Dossier: La Germania, potenza senza desideri pagine n Il Mediterraneo avvelenato Barbara Landrevie

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1 Dossier: La Germania, potenza senza desideri pagine n n n diploteca Recensioni e segnalazioni alle pagine 22 e 23 n n n diploteca Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto euro 2 in vendita abbinata con il manifesto n. 5, anno XXII, maggio 2015 sped. in abb. postale 50% n L'era dei claustrofili Mona Chollet n La Comune di Parigi Kristin Ross n Usa in difficoltà fra Riyad e Tehran Akram Belkaïd n Gazprom, il Cremlino e il mercato Catherine Locatelli n Il Mediterraneo avvelenato Barbara Landrevie n Africa, metamorfosi del debito Sanou Mbaye n Quando Cuba «debate» Janette Habel n Il costo del monolinguismo Dominique Hoppe Sommario dettagliato a pagina 2 Inchiesta in Francia e negli Stati uniti Quarant anni di immigrazione nei media Commovente quando muore in un naufragio, inquietante quando perturba l ordine pubblico, lo straniero fa sempre salire l audience. In Francia come negli Stati uniti, l analisi dell immigrazione si focalizza sempre di più sulle questioni umanitarie e di sicurezza, aderendo in generale alle esigenze del calendario politico. Rodney Benson* Adolph gottlieb Esplosione Ideologie mutevoli, alleanze sconcertanti Come sfuggire alla confusione politica «Marine Le Pen parla come un volantino comunista degli anni 1970», ha detto François Hollande, contribuendo alla confusione dei punti di riferimento politici in Francia. E il moltiplicarsi delle alleanze tra Stati che a priori sembrano contrapposti in tutto rende anche più ardua la comprensione delle relazioni internazionali. La confusione generale è ulteriormente aggravata dai ritmi sempre più incalzanti dell informazione. In questo contesto caotico, come chiarire i temi cruciali, e scongiurare i ripiegamenti identitari? Serge Halimi «S i ha la tendenza a parlare di immigrati solo dal punto di vista della cronaca o del miserabilismo, a non vederli che come degli aggressori o delle vittime (1)», constatava nel 1988 Robert Solé, giornalista di Le Monde. Ventisette anni dopo, l osservazione non ha perduto nulla della sua pertinenza. E la sua validità travalica ampiamente le frontiere francesi. L immigrazione occupa un ruolo sempre più di primo piano nel dibattito politico: è una delle principali questioni sociali. Secondo l Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur), nel 2014 tremilaquattrocento migranti sono morti tentando di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l Europa. In Francia, dove gli stranieri non superano il 6% della popolazione totale, il Front national (Fn) fa leva sulla paura dell invasione per guadagnare terreno negli scrutini locali o nazionali. Negli Stati uniti nel 2014 sono stati trattenuti alla frontiera con il Messico più di sessantamila minori non accompagnati, che cercavano di sfuggire alla violenza delle gang dell America centrale o che progettavano di tentar fortuna al nord. La principale risposta del presidente Barack Obama è stata quella di rinforzare i controlli alla frontiera, prova ulteriore che il suo disaccordo con i repubblicani su questo tema non è poi così profondo. A più di quattro anni dall inizio delle rivolte arabe e delle manifestazioni planetarie contro le disuguaglianze sempre più stridenti dagli «indignados» a Occupy Wall Street l assenza di risultati immediati e la perdita di chiari punti di riferimenti scoraggiano gli slanci verso una trasformazione della società e del mondo. Il disincanto si esprime: «Tanto s è fatto per arrivare a questo?». I vecchi partiti si scompongono, cambiano nome, e il moltiplicarsi di alleanze inconsuete contribuisce a sconvolgere le categorie politiche abituali. La Russia denuncia i «fascisti di Kiev», ma accoglie a San Pietroburgo una manifestazione dell estrema destra europea. La Francia oscilla tra proclami virtuosi sulla democrazia e il laicismo e un raddoppiato sostegno alla monarchia saudita; e il Front National ostenta soddisfazione per il trionfo elettorale di una sinistra radicale e internazionalista ad Atene. Questa confusione è naturalmente amplificata dalla macchina mediatica, nella misura in cui i suoi ritmi sempre più accelerati riescono ormai a produrre solo annunci concitati, fatti per attirare l attenzione o suscitare voyeurismo, compassione attonita e paura. L estrema destra e il fondamentalismo religioso si avvantaggiano spesso della confusione generale e dell insistenza pressoché sistematica sui loro temi prediletti. Combattenti rivali dello «scontro tra civiltà», diffondono la nostalgia del ritorno a un universo di tradizioni, fede e obbedienza, e la difesa di un ordine sociale intriso e fossilizzato dal culto dell identità, della terra, della guerra, dei morti. Di tanto in tanto, un tentativo di tracimare o di scamparla per il rotto della cuffia si scontra, come sta accadendo in Grecia, contro un muro compatto di ostilità e divieti. Gli interessi in gioco sono potenti; la battaglia necessariamente impari. Per uscire da questo garbuglio servirebbe una visione chiara delle forze sociali da stimolare, degli alleati da conquistare alla causa, delle priorità su cui fondare un azione (1). Ma come ha detto lo scrittore Jean Paulham «Tutto è stato già detto, indubbiamente. Solo che le parole hanno cambiato significato, e i significati hanno cambiato parole» (2), osservazione più che mai calzante per quelli che furono i punti cardinali delle lotte di emancipazione: la destra e la sinistra, l imperialismo e il progressismo, l etnia e il popolo. * Professore di sociologia alla New York University. Autore di Shaping Immigration News: A French-American Comparison, Cambridge University Press, New York, continua a pagina 10 continua a pagina 24 Da Lisbona a Dublino, su quali alleati può contare Atene? Alla ricerca del prossimo Syriza Nel braccio di ferro che la oppone a Berlino, Atene cerca sostegno. L'elezione di Alexis Tsipras può essere di aiuto ai suoi potenziali alleati in altri paesi europei? dal nostro inviato speciale Renaud Lambert Almeno su un punto, il nuovo primo ministro greco e i suoi interlocutori di Bruxelles sono d'accordo: la Grecia assomiglia a un domino in equilibrio precario. Fino a poco tempo fa, i capovolgimenti in Grecia suscitavano, a Bruxelles, immagini di tracollo finanziario. In seguito alla vittoria di Alexis Tsipras alle elezioni di gennaio, si sono aggiunti poi i timori di un possibile contagio: la diffusione dell'idea che l'austerità non funzioni. Proprio quello che spera Atene. Chi sarebbe il prossimo ad affondare? Immediatamente, gli sguardi si sono rivolti verso quei paesi che i mercati finanziari avevano associato alla Grecia per coniare l'acronimo inglese «PIGS» (1) («maiali»): la Spagna di Podemos, naturalmente, ma anche l'irlanda e il Portogallo, due paesi della periferia europea che, come la Grecia, sono stati oggetto di piani di «salvataggio» che hanno imposto dei programmi di aggiustamento. Due paesi in cui si terranno a breve le elezioni legislative (2). Stando a quanto afferma la destra, al governo in entrambi i paesi, né Lisbona né Dublino beneficeranno di un affievolimento delle politiche di Bruxelles. «Noi non siamo la Grecia!», ama ripetere il ministro delle finanze irlandese, Michael Noonan, che addirittura propone di «fabbricare delle magliette con su scritto questo messaggio (3)». Nel 2014, l'irlanda ha registrato la crescita più elevata all'interno dell'unione europea (+4,8%) e il Portogallo si appresta, secondo il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, «a raccogliere i frutti delle politiche poste in essere nel corso degli ultimi anni (4)». Alla metafora del domino, Dublino e Lisbona preferiscono quella di una classe: «I greci potrebbero prendere esempio dall'irlanda, suggerisce il primo ministro irlandese Enda Kenny. Dopo tutto, siamo gli alunni migliori (5)». Titolo a cui può aspirare anche il Portogallo, secondo la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, (Fmi) Christine Lagarde: il quotidiano El País riporta che avrebbe approfittato della riunione dei ministri delle finanze europei del 16 febbraio per contrapporre il «bravo alunno» portoghese al «somaro» ellenico (17 febbraio 2015). Per il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho, Lisbona ha dimostrato «che la risposta convenzionale alla continua a pagina 4

