia) di un vasto campione della popolazione (5000 soggetti su un totale di ) degli abitanti della cittadina. L obiettivo, tipico di uno studio prospettico di coorte, era di rilevare nel tempo l incidenza (e cioè i nuovi casi) di eventi coronarici o più in generale cardiovascolari, e di correlare tale dato con le caratteristiche già note ai ricercatori dei soggetti colpiti o non colpiti da tali eventi. Lo studio dei Sette Paesi ( Seven Countries Study ) cercò invece di identificare una correlazione tra il consumo di alcune componenti dell alimentazione delle popolazioni delle nazioni considerate (tra cui l Italia, rappresentata da tre comunità, e cioè Montegiorgio, Crevalcore, ed una coorte di ferrovieri) e l incidenza di eventi coronarici nelle stesse popolazioni. Sia lo studio di Framingham che il Seven Countries 23

3 Study hanno modificato grandemente la nostra conoscenza della relazione tra colesterolemia e malattia coronarica. Lo studio di Framingham, infatti, mostrò chiaramente che i soggetti con valori i basali della colesterolemia totale superiori a mg/dl sviluppavano, nel tempo, eventi cardiovascolari sia fatali che non fatali con frequenza maggiore rispetto a soggetti con analoghe caratteristiche ma con valori basali più bassi di colesterolemia. 5 Esso indicò anche che i soggetti portatori, oltre all ipercolesterolemia, di altre condizioni, quali fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, diabete mellito e bassi livelli di colesterolo HDL (Figg. 1, 2, 3) incorrevano in eventi clinici legati alla malattia coronarica stessa con Figura 1. Mortalità cardiovascolare in soggetti diabetici e non diabetici nell ambito dello studio Framingham. Figura 2. Relazione fra pressione arteriosa ed eventi cardiovascolari nell ambito dello studio Framingham. Figura 3. Colesterolo HDL e rischio relativo di eventi coronarici nello studio di Framingham. frequenza superiore a quella che si osservava nei soggetti solamente ipercolesterolemici. Queste osservazioni condussero alla formulazione ed alla strutturazione del concetto di fattore di rischio coronarico, ed all osservazione che i fattori di rischio stessi, quando coesistono in un soggetto, potenziano progressivamente e reciprocamente il proprio potere di predire le manifestazioni cliniche della malattia coronarica. Il Seven Countries Study perfezionò il concetto, desunto dallo studio di Framingham, della relazione tra colesterolemia e malattia coronarica, documentando anche l esistenza di una serie di correlazioni tra l alimentazione ed il valore della colesterolemia plasmatica. Questo studio, infatti, mostrò come elevati consumi di grassi saturi si associassero ad elevati valori della colesterolemia, e come ambedue questi parametri fossero dei buoni predittori del rischio coronarico. 6 Lo studio concorse in modo significativo alla nascita del concetto di dieta mediterranea, sottolineando come le comunità affacciate appunto sul Mare Mediterraneo godessero di incidenze relativamente basse di eventi coronarici, con ogni probabilità a causa delle modalità di alimentazione più diffuse nelle rispettive popolazioni (scarso apporto di grassi e proteine animali, preferenziale consumo di grassi di origine vegetale e di pesce, consistente consumo di vegetali ricchi di fibra ed antiossidanti naturali). 7 24

4 Nello stesso periodo un altro celebre studio condotto su giapponesi che emigravano dal Giappone agli Stati Uniti permise di sottolineare l importanza delle abitudini di vita, in associazione alle componenti genetiche, nello sviluppo della malattia coronarica. Lo studio, noto come Ni-Hon-San (da Nippon- Honduras-San Francisco, il tragitto tipico degli immigranti giapponesi negli Stati Uniti d America), mostrò come il rischio coronarico di soggetti giapponesi che vivevano in Giappone, o trapiantati in Honduras, o ancora stabilitisi nell area di San Francisco (in genere la loro destinazione finale), crescesse progressivamente fino a raggiungere quello delle popolazioni nelle quali essi si trasferivano e si integravano. Lo studio dimostrò, pertanto, che il basso livello di rischio coronarico nei soggetti giapponesi riflettesse più un abitudine tradizionale di stile di vita, ed in particolare di stile alimentare, che una loro minore propensione genetica