Ndà a scuà l mar. Ndà a sircàla.

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1 Ndà a scuà l mar. Scopare il mare è atto immensamente inutile e occorre una bella fantasia per immaginarlo. Ma i bergamaschi sono così: sembrano terra terra ed hanno fantasia da vendere. Si manda a scopare il mare chi fa polemiche inutili, chi dimostra con le parole e le azioni di essere persona insulsa e fastidiosa, chi farebbe bene a togliersi dai piedi perché non è gradito. Dire a una persona: Và a scuà l mar! sarebbe insomma come dirle di andare a quel paese. Come non ricorrere a questa locuzione imperativa quando si viene assaliti dal rock, che sarebbe sciaguratamente diventato sinonimo di musica? Mattina e sera, giorno e notte è tutto uno schiamazzo di suoni metallici e di urli pazzeschi amplificati selvaggiamente e sostenuti dai rumori ritmati di percussioni ossessive: tutto un tum tum tum tum demenziale che non permette di pensare, di conversare, di considerare le cose per quel che effettivamente sono. È uno stordimento collettivo imposto da chi ci vuole rubare la ragione e la coscienza. Che sollievo, nel silenzio dello studio, trovare una volta il tempo di ascoltare le pagine violinistiche di Beethoven e di Mozart interpretate da Fritz Kreisler o il Don Pasquale di Donizetti nella registrazione storica del 1932 con il tenore Tito Schipa! Ndà a sircàla. C è gente che va a cacciarsi in situazioni insostenibili e che poi si lamenta delle tristi condizioni nelle quali si trova. Se ci s intestardisce a combinare un affare sballato anche quando si è stati avvertiti del rischio cui si va incontro, non vale poi lamentarsi dello stato in cui si versa. A l se l è sircada, commenta in questo caso il prossimo. In italiano diremmo: se l è voluta. Ma il bergamasco è più efficace perché un conto è volere e un conto cercare. Andare a cercarsela rappresenta proprio il colmo della dabbenaggine per non dire della minchioneria. Del resto, si sa bene che mal che s völ a l gh à mia de döl, il male che ci procuriamo noi stessi non deve dolere. Illuminante a questo proposito risulta una storiella narrata dal favolista Fedro, che metteva in guardia gli uomini dall abilità con la quale certe donne li sanno spogliare di ogni sostanza. Raccontò infatti Fedro che un uomo sulla quarantina si era lasciato abbindolare da una sessantenne assai navigata, che lo teneva avvinto a sé con ogni sorta di vezzi, di moine e di lusinghe. Nello stesso tempo quest uomo di mezza età si era invaghito anche di un astuta giovane sulla ventina, che aveva finito per accondiscendere alle profferte dell uomo. Naturalmente l una non sapeva dell altra. Ma sia la tardona sia la giovincella non volevano che la gente notasse quale differenza di età le separava dal loro uomo; così ciascuna incominciò a strappare i capelli all amante: la vecchia gli strappava quelli neri perché apparisse canuto come lei e la giovane per converso gli strappava i capelli

2 bianchi. Infine, ostinandosi a frequentare sia la sessantenne sia la ventenne, l uomo si ritrovò completamente calvo. Non è che una favola ma l insegnamento morale è chiaro. Altrettanto chiaro è il proverbio, che insegna a praticare la virtù della prudenza: meglio avere cautela e considerare le cose con lucidità piuttosto che commettere atti o assumere posizioni che domani ci potrebbero costare care. Una volta, quando un figlio, qualche tempo dopo essersi sposato, andava a lamentarsi dai genitori dicendo che non andava d accordo con la moglie, la madre gli diceva: Mal che s völ a l gh à mia de döl. E il padre, più esplicito, soggiungeva: Te sé ndàcc a sircàla té. Te l é ülìda? Adèss tègnela. Il figlio capiva l antifona, ritornava a casa e prima di pensare alla separazione cercava di dialogare con la moglie. Sano senso della realtà che induce a ragionare, a fare buon uso del ben dell intelletto. Ndà a spane. Letteralmente: Andare a spanne. Ossia: Prendere le misure con approssimazione. Vi sono persone che hanno mani più grandi o più piccole di quelle di altre persone: come si fa a misurare con le spanne e pretendere che la misurazione sia accettata per buona? Quindi, chi va a spanne si deve accontentare di una indicazione vaga, che non si discosterà molto dalla realtà ma che è lontana dalla precisione. Se per ottenere un calcolo grossolano a s và a spane, di un lavoro eseguito in fretta e furia, senz alcuna cura dei dettagli, si dirà che l è fàcc a la carluna. Ndà a stà n Sità coi gòb. Una signora di Bergamo Bassa mi disse un giorno che, avendo disobbedito alla nonna, si sentì da questa apostrofare in tono di rimprovero: Ma và a stà n Sità coi gòb!. Perché? Incominciamo col dire che Sità, come si diceva una volta, sta per Città Alta mentre ancora nella prima metà del Novecento Città Bassa veniva denominata semplicemente Bórgh. Non si è mai detto da noi Bèrghem de sura e Bèrghem de sóta; lo dice soltanto chi non sa niente di Bergamo, della sua gente e della sua storia e farebbe bene a stare zitto. Ma perché i cittadini di Bergamo Bassa mandavano idealmente le persone importune e sgradite a tenere compagnia ai gobbi in Bergamo Alta? Occorre rifarsi a tempi ormai lontani, quando in diversi luoghi di Città Alta si trovavano casupole umide e malsane abitate da gente misera, presso la quale le malformazioni, connesse con la scarsa alimentazione e la cattiva igiene, erano purtroppo diffuse. Non lontano dai palazzi dei patrizi, sorgevano sui pendii a bacìo, addossati l uno all altro, i tuguri dei poveri, i quali vivevano in