2 2 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto L'era dei claustrofili J ay Shafer è diventato celebre negli Stati uniti quando, nel 2007, la trasmissione televisiva di Oprah Winfrey ha reso popolare la sua idea di tiny house («casetta»). All epoca egli viveva in campagna in un abitazione di nove metri quadrati su ruote, zeppa di idee ingegnose, con un tetto spiovente e un portico. Struttura in legno chiaro, letto nel mezzanino e trapunta bianca: il design sobrio conferiva all interno un che di rustico ed elegante. Era persino riuscito a infilarci un caminetto. In dieci anni, fra il suo Iowa e la California è vissuto in tre tiny house che aveva disegnato e costruito lui stesso. Dopo aver cofondato nel 2002 la Small House Society, ha lanciato un impresa di progettazione di abitazioni simili alla sua, dal prezzo non superiore ai dollari. Sdrammatizzare le questioni dell alloggio e della proprietà immobiliare in un America che i prestiti nel settore potrebbero a breve condurre alla catastrofe, promuovere una vita più semplice, più equilibrata e più ecologica: l idea era perfetta per sedurre. Shafer spiegava che, ai suoi occhi, uno spazio così esiguo rappresentava «il vero lusso»: dato che la casa non esauriva le sue entrate ed egli non perdeva tempo a sistemarla, poteva concentrasi sulle cose che aveva «veramente voglia di fare nella vita» (1). Agli adepti della sobrietà gli argomenti non mancano. Shafer sottolinea che tra il 1950 e il 2000, allorché la grandezza media di una famiglia diminuiva, la superficie media di un abitazione nuova negli Stati uniti è più che raddoppiata: duecento diciotto metri quadrati, ovvero quattro volte in più della media internazionale (2). Lui stesso è cresciuto in una casa di trecento settanta metri quadrati, che rappresentava per i suoi genitori un segno di affermazione sociale ma di cui certe stanze, come la sala da pranzo, non venivano quasi mai usate. «Noi amiamo le nostre case come amiamo le porzioni dei nostri cibi: enormi e poco care», afferma (3). In numerosi Stati americani esiste una superficie minima legale per gli alloggi, il che obbliga i proprietari di casette a giocare d astuzia, per cui dotano le loro costruzioni di ruote, anche se non prevedono di spostarsi, in modo che esse siano considerate come abitazioni temporanee e ricadano in un regime legislativo differente. Shafer lancia imprecazioni contro queste leggi che contribuiscono, secondo lui, a lasciare un gran numero di persone sulla strada, in mancanza di alloggi abbordabili. Alcuni fra i suoi compatrioti hanno d altronde visto nella tiny house una soluzione per i senzatetto. Nel Wisconsin, dei volontari del movimento Occupy Madison, emanazione locale di Occupy Wall Street, nel 2014 completano la costruzione di nove piccole case in legno riciclato finanziate grazie a donazioni. In Texas, in California, nell Oregon, villaggi simili, che raggruppano delle unità abitative individuali attorno a una cucina e a dei bagni comuni, rappresentano una versione più resistente delle «città di tende» dei senzatetto (4). Un artista californiano ha persino immaginato una casupola da 100 dollari, che evoca inevitabilmente la cuccia di un cane (5). Shafer si definisce un «claustrofilo» e chiunque abbia avuto una capanna nella sua infanzia comprenderà cosa vuol dire. Indubbiamente esiste una magia dei piccoli spazi. Essi corrispondono all archetipo del rifugio, al riparo primitivo i cui margini si avvicinano al massimo a quelli del corpo. In una società che non smette di inculcarci falsi bisogni, si prova una fierezza inebriante all idea di potersi accontentare di poco. Inoltre, la piccolezza dell alloggio può conferirgli una dimensione ludica, avventurosa. L articolo è un estratto di Chez soi. Une odyssée de l espace domestique, Zones, Parigi, David Simmer Mona Chollet VIETNAM. ingresso nei tunnel dei rifugi vietcong a cu chi Bisogna tuttavia diffidare della fatica, del logorio, delle frustrazioni che alla lunga un piccolo spazio produce. Se ne può avere abbastanza di dover ficcar la testa fra le spalle per evitare di sbattere sul lampadario andando a stendersi sul mezzanino mansardato, o di dover tenere i gomiti attaccati al corpo mentre si fa la doccia. Quando si vive in due o più, a volte si può aver voglia di chiudere una porta e appartarsi un ora e non al bagno, se possibile. E se si tratta di ospitare famiglie senzatetto, sarebbe preferibile la Casa dei giorni più felici, di cinquantasette metri quadrati, in legno, che l architetto Jean Prouvé aveva ideato su commissione dell abate Pierre nel 1956, ma il cui prototipo non fu mai omologato. Basta poco perché la carrozza del piccolo spazio «malizioso» si trasformi nella zucca dell alloggio inadeguato. Nel gennaio 2013, quando era ancora sindaco di New York, Michael Bloomberg aveva annunciato la costruzione di un complesso di micro-appartamenti fra i ventitré e i trentaquattro metri quadrati destinati ad accogliere coppie o famiglie monoparentali. Il progetto, disponibile per l autunno 2015, avrebbe dovuto ridurre al massimo la sensazione di oppressione grazie a grandi finestre, balconi e spazi comuni: terrazza, lavanderia, palestra... Alcuni esperti tuttavia hanno messo in guardia a proposito delle facili illusioni e dei pericoli di tale risposta alla mancanza di alloggi abbordabili. Uno di loro giudicava l architettura «fantastica» per dei giovani sulla ventina, ma consigliava di scordarsela per tutte le altre categorie della popolazione. Egli invitava a immaginare il disagio dei residenti nel momento in cui, la sera, non avessero altra scelta fra la loro unità abitativa e spazi comuni affollati di vicini. Situazioni del genere, avvertiva, avrebbero aumentato i rischi di violenza domestica e di dipendenza. Inoltre, i letti e i tavoli reclinabili implicano degli obblighi quotidiani supplementari che, alla lunga, diventano pesanti; allora gli occupanti evitano di richiuderli e si ritrovano in un ambiente ancora più scomodo. I bambini soffrono di disturbi della concentrazione, il che penalizza il loro apprendimento. Infine, il fatto di non poter ricevere amici nuoce alla vita sociale e affettiva dei residenti (6). La capacità di adattarsi a un sistema, di trovare i mezzi per sfuggirlo, è sicuramente preziosa. Ma si può evitare eternamente di attaccarlo frontalmente? Fino a che punto si può continuare ad adattarsi oltre ogni limite a una situazione subìta? Quando Shafer dichiara che una piccola casa presenta il vantaggio di non prosciugare tutte le sue entrate, egli si piega al costo attuale dell alloggio negli Stati uniti. Ne fa una sorta di legge naturale, mentre si tratta di un dato congiunturale che deriva da un insieme di decisioni umane, da un rapporto di forze di natura politica. La crisi statunitense dei subprime è stata provocata dall irresponsabilità delle banche, essa stessa permessa dalla deregolamentazione della finanza e dalla promozione dell accesso alla proprietà. Dunque gli adepti del living small occupano il posto che un ordine sociale iniquo gli assegna. Essi si contorcono per entrare nello sgabuzzino che volentieri gli si lascia e pretendono di realizzare i loro desideri più profondi. «La felicità tangibile di una vita ben vissuta, scrive Shafer nel suo libro, vale mille proteste veementi.» Piuttosto che «sprecare le proprie energie per cercare di cambiare attivamente questa società consumista», converrebbe «insegnare con l esempio». Perché no? Ma a patto di notare che ciò non funziona sempre. Non ha funzionato, in tutti i casi, con quella a cui egli deve la sua notorietà. Certo, Oprah Winfrey si è entusiasmata per le sue idee, ma non al punto di convertirsi anche lei alla sua definizione del «vero lusso». Oltre a un maniero da 85 milioni di dollari in una immensa proprietà battezzata «The Promised Land», in California, l imperatrice della televisione statunitense possiede un appartamento a Chicago, uno chalet nel Colorado, due abitazioni nel New Jersey, una nella baia di Maimi, una nella Georgia statunitense, oltre a una casa per le vacanze alle Hawai (dove nel 2014 Michelle Obama ha festeggiato i suoi 50 anni) e un altra sull isola di Antigua, nelle Antille. E ovviamente viaggia dall una all altra nel suo jet privato. La parte di ricchezza che sfugge alle classi medie e popolari non evapora: essa è spesa... dai ricchi. Quanti Jay Shafer ci vogliono per compensare l impronta ecologica di una Oprah Winfrey? Se l approccio di Shafer ha attirato molto interesse e molte fantasie, il numero di coloro che l hanno imitato è rimasto modesto: nel 2011 ammontava a qualche centinaia per l insieme degli Stati uniti (7). Nel 2014, l «Oprah Winfrey Show» è tornato a visitarlo per la striscia «Cosa sono diventati?». Ormai sposato e padre di due bambini, Shafer ha traslocato in una «reggia» di quarantasei metri quadrati. Collocato in fondo al giardino, il suo vecchio alloggio di scapolo gli serve da ufficio (8). Con lucidità egli dichiara che la tiny house può convenire quando si vive da soli o in coppia, ma le cose si complicano con una famiglia. Fra una roulotte di nove metri quadrati e un ampollosa casa statunitense tradizionale, c è posto per soluzioni intermedie... (1) «Inside a 96-square-foot home», febbraio (2) Jay Shafer, The Small House Book, Tumbleweed Tiny House, Sonoma, (3) Tiny. A Story About Living Small, film di Merete Mueller e Christopher Smith, Speak Thunder Films, (4) Tim Murphy, «Home petite home», BuzzFeed.com, 16 gennaio (5) Linda Federico-O Murchu, «Tiny houses: A big idea to end homelessness», NBCnews.com, 26 febbraio (6) Jacoba Urist, «The health risks of small apartments», TheAtlantic.com, 19 dicembre (7) Alec Wilkinson, «Let s get small», The New Yorker, 25 luglio (8) «Jay Shafer, the man with a tiny house, has had to expand just a little», HuffingtonPost.com, 19 febbraio (Traduzione di Valerio Cuccaroni) In questo numero maggio 2015 Pagina 3 L internazionalismo ai tempi della Comune, di Kristin Ross Pagine 4 e 5 Alla ricerca del prossimo Syriza, seguito dalla prima dell'articolo di Renaud Lambert Pagine 6 e 7 Washington in difficoltà a causa dello scontro fra Riyad e Tehran, di Akram Belkaïd Un accordo che apre il campo delle possibilità in Iran, di Shervin Ahmadi Pagina 8 Gazprom, il Cremlino e il mercato, di Catherine Locatelli South Stream, le ragioni di un abbandono, di Hélène Richard Pagina 9 Il Mediterraneo avvelenato, di Barbara Landrevie Pagine 10 e 11 Quaranta anni di immigrazione nei media in Francia e negli Stati uniti, seguito dalla prima dell'articolo di Rodney Benson Approcci molteplici (R. B.) Chi ha la parola? (R. B.) Le gioie della scrittura automatica, di Pierre Rimbert Pagina 12 Le metamorfosi del debito africano, di Sanou Mbaye Pagina 13 Quando Cuba «debate», di Janette Habel Pagina 14 