alla malattia (che li avrebbe naturalmente protetti anche una volta trasferitisi in California). Tra gli studi osservazionali condotti nei Paesi anglosassoni va ancora menzionato il cosiddetto MRFIT, che verso la metà degli anni 80 mostrò come, in una coorte di proporzioni molto ampia (circa soggetti), sussistesse una correlazione continua e crescente, praticamente senza livello soglia, tra il valore della colesterolemia totale ed il rischio di malattia coronarica. Lo studio MRFIT, sulla base di questi dati, indusse una riflessione profonda sul reale significato della definizione di colesterolemia normale, che aveva per lungo tempo accompagnato il rilievo di valori della colesterolemia stessa inferiori a mg/dl; esso infatti indicò che qualunque modificazione della colesterolemia, sia in aumento che in diminuzione, si accompagnava a modificazioni nella stessa direzione del rischio coronarico, e che non esisteva un valore (o un area di valori) al di sotto del quale la colesterolemia perdeva la capacità di essere predittiva del rischio coronarico. Questa osservazione generò il concetto, tuttora accettabile a livello di popolazione, del tanto più basso, tanto meglio, a proposito della colesterolemia e del corrispondente rischio coronarico. Più in dettaglio, il MRFIT indicò come un valore della colesterolemia di 200 mg/dl si associasse ad un rischio di eventi nel tempo pari a circa l 1 per 1000 e per anno nella popolazione studiata (soggetti di sesso maschile, di età 35-64, con un basso livello di fattori di rischio concomitanti); come i soggetti con valori di colesterolemia attorno ai 150 mg/dl avessero un rischio di circa il 30% inferiore rispetto ai soggetti del gruppo con 200 mg/dl di colesterolo (con un rischio relativo, o RR, quindi di circa 0,7) e come, al contrario, valori di 250 e 300 mg/dl comportassero un aumento del rischio stesso di 2 e 4 volte, rispettivamente. 8 Lo studio MRFIT consentì, come peraltro già documentato dallo studio Framingham, di dimostrare quantitativamente l importanza della multifattorialità della malattia coronarica. A parità di valori della colesterolemia, infatti, si osservò ancora una volta come la presenza concomitante di altri fattori di rischio coronarico quali il fumo o l ipertensione, aumentasse grandemente le probabilità di sviluppare malattia coronarica nel tempo. Gli studi di epidemiologia osservazionale condotti tra gli anni 50 ed 80, quindi, hanno permesso di definire con accuratezza i seguenti concetti: Alcuni aspetti dello stile di vita, tra cui l alimentazione, giocano un ruolo importante nel predire la probabilità individuale di andare incontro ad un evento coronarico fatale o non fatale. Questi aspetti ambientali giocano un ruolo di notevole importanza, spesso superiore all influenza del patrimonio genetico, nel determinare il rischio coronarico. Tra i fattori ambientali la nutrizione ricopre un ruolo di primo piano. Il valore della colesterolemia è molto importante nel determinare il rischio coronarico di soggetti o popolazioni; il suo effetto non sembra caratterizzato da valori soglia ed è potenziato da altri fattori di rischio, tra cui l ipertensione, il fumo di sigaretta, la malattia diabetica. Ovviamente questi studi non potevano documen- 25

5 tare che la riduzione della colesterolemia riducesse il rischio di eventi coronarici: questa informazione può essere desunta esclusivamente solo da studi controllati di intervento. Gli studi di tipo osservazionale hanno, tuttavia, fornito il necessario retroterra culturale che ha condotto alla pianificazione di studi di intervento. Studi di tipo osservazionale di elevata qualità scientifica, a proposito della relazione tra colesterolemia e malattia coronarica, erano nel frattempo stati condotti anche nel nostro Paese. Queste ricerche, recentemente esaminate nel loro complesso da A. Menotti, hanno innanzitutto cercato di determinare il valore medio della colesterolemia nella popolazione italiana. Nessuno di questi progetti, in realtà, ha esaminato un campione di individui rappresentativo della popolazione generale del nostro Paese (nel quale coesistono sottogruppi di soggetti, nella parte meridionale e settentrionale, con stili di vita ancora piuttosto differenti). I valori raccolti, tuttavia, sono