3 condizioni che definire disagiate è eufemistico. Fra le seconda metà dell Ottocento e la prima metà del Novecento nel corso di alcuni risanamenti tutte quelle abitazioni infelici furono demolite. Tanta gente passeggia oggi per la Corsarola, la via principale di Bergamo Alta, senz avere alcuna contezza del volto antico della città e della storia della gente che nei secoli passati l ha popolata. Ndà a stradèle. Era una locuzione assai diffusa un tempo, quando i giovani innamorati amavano percorrere solitarie viuzze periferiche per scambiarsi qualche tenerezza lontani da sguardi indiscreti e senza temere di essere rimbrottati dai genitori, che non mancavano di essere vigili e severi. Ndà a viöle. Nella prima primavera spuntano le violette e in tempi lontani qualche innamorato poteva attardarsi a coglierle. Sarà per questo che la locuzione sta a indicare l atto di distrarsi e di perdersi in fanfaluche. Di un conferenziere che non si attenga al tema da trattare e che divaghi perdendosi lungamente in argomenti non attinenti si può dire che l è ndàcc a viöle. Ndà come ü tréno. Per indicare che una persona va di fretta si dice che la và come ü tréno. Dipende però da che treno. Si ha da sapere che il tempo di percorrenza della linea ferroviaria Bergamo-Brescia non si è ridotto rispetto all Ottocento, quando la linea stessa fu istituita. Ciò è significativo della trascuratezza che gli organi centrali hanno sempre manifestato nei confronti delle strade ferrate bergamasche. Appare illuminante il testo di una conferenza tenuta il 25 ottobre 1952 all Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Bergamo da Giacinto Gambirasio, il quale narrò la genesi di un altra linea ferroviaria, la Milano-Venezia, realizzata fra il 1854 e il Le legittime aspettative della Bergamasca non furono mai tenute in considerazione dal governo di Vienna, che si degnò di accogliere petizioni, proposte e suppliche ma che non mosse un dito perché fosse modificato il progetto che prevedeva il passaggio della strada ferrata per Chiari e Treviglio, congiungendo Brescia a Milano con l esclusione di Bergamo e di Monza, città condannate di conseguenza all isolamento e gravemente danneggiate nei loro interessi economici e sociali. Sulla scorta di una documentazione ineccepibile Gambirasio descrisse punto per punto tutta la lunga e intricata

4 vicenda dell impari lotta ingaggiata dai rappresentanti bergamaschi contro l ottuso centralismo della burocrazia viennese, che frappose mille ostacoli pur di impedire a Bergamo di trovarsi sul tracciato della linea Milano-Venezia e che giunse a sabotare anche il progetto di realizzazione di una linea Bergamo-Monza-Milano. Alla fine si ottenne solo che una linea collegasse Bergamo a Treviglio. Il conte Pietro Moroni, recatosi a Vienna nella sua veste di podestà allo scopo di perorare la causa della sua città, trovò gli ambienti viennesi sordi, indifferenti e perfino scortesi. Non si è mai saputo per quale ragione la burocrazia viennese si fosse tanto ostinata nel danneggiare la città di Bergamo, nella quale invece in quel tempo si pensava al Tonale, allo Spluga, allo Stelvio, a collegamenti di vasto respiro. Anche Giacinto Gambirasio, che fu presidente della Camera di Commercio di Bergamo negli anni Cinquanta del Novecento, era lungimirante, progettò importanti linee di comunicazione e si batté più volte con fervore per tutelare gl interessi ed affermare le aspettative della comunità bergamasca. Ma le autorità centrali hanno sempre tentato di giustificare la loro latitanza dicendo che i bergamaschi sanno fare da soli. Con questa farisaica scusa a Bergamo il trasporto su rotaia è sempre stato da terzo mondo e la città non ha mai ottenuto la dovuta considerazione. Ndà de anda. Significa: Andare di buona lena. Oppure: Andare di gran carriera. O ancora: Andare a spron battuto. Ndà decórde. La perfetta corrispondenza formale della locuzione italiana Andare d accordo con l omologa bergamasca Ndà decórde indurrebbe a credere in una altrettanto perfetta coincidenza di significato. Ma chi sa parlare in bergamasco, chi conosce l anima bergamasca, chi partecipa per consuetudine a un sentire ampiamente diffuso, conosce le varie intonazioni che può assumere la voce e riconosce le sottili sfumature e gli adattamenti delle accezioni. Risulta davvero difficile evocare la locuzione bergamasca Ndà decórde senza riudirla nell esortazione pronunziata in qualche lontana circostanza da un genitore o da un educatore. Quando da ragazzi si questionava per un nonnulla un adulto interveniva per rappacificare gli animi dicendo: Sirchì de ndà decórde, s-cècc! L esortazione possedeva l autorevolezza di una sentenza. Si legge nel De bello Iugurtino di Sallustio: Concordia parvæ res crescunt, discordia maximæ dilabuntur. Si era educati

5 fin da ragazzi a capire che la concordia accresce le piccole fortune mentre la discordia distrugge anche le più grandi. Le singole individualità erano educate ad accordarsi in una consonanza di intenti che rispondeva ad un etos condiviso: l identità del singolo si riconosceva in una identità comune, corale e complessa, maturata nell esperienza delle generazioni, che anteponeva agl interessi individuali alcuni irrinunziabili valori assoluti. Se così non fosse, Sordello da Goito, altero e disdegnoso, non sorgerebbe d impeto ad abbracciare Virgilio che gli si è dichiarato suo conterraneo e Dante, edificato da quel gesto, non scioglierebbe la dolente e potente invettiva della serva Italia dilacerata dalla viltà degli egoismi e straziata dalla ferocia delle fazioni. Ma come andare d accordo nella piccola comunità locale e nella grande comunità nazionale se si smarrisce perfino la memoria della voce degli avi, se gl insegnamenti dei grandi maestri del pensiero non sono avvertiti come patrimonio comune della nostra civiltà? Si legge nel Vangelo di San Marco (3, 25) che una casa non può stare in piedi se è divisa in se stessa. Egual cosa si deve dire della comunità, che non può progredire se mancano l identità e lo spirito della concordia. Ndà dét a ìda. Letteralmente: Entrare a vite. Si usa per dire che ci si trova coinvolti irrimediabilmente in una situazione come se ci si fosse avvitati. Così se sentite dire di uno che l è dét a ìda state certi che si trova in un frangente dal quale gli risulta pressoché impossibile uscire. Lessi tanto tempo fa di una Consulta dello Spettacolo costituita da giornalisti e da critici che ritenevano inammissibile l assuefazione del pubblico agli spettacoli mediocri e diseducativi inflitti alla gente dalle televisioni pubbliche e private. Della Consulta non ho più sentito parlare. Ma vedo che proseguono imperterriti gli spettacoli di pessima qualità, offensivi dell intelletto e dell arte, concepiti apposta per soffocare ogni anelito alla crescita interiore, per cancellare ogni interesse culturale, per intorpidire le coscienze e ridurre le persone ad automi. È evidentissima l intenzione di usare gli strumenti della comunicazione di massa per rendere impraticabile quel poco che rimane della cultura e per privare il cittadino di ogni residua libertà. Non rimane che dire: A m sè dét a ìda. Ndà dét a sèra-öcc. Quando uno sa bene ciò che fa ed è assai sicuro del fatto suo può anche affrontare un impresa o un rischio ad occhi chiusi.