Hong Kong, gravidanza fatale per le domestiche, di Alexia Eychenne Pagina 15 Arte. Vedere o avere? di Gérard Mordillat Chiuso in redazione il 7 maggio Il prossimo numero sarà in edicola il 16 giugno Pagina 16 Il costo del monolinguismo, di Dominique Hoppe Pagine da 17 a 21 Dossier: La Germania, potenza senza desideri Egemone per caso, di Wolfgang Streeck Cosa c'è di nuovo a destra, di Dominique Vidal Pegida, l'islamofobia e la demografia (D. V.) «Bild» contro i ciclonudisti, di Olivier Cyran Il passo indietro delle donne dell Est, di Sabine Kergel Imbarazzo e silenzi sul commercio di armi, di Philippe Leymarie Pagine Diploteca. Latinoamerica. Un'alleanza di scambi solidali. Recensioni e segnalazioni Pagina 24 Come sfuggire alla confusione politica, seguito dalla prima dell'articolo di Serge Halimi a cura di Geraldina Colotti, tel. (06) gcolotti@ilmanifesto.it redazione@ilmanifesto.it via Bargoni Roma traduzioni Alice Campetti, Marinella Correggia, Valerio Cuccaroni, Luca Endrizzi, Filippo Furri, Monica Guidolin, Elisabetta Horvat, Lorenzo Mastropasqua, Francesca Rodriguez ricerca iconografica Giovanna Massini, Nora Parcu, Anna Salvati, Cristina Povoledo iscrizione al Trib. stampa n.207/94 del dir. resp. Norma Rangeri Realizzazione editoriale Cristina Povoledo pellicole e stampa Sigraf spa, via Redipuglia 77, Treviglio (Bg) pubblicità Concessionaria esclusiva Poster pubblicità srl Roma 00153, via Bargoni, 8 tel. (06) fax Milano 20135, via Anfossi, 36 tel. 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3 Le Monde diplomatique il manifesto maggio Un immaginario repubblicano aperto sul mondo L internazionalismo al tempo della Comune Molti storici hanno analizzato la Comune di Parigi come una patriottica sollevazione originata nato come reazione alla confisca dei cannoni della Garde nationale nel marzo Ma i fondamenti intellettuali di questa insurrezione sembrano essere più antichi: fin dal 1868, nei club politici e nelle assemblee popolari della capitale, alcuni cittadini invocano la «Repubblica universale». Kristin Ross* N ell aprile 1871, nel punto culminante della Comune di Parigi, settemila operai londinesi organizzarono una manifestazione di solidarietà a favore dei loro compagni parigini, marciando da quella che la stampa borghese britannica definiva «la nostra Belleville» il quartiere di Clerkenwell Green fino a Hyde Park malgrado un tempo spaventoso. Accompagnati da una fanfara, sventolavano bandiere con gli slogan «Viva la Comune!» e «Lunga vita alla Repubblica universale!». La stessa settimana, nell anfiteatro della scuola di medicina della Sorbona, disertata dai suoi professori tutti fuggiti a Versailles (1), gli artisti e gli artigiani parigini («tutte le intelligenze artistiche») ascoltavano Eugène Pottier leggere il manifesto della Federazione degli artisti di Parigi, che si concludeva con la frase: «Il comitato concorrerà alla nostra rigenerazione, alla diffusione della bellezza nella Comune, agli splendori dell avvenire, e alla Repubblica universale». «Comune» e «Repubblica universale» rappresentano due elementi fondamentali dell immaginario politico della Comune di Parigi, due espressioni la cui carica emotiva andva oltre il contenuto semantico. Ma la ripetizione di questi termini nel corso degli ultimi anni dell Impero, dell assedio della capitale e dell insurrezione stessa, esprimeva il desiderio dei «comunardi» di una vita sociale organizzata secondo i principi della partecipazione e della decentralizzazione. La maggioranza degli storici situa l inizio della Comune alla data del 18 marzo 1871, con quello che Karl Marx chiamò il «tentativo di incursione» di Adolphe Thiers (2), ossia la sua decisione di confiscare i cannoni della Garde nationale, e le reazioni che questo fatto provocò. Nella loro narrazione l insurrezione appariva come un sollevamento spontaneo legato a una spinta di «patriottismo confuso» come disse lo stesso Thiers (3) dovuto alle circostanze particolari della guerra franco-prussiana. * Docente di letteratura comparata all'università di New York. Autrice di L'Imaginaire de la Commune, La Fabrique, Parigi, 2015 diploteca plus Ma se si parte non da questa reazione spontanea ma dalle riunioni di lavoratori alla fine dell'impero, appare un immagine completamente diversa. Vediamo alcune idee assumere sempre più importanza. Le riunioni dei club politici del nord di Parigi, i più rivoluzionari, si aprivano e si chiudevano al grido di «Viva la Comune!», e le espressioni «Repubblica universale» e «Repubblica dei lavoratori» erano utilizzate indifferentemente. Queste riunioni hanno creato e sviluppato l idea di una comune sociale: il desiderio di sostituire un governo di traditori e di incompetenti con la cooperazione diretta di tutte le energie e di tutte le intelligenze. «Parigi viveva di vita propria» Il termine «Comune» esprimeva l importanza della dimensione locale dell azione, il desiderio di autonomia, l autosufficienza di unità sociali abbastanza piccole e umane da far sì che ognuno si sentisse direttamente coinvolto nei dettagli della vita pubblica quotidiana. La nozione «Repubblica universale» rappresentava l orizzonte internazionalista. Insieme, le due parole d ordine designavano i contorni di un immaginario decisamente non nazionale. Così, con «lusso comunale», gli artisti e gli artigiani della Comune sembravano riferirsi a una sorta di «bellezza pubblica»: il miglioramento degli spazi condivisi in tutte le città e in tutti i villaggi, il diritto per ogni individuo di vivere e di lavorare in un ambiente gradevole. Creando un arte pubblica, un arte vissuta, a livello delle municipalità autonome, il «lusso comunale» operava contro la concezione stessa di spazio monumentale e la sua logica centralizzatrice (nazionalista). Questo tipo di programma, concepito dalle stesse persone che hanno abbattuto la colonna Vendôme, non ci dovrebbe stupire più di tanto. Ma non bisogna fare l errore di pensare che il termine significasse un ripiegarsi negli angusti confini municipali. La Federazione degli artisti credeva di agire nello stesso tempo per il lusso comunale e per la Repubblica universale. Nel blu tra il cielo e il mare Susan Abhulhawa Feltrinelli 2015, 16 euro Una sorta di saga familiare travolta dalla violenza della politica, cui donne e uomini reagiscono con la speranza, con la rabbia, con il rifiuto delle proprie origini. Attraverso diverse voci narranti si snoda la storia collettiva della Palestina: con il 1948 il nucleo di Umm Mamduh, nel dover lasciare Beit Daras per le bombe israeliane, si divide, con differenti destini per cui «alcuni pezzi andarono perduti sull altro lato dell Oceano Atlantico e del Pacifico»: così il nonno narra la sua vita a Nur, per lasciarle traccia della loro terra, ricordandole che «siamo fatti delle nostre storie» mentre apre i cassetti della sua memoria. Nur che ha imparato a essere remissiva e a nascondere la sua frammentazione per sentirsi accettata a Gaza ritroverà le radici ma si sentirà presa fra diverse realtà e un amore difficile, provando a volte la sensazione confusa di essere «una scarpa vecchia da buttar via», e sono le donne, nella narrazione di storie di sopraffazione, affetto, esilio, a darle la forza di ritrovare se stessa. L autrice, figlia di palestinesi in fuga dalla guerra dei Sei Giorni del 1967, diventa biologa negli Usa, e, dopo una visita al campo di Jenin, s impegna nel dare voce a tutto quel dolore. Crede giustamente che la letteratura possa aprire uno spazio per recuperare l umanità negata e che quando si è parte di un popolo oppresso l espressione artistica non può non essere un atto di resistenza. «Il mio libro è una storia d amore ma è allo stesso tempo politico». Si chiude con le speranze di Nur e dei suoi familiari che, anche se «chiuse e sbarrate» dalle navi da guerra a ovest, dai reticolati elettrici a est, da eserciti a nord e sud, sembrano potersi materializzare mentre festeggiano sulla spiaggia la vittoria di Hamas: la loro terra sarebbe «rinata»? La letteratura può far condividere a chi legge quella sofferenza che affonda profondamente nella morte, nella rabbia, nella perdita ed essere così uno strumento di decolonizzazione rispetto a una Storia scritta da chi ha il potere. Clotilde barbarulli Sotto la Comune, come uno dei suoi protagonisti più celebri, il pittore Gustave Courbet, scriveva a sua madre, «Parigi ha rinunciato a essere la capitale della Francia (4)». La Parigi di allora non voleva essere uno Stato, ma un entità autonoma a capo di una federazione internazionale dei popoli. Lo scenario che il modello comunardo privilegiava era a volte più limitato, a volte più ampio del concetto di nazione. L espressione «Repubblica universale» rimandava a un insieme di desideri, di identificazioni e di pratiche, che non si lasciavano definire dal territorio dello Stato o circoscrivere dalla nazione. Distingueva molto nettamente quelli che la impiegavano dai parlamentari repubblicani o liberali: questi ultimi credevano nella necessità di un autorità statale forte e centralizzata, garante dell ordine sociale. Durante i mesi dell assedio, precedenti la Comune, Parigi, secondo le parole del comunardo Arthur Arnould, «viveva di vita propria, dipendeva solo dalla sua volontà individuale.