piuttosto omogenei, e permettono di collocare la colesterolemia media in Italia, per la popolazione adulta, tra 200 e 220 mg/dl, con valori lievemente più elevati nella popolazione femminile (ma i dati a questo proposito non sono sempre concordi). Il complesso dei dati disponibili permette anche di costruire un trend temporale della colesterolemia media nazionale. Il valore di questo parametro si è rivelato sostanzialmente stabile tra i primi anni 70 ed i primi anni 90. La situazione era differente nei decenni precedenti. Negli anni 60, probabilmente a seguito dell adozione di stili di vita meno tradizionali e più simili ad esempio a quelli della cultura americana, si osservarono modificazioni sfavorevoli della colesterolemia; in due gruppi di individui dell area romana, esaminati a 10 anni di distanza, Menotti poté dimostrare come i valori della colesterolemia rilevati al secondo controllo fossero del 10% circa superiori rispetto a quelli della precedente indagine. Queste variazioni si associarono ad un aumento circa doppio (+19%) dell incidenza di patologia coronarica osservata in occasione dei due rilievi, dato che anticipava le indicazioni che si sarebbero ottenute anni dopo dagli studi di intervento, nei quali si dimostrò che ogni riduzione percentuale della colesterolemia indotta mediante diete o farmaci si associava ad una diminuzione doppia della probabilità di incorrere in un evento coronarico (la famosa regola dell 1-2% secondo la quale ad ogni riduzione dell 1% della colesterolemia corrisponde una riduzione del 2% del rischio coronarico). Le coorti studiate longitudinalmente nel nostro Paese hanno inoltre confermato come valori crescenti di colesterolo si associno ad un incidenza progressivamente crescente di eventi coronarici fatali e non fatali. Se l osservazione si prolunga per 25 anni gli scenari numerici assumono notevole precisione. Posto uguale ad 1 il rischio di morte coronarica di un soggetto con un valore basale della colesterolemia di 160 mg/dl, il rischio stesso è aumentato di circa il 25% a 200 mg/dl, è raddoppiato a 280 mg/dl ed è aumentato del 150% per valori di 320 mg/dl. Anche la mortalità per tutte le cause segue lo stesso trend, seppure con minore pendenza delle curve di correlazione. Negli anni 90 si è assistito ad un esplosione di studi clinici sul ruolo dell ipercolesterolemia nella gestione di pazienti affetti da cardiopatia ischemica o ad elevato rischio per malattie coronariche. Fra questi bisogna senza dubbio ricordare lo studio 4S, il cui obiettivo è stato quello di valutare il beneficio di interventi farmacologici atti a ridurre i valori di colesterolemia in pazienti affetti da cardiopatia ischemica con elevati valori di colesterolo plasmatico; 4444 pazienti con angina o storia di pregresso infarto del miocardio sono stati assegnati ad assumere una statina (simvastatina) o placebo, con un follow-up medio di 5,4 anni. Nel gruppo trattato con farmaco attivo si è assistito ad una riduzione del 25% del colesterolo totale e del 35% del colesterolo LDL; il trattamento con simvastatina ha, inoltre, ridotto gli eventi coronarici (morte per cause coronariche, infarto del miocardio; RR = 0,66), la morte per cause coronariche (RR = 0,58) e la mortalità totale (RR = 0,70). Inoltre la terapia ha ridotto la necessità di interventi di rivascolarizzazione coronarica mediante by-pass o angioplastica coronarica (RR = 0,63). 9 26

6 Lo studio successivo dal punto di vista cronologico è stato lo studio WOSCOPS, che ha indagato il ruolo della terapia ipolipemizzante in soggetti ipercolesterolemici senza una storia clinica di malattia cardiovascolare; sono stati arruolati 6595 soggetti di età compresa fra 45 e 64 anni e casualmente assegnati ad assumere pravastatina (40 mg/die) o placebo, con un follow-up medio di 4,9 anni. Nel gruppo trattato con farmaco attivo si è assistito ad una riduzione del 20% del colesterolo totale e del 26% del colesterolo LDL. Sebbene sia stato uno studio di prevenzione primaria (ovvero atto a prevenire un primo evento cardiovascolare), i soggetti arruolati presentavano un rischio elevato di eventi cardiovascolari, con colesterolemia totale media di 270 mg/dl, indice di massa corporea elevato (26 + 3,1 kg/m 2 ) e più di un terzo fumava. La terapia con pravastatina ha ridotto gli eventi coronarici del 31%, le procedure di rivascolarizzazione del 37% e la mortalità per cause cardiovascolari del 32%; non si è assistito a modificazioni significative della mortalità per cause non cardiovascolari e la riduzione della mortalità totale (22%) si è posizionata ai limiti della significatività statistica. 10 I dati dello studio, ed in particolare l importante riduzione degli eventi avversi cardiovascolari, indicano che pazienti ipercolesterolemici ad elevato rischio cardiovascolare e senza una storia clinica di cardiopatia ischemica possono trarre grandi benefici dalla terapia ipolipemizzante. Figura 4. Colesterolo LDL ed eventi coronarici nello studio 4S. Questo studio ha chiaramente stabilito l importanza della terapia ipolipemizzante in pazienti affetti da cardiopatia ischemica ed elevati valori di colesterolemia nel ridurre morbilità e mortalità risultando, inoltre, sicura, a fronte di una pari mortalità per cause non cardiovascolari nei pazienti trattati ed in quelli non trattati (Fig. 4). Nel corso dell anno successivo è stato pubblicato lo studio CARE (Cholesterol and Recurrent Events Trial Investigators), condotto su 4159 soggetti con storia di infarto del miocardio (quindi in prevenzione secondaria ) e livelli medi di colesterolemia totale di 200 mg/dl, assegnati a trattamento con pravastatina o placebo. Nel gruppo trattato con farmaco attivo si è assistito ad una riduzione del 20% della colesterolemia totale e del 28% del colesterolo LDL; inoltre la terapia con pravastatina ha ridotto l end-point primario (morte coronarica e infarto del miocardio non fatale) del 24%. In questo studio non è stata riscontrata una differenza significativa fra mortalità totale, mortalità cardiovascolare e mortalità non cardiovascolare fra i soggetti trattati e quelli non trattati; al contrario il numero di infarti del miocardio non fatali è stato grandemente ridotto dalla terapia farmacologica, così come le manovre di rivascolarizzazione ed i casi di ischemia cerebrale. 11 I dati raccolti sembrano indicare, quindi, che i pazienti in prevenzione secondaria beneficiano della terapia con statina anche in presenza di valori border-line di colesterolemia, probabilmente perché non esiste un valore soglia di colesterolemia nella determinazione del rischio cardiovascolare. Tuttavia la mancata diminuzione di mortalità coronarica nel gruppo trattato e la riduzione, percentualmente minore nello studio CARE rispetto al 4S, suggeriscono che sono i soggetti ad elevato rischio e con valori elevati di colesterolo a trarre maggior beneficio dalla terapia (Fig. 5). L impatto storico di questi tre ultimi studi è stato considerevole, soprattutto se essi vengono paragonati 27

7 La mortalità coronarica è risultata ridotta del 24% nel gruppo in terapia con farmaco attivo; la mortalità totale è risultata ridotta del 22%; si è inoltre assistito ad una significativa riduzione degli eventi coronarici maggiori (morte coronarica ed infarto non fatale) del 24%, interventi di rivascolarizzazione del 20% ed eventi ischemici cerebrali del 19%. 12 Figura 5. Sottoanalisi dell incidenza di eventi coronarici (pravastatina vs placebo) in gruppi con differenti valori basali di colesterolo LDL (studio CARE). alla letteratura scientifica in materia delle due decadi precedenti, nel corso delle quali con i farmaci ipolipemizzanti disponibili la riduzione media della colesterolemia si assestava intorno al 10%, contro il 20-30% di quanto ottenibile con le statine. Non bisogna dimenticare, però, l importanza della terapia dietetica e dello stile di vita, entrambi passo iniziale e inevitabile nella gestione del paziente ad elevato rischio cardiovascolare con fattori di rischio multipli, sia in prevenzione primaria che secondaria; tuttavia modificazioni delle abitudini alimentari e dello stile di vita sono difficili da introdurre e mantenere già nel singolo individuo, maggiormente nell ambito di intere popolazioni, tanto da indurre le ultime linee guida per la gestione del paziente ad elevato rischio ad enfatizzare maggiormente la terapia farmacologica (esistono grandi quantità di dati sulla sicurezza delle statine) rispetto a quella dietetica. Nei tardi anni 90 lo studio LIPID (Long-term Intervention with Pravastatin in Ischemic Disease) ha enfatizzato l importanza della terapia ipolipemizzante nella prevenzione secondaria; 9014 pazienti con storia di infarto del miocardio e angina instabile, con colesterolemia totale al base-line compresa fra 154 mg/dl e 270 mg/dl, sono stati assegnati ad assumere pravastatina o placebo, e seguiti per un tempo medio di 6,1 anni. Nello stesso anno sono stati pubblicati i risultati dello studio AFCAPS/TexCAPS (Primary prevention of acute coronary events with lovastatin in men and women with average cholesterol levels), in cui sono stati valutati gli effetti di una terapia ipolipemizzante con lovastatina su una popolazione con rischio cardiovascolare medio e colesterolemia media di 220 mg/dl uomini e 997 donne sono stati randomizzati all assunzione del farmaco attivo o del placebo; dopo un periodo di osservazione medio di 5,2 anni gli eventi coronarici maggiori (infarto del miocardio, angina instabile, morte improvvisa) sono risultati significativamente ridotti nel gruppo trattato (RR = 0,63) (Fig. 6, 7 e 8). Sebbene non siano stati registrati effetti avversi nel gruppo trattato con statina, la mortalità totale nei due gruppi è risultata sovrapponibile, e più dei 2/3 delle morti totali è stato imputato a cause non cardiovascolari. 13 Altro studio che ha dato un grande contributo alla comprensione del rischio cardiovascolare è lo studio ASCOT (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial). Nel braccio designato all assunzione di terapia ipolipemizzante (ASCOT-LLA) più di soggetti ipertesi, in prevenzione primaria, con rischio cardiovascolare a 10 anni compreso fra 10 e 20%, sono stati randomizzati all assunzione di atorvastatina 10 mg/die o placebo; questo braccio dello studio è stato sospeso dopo circa 3 anni (il disegno originale prevedeva un follow-up di 5 anni) a causa dei chiari benefici riscontrati nel gruppo assegnato ad atorvastatina, con una riduzione del 36% di infarto del miocardio non fatale o morte coronarica (end-point primario combinato). 14 I dati dell HEART PROTECTION STUDY (HPS) 28

8 Figura 6. Modificazione dei valori lipidici plasmatici ad un anno (lovastatina vs placebo) nello studio AFCAPS/TexCAPS. Figura 7. Primo evento coronarico maggiore (incidenza cumulativa) nello studio AFCAPS/TexCAPS (lovastatina vs placebo). Figura 8. Riduzione del rischio di un primo evento coronarico maggiore; analisi per sottogruppi (AFCAPS/TexCAPS). hanno fortemente confermato l efficacia della terapia ipolipemizzante con statine in pazienti ad elevato rischio di patologia aterosclerotica soggetti ad elevato rischio per la presenza di pregressi eventi coronarici (prevenzione secondaria), presenza di arteriopatia non coronarica o diabete mellito, sono stati randomizzati ad assumere simvastatina 40 mg/die o placebo, e seguiti per un periodo medio di 5,5 anni. Nel gruppo trattato con farmaco attivo si è assistito ad una riduzione significativa della mortalità coronarica, della mortalità totale, di eventi ischemici cerebrali e della necessità di interventi di rivascolarizzazione coronarica e non coronarica, indipendentemente dai valori di colesterolemia totale e di colesterolo LDL al momento dell arruolamento nello studio. 15 Questi dati supportano l ipotesi multifattoriale, ormai comunemente accettata, della malattia aterosclerotica; i valori di colesterolemia totale ed LDL sono uno dei fattori di rischio, ma tutti i pazienti ad elevato rischio cardiovascolare si gioverebbero della terapia con statine, indipendentemente dai valori di lipidi plasmatici. Bisogna ricordare inoltre che lo studio HPS ha fornito dati estremamente utili sull efficacia della terapia ipocolesterolemizzante in particolari sottogruppi di pazienti (diabetici ed anziani), nei quali si sono osservati i medesimi benefici riscontrati negli altri soggetti arruolati 16 (Figg. 9, 10). Dati interessanti sull analisi di sottogruppi di pazienti diabetici sono estrapolabili, oltre che dallo studio HPS, anche dagli studi precedentemente citati. Da tali osservazioni è comprensibile che la riduzione di un fattore di rischio, quale la colesterolemia LDL, conduce a riduzione del rischio cardiovascolare complessivo in misura eguale, se non maggiore, in quei soggetti gravati da altre patologie pro-aterogene concomitanti, quali il diabete mellito (Figg. 11, 12). Un ulteriore importante supporto a queste conclusioni deriva dallo studio CARDS che ha valutato l efficacia di un intervento ipolipemizzante con atorvastatina 40 mg vs placebo in una popolazione di soggetti diabetici. A fronte di una riduzione della colesterolemia LDL di circa 46 mg/dl per 4,5 anni, si osservò una riduzione del primo evento cardiovascolare di circa il 37% (circa 4% di riduzione assoluta (Fig. 13) 29

9 Figura 9. Riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori in relazione ai livelli basali di colesterolo LDL (studio HPS). Figura 12. End-point cardiovascolari in relazione alla presenza o assenza di diabete nello studio 4S. Figura 10. Relazione fra rischio di eventi cardiovascolari e colesterolo LDL; il rischio relativo continua ad abbassarsi anche sotto i 100 mg/dl. Figura 13. End-point cardiovascolari nello studio CARDS. Figura 11. Eventi coronarici maggiori nel sottogruppo di pazienti diabetici dello studio CARE. Nel corso degli anni sono state proposte ed adottate un gran numero di strategie atte a modificare l evoluzione della malattia aterosclerotica, e la stesura delle cosiddette linee guida cardiovascolari è derivata dalla necessità di unificare e validare azioni di tipo preventivo e terapeutico derivanti da un gran numero di trial clinici. D altra parte anche le linee guida riflettono la cultura e le condizioni clinico-socio-economiche del Paese in cui vengono concepite, e si diversificano fra loro per i valori dei fattori di rischio a livello dei quali intraprendere iniziative terapeutiche. In particolare un tema di grande attualità, considerata la scarsità delle risorse economiche allocate nel- 30

10 l ambito delle campagne di prevenzione, è se il controllo dei fattori di rischio debba essere rivolto all intera popolazione o esclusivamente a quei soggetti gravati da un elevato rischio cardiovascolare. Oggi lo stato dell arte nell ambito del trattamento delle dislipidemie e del rischio cardiovascolare è rappresentato dagli ultimi documenti rilasciati dall Adult Treatment Panel del National Cholesterol Education Program americano (NCEP ATP III) e dalla Joint Task Force Europea. L ATP III è prevalentemente rivolto al paziente dislipidemico, e le indicazioni fornite, riportate di seguito, sono particolarmente approfondite: I livelli di colesterolo LDL vengono considerati come il principale target della terapia. I valori dei lipidi plasmatici sono suddivisi in varie classi (per la colesterolemia totale valori ottimali <200 mg/dl, border-line tra 200 e 239 mg/dl, elevati se >240 mg/dl; per la colesterolemia LDL valori ottimali <100 mg/dl, quasi ottimali tra 100 e 129 mg/dl, border-line tra 130 e 159 mg/dl, elevati tra 160 e 189 mg/dl, molto elevati se >190 mg/dl; per la colesterolemia HDL viene posto un valore di cut-off a 40 mg/dl tra valori ridotti e valori elevati; per la trigliceridemia valori normali <150 mg/dl, borderline tra 150 e 199 mg/dl, elevati tra 200 e 499 mg/dl, molto elevati se >500 mg/dl). Viene posta indicazione alla terapia farmacologica ipocolesterolemizzante in caso di colesterolo LDL >160 mg/dl dopo periodo di terapia dietetica e se in associazione a due o più fattori di rischio associati, con obiettivo terapeutico di colesterolo LDL <130 mg/dl; in caso di presenza di 0-1 fattori di rischio aggiuntivi il trattamento farmacologico viene considerato come opzionale per valori di colesterolo LDL tra 160 e 189 mg/dl, viene invece consigliato per valori di LDL >190 mg/dl. Viene posta enfasi al trattamento farmacologico ipolipemizzante in soggetti con fattori di rischio multipli e rischio a 10 anni >20%, quando i valori di LDL >130 mg/dl, con obiettivo terapeutico di LDL <100 mg/dl. Viene posta enfasi al trattamento ipolipemizzante farmacologico nei soggetti con malattia coronarica già nota, aterosclerosi periferica degli arti inferiori e dei vasi sovra-aortici, aneurisma aortico o diabete mellito (equiparato come rischio, quindi, alla malattia coronarica), con obiettivo terapeutico LDL <100 mg/dl. Enfasi mirata nei confronti dell importanza della modificazione dello stile di vita (calo ponderale ed attività fisica) in persone con LDL elevato, ed in particolare in soggetti con sindrome metabolica (ipertensione arteriosa, obesità, diabete mellito/ridotta tolleranza glucidica, dislipidemia) Il goal terapeutico nei soggetti con malattia cardiovascolare nota e nei pazienti diabetici è stato fissato a valori di colesterolemia totale <175 mg/dl e colesterolemia LDL <100 mg/dl. 17,18 La Joint Task Force Europea propone, invece, una carta del rischio cardiovascolare presentata sotto forma di mappa codificata con differenti colori per valori di rischio crescenti, che permette di stimare il rischio del soggetto considerato entro i successivi 10 anni. Il rischio stesso appare determinato da alcuni fattori principali (sesso, età, fumo, colesterolemia, valori di pressione arteriosa) e modificato da altri (familiarità, sovrappeso/obesità, colesterolo HDL, trigliceridi). L attenzione viene principalmente rivolta a quei soggetti considerati a maggior rischio cardio-vascolare (rischio a 10 anni di un evento cardiovascolare fatale >5% o >5% quando proiettato all età di 60 anni). Nell ambito della prevenzione della cardiopatia ischemica vengono, quindi, proposti i seguenti accorgimenti secondo priorità: Soggetti con coronaropatia definita o altra manifestazione di aterosclerosi. Individui sani ad elevato rischio di sviluppare aterosclerosi perché presentano coesistenza di più fattori di rischio ed un elevato rischio di mortalità cardiovascolare, presentano un aumento importante di un singolo fattore di rischio (ad es. colesterolo LDL >240 mg/dl; pressione arteriosa >180/100 mmhg), affetti da diabete mellito tipi 1 o 2, parenti stretti di 31

11 pazienti con evidenza di cardiopatia ischemica precoce e di individui asintomatici ad elevato rischio. 19,20 In conclusione, si può sottolineare che i dati attualmente in nostro possesso indicano che valori elevati di colesterolemia si associano ad un aumento del rischio coronarico. Una situazione che peggiora ulteriormente qualora l ipercolesterolemia coesista con altri fattori di rischio, quali l ipertensione, il fumo di sigaretta, la malattia diabetica. L analisi dei dati riportati indica che il concetto di profilo lipidico normale dovrebbe perdere l enfasi assunta nel corso delle ultime decadi, ed il paziente dovrebbe essere valutato come soggetto gravato da una serie di fattori di rischio predisponenti allo sviluppo di aterosclerosi (bisognerebbe, quindi, valutare il rischio cardiovascolare globale di ogni soggetto). Sulla base di queste osservazioni più alto è il rischio globale, più vantaggi si possono ottenere con l intervento farmacologico, indipendentemente dal meccanismo di azione dei farmaci utilizzati (riduzione dei lipidi plasmatici, meccanismi antiossidanti o stabilizzazione della placca aterosclerotica). Bibliografia 1. Dawber TR. The Framingham Study; the epidemiology of atherosclerotic disease. Cambridge, Harvard University Press, Aronow WS, Ahn C. Correlation of serum lipids with the presence or absence of coronary artery disease in 1739 men and women aged >62 years. Am J Cardiol 1994;73: Brown G, Albers JJ, Fisher LD, et al. Regression of coronary artery disease as a result of intensive lipid-lowering therapy in men with high levels of apolipoprotein B. N Engl J Med 1990;323: Waters D, Higginson L, Gladstone P, et al. Effects of monotherapy with an HMG-CoA reductase inhibitor on the progression of coronary atherosclerosis as assessed by serial quantitative arteriography:the Canadian Coronary Atherosclerosis Intervention Trial. Circulation 1994;89:959:68 5. Castelli WP, et al., Incidence of coronary heart disease and lipoprotein cholesterol levels: the Framingham Study. JAMA 256; , Keys A, et al. The diet and 15-year death rate in the seven countries study. AM J Epidemiol 1986;124; Keys A, et al. Comparison of multivariate predictive power of major risk factors for coronary heart diseases in different countries: results from eight nations of the seven countries study, 25-year follow-up. J Cardiov Risk 1996;3: Russel RP, Lewis C. Results of the Multiple Risk Factor Intervention Trial. Am Heart J 1984;33(1); Scandinavian Simvastatin Survival Study Group. Randomised trial of cholesterol lowering in 4444 patients with coronary heart disease: the Scandinavian Simvastatin Survival Study (4S). 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