6 Ndà dét in del balù. Letteralmente: Entrare nel pallone. In senso figurato: Affrontare un impresa troppo rischiosa con forze del tutto inadeguate, Trovarsi in una situazione insostenibile. Si può immaginare quale stupore e quale apprensione suscitassero i primi palloni aerostatici. Il primo esperimento bergamasco risale alla seconda metà del Settecento, quando un aerostato si levò dal parco dalla villa della contessa Paolina Secco Suardo a Redona e volò fino a Trescore, dove si afflosciò atterrando presso la villa del Canton: avvistato durante il volo sopra le campagne di Gorle, di Scanzo e di Cenate, suscitò sgomento e terrore nei contadini. Ndà fò del bósch a fà la lègna. È locuzione intensamente eufemistica, evocante l uso dei capifamiglia di approvvigionarsi a turno di legna nel bosco comune, operazione che si compiva nel tardo autunno e nel primo inverno, quando gli alberi avevano perduto le foglie e potevano essere agevolmente sfrondati. Il proprietario di un fondo rustico poteva disporre di un bosco ceduo tutto suo, privato e quindi bandito a chiunque altro, che in longobardo era detto gahagi (donde i toponimi Gaggio, Gazzo, Gazzenda, Gazzoldo, Gazzaniga, ecc.). Il fare legna era una necessità e pertanto si attingeva al bosco che apparteneva alla comunità: ogni capofamiglia, controllato da un guardiano, vi otteneva il quantitativo prescritto potando gli alberi e diradando i rami senza danneggiare il patrimonio comune (il verbo scalvà è rimasto ad indicare appunto l atto di recidere i rami). Chi voleva procurarsi un quantitativo di legna superiore a quello spettante non poteva che recarsi in un altro bosco alle prime luci dell alba o al crepuscolo sperando di farla franca. La locuzione è fortemente allusiva all infedeltà coniugale. Certi uomini sono tratti all infedeltà dall intrinseca assenza di norme morali. Altri vi sono indotti perché delusi dal matrimonio; sovviene quanto Creonte dice al figlio nell Antigone di Sofocle: Pensa ben quanto con donna iniqua / sia duro il dimorar la notte e l giorno (vv della traduzione compiuta dall umanista fiorentino Luigi Alamanni). Comunque sia, il contravvenire ad una norma morale sulla quale si fonda la convivenza civile è sempre fonte di preoccupazione per le conseguenze che ne derivano. Il consiglio che veniva dato all infedele de ndà fò del bósch a fa la lègna, ossia di andare lontano dalla sua comunità per amoreggiare con un altra donna, piuttosto che dall ipocrisia era dettato dalla necessità di non farsi scoprire per evitare contrasti e contraccolpi. Nisi caste saltem caute, sostenevano gli antichi. Non siamo tutti stinchi di santo e non abbiamo il diritto di ergerci a giudici delle debolezze altrui; ma almeno, dice in sostanza il vecchio detto, che si eviti di far sapere a tutti quali sono le nostre

7 mancanze e i nostri vizi, soprattutto se comportano delle conseguenze che ricadono sulla famiglia. Contrariamente a quanto avviene al giorno d oggi, quando l istituzione matrimoniale è aggredita e screditata da un relativismo egoistico e distruttivo, i nostri vecchi si preoccupavano di salvaguardare il vincolo dell unità famigliare, raccomandavano discrezione, usavano compatimento e comprensione, stendevano un velo pietoso sui difetti umani e consigliavano all infedele di troncare al più presto la relazione adulterina perché i laùr lóngh i deènta serpèncc e non si deve mai andare in cerca di guai. Ndà inàcc. Per un bergamasco ndà inàcc è una necessità, una condizione irrinunziabile. Come àla?, vi domandano. E voi senza esitazione rispondete: Pòta, m và inàcc. Andiamo avanti, ossia procediamo nel nostro cammino, continuiamo nel nostro impegno. La strada della vita postula dei punti fermi, richiede fiducia in se stessi e in alcuni princìpi fondamentali. Altrimenti come si potrebbe andare avanti con la necessaria forza d animo ed essere certi della direzione da seguire? Ndà inàcc o Ndà inante, che è la stessa cosa, oppure anche Tirà inàcc, che sottintende la capacità di superare difficoltà e traversie, tenacia nei propositi e nelle azioni, fede nelle proprie idee, lucidità nelle scelte. Un tappezziere milanese di Porta Tosa, Amatore Scesa, fu arrestato dalla polizia austriaca la notte del 30 luglio 1851 per essere stato còlto mentre affiggeva sui muri del corso di Porta Ticinese manifesti contrari alla dominazione asburgica. Condotto al patibolo, fu avvicinato dal delegato di polizia, il quale gli promise salva la vita se avesse confessato i nomi dei complici. Lo Scesa non degnò di uno sguardo il funzionario e rispose laconicamente: Tiremm innanz!. Meglio la morte per la patria che il tradimento dei compagni di fede e il ripudio delle proprie idealità. L eroica fierezza dell animo del patriota lombardo fu espressa dalla lapidaria stringatezza del motto: avanti fino all estremo sacrificio purché la buona causa trionfi. L anima lombarda, quella che per secoli tenne testa agli stranieri di tutte le razze e di tutte le lingue calati dalle mal vietate Alpi per invadere armi e sostanze ed are e patria si manifesta anche così, con poche parole che scandiscono un gesto sublime e che suonano come un inno d amore per la terra degli avi. Ndà inàcc significa sapere da dove si viene e sapere quale strada si deve seguire, costi quel che deve costare. Ndà inàcc compàgn di gàmber.

8 Non è certo un bel modo di procedere quello dei gamberi: du pass inàcc e quàter indré, due passi avanti e quattro indietro. Nella vita può accadere che si tenti di perseguire uno scopo o di raggiungere un traguardo ma che s incontrino ostacoli tali da indurre alla rinunzia della meta agognata. Tuttavia c è anche l ignavo che non tenta nemmeno di procedere e che preferisce star fermo. Non progredi est regredi, dice una illuminante sentenza latina. Peggio ancora se si sceglie di regredire per viltà o per grettezza d animo. L essere umano non è stato creato per comportarsi come il gambero. A giudicare tuttavia dal forte regresso del senso civico c è da pensare che certa gente sia felice di vivere in una condizione animalesca. Basta camminare per qualche strada di città e ci si rende conto subito del degrado nel quale pochi imbecilli costringono gli altri a vivere: cartacce e rifiuti dappertutto, bottiglie e lattine abbandonate ovunque quando non infrante sull asfalto, disegni insulsi e messaggi politici deliranti tracciati con le bombolette-spray sui muri e sulle facciate a documentare l elevato grado di cretinismo dei loro autori, le persone che non sanno tenere la propria destra e i giovani che non sanno più cedere il passo alle signore. Non parliamo di certi ciclisti tanto disinvolti (o prepotenti) che sui marciapiedi mettono a repentaglio la sicurezza dei pedoni. Forse ormai è pretendere troppo se in treno c è chi crede di poter appoggiare i piedi sul sedile che ha di fronte o se in ogni luogo pubblico c è chi parla animatamente al cellulare infastidendo gli altri con le faccendacce sue. Non parliamo del modo in cui si sta al ristorante, dove tutti si sentono in diritto di conversare sbraitando. C è anche chi si dà la voce dalle finestre, chi schiamazza ad ogni ora del giorno e della notte, chi in automobile con i finestrini abbassati ascolta musicaccia rozza e burina a pieno volume per infliggerne il selvaggio frastuono anche agli altri, come se tutto il mondo fosse una balera di quart ordine. Aggiungiamo la maleducazione e l inciviltà di chi non rispetta la precedenza e con l automobile ti taglia la strada obbligandoti a frenare oppure chi parla al cellulare mentre guida da ebete e il quadro che ne otteniamo è desolante. Se volete potete aggiungere quelli che fumano pur sapendo che danneggiano se stessi e le persone che sono a loro vicine, quelli che biascicano rumorosamente tenendo in bocca la gomma da masticare, gomma che poi sputano tranquillamente per terra, quelli che parlando con voi non si tolgono gli occhiali da sole, quelli che vi salutano inespressivamente dicendo: Salve, quelli (i più villani di tutti) che se ne infischiano del prossimo perché, avendo il cane, non si preoccupano di raccoglierne le deiezioni, quelli che stravedono per il loro cane tanto da lasciarlo libero anche quando ringhia minacciosamente e che credono di rassicurarti con una pazzesca faccia da schiaffi dicendo: Guardi che finora non ha mai morsicato nessuno. Ecco che cosa vuol dire procedere come i gamberi.

9 Ndà in brögna. Vuol dire essere trasportato nella camera ardente e quindi morire. Si tratta di espressione eufemistica che gli infermieri bergamaschi conoscono bene: negli ospedali, nelle cliniche e nelle case di ricovero esiste un luogo detto bergamascamente brögna nel quale sono esposti i cadaveri delle persone defunte perché siano visitati dai parenti e dagli amici prima della celebrazione dell ufficio funebre. La voce brögna, ritenuta di orgine germanica, dovette diffondersi nel senso di camera ardente nei secoli delle invasioni barbariche. Ndà in malura. Andare alla malora : può essere il guastarsi dei cibi o di altri prodotti deperibili come può essere la rovina di una impresa o di un patrimonio. Ndà in malura i caalér. Per significare che un affare è andato a monte e che si è concluso in perdita si può dire: I è ndàcc in malura i caalér. Quando le nostre famiglie contadine si davano alla coltura del baco da seta, poteva accadere che le galète si trasformassero in falòpe, ossia che i bozzoli dei filugelli ammalati non giungessero a maturazione. La bachicoltura aveva dato origine ad un piccolo lessico settoriale. Derivata dal veneto cavaliér, la parola bergamasca caalér (nel Settecento suonava cavalér perché non si era ancora verificato il dileguo della v intervocalica) designava il baco da seta, che dopo aver mangiato e dormito, risaliva un ramicello per chiudersi nel bozzolo e vi si appostava in guisa di un uomo a cavallo. La vendita dei bozzoli costituiva un sicuro guadagno per il contadino ma se i bozzoli non giungevano a compimento era una disdetta. Era color dell oro la seta dei bozzoli e lo ricorda Corrado Govoni in una sua poesia: Gran mangiar, gran dormire! I filugelli / s imboscarono alfine tra i fastelli. / Ghiande d oro divennero filando. / Le fanciulle or li colgono cantando Ndà in tate medesine. A differenza di altre genti d Italia, le quali nei momenti d ira si profondono in orribili maledizioni che coinvolgono anche le anime degli antenati, ben difficilmente il bergamasco augura malanni e disgrazie al suo prossimo. Ma se si sente defraudato di quanto gli è dovuto, può essere che in un

10 impeto di risentimento esclami: Che i ghe àghe in tate medesine!, Che gli vadano in tante medicine!. Egli augura cioè a chi lo ha imbrogliato sottraendogli il dovuto, che i denari carpiti o non corrisposti siano impiegati in cure per una lunga malattia. Talora si può anche udire: Che i ghe àghe in tata panada fata!, Che gli vadano in tanto pancotto insipido!. Ndà là a quach manére. Significa procedere confusamente. La traduzione letterale non ha senso perché in italiano non si può dire andare là a qualche maniera : è la diversa natura dei due registri linguistici, quello dotto e quello popolare. Dopo tanta persecuzione delle parlate locali si è giunti al punto che la lingua nazionale non ha più il suo retroterra, ha perduto la sua vitalità e patisce una condizione d inferiorità innanzi all invadenza degli anglismi commerciali, mediatici, tecnologici e informatici. Si è perduto il piacere del bello scrivere, del buon comporre come si è perduta l arte del ben parlare. Direi in bergamasco che s và là a quach manére, appunto. Ma la trascuratezza, il pressapochismo, la sciatteria non sono norme di vita raccomandabili. Trascrivo da un romanzo di Goethe questo passo illuminante: Un uomo non deve assomigliare a un fungo, che, dopo essere sorto dalla terra, marcisce nel luogo in cui è nato e non lascia traccia alcuna di sé. Osservando di primo acchito una casa, si conosce il talento del suo costruttore, come entrando in una città ci si può fare un idea dei suoi reggitori. Se le torri e le mura cadono in rovina, se le strade sono sporche e i fossati fangosi, se le pietre si staccano senza essere sostituite, se le travi sono tarlate e le case pericolanti attendono invano di essere puntellate, quella città è mal governata. Quando le superiori autorità non vegliano dai loro scanni sull ordine e sulla nettezza, i cittadini si avvezzano alla più sordida negligenza, come il mendicante si avvezza ai suoi cenci. Ecco dunque esemplato il vivacchiare nella negligenza e nella confusione, che corrisponde proprio alla nostra locuzione. Ndà n giro coi bórde. Questa locuzione si udiva ancora tempo fa, quando le madri rimproveravano i figli scavezzacolli dicendo loro: Fàm mia ndà n giro coi bórde, Non costringermi a mascherarmi quando esco di casa. Era sottinteso che il ricorso alla maschera implicava il desiderio di non voler essere riconosciuta come madre di un discolo e di evitare così di doversi pubblicamente vergognare. L antica voce bórda significa nebbia ma anche maschera, perché le popolazioni primitive deificarono la nebbia rappresentandola con raffigurazioni teriomorfe. Nei lessici dei dialetti

11 romagnoli ed emiliani la voce borda è associata ai fantocci, ai pupazzi, agli orchi e alle streghe, ad esseri demoniaci. Da masca, strega, a maschera il passo è breve. In fondo la nebbia è come una maschera, perché essa ci sottrae alla vista altrui, ci rende estranei e irriconoscibili. Ma la nebbia è fenomeno contingente e d altro canto durante il Carnevale si può indossare una maschera ad un ballo e niente più. Per tutto il resto dell anno dobbiamo mostrare apertamente il nostro volto, com è giusto che sia. È ben vero che stando alle cronache certa gente farebbe bene ad andare in giro mascherata per non farsi riconoscere. Ma il senso del pudore, della dignità e dell onestà è talmente decaduto che le facce di bronzo sono ormai esimite dal mettersi la maschera. Ndà n giro col có in ària. Se si guarda in aria non si vede dove vanno a parare i piedi. Ecco perché se si cammina non ci si può distrarre. Peraltro, l osservazione del cielo eleva lo spirito umano e infonde un desiderio d infinito nell animo. Il tenente pilota Natale Palli, che nell agosto del 1918 comandò il volo su Vienna della squadriglia Serenissima, della quale facevano parte Gabriele D Annunzio e l asso bergamasco Antonio Locatelli, in una lettera inviata al padre durante la guerra scrisse: Quando salgo a duemila metri mi sento felice. Il mondo è tutto sotto di me, le sue miserie non mi toccano, sono libero nel vero senso perché nessuno può raggiungermi lassù. E in un altra lettera, dopo un volo sulle Alpi Piemontesi: Volare è una gioia sempre nuova e sempre grande. È uno spettacolo fantastico e di una grandiosità senza pari quello che si gode percorrendo i cieli di queste regioni irte di guglie rocciose e adornate di nevai candidissimi. Ritornando dai suoi voli di ricognizione il tenente Palli sorvolò spesso la Valle Seriana e atterrò sul vecchio campo d aviazione di Ponte San Pietro. Uscito indenne dalla guerra, morì durante un raid aereo che nel 1919 avrebbe dovuto portarlo dall Istria a Parigi: una bufera di neve lo travolse sulla Savoia, fra Aosta e Chambery. Se le vie del cielo sono perigliose, lo sono a maggior ragione quelle della terra. Ndà n giro col có n del sach. Durante una sosta si dava da mangiare al cavallo infilandogli il sacco della biada sul muso. Prima di ripartire il sacco veniva tolto così da consentire al cavallo di vedere bene davanti a sé. Oggi c è gente che non merita la patente di guida, rilasciata con troppa facilità soprattutto in certi Stati extracomunitari. Càpita che un automobilista, dopo aver investito un pedone, creda di giustificarsi

12 nel modo più stupido dicendo: Non l ho visto. Non dovrebbe essere permesso di guidare a chi si aggira con la testa nel sacco. Ndà vià co la cua inguàla ai ale. Pareggiare l entrata con l uscita. Si dice quando, per essere intervenuti in tempo su di un affare che non stava dando i frutti sperati, si riesce ad evitare una perdita ma non si è realizzato alcun guadagno. Nel sonetto Sira al ròcol (1937) Giuseppe Bonandrini, medico e naturalista, erudito dall animo umanistico e profondo conoscitore della montagna bergamasca, considerò quanto aleatoria fosse l uccellagione con il roccolo e scrisse: Sa s ciapa ergót / a s và amò co la cua inguàl a i ale, vale a dire che se si aveva la soddisfazione di catturare qualche uccello si pareggiavano le spese che si dovevano sostenere nell apprestamento dell impianto del roccolo. Ndà zó del lìber. Se di un tale dico che l m è ndàcc zó del lìber intendo significare che non voglio più avere a che fare con lui perché non merita la mia stima e non riscuote più la mia fiducia. Al tempo dei primi opifici i compensi e le provvidenze dipendevano essenzialmente dalle leggi del mercato e il rapporto fra il datore di lavoro e il prestatore d opera, in assenza di una legislazione sociale, era di tipo eminentemente fiduciario. Un contabile teneva il libro delle paghe e se un dipendente, anche per una plausibile ragione, non godeva più della fiducia dell imprenditore, veniva allontanato dall azienda e di conseguenza espunto dal libro delle paghe. Ecco dunque la ragione per la quale a una persona che non ci è più gradita diciamo: Te me sé ndàcc zó del lìber. Per libro (latino liber) s intende un insieme di pagine legate e cartonate. I libri dei conti esistevano molto tempo prima che entrasse in uso il libro stampato. Da qualche tempo sono arrivati gli e-books, i libri ottenuti elettronicamente, chiamati così per la nostra indegna sudditanza linguistica nei confronti dell informatica angloamericana. Usiamo le nuove tecniche per quel che possono servire ma non affatichiamo troppo i nostri occhi sullo schermo luminoso e ricorriamo ancora per le nostre letture al buon vecchio e intramontabile libro in carta stampata, che ci segue dove vogliamo, che si lascia sfogliare, che accoglie in silenzio sottolineature e annotazioni, che custodisce gelosamente fra le sue pagine il segnalibro, fosse anche un fiore appassito. Pazienza se i libri, come diceva Montaigne, non si limitano a tramandare ai posteri le opere dei grandi ingegni ma raccolgono nelle loro pagine anche le idiozie delle menti piccine. Che poi lo smercio dei libri sia scarso non

13 deve stupire. Lo è sempre stato. Un libraio spiegava il fenomeno sostenendo che i libri sono acquistati soltanto dai poveri, i quali li prestano ai ricchi; questi non li restituiscono più e riescono in questo modo a costituire delle grandi biblioteche. Dev esserci del vero in questo assunto perché dei molti libri che nella mia vita ho prestato pochissimi mi sono stati restituiti. Ndà zó di sò. Di uno che l sìes indàcc zó di sò si può dire che sia impazzito perché ha abbandonato il suo usuale contegno scadendo ( ndà zó, scendere ma anche scadere ) nell assurdo e nell irragionevole. Si dice anche che l è ndàcc fò de có, è andato fuori di testa. Il percorso verso la pazzia passa per i verbi sragiunà, non ragionare più, fare discorsi sconclusionati e basgà, oscillare ma anche dir cose senza senso, non connettere più ; poi si va fò de sentimènt, fuor di sentimento perché ol servèl l è ndàcc in aqua. L approdo è costituito dalle locuzioni Ndà zó di sò e Èss fò de có, espressive della situazione tipica di chi ha perduto la facoltà della ragione. Si diventa pericolosi a sé e agli altri quando s dà fò de mat, si dà in escandescenze.. Ndà zó n Bórgh. Oggi in bergamasco si dice Sità Ólta e Sità Bassa per distinguere le due parti della città. Ma un tempo Bergamo Alta era chiamata perentoriamente Sità, la città per antonomasia, mentre Bergamo Bassa doveva accontentarsi di essere chiamata Bórgh. Ancor oggi un buon bergamasco sa bene che cosa intendo se dico Ndó sö n Sità, salgo in Città Alta. Ma questo non lo sento più dire da tempo. Ho però sentito ancora in questi ultimi anni qualche abitante di Bergamo Alta dire, fra il serio e il faceto: Ndó zó n Bórgh, scendo in Città Bassa. Le identità si stemperano e i tratti salienti della nostra cultura si attenuano. Sarebbe tuttavia imperdonabile perdere la memoria e non riconoscere più la fisionomia antica della città nel suo attuale volto urbano. Salendo e discendendo le scalette e le viuzze che collegano la bassa all alta città, l insediamento moderno a quello antico, interroghiamo le pietre, i muretti a secco, gli acciottolati, le facciate delle vecchie case, le lapidi murate, le fonti medievali, le piazzette, le chiese. Quanti altri prima di noi hanno risalito e ridisceso quelle vie! Le prime case della città sorsero lassù, sui colli, dove s insediarono gli antenati a guardia della pianura e delle valli; il borgo ne è rampollato come una mano che protenda le dita verso la pianura, dipanandosi dall acropoli e dividendosi nelle sue storiche contrade. Nelle giornate limpide, quando appare nell estrema pianura la linea degli Appennini e si scorge in

14 lontananza la sagoma imponente del Monte Rosa, dall alto dei colli Bergamo Alta appare racchiusa nella cinta poderosa delle Mura dei veneziani con la propaggine dei borghi che la collegano con Città Bassa: sottile inesprimibile orgoglio di sentirsi bergamaschi. Ndà zó per la mèlga. È locuzione non più usata ma ben attestata nei capitoli bergamaschi dell abate Giuseppe Rota, che visse nel Settecento. Significa andare in rovina, perdersi in uno sterpeto o in una brughiera e quindi, per traslato, confondersi durante un discorso, parlare sconclusionatamente. La mèlga è la saggina, detta anche mèlica in italiano. È usata per fabbricare le scope (tanto che un terreno in cui prolifera la saggina è detto scopeto). In questi tempi in cui si vanno perdendo le parole, occorre precisare che un conto è la mèlga e un conto il melgòt, ossia il mais o granoturno che dir si voglia. In altre parti della Lombardia il mais è chiamato formenton ma noi bergamaschi lo chiamiamo melgòt perché la forma della pianta ricorda quella della saggina, anche se il mais può crescere ben oltre i due metri. A costo de ndà zó per la mèlga, ricordo che un tempo i ragazzi di campagna nel tentativo di imitare gli adulti fumavano di soppiatto i fili della chioma della pannocchia (i fömàa la barba del canù), ricordo che il rösgiù, ossia il torsolo della pannocchia, detto anche tochèl de lègn, era usato come legna da ardere e in modo particolare per abbrustolire le castagne (le caldarroste in bergamasco si chiamano boröle), ricordo ancora la visione georgica delle pannocchie appese sulle lòbie e sui baladùr delle nostre cascine. Negà l Signùr in crus. Negare il Signore in croce. Lo si dice per chi nega spudoratamente l evidenza di un fatto. Nissü laùra per la césa di àe. Che senso ha dire che nessuno lavora per la chiesa delle api? Le api non hanno una chiesa e tanta gente giustamente si chiede perché si dica così. Ma io credo che originariamente il detto suonasse: Nissü laùra per la césa de Àe, ossia: Nessuno lavora per la chiesa di Ave. Nel territorio del comune di Ardesio si trova la frazioncina di Ave, quattro case e una chiesetta, senza beneficio e tanto povera che non c erano quattrini per pagare il campanaro e il sagrestano. Si sa che le parole camminano con le persone e non c è da stupirsi che il toponimo sia stato confuso con il plurale di

15 àa, ape. In Valcamonica ho udito dire: Nissü laùra per la césa de Nàder. Infine, la conclusione è che l orbo per niente non canta. Nsognàs di sò póer mórcc. Di uno che parli a vanvera e che narri fantasticherie o cose non vere diciamo: Chèl lé l s è nsognàt di sò póer mórcc. C è gente che non lascia dormire in pace i poveri morti e che tenta di evocarli, magari soltanto per avere i numeri da giocare al lotto. Ma c è anche chì, volendo comunicare con l aldilà, si abbandona a pratiche spiritiche. In argomento esiste un ampia letteratura pseudoscientifica dalla quale si arguisce soltanto un dato sicuro ossia che tutti i fenomeni di spiritismo sono frutto a volta a volta d inganno, di trucco, d ipnosi, di esaltazione, di allucinazione visionaria, di sdoppiamento della personalità del medium, il quale durante la seduta spiritica entrerebbe in trance, alterando la voce e riferendo il messaggio del defunto che si vorrebbe evocare. Accade che in sogno ci appaia qualche persona morta ma ciò è del tutto indipendente dalla nostra volontà e non ha uno specifico significato, essendo la natura del sogno irrazionale. Per il resto, è bene non evocare gli spiriti dei morti, fossero anche persone a noi molto care, perché non si trae alcuna notizia rassicurante o alcuna consolazione da pratiche che non danno affidamento e che possono pericolosamente alterare l equilibrio psichico delle persone che in esse confidano. I morti sono in pace ed hanno bisogno di essere ricordati con devozione pietosa: il modo migliore per farlo è di invocare per loro la luce perpetua recitando un Requiem. O avanti con l amore L antinomia è giocata ironicamente in questo spiritoso detto popolare, che al primo termine espresso in italiano con tono solenne fa seguire l antitetico e burlesco dialettale: o indré la mé cönécia. Un giovanotto, intrattenendo rapporti amorosi con una ragazza, le ha dato (non si sa bene se in dono o a titolo di prestito) una coniglia gravida. La ragazza però, una volta ottenuta la coniglia, non vuol più sapere di amoreggiare con il giovanotto. Questi allora si presenta a lei ponendola innanzi all aut-aut di continuare con l amore o di restituirgli la coniglia: O avanti con l amore o indré la mé cönécia. Il dialetto è forese (cönécc, coniglio ) perché in città si dice cünì, coniglio, e cünina, coniglia. Sarà per uno stato di triste melanconia che la ragazza non intende più compiacere il giovanotto? Søren Kierkegaard ( ) distingueva fra malinconia egoistica, che soffre dell orrore di unirsi per tutta la vita ad un altro essere, e melanconia

16 simpatetica, che teme di non essere all altezza dell altro, di deluderlo e d ingannarlo. O più semplicemente alla ragazza interessava soltanto di possedere dei coniglietti? Bella questione sarebbe stata per il filosofo danese, che nel suo Enten-Eller (1843) affastellò pagine su pagine intorno al matrimonio ma che non si sposò mai. Avrebbe potuto sospettare un interpretazione ben diversa e cioè che fosse la nubenda a reclamare la restituzione della coniglia avendo constatato una certa freddezza da parte del promesso sposo, diventato improvvisamente titubante? C è chi garantisce che questa sia la versione più accreditata. Tutto è possibile nelle faccende di cuore. Òcio che rìe. Letteralmente: Attenti che arrivo. La forma òcio è un piccolo tributo pagato dai bergamaschi ai veneziani, i quali seppero governare per quasi quattro secoli la terra d Orobia rispettando la parlata e la cultura della nostra gente. Òcio al lüf! Un tempo il silenzio sovrastava gli spazi delle valli e della pianura ed una voce, uno strido, un rintocco, uno schianto potevano essere uditi a grande distanza. I richiami si diffondevano sull onda dell etere da un colle all altro, da un versante all altro. Ai pastori delle nostre montagne, che non avevano altra risorsa che il loro gregge, l attacco di un branco di lupi famelici inferiva danni enormi. All avvistamento di un lupo subito si levava il grido: Òcio al lüf!, Attenzione al lupo!, ed esso era ripetuto da chi lo udiva, cosicché si propagasse in tutte le direzioni e pastori, mandriani, contadini, boscaioli fossero allarmati ovunque. Le cronache dei secoli passati informano sulle stragi di pecore compiute dai lupi, che giungevano spesso ad attaccare e a sbranare anche i viandanti e i lavoratori dei campi. Nel 1629, anno della carestia che preluse alla terribile peste dell anno successivo, un enorme lupo spinto dalla fame entrò in Bergamo e si aggirò per Borgo Palazzo terrorizzando gli abitanti. Come se non fossero bastate le carestie, le pestilenze, gli eserciti stranieri con le loro prepotenze e le loro ribalderie, ci si mettevano anche i lupi e gli orsi, tanto che i nostri comuni di montagna assegnavano dei premi a chi li uccideva. Estinti i lupi, il grido sopravvisse e servì di avvertimento ai contadini di Foresto Sparso e della Val Cavallina all approssimarsi delle guardie di finanza che ostacolavano la produzione clandestina di grappa con un gran dispiegamento di mezzi, del tutto sproporzionato all entità del reato, limitato per lo più alla produzione di pochi litri per uso domestico. Così mentre si colpiva con estrema durezza una

17 frode insignificante (ipocrisia imperdonabile) si faceva finta di non vedere che l economia di intere regioni italiane veniva progressivamente ma inesorabilmente strangolata dall espandersi della criminalità organizzata! Òcio al lüf! fu inoltre il grido che si udiva durante l ultima guerra, quando le colonne nazifasciste risalivano armate di tutto punto le valli per snidare i renitenti alla leva, i giovani delle formazioni partigiane nascosti nelle baite, negli abituri, nelle soffitte dei cascinali onde sfuggire all arruolamento dell esercito di Salò. Quanti erano catturati in quei rastrellamenti venivano passati per le armi e si capisce con quale trepidazione, con quale senso di sgomento il grido di avvertimento era lanciato dal fondo della valle per echeggiare fino ai casolari delle quote alte. Il grido è rimasto nella memoria collettiva a ricordare le ore del pericolo mortale. O dét o fò. C è gente che sta a tentennare sulla soglia e che non si risolve né ad entrare né ad andarsene. Che senso ha affacciarsi ad una porta e starsene allo stipite come un allocco? Così, che senso ha, quando un problema urge, non saper compiere una scelta? Quante volte i nostri vecchi, in tutte le situazioni nelle quali occorreva prendere una decisione, dicevano: O dentro o fuori! Del resto, non pochi centri abitati erano protetti da una cinta muraria, sulla quale si aprivano delle porte vigilate giorno e notte. Mutati i tempi, centri come Bergamo Alta sono stati abbandonati dalla gran parte dei loro vecchi abitanti e presentano problemi di non facile soluzione, ad incominciare da quello degli accessi per continuare con quelli dei parcheggi, dei divieti di sosta, dell inserimento di istituzioni scolastiche, della scelta fra turismo di élite e turismo di massa, che fa proliferare alcuni tipi di negozi, non consoni con l atmosfera e l aspetto urbanistico di un insediamento storico. Ognuno pensi ciò che vuole. Occorre però saper prendere delle decisioni, come fecero gli amministratori della seconda metà dell Ottocento, quando adottarono la soluzione lungimirante della funicolare. Ofelér, fà l tò mestér! Nell Ottocento in qualche via centrale delle principali città lombarde stazionavano in certe ore del giorno gli offellieri, pasticcieri che vendevano offelle, ossia stiacciatine di pasta sfogliata. Si trattava di mestiere modesto, che non richiedeva grande preparazione e che non prospettava cospicui guadagni. La locuzione esorta chi ha la presunzione di ingerirsi nelle competenze altrui a badare alle proprie faccende. Sutor, nec ultra crepidam

18 Ògne mórt de èscov. Esempio: A l söcéd a ògne mórt de èscov, Càpita ad ogni morte di vescovo. Si dice per indicare che un certo fatto accade molto raramente, come in una stessa diocesi succede raramente che muoia il vescovo. Òia de laurà, sàltem adòss! Lo diciamo quando siamo svogliati: chiediamo allora di essere assaliti dalla voglia di lavorare. Aliquando et insanire iucundum est, scrisse il saggio Seneca. Anche il dolce far niente non è da disprezzare, secondo la sentenza di Cicerone: Nihil agere delectat. Ma Seneca incalza: Non semper Saturnalia erunt. Libera traduzione bergamasca: L è mia sèmper fèsta. Qualcuno (incredibile dictu) si affatica anche quando non fa alcunché; in una sua lettera infatti Orazio scrive: Strenua nos exercet inertia, ossia: Ci affatica una irriducibile inerzia. Per non scomodare oltre i classici, potremmo ricorrere a Gioppino, il quale si lamentava sempre di avere tanto lavoro e di essere assorbito da mille occupazioni. Che mestér fìv?, gli domandava qualcuno. E lui: Gh ó mai ü momènt de rèquie perché só sèmper dré a dàga öna mà a mé pàder. Allora gli dicevano: Ah sé? E che mestér fàl ol vòs pàder?. E lui: Negóta töt ol dé. Gioppino sta bene nella baracca ma nella vita di tutti i giorni staremmo freschi se ci comportassimo come lui, che cercava di lavorare il meno possibile. Per esprimere il colmo dell indolenza a Treviglio si dice: Té grata che ma spiör, letteralmente: Tu gratta che mi prude. Tutta la fantasia delle locuzioni della nostra gente non basta per esprimere la criminosa infingardaggine e l indecente marpioneria di certa burocrazia centralista, specializzata nel complicare le cose semplici: basti dire che si sono impiegati cinquant anni per liquidare i beni e l amministrazione della Gioventù Italiana Littorio. Òi öa e ì. I bergamaschi si divertono a ideare scioglilingua che abbiano un senso compiuto per esorcizzare la malevolenza di quanti disprezzano e offendono la parlata orobica. In effetti il definire ostica e incomprensibile una lingua è sempre sintomo di scarsa predisposizione ad aumentare le proprie conoscenze e può essere inteso anche come mancanza di rispetto per quanti parlano quella lingua.

19 Avvezzi loro malgrado a sentir qualificare il loro dialetto con i termini meno lusinghieri da persone quanto meno sprovvedute, i bergamaschi godono di stupirle proferendo frasi che ridondano di allitterazioni e che evocano una rusticità primitiva, come nel caso seguente, in cui si svolge un piccolo dialogo privo di suoni consonantici. Un tale domanda: Òe, ù: öa o ì?, ossia: Oh, voi: uva o vino?. E l altro risponde: Òi öa e ì, ossia: Voglio uva e vino. Esistono varie versioni di questo artificioso scioglilingua, tutte prive di consonanti e proferite con l evidente scopo di stupire. Il bergamasco in ciò dimostra di essere non indegno erede del latino. La più grande lingua del mondo antico abbondava di formule e di locuzioni giocate sull iterazione di suoni simili per strabiliare e dare insieme il senso dell incomprensibilità. Da Catone ( De agricoltura, 160) apprendiamo che per rimediare ad una lussazione si diceva: Huat hauat huat ista pista sista dannabo dannaustra. E pare solo il caso di estrapolare dagli Annales di Quinto Ennio i seguenti versi famosi: O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti. Africa terribili tremit horrida terra tumultu. Machina multa minax minitatur maxima muris. Rem repetunt regumque petunt, vadunt solida vi. At tuba terribili sonitu taratantara fecit. Si luci, si nox, si mox, si iam data sit frux. E ancora Ennio, raggiungendo un notevole effetto comico, nelle Satire (59 e segg.) scrive: Nam qui lepide postulat alterum frustrari / Quem frustratur frustra eum dicit frustra esse. / Nam qui sese frustrari quem frustra sentit, / Qui frustratur is frustra est, si non ille est frustra. Nulla di strano che un bergamasco vi dica: A ó a èd i àe e i a òe ìe, ossia: Vado a vedere le api e le voglio vive. Oppure che riferisca di quel fattore il quale, per ordinare ai suoi contadini di occuparsi delle api, delle uve, delle olive e delle uova, diceva a ciascuno di loro: Ù ì ai àe, ù ì ai öe, ù ì ai ülìe e ù ì ai öv. Ol bal di caài. Oggi si dice semplicemente circo ma al tempo dei nostri nonni si diceva ancora circo equestre perché vi venivano fatti esibire i cavalli ammaestrati. Ecco perché i vecchi bergamaschi non dicevano: Só ndàcc al circo, Sono andato al circo, bensì: Só ndàcc a èd ol bal di caài, Sono andato a vedere il ballo dei cavalli. Già Fellini in un suo documentario si era preoccupato di raccogliere le labili memorie dei clown, avvertendo che la televisione avrebbe messo in crisi non solo il teatro e il cinema ma anche e soprattutto il circo. Ormai non c è più memoria dell arte circense del secondo Ottocento e del primo Novecento, quando con le belle tavole disegnate da Achille Beltrame la Domenica del Corriere informava sugl incresciosi incidenti che capitavano nei circhi (due ginnaste precipitate dal trapezio per la rotture delle corde, una pantera che aveva azzannato una giovane avvicinatasi alle sbarre della gabbia, un domatore ucciso da un orso durante una esibizione, un acrobata che era morto compiendo con l automobile l eccezionale

20 numero del cerchio della morte ). Chi ricorda più il vecchio bal di caài, che annoverava equilibristi, domatori, ballerine, giocolieri, illusionisti, saltimbanchi, funamboli, pagliacci, animali ammaestrati? Alcuni di loro erano diventati leggendari: il favoloso Grog, che da un minuscolo violino traeva suoni fortissimi, il nano Bernabè, che si ruppe una gamba durante un salto mortale, il pagliaccio Achille Zavatta, che intervenne a salvare un domatore aggredito da tre leoni, la domatrice Costanza Chiarini, la quale ottenne che una elefantessa suonasse il flauto con la proboscide, il giocoliere bergamasco Enrico Rastelli, che riuscì a far ruotare contemporaneamente dieci palle e dodici cerchi (nessuno c è più riuscito). L arte dei clown, dal triste Polidor intento a suonare la tromba per i suoi palloncini al genovese Joe Grimaldi, che per primo si presentò in un anfiteatro inglese con le guance infarinate e imbrattate di rosso, è rimasta avvolta nel mistero: si trattava quasi sempre di acrobati che avevano subìto un incidente e che vestivano per ripiego la giubba del pagliaccio. Quando arrivava a Bergamo un circo, un mio amico pittore, Aldo Grassi, andava con cavalletto, tele e tavolozza a ritrarre i pagliacci e parlava con loro negli orari in cui non si tenevano gli spettacoli. Un giorno mi disse: Sono stati tutti molto provati dalla vita. Forse riescono a far ridere perché conoscono davvero il dolore. Non vorrei dire che ogni epoca si merita i suoi spettacoli. Ma considerando il livello infimo e avvilente di tanti programmi televisivi è lecito pensare che per i nostri nonni il bal di caài abbia rappresentato non solo un passatempo ma anche un privilegio. Ol caàl del Bonèla. Di uno che abbia complessione delicata, che sia di salute molto cagionevole e che si ammali per un nonnulla diciamo che l è l caàl del Bonèla, perché il cavallo di questo Bonella (un anonimo quidam de populo del quale non si hanno notizie, sempre che sia esistito) a l gh ìa trènta piaghe per ògne sgarèla, aveva trenta piaghe per ogni garretto, era dunque un povero ronzino malmesso e acciaccoso. Ol diàol che l indàa a scöla. A una persona ingenua che credeva di potercela fare sotto gli occhi e che abbiamo invece saputo prevenire, possiamo dire: Quando l tò diàol l indàa a scöla, ol mé l turnàa zamò indré, ossia: Quando il tuo diavolo andava a scuola, il mio ritornava già indietro, evidentemente perché aveva già imparato ogni malizia.

Claudio Bencivenga IL PINGUINO

Claudio Bencivenga IL PINGUINO Claudio Bencivenga IL PINGUINO 1 by Claudio Bencivenga tutti i diritti riservati 2 a mia Madre che mi raccontò la storia del pignuino Nino a Barbara che mi aiuta sempre in tutto 3 4 1. IL PINGUINO C era

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