(...) Parigi aveva (...) appreso il disprezzo assoluto delle due sole forme di governo che, fino a quel momento, erano state presenti nel paese: la monarchia e la Repubblica oligarchica o borghese (5)». La Repubblica universale significava, al contrario, lo smantellamento della burocrazia imperiale, dell'esercito regolare e della polizia in primo luogo. «Non è sufficiente emancipare ogni nazione dalla tutela dei re, scriveva nel 1851 il geografo anarchico e futuro comunardo Elisée Reclus, bisogna ancora liberarla dalla supremazia delle altre nazioni, bisogna abolire questi limiti, queste frontiere che rendono nemici uomini affini (6)!». Il giorno dopo la proclamazione della Comune, tutti gli stranieri furono ammessi nelle sue fila, poiché «la bandiera della Comune è quella della Repubblica universale (7)». Ma l espressione non è nata in questo momento; bisogna ritornare a un breve episodio d internazionalismo durante la Rivoluzione francese. Il suo inventore, Anacharsis Cloots, prussiano d origine, presentatosi come «oratore del genere umano» sosteneva questa rivoluzione al fianco di Thomas Paine, su basi internazionaliste, prima di essere ghigliottinato. Tuttavia, lungi dal significare un ritorno ai principi della rivoluzione borghese del 1789, la parola d ordine della Repubblica universale, lanciata dai comunardi, segna la loro rottura con il suo retaggio, in favore di un autentico internazionalismo dei lavoratori. Pensiamo per esempio alle abitudini di lavoro, e alla cultura degli «artigiani d arte», che parteciparono in gran numero al movimento del marzo 1871, come notò più tardi Prosper-Olivier Lissagaray, il primo e il più influente degli storici della Comune. Erano degli internazionalisti ante litteram. Oggi ci ricordiamo soprattutto di Pottier come autore de L internazionale, scritta nel giugno 1871 nel bel mezzo delle brutali esecuzioni dei rivoluzionari vinti; alla vigilia dell insurrezione, egli dirigeva un grande laboratorio dove si confezionavano drappeggi, e si dipingevano tappezzerie, pizzi, stoffe e ceramiche. Artigiani qualificati di diverse origini e nazionalità lavoravano in modo complementare tra loro; il loro internazionalismo si spiega in parte con la mobilità che caratterizzava questo tipo di mestieri: andavano liberamente da una regione all altra e anche da un paese all altro. Come molti giovani di oggi, che il precariato economico costringe a un esistenza nomade, gli uomini e le donne artigiani del XIX secolo passavano la maggior parte del loro tempo non tanto a lavorare, quanto a cercare lavoro. Quando la Francia dichiarò guerra alla Prussia, il 19 luglio 1870, gli impiegati del laboratorio di Pottier furono tra i firmatari del manifesto della sezione parigina dell Internazionale, al fianco dei loro compagni tedeschi e spagnoli, contro quello che Pottier chiamò in una poesia il «regime cellulare della nazionalità (8)». Evento inedito nelle formazioni socialiste, il messaggio era risolutamente antinazionalista: «Ancora una volta, con il pretesto dell equilibrio europeo e dell onore nazionale, ambizioni politiche minacciano la pace nel mondo. Lavoratori francesi, tedeschi, spagnoli, che le nostre voci si uniscano in un coro di riprovazione contro la guerra! (...) La guerra (...) non può che essere agli occhi dei lavoratori una criminale assurdità (9)». La forma di libertà delle donne Ma forse è la direzione particolare presa al tempo dalle donne e dal femminismo a testimoniare al meglio questa volontà di andare oltre il quadro politico dello Stato moderno. Louise Michel, Paule Minck, Elisabeth Dmitrieff e altre non cercavano l integrazione all interno dello Stato o la sua protezione; non esigevano, come fecero le donne nel 1848, il diritto di voto né alcun altro diritto di tipo parlamentare. Praticavano una forma di libertà che disprezzava totalmente lo Stato. In quanto partecipanti alla Repubblica universale, si mostravano indifferenti alla politica repubblicana. Eppure Dmitrieff e altre sette operaie del settore dell abbigliamento crearono quella che divenne la più grande e la più efficace delle organizzazioni della Comune: l Unione delle donne. I suoi comitati si riunivano quotidianamente in quasi tutti gli arrondissements di Parigi, fornendo lavoro remunerato alle donne, rispondendo allo stesso tempo all urgenza delle situazioni di lotta. Parigi, 1871 Barricata durante la Comune Niente era più lontano dalla Repubblica universale, concepita come associazione volontaria di tutte le iniziative locali o «libera confederazione di collettività autonome», della Repubblica conservatrice a pretesa universalista che avrebbe finito per imporsi. La Repubblica universale immaginata e in una certa misura vissuta durante la Comune, non era solamente molto differente da quella che sarebbe arrivata. Era anche concepita in opposizione alla Repubblica francese timidamente partorita nel settembre del 1870 da Thiers, allora monarchico, e ancora più contrastante con quella che si affermò sui cadaveri dei comunardi. Infatti questo massacro fu l atto fondatore della III Repubblica, chi si consolidò in seguito mentre la borghesia industriale e i grandi proprietari stringevano la loro alleanza storica, saldando per la prima volta la modernizzazione capitalistica allo Stato repubblicano. In Francia, il massacro segnò l inizio di un periodo profondamente conservatore sulla questione dell identità nazionale. Periodo che durò almeno fino a Vichy, mentre nel resto d Europa le nazioni entravano nella competizione coloniale e mettevano in atto nuove forme di massacro su grande scala, necessarie al controllo e al mantenimento dell ordine degli imperi. A partire dall amnistia ai comunardi, votata dal parlamento nel 1880, si assiste a tentativi di integrare la Comune nella finzione repubblicana francese, assimilandola a un movimento patriottico o a una lotta per le libertà repubblicane in altri termini, a un tentativo riformista di democratizzare lo Stato borghese piuttosto che distruggerlo. Ma basta leggere le memorie dei sopravvissuti per vedere fino a che punto essi stessi si difendevano accanitamente dall accusa di aver agito per salvare questa Repubblica: «La Repubblica dei nostri sogni non era assolutamente quella che abbiamo adesso. Noi la volevamo democratica e sociale, e non plutocratica» scrive uno di loro (10). Gustave Lefrançais si mostra ancora più radicale: «Il proletariato non riuscirà a emanciparsi realmente se non sbarazzandosi della Repubblica, ultima ma non meno nefasta forma dei governi autoritari (11)». (1) Sede del governo di difesa nazionale instaurato dopo la sconfitta di Sedan e la cattura di Napoleone III (settembre 1870). (2) Monarchico orleanista, Adolphe Thiers ( ) divenne capo del potere esecutivo nel febbraio 1871, poco dopo la caduta del Secondo Impero. Rivelatasi impossibile la restaurazione monarchica, aderì alla Repubblica nel (3) Citato nella Revue blanche, 1871, enquète sur la Commune, Editions de l Amateur, Parigi, 2011 (prima edizione 1897). (4) Correspondance de Courbet, curato da Petra Ten-Doesschate Chu, Flammarion, Parigi, (5) Arthur Arnould, Histoire populaire et parlementaire de la Commune de Paris, Res Publica, Gémenos, 2009 (prima edizione 1878). (6) Citato ne Le Libertaire, 28 agosto-1 ottobre (7) Journal officiel de la République française sous la Commune, Ressouvenances, Villers- Cotterêts, 1995 (prima edizione 1871). (8) Eugène Pottier, «La Guerre», Chants Révolutionnaires, Comité Pottier, Parigi (9) Manifesto della sezione parigina dell Associazione internazionale dei lavoratori pubblicato ne Le Réveil, 12 luglio (10) Paschal Grousset, citato ne La Revue Blanche, op. cit. (11) Gustave Lefrançais, citato ne La Revue Blanche..., op. cit. (Traduzione di Lorenzo Mastropasqua)

4 4 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Da Lisbona a Dublino, Alla ricerca continua dalla prima pagina crisi funziona (6)». «Nel giro di qualche anno, il nostro paese ha fatto un passo indietro, ci spiega tuttavia l'economista Ricardo Paes Mamede. La produzione di ricchezza è tornata al livello di dieci anni fa; l'occupazione, ai livelli di vent'anni fa; l'investimento, che apre la strada alla crescita, ai livelli di trent'anni fa. Di conseguenza, l'emigrazione è paragonabile a quella di quarant'anni fa, all'epoca della dittatura di Salazar [ ]». Questo ritorno al passato salta agli occhi nella metropolitana di Lisbona. I viaggiatori lisbonesi si affollano in testa al binario, lasciando i turisti lungo il resto della banchina. Il loro comportamento diventa chiaro quando arriva il treno: quest'ultimo conta solo la metà dei vagoni che la stazione potrebbe accogliere, imponendo ai turisti una piccola corsa a piedi per salire a bordo. «La misura punta a risparmiare elettricità, ci spiega Paes Mamede con un sorriso disilluso. È una delle manifestazione dell'austerità». Se la crisi si è rivelata così violenta in Portogallo, prosegue, è perché ha falciato un paese che, contrariamente alla Grecia o all'irlanda, era già in crisi dall'inizio del XXI secolo. In altri termini, la crisi dell'euro ha trasformato una scivolata in una vera e propria derapata. Lanciato da una certa altezza, anche un gatto morto rimbalza Secondo la Commissione europea, il Portogallo si è contraddistinto per i tagli effettuati ai programmi sociali tra il 2011 e il 2013, che sono stati i più severi attuati nel Vecchio continente. Il paese ha fatto meraviglie anche per quanto riguarda il «costo del lavoro»: tra il 2006 e il 2012, ci racconta il politologo André Freire, autore di uno studio sul tema (7), «il numero di salariati che percepiscono il salario minimo è passato da a , su una popolazione attiva di circa cinque milioni di persone». Quasi il 30% non ha un lavoro (8). Ma il governo non intende fermarsi qui, per la gioia del Jornal de Negócios. Il quotidiano economico recentemente si felicitava per il fatto che Lisbona ha registrato nel terzo trimestre 2014 «il più forte crollo del costo del lavoro all'interno dell'unione europea» (20 marzo 2015). «Eppure, come in Grecia, il debito continua a salire», sospira Paes Mamede. Dal 96,2% del prodotto interno lordo (Pil) nel 2010, è schizzato al 128,9% nel Un tale fardello porta al prelevamento del 4,5% dell'insieme delle ricchezze prodotte ogni anno, che viene utilizzato per il semplice rimborso degli interessi, ossia più che in Grecia, dove, grazie al programma di aiuti, i tassi di interesse sono più bassi... Un recente studio dell Fmi conclude che il Portogallo non potrà rispettare i patti di stabilità (9), che prevedono il ritorno a un deficit del 3% del Pil e un livello di indebitamento inferiore al 60% del Pil. «Contrariamente a quanto pretende il governo, il rimedio non funziona», taglia corto l'economista. diploteca plus Una tale situazione avrebbe potuto condurre Lisbona a voler negoziare un ammorbidimento dei trattati, addirittura una ristrutturazione del suo debito; in poche parole, a fare come ha fatto Atene. Ma no: bisogna andare più lontano, risponde al contrario il primo ministro portoghese, per il quale «le riforme dei conti pubblici e dell'economia costituiscono un nuovo stile di vita che si deve ormai adottare in modo permanente (10)». Secondo Tom McDonnell, economista dell'istituto di ricerca economica Nevin (Neri), la recente ripresa irlandese, celebrata dalla stampa internazionale sempre attenta al «modello irlandese (11)», sarebbe «largamente sovrastimata»: «Senza dubbio le cose vanno meglio, ma perché in precedenza il crollo è stato particolarmente grave», commenta, prima di mormorare: «Quando lo si lancia da abbastanza in alto, anche un gatto morto rimbalza». Il Pil è diminuito di oltre il 12% tra il 2008 e il 2010, «il paese ha perso un posto di lavoro su sette. E quelli che sono stati creati sono in genere mal remunerati, part time e concentrati nella capitale». Resta il fatto che nel 2014, il tasso di crescita dell'irlanda ha suscitato la gelosia di Parigi, Lisbona e Atene. Non rafforza forse l'idea che la «determinazione sulle riforme» paga, come suggerisce la rivista statunitense Newsweek (16 marzo 2015)? Non proprio, risponde Paes Mamede: «La differenza tra il Portogallo, la Grecia e l'irlanda, è che i primi due fanno parte dell'economia europea; l'irlanda, invece, appartiene all'economia americana». Al momento della soppressione delle barriere doganali in seno all'unione europea, nel 1986, le imprese americane cercarono di ottenere gli stessi vantaggi delle aziende del Vecchio continente. L'Irlanda glielo permette, offrendo mano mirko schallenberg Honigtropfen, 2009 d'opera suppletiva, specializzata e anglofona, così come un regime fiscale favorevole. Dal suo ufficio di Dublino, McDonnell riassume: «L'Irlanda presenta da un lato un'economia simile a quella del Portogallo, che non mostra risultati migliori. E, dall'altro, un'altra economia ispirata a quella statunitense, caratterizzata da impieghi a forte valore aggiunto». Mentre l'unione europea è in stagnazione, Washington mostra Piccolo trattato di ateismo Paul H.D. D Holbach il Melangolo, 2014, 11 euro Il Piccolo trattato di ateismo è stato scritto da Paul Heinrich Dietrich, barone d Holbach, nel 1768, ma circolava clandestinamente a Parigi già nel Nel 1776, fu condannato al rogo dal papato che, tuttavia, non riuscirà a fermare la forza sovversiva di questa summa ateologia. Il libello afferma che i prelati rendono omaggio ai sovrani, onorano i nobili e i solerti difensori dello Stato a danno degli umili, degli indifesi, degli oppressi. Le alte gerarchie ecclesiali sono ridicolizzate e i privilegi e crimini dei ministri di Dio denunciati e annoverati tra i più efferati della storia dell umanità. «Alle eresie scrive d Holbach dobbiamo la santa Inquisizione, i suoi carnefici e le sue torture... Allo zelo dei sacerdoti dobbiamo le rivoluzioni, le sedizioni, le guerre di religione, i tirannicidi e gli altri spettacoli edificanti che la religione da diciotto secoli fornisce ai suoi amati pargoli». Per il barone, le religioni, come tutti i poteri, lavorano sulla felice ignoranza della morale umana, che sarebbe bene dimenticare o combattere. Riguardo ai sovrani, ai padroni e ai loro bravacci dice che il dominio dell uomo sull uomo dipende dalla sottomissione al clero, al signore, al tiranno: «Tirate dunque di spada per loro, sterminate per loro, impoverite i vostri popoli perché loro vivano nello splendore e nell abbondanza». L intero pamphlet risuona di invettive, imprecazioni, bestemmie contro l ordine della chiesa di Roma e i Padri fondatori, i santi, i potenti... i veri persecutori della libertà di pensiero. Con la grazia del cinico illuminato, d Holbach annota: «La logica teologica diventa molto convincente quando sostenuta da fucili e roghi». Ogni pagina del Piccolo trattato di ateismo è un invito a camminare senza guinzagli teologici o di ogni altro genere. Un tributo all intelligenza umana che respinge ogni sorta d indottrinamento sociale. Il barone impertinente sottolinea che tra gli ecclesiastici (e i politici possiamo aggiungere), non v è nulla di più consueto del vedere asini e asine parlare e anche disquisire di teologia (o di politica). Il breviario di d Holbach è uno di quei libri da leggere e rileggere, da tenere nella vicinanze della nostra passione per la verità, la giustizia e la bellezza... un utensile necessario a respingere l entusiasmo degli ignoranti, a vedere l inganno universale del potere come una farsa dello spirito. Più di ogni cosa questo almanacco di saggezza mostra che ogni illusione è santa e ogni credenza implica complicità con il crimine costituito. L apparenza dell edificio sociale è spettacolo dei vinti, degli stolti, degli illusi e dei saprofiti, e rimane esterno il (la) genio che parla al cuore degli uomini liberi e li invita ad amare senza avere vergogna d amare, e a respingere dappertutto l infelicità. PINO BERTELLI mirko schallenberg Schwebezustand, 2009 un rialzo di circa il 2,4% nel 2014, portando con sé la piccola isola verde. L'austerità ha avuto un impatto quasi nullo sull'enclave americano in Irlanda; ma ha sconvolto il resto della società irlandese. Nell'ottobre scorso, il presidente dell'associazione dei consulenti ospedalieri, Gerard Crotty, ha denunciato: «I tagli netti nei bilanci della sanità», che hanno generato, secondo lui, «un tasso di mortalità più elevato tra i pazienti in attesa di un letto in ospedale (12)». Lo sviluppo dei contratti «zero hour», che obbligano a restare a disposizione del proprio datore di lavoro in qualsiasi momento della giornata per un minimo garantito di quindici ore retribuite a settimana, e l'aumento dei lavori part time hanno fatto scivolare un salariato su sei sotto la soglia di povertà. Se, in alcuni quartieri chic della capitale, si evoca il ritorno della «tigre celtica», il suo ruggito non viene udito nel resto del paese. Contrariamente ai fardelli portoghese e greco, il debito irlandese tuttavia diminuisce grazie in special modo al vigore della crescita. In questo campo, il paese ha registrato il miglior risultato dell'unione tra il 2013 e il 2014: una riduzione del 9,4% per raggiungere il 114,8% del Pil. «Ma le cifre del Pil irlandese sono ingannevoli, prosegue McDonnell. Il peso delle multinazionali è tale e i profitti rimpatriati così elevati che il Pil sopravvaluta la produzione di ricchezza reale.» La supposta sostenibilità del debito irlandese si spiega d'altronde con un gioco di prestigio che stupisce non abbia contrariato la Banca centrale europea (Bce). Incapace di finanziarsi sui mercati per rimpinguare le sue banche ormai allo stremo, Dublino decide nel 2010 di emettere dei riconoscimenti di debito che avrebbero permesso agli istituti in difficoltà di finanziarsi presso la Banca centrale irlandese. Il tutto per una cifra di 31 miliardi di euro, equivalente all incirca al 20% del Pil. «Nei fatti, si tratta di un'operazione di monetizzazione del debito, riassume McDonnell. La Banca centrale ha semplicemente creato 31 miliardi di euro su uno schermo di computer.» Un'operazione giudicata illegale all'interno della zona euro... «Certo è che la Bce non ne fosse felice, ci confida Dominic Hanningan, deputato del Partito laburista (centro sinistra) che governa il paese con una coalizione formata con il Fine Gael (destra). Ma, all'epoca avevamo deciso di garantire i debiti delle nostre banche sotto la pressione di Bruxelles.» Nel gennaio 2010, l'ex direttore della Bce Jean-Claude Trichet aveva chiamato il ministro delle finanze irlandese dell'epoca per chiedergli di «salvare le banche a ogni costo». «In un certo modo, prosegue Hannigan, l'irlanda ha accettato di sacrificarsi per il resto d'europa. Questo meritava un piccolo aiuto!» Il tipo di aiuto che la Grecia non sembra aver meritato nel La Bce si aspetta comunque che l'isola regolarizzi la sua situazione; Dublino vuole al contrario rimandare la soluzione il più a lungo possibile. In queste condizioni, perché non unire la propria voce a quella di Atene, per esigere maggior flessibilità da parte di Bruxelles e Francoforte? «Per paura, ci risponde il deputato Seán Kyne, del Fine Gael, che un altro paese ottenga un trattamento preferenziale mentre gli irlandesi hanno già ingoiato una dose massiccia di austerità.» In altri termini: val meglio rischiare che la propria situazione degeneri piuttosto che vedere Atene dimostrare l'inutilità dell'austerità e il domino greco battere quello irlandese... In seno alla sinistra ostile all'austerità, l'analisi differisce, naturalmente. In Irlanda, il partito più vicino a Syriza si chiama Sinn Féin, l'ex ala politica dell'esercito repubblicano irlandese (Ira). «La vittoria di Tsipras è stata positiva per noi, dichiara Mairéad Farrell, eletta dello Sinn Féin nella città di Galway. Ha dimostrato che partiti che si oppongono all'austerità possono salire al potere in Europa.» Proprio come la Grecia, l'irlanda subisce dall'inizio della crisi dell'euro una scomposizione del suo paesaggio politico. «Tra il 1932 e il 2002, i due partiti di destra gemelli, il Fine Gael e il Fianna Fáil, hanno raccolto circa il 75% dei voti a ogni elezione, ricorda il sociologo Kieran Allen. Dal canto suo, il Labour raccoglieva circa il 10% dei voti. Per oltre settant'anni, l'irlanda ha quindi funzionato con due partiti e mezzo. Ora tutto questo è finito.» Principale beneficiario di questo rovesciamento è stato il Sinn Féin, divenuto uno dei partiti più popolari del paese, con un'avanzata alle legislative del 2011 (da 4 a 14 seggi in un parlamento che ne conta 166); e nel marzo scorso, per la prima volta nella storia, le intenzioni di voto lo portavano a quasi il 25%. Una situazione inimmaginabile prima dello scoppio della crisi. Più vicino alla Grecia che all'irlanda sul piano demografico, il Portogallo se ne discosta sul piano politico. Qui, non c'è stato un indebolimento parallelo dei due grandi partiti: la «sinistra radicale» non sembra per il momento in grado di prendere il potere. E questo, per due ragioni principali. Da una parte, l'esempio di Podemos, nel paese vicino, ha portato a un moltiplicarsi di iniziative miranti a copiarne la «ricetta». Salvo, a volte, dimenticarne l'ingrediente principale: il movimento sociale detto del «5 maggio», che non ha avuto equivalenti in Portogallo. Tutti quindi si appellano all'unità... creando ognuno una propria struttura. Accanto al Pcp (fondato nel 1923) e del Blocco di sinistra (l'alleato tradizionale di Syriza, fondato nel 1999), la sinistra portoghese conta ormai anche Tempo de Avançar (creato nel 2014), Agir e Juntos Podemos (entrambi creati nel 2015). Gli emuli di Tsipras abbondano, ma nessuno minaccia veramente Bruxelles. Va bene austerità, ma non in doppia dose Poiché un secondo fenomeno rafforza qui l'alternanza tra i partiti tradizionali: la singolare determinazione della destra di andare «oltre gli obiettivi fissati dalla "Troika"», come annunciato da Passos Coelho la sera della sua vittoria alle legislative del giugno Certo, come il suo omologo francese, il partito socialista portoghese (Psp) (13) ha fatto più di altri per deregolamentare l'economia e per le privatizzazioni; è stato il dirigente socialista José Sócrates, ora in prigione per corruzione, a firmare l'accordo con la «troika» messo in atto dal suo successore. Per questo, José Vieira da Silva, ex ministro socialista, non ha del tutto torto quando rimprovera ai suoi critici di sinistra di essere ingiusti: no, il Psp non condurrebbe la «stessa politica» del partito socialdemocratico (Psd) di Passos Coelho (che non ha assolutamente più niente di socialdemocratico). Il programma dei «socialisti»? «L'austerità sì, ma non in doppia dose», fa notare Vieira da Silva... Si può dubitare del potere di mobilitazione di una tale ambizione. Sembra tuttavia bastare per conservare la speranza di una «rottura» per un buon numero di elettori, permettendo al Psp di distinguersi dal partito socialista greco (Pasok), in sgretolamento, e da Syriza, il cui programma politico è visto come troppo «estremista». Per la sinistra del Psp, l'esempio greco ha permesso tuttavia di tener viva la speranza: un «altro» partito che sale al potere per condurre avanti un'«altra» politica. Bruxelles e Berlino si sono però adoperati a complicare le cose: anche se Tsipras è effettivamente arrivato al potere, la cancelliera tedesca Angela Merkel non ha mostrato alcun entusiasmo a lasciarlo portare avanti la politica per la quale è stato eletto. «È il nocciolo dei negoziati in corso tra Grecia e Germania. E confesso di essere preoccupato, ci dice Octávio Teixeira, militante del partito comunista portoghese (Pcp), che potrebbe ottenere il 10% dei voti alle prossime elezioni. Se Tsipras impone il suo punto di vista, evidentemente questo sarà positivo per le forze anti austerità. Ma se capitola, o se fa troppe concessioni, allora l'europa avrà dimostrato che non esiste un'altra politica possibile. Per noi, sarebbe una catastrofe.» A meno che la determinazione di Atene non finisca per condurre alla sua esclusione dall'eurozona. Un scenario temuto dal Sinn Féin. «Se la Grecia uscisse dall'euro, spiega Eoin Ó

5 Le Monde diplomatique il manifesto maggio su quali alleati può contare Atene? del prossimo Syriza Broin, uno degli strateghi del partito, la destra si sfregherebbe le mani: "Votate Sinn Féin, ecco cosa succederà!"» Mentre, fino a inizio marzo, il dirigente storico della formazione nazionalista Gerard («Gerry») Adams non perdeva occasione di ricordare la «relazione fraterna» che unisce il Sinn Féin e Syriza, Ó Broin lascia intuire che, «da qualche tempo, ci mostriamo più discreti rispetto a questa vicinanza». Oltre al suo ruolo di cerniera tra il mercato statunitense e quello europeo, Dublino approfitta di quel che l'economista Tom McDonnell descrive come una legislazione «particolarmente odiosa» in materia fiscale. Tasso d'imposizione sulle società del 12,5% (contro una media del 25.9% nell'unione europea nel 2014), profusione di nicchie che favoriscono l'ottimizzazione fiscale: l'irlanda supera ormai le Bermuda sulla lista dei principali paradisi fiscali del pianeta. «Noi ci comportiamo in modo egoista travasando dei redditi che dovrebbero servire a rimpinguare le casse di altri Stati», riassume McDonnell. Resta il fatto che al momento attuale, l'euro conviene all'irlanda. O, più esattamente, agli irlandesi più fortunati. «Il Sinn Féin si è opposto all'entrata dell'irlanda nell'euro, riprende Ó Broin. Ma uscirne oggi implicherebbe un costo smisurato. Non ci facciamo nessuna illusione sul progetto politico dell'eurozona, ma vogliamo provare a trasformarla dall'interno.» Ora, in questo campo come in altri, il partito che si richiama alla tradizione socialdemocratica scandinava si mostra prudente. «I patti di stabilità sono assolutamente folli: da un punto di vista economico, non stanno in piedi», insiste Ó Broin. Occorrerà per questo rinegoziarli? «Siamo favorevoli a una revisione completa dei testi, ma l'irlanda è uno dei paesi più periferici dell'unione. Agli occhi della Commissione non contiamo nulla. Il nostro progetto consiste più nel servire da alleato affidabile ad alcuni paesi del centro come la Francia che potrebbero cercare di ottenere più flessibilità.» Occorrerà probabilmente armarsi di pazienza... Principali partiti del parlamento Irlanda Fine Gael (destra) Fianna Fail (destra) Labour (centro sinistra) Sinn Fein (sinistra) Parti socialiste (sinistra) Portogallo Centro democratico e sociale - Partito popolare (destra) Partito socialdemocratico (destra) Partito socialista (centro sinistra) Verdi (centro sinistra) Blocco di sinistra (sinistra) Partito comunista (sinistra) Nel frattempo, il Sinn Féin si propone di trovare un margine di manovra nel quadro dei trattati, senza modificare il regime fiscale irlandese. Il suo progetto per le prossime elezioni? «Un programma che non tocchi la sicurezza economica di coloro che ne beneficiano, ma che possa creare dei nuovi posti di lavoro», illustra Ó Broin. In breve, un progetto «socialmente giusto, economicamente credibile e fiscalmente responsabile», che non esclude la possibilità di formare una coalizione con un partito di destra, nel caso in cui il Sinn Féin detenesse la maggioranza. «Alcuni diranno che siamo troppo cauti. Forse è vero. Ma il problema, per la sinistra, è che deve vincere delle elezioni...» Impasse delle forze antiausterità mirko schallenberg Schmelzpunkt, 2009 Per Goldman Sachs, è già troppo: «Il successo del Sinn Féin rappresenta la minaccia principale per la crescita irlandese (14)». La sinistra radicale irlandese che pungola i nazionalisti con la lotta contro la tassa sull'acqua (si legga l'articolo Goccia d'acqua irlandese sul nostro sito) stenta a comprendere l'inquietudine delle banche d'affari. Il Sinn Féin non ha forse messo in atto delle misure di austerità nell'irlanda del nord, dove condivide il potere con gli unionisti dall'accordo del Venerdì santo, nel 1998? Ó Broin si difende: «Al nord, il governo non è sovrano: è Londra che ci impone la maggior parte delle misure, e noi ci adoperiamo per ritardarle o modificarle». Una situazione di tutela che assomiglia stranamente a quella in cui il debito e i trattati europei obbligano la maggior parte dei membri dell'eurozona. Ma Ó Broin spazza via l'argomento: «Abbiamo esperienza in lunghe trattative, come quelle che hanno ristabilito la pace nell'irlanda del nord. Sappiamo che ci vuole tempo». In Irlanda, il partito più vicino a Syriza non ne adotta quindi la retorica combattiva. Nulla lascia pensare che Tsipras possa contare su più appoggio da parte del Portogallo, dove il Psp sembra ben posizionato per vincere le prossime elezioni. La sua egemonia ha addirittura convinto i promotori di alcune nuove formazioni anti austerità a intravedere un'alleanza con lui. «Con quale obiettivo? chiede Francisco Louçã, ex coordinatore del Blocco di sinistra. Tentare di negoziare con Bruxelles contando sul sostegno di Parigi?» Sulla stampa portoghese, «hollandizzazione» è ormai sinonimo di «capitolazione» (15). «Una follia! È quello che dimostra l'esperienza greca. Sappiamo ormai che l'eurozona non tollererà governi di sinistra. Come immaginare che l'equivalente politico di un Pasok moderato riesca in Portogallo a ottenere quello che Syriza non riesce a ottenere oggi? L'idea di cambiare il Psp perché lui stesso cambi l'europa, è una strategia della disperazione! La sola via come del resto hanno dimostrato Syriza e Podemos è la rottura con la socialdemocrazia: il Pasok, il Psoe [partito socialista operaio spagnolo] e il Psp.» Rottura con la socialdemocrazia da un lato; rottura con l'euro dall'altra. Louçã che, quando dirigeva il Blocco di sinistra, si è opposto talvolta violentemente a questa idea, vi si è oramai allineato, constatando che non esiste «un'altra soluzione». «L'euro si è rivelato uno strumento molto efficace per distruggere lo Stato sociale in Europa, analizza l'economista Paes Mamede. Quando l'economia decresce, i governi non possono che adottare una sola politica: la svalutazione interna, tramite il taglio dei salari. Quando la crescita riprende, niente li obbliga a riaumentarli.» Un tale progetto, conclude, «condanna la regione a una deflazione permanente che non è sostenibile economicamente né politicamente né socialmente». La situazione del Blocco di sinistra illustra l'impasse in cui si trovano le forze anti austerità a qualche mese dalla vittoria di Tsipras. Dal momento che Bruxelles e Berlino rifiutano di negoziare, non basta più denunciare le politiche europee, il bipartitismo o la corruzione. Occorre oramai rispondere alla domanda: fin dove spingere la battaglia? Portare avanti la lotta implica prepararsi a un'uscita dall'euro? mirko schallenberg Elemente, 2010 La prospettiva si rivela delicata in Portogallo, dove l'europa incarna al tempo stesso il ritorno alla democrazia, dopo la lunga dittatura salazarista, e una porta d'accesso al «primo mondo» Che si tratti di una strategia o di una convinzione internazionalista, il Blocco spiega di non aver abbandonato l'idea di un «euro buono». Stretto tra un Pcp ormai più chiaramente favorevole a un'uscita dall'euro e un Psp che sembra credere alla svolta europea sotto la guida del nuovo presidente della Commissione Jean- Claude Juncker, si vede costretto a difendere la soluzione di un vero e proprio braccio di ferro con Bruxelles... pur constatando che Syriza ha fin da ora appiattito le sue rivendicazioni. Pochi sono quelli che predicono un buon risultato per la formazione alle prossime elezioni. Bruxelles si sforza tuttavia di modificare il rapporto dei portoghesi con l'unione... «Le riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni condannano il Portogallo a essere quello che è sempre stato, e che aveva cercato di non essere più: un fornitore di mano d'opera a buon mercato, dichiara la deputata socialista Inês de Medeiros. Così facendo l'europa incoraggia il Portogallo a riprendere il suo posto di paese subalterno.» Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà? «Credo ancora nell'europa... Ma diventa difficile. Non possiamo continuare a dire alla gente: "Il vostro futuro sarà quello di non averne più!» Succede che l'europa, più che a un domino, assomiglia a uno Shanghai, dove ogni giocatore cerca di estrarre il proprio bastoncino senza essere trascinato nel caos generale. (1) Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna. (2) Tra il 14 settembre e il 14 ottobre per il Portogallo; tra ottobre 2015 e aprile 2016 per l'irlanda. (3) «Noonan: We re not Greece... put that on a t-shirt», Independent, Dublino, 23 giugno2011. (4) Sérgio Aníbal, «Draghi dá Portugal como exemplo da retoma europeia», Público, Lisbona, 24 marzo (5) Mark Paul, «Noonan still cheesy about those Greeks», The Irish Times, Dublino, 6 marzo (6) Peter Wise, «Greek crisis opens Portuguese faultlines over future of eurozone», Financial Times, Londra, 16 febbraio (7) André Freire, Marco Lisi, Ioannis Andreadis e José Manuel Leite Viegas (a cura di), «Political representation in times of bailout : Evidence from Greece and Portugal», South European Society and Politics, vol. 19, n. 4, Londra, (8) Barómetro das Crises, n. 13, Observatório sobre Crises e Alternativas, Lisbona, 26 marzo (9) «IMF Country Report», n. 15/21, Washington, DC, gennaio (10) Diário de Notícias, Lisbona, 18 marzo (11) Si legga «Le quattro vie del "modello irlandese"», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre (12) Martin Wall, «Patients dying unnecessarily waiting for hospital beds», The Irish Times, 4 ottobre (13) Al potere dal 1983 al 1985, dal 1995 a 2002, e poi dal 2005 al 2011 (14) Colm Keena, «Rise of Sinn Féin represents main threat togrowth, says economist», The Irish Times, 18 marzo (15) Bernardo Ferrão «Passos e Tsipras. Cada qual com o seu conto de crianças», Expresso, Lisbona, 28 gennaio (Traduzione di Francesca Rodriguez) diploteca plus Ucraina la guerra che non c è Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi Baldini e Castoldi, 2015, 16 euro Ucraina la guerra che non c è (Baldini e Castoldi, 16 euro) di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi, è un libro scritto «sul campo» durante la guerra che sta massacrando il popolo ucraino da ormai un anno e mezzo. Si tratta di un lungo reportage tra Kiev, Donetsk e la prima linea del fronte; un racconto fatto di azione, incontri, dialoghi, sorprese e diffidenza. Il lavoro dei due reporter costituisce la base, il terreno, su cui poi si inerpicano le riflessioni geopolitiche e strategiche sulla guerra europea tra Kiev e i filorussi delle regioni orientali. Come ogni reportage ben scritto risulta caldo e partecipato, ma ovviamente parziale. Dipende infatti dagli incontri, dalle circostanze e dagli imprevisti, ma ha il pregio di offrire una visione che spesso si è persa nelle considerazioni geopolitiche più generali. Ad esempio, i due autori incontrano personaggi con ruoli di comando nelle regioni orientali, che danno bene il senso della «resistenza» di quelle regioni a Kiev; un sentimento fatto di nostalgia per l Unione sovietica, antifascismo, desiderio di indipendenza dall Europa e una commistione religiosa. Una somma di fattori che crea un situazione variegata nella quale operano personaggi di estrazione sociale, etnica e politica differenti. Va ricordato innanzitutto l ambito nel quale questa guerra è nata. L Ucraina è il primo paese ad aver dichiarato la propria indipendenza nel 1991, dopo la dissoluzione dell Unione sovietica. Si tratta di un paese da sempre diviso in due, con le regioni occidentali nazionaliste e antirusse, e che ultimamente ha visto uno spostamento delle forze politiche nazionali sempre più a destra. Dopo la cacciata di Yanukovich, l ex presidente, a Kiev il governo aveva deciso fin da subito per una legge che cancellasse l uso del russo. Proposta poi ritirata, ma sufficiente a scatenare le regioni orientali. A Kiev oggi c è un governo capitanato da un oligarca Poroshenko e da un primo ministro Yatseniuk, considerati entrambi filoamericani. Nel parlamento siedono anche leader di forze di estrema destra, mentre nella capitale in generale il clima è reso teso proprio dal ribollire degli iper nazionalisti. Il sentimento antirusso e nazionale ucraino è stato a tal punto forte, da provocare durante la seconda guerra mondiale, il collaborazionismo con i nazisti da parte dell Upa, esercito insurrezionale ucraino, il cui capo era Bandera. Oggi Bandera è considerato un eroe nazionale (l Upa poi si ribellerà ai nazisti e Bandera finirà anche in un campo di concentramento, uscendone vivo) e i membri dell Upa sono ufficialmente riconosciuti dallo stato ucraino. Nel Donbass invece, gli eventi accaduti a Kiev erano stati già letti in senso negativo. Le regioni orientali del paese, tradizionalmente più vicine a Mosca, avevano già bollato il regime change di Kiev come un «colpo di Stato» segnalando la presenza e la rilevanza delle forze neonaziste all interno del nuovo governo di Kiev. Quando arrivò la proposta contro la lingua russa, le regioni orientali insorsero contro il governo centrale. Nel reportage di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi abbiamo ben rappresentati, attraverso le storie di singoli personaggi, alcune tendenze di questi «due paesi». A Kiev il «contatto» dei giornalisti gira con una foto di Bandera ed è un ammiratore di Mussolini, tra i comandanti o i soldati del Donbass, incontrano tanti nostalgici stalinisti e ortodossi. Emerge un particolare interessante: tra le ragioni della guerra c è sicuramente la resistenza «antinazista» nei confronti di Kiev, c è un sentimento filo russo (evidenziato dalla presenza di molti volontari russi), ma emerge anche la volontà di ritagliarsi una propria autonomia, tanto da Kiev, quanto da Mosca. Qualcuno lo dice ai due giornalisti in modo esplicito: «non vogliamo l annessione alla Russia». Altro elemento di complessità, in un conflitto che ha finito per scoperchiare dibattiti e fraintendimenti, racconti omologati e strambe alleanze ideologiche (come quella tra alcune frange della sinistra e gruppi dichiaratamente neofascisti o genericamente di destra). E un altro aspetto interessante del libro è proprio questo: il popolo in armi dell Ucraina orientale vuole vivere in una regione autonoma sgombera di influenze dominatrici «occidentali» o russe; vuole un autonomia e fondamentalmente tornare a una vita normale. C è poi chi teorizza un futuro politico sulle orme dell ex Unione sovietica e chi probabilmente gradirebbe un annessione alla Federazione russa. Ma la maggioranza vuole autonomia, pace e libertà da un governo che viene visto come «fascista». Nel dibattito che si è aperto sulla natura della «resistenza» del Donbass, questo libro ha il pregio di entrare in questo confronto, non tanto con analisi e prospettive geopolitiche che dimenticano spesso i conflitti sociali e i rapporti di forza reali nel ventre di un paese, bensì con le parole e il pensiero, talvolta decisamente semplice, dei protagonisti di questa guerra. Tirata di qua e di là, l Ucraina ha finito per scoperchiare una grande realtà: nel mondo multipolare non c è un «sistema» all interno del quale fare confluire eventi storici peculiari. Dovrebbe rimanere salda un analisi materialista di quanto accade, ma aggiornata. Ad un mondo multipolare, dove le letture geopolitiche cancellano sempre di più l impronta di chi agita conflitto sociale all interno di ogni singolo paese. Invece anche l Ucraina è finita nel calderone di letture geopolitiche che sembrano tenere conto solo delle percezioni e delle azioni dei leader, delle élite, come se sotto di loro non ci fosse un corpo sociale che si muove, cerca traiettorie e finisce per indirizzare anche nel bene o nel male la politica dei propri governanti. simone pieranni

6 6 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Difficile riequilibrio strategico Washington in difficoltà a causa Dopo oltre un mese di bombardamenti la coalizione guidata dall Arabia saudita dichiara di voler privilegiare una soluzione politica alla crisi yemenita. Eppure, nel suo braccio di ferro con l Iran, il regno wahhabita non esclude l opzione di un offensiva terrestre contro la ribellione degli sciiti houthi. Questa prospettiva preoccupa l amministrazione Obama, che fatica a mantenere la coesione fra i suoi alleati. Akram Belkaïd * I n questa fine di aprile a Washington c è un aria di primavera. Ma né la fioritura dei ciliegi né l aumento della temperatura riescono ad attenuare l atmosfera di perplessità e inquietudine latente che prevale nella capitale federale. Dai corridoi del Congresso alle sale di riunione dei principali centri di ricerca di Massachusetts Avenue o Connecticut Avenue, si inseguono le stesse domande: cosa succede veramente in Medioriente e cosa devono fare gli Stati uniti per evitare di impantanarsi un altra volta? La guerra civile in Siria, le azioni letali dell Organizzazione dello Stato islamico (Osi), i bombardamenti contro lo Yemen da parte di una coalizione di nove paesi arabi, senza dimenticare le violenze confessionali fra sunniti e sciiti, sono al centro dell attenzione. Ma la strategia statunitense per rispondere a queste sfide sembra illeggibile. In un Mashrek incandescente, gli Stati uniti faticano a rassicurare i loro alleati, si tratti dell Arabia saudita o di altre petro-monarchie, dell Egitto o dell Iraq. La visita ufficiale del primo ministro iracheno Haydar al Abadi, la * Giornalista. prima di questo genere, ha così messo in evidenza il continuo arrabattarsi, al quale sembra ormai essere votata l amministrazione del presidente Barack Obama. Washington ha promesso a Baghdad 200 milioni di dollari per aiutare le popolazioni che hanno dovuto lasciare le proprie case a causa dei combattimenti contro l Osi, così come il sostegno per la concessione di un prestito di 700 milioni del Fondo monetario internazionale (Fmi). Questo denaro è destinato a compensare l aggravamento del deficit del bilancio iracheno, che dovrebbe raggiungere nel 2015 i 25 miliardi di dollari, ovvero l equivalente di un terzo degli introiti provenienti dal petrolio attesi per lo stesso anno. Peraltro, i responsabili statunitensi non hanno mai cessato di esortare i loro interlocutori a prendere maggiormente le distanze dai dirigenti iraniani. «L Iran deve rispettare la sovranità dell Iraq e smettere di intervenire in maniera unilaterale sul suolo iracheno», ha insistito Obama, rimproverando a Tehran di sostenere militarmente le milizie sciite che combattono contro l Osi senza far riferimento al governo di Baghdad. Queste milizie sono regolarmente accusate di saccheggi e violenze contro le popolazioni civili, come quando hanno ripreso la città di Tikrit alla fine di marzo. Al Abadi ha prima minimizzato il ruolo dell Iran nel suo paese, affermando che era presente solo un centinaio di consiglieri militari. Poi, lui e i suoi accompagnatori non hanno perso occasione per salutare sia i «progressi diplomatici realizzati nel quadro dei negoziati sul nucleare iraniano» sia «l impegno» di Washington per trovare un accordo definitivo su tale questione entro fine giugno. «Il messaggio di al Abadi è chiaro. Ha detto agli Stati uniti che non potevano nello stesso tempo avvicinarsi all Iran, seppur timidamente, e rimproverare all Iraq di essere uno dei suoi alleati», commenta un diplomatico statunitense che desidera mantenere l anonimato. Per questo attento conoscitore del mondo arabo, gli Stati uniti non sanno che pesci prendere in Medioriente: «Qualche anno fa, i nostri alleati non ci ponevano gli stessi problemi di coerenza. Si conformavano alle grandi linee delle nostre azioni e noi concedevamo loro un margine di flessibilità per non obbligarli a una totale docilità. Oggi siamo continuamente obbligati a conciliare delle posizioni contraddittorie». Opinione condivisa da Ahmed Ali, politologo iracheno presso l Empowering Youth for Peace in Iraq, un osservatorio con base a Washington: «L amministrazione Obama sa molto bene che il regime di Baghdad continuerà a cercare un equilibrio fra gli Stati uniti e l Iran, perché ha bisogno di questi due attori importanti per sconfiggere l Osi». Altri esperti, come Richard Nephew, della Brookings Institution, un think tank vicino al Partito democratico, s interrogano sul paradosso apparente che spinge il presidente statunitense a frenare ogni tentativo del Congresso di inasprire le sanzioni contro l Iran ma al tempo stesso a usare un tono perentorio verso questo stesso paese in riferimento alla situazione in Iraq o in Yemen. La visita ufficiale di al Abadi ha messo in evidenza soprattutto un altro conflitto, ben più importante, nella zona di influenza statunitense in Medioriente. Parlando dell intervento aereo della coalizione diretta dai sauditi in Yemen per contrastare l avanzata dei miliziani houthi, il primo ministro iracheno si è interrogato sulla pertinenza di tale azione, ritenendo che «la soluzione ai problemi dello Yemen si trova anzitutto in Yemen». Baghdad insiste per la ripresa del dialogo nazionale con la partecipazione degli houthi, che hanno ripreso le armi per protestare contro un progetto di Stato federale preparato dal presidente Abd Rabbih Mansur Hadi (1). Più importante ancora: di fronte a un piccolo gruppo di giornalisti ricevuto a Blair House, la residenza dei dignitari stranieri invitati alla Casa bianca, il dirigente iracheno ha chiaramente affermato che l amministrazione Obama condivideva la sua opinione. Come al Abadi dunque, essa considerebbere l Arabia saudita «il primo ostacolo al cessate il fuoco» fra le fazioni yemenite. Questa dichiarazione ha provocato una smentita quasi immediata da parte di Alistair Baskey, portavoce del Consiglio nazionale di sicurezza statunitense, oltre che una conferenza stampa organizzata in fretta e furia dall ambasciatore saudita Adel al Jubeir, che ha fustigato la «mancanza di logica» della dichiarazione di al Abadi. In realtà le dichiarazioni di quest ultimo non hanno né sorpreso né scioccato Washington. La strategia globale seguita da Riyad in Yemen suscita molti interrogativi. Senza lasciarsi sorprendere l amministrazione Obama non era favorevole alla costituzione di una coalizione araba contro i ribelli houthi. Un mese dopo, all annuncio della fine dei bombardamenti aerei, la stampa statunitense riportava lo scetticismo sull efficacia di questa campagna, insistendo sul suo pesante bilancio più di un migliaio di morti, centinaia di feriti e circa 300 milioni di dollari di danni e sul fatto che le capacità militari dei ribelli non erano realmente diminuite. Secondo un diplomatico che lavora nella capitale federale, «l Arabia saudita cerca di dire all Iran che la sua influenza sarà sistematicamente combattuta nella penisola araba: gli Stati uniti ne sono coscienti, ma sanno anche che la soluzione alla crisi yemenita non può essere che politica». Quando il Pentagono informava la coalizione Washington ha fatto fatica a convincere Riyad a privilegiare una via diversa dai bombardamenti. Tanto più che i dirigenti sauditi stravedono oggi per i repubblicani, dei quali apprezzano la virulenza nei confronti dell Iran e di Obama. Così, la lettera dei senatori repubblicani che ricorda alla Guida suprema iraniana Ali Khamenei che il Congresso ha l ultima parola per quanto riguarda l accordo sul nucleare (si legga l articolo nella pagina accanto) ha convinto Riyad che l autorità del presidente statunitense è ridotta. Per limitare le perdite civili e le conseguenze di un intervento che potrebbe infiammare l intera regione, l esercito statunitense ha esercitato un diritto di control- Petrolio e religioni non spiegano tutto BULGARIA GRECIA Istanbul Stretto dei Dardanelli MAR MEDITERRANEO Diversità religiosa Sunniti Stretto del Bosforo Alessandria Il Cairo Gizeh EGITTO Nilo Ankara Ceyhan MAR NERO CIPRO SIRIA Organizzazione LIBANO dello Stato islamico Beirut Damasco ISRAELE Tel Aviv Gerusalemme Amman PALESTINA GIORDANIA Canale di Suez Sinai Assuan TURCHIA Risorse e questioni Principali giacimenti di petrolio e di gas Maggiore rotta di traffico marittimo mondiale SOUDAN Passaggio strategico MAR ROSSO Medina La Mecca Eufrate Focolaio di instabilità ERITREA Stato o territorio in guerra Stretto di Bab al Mandeb Stato o territorio in grande instabilità GIBUTI Problemi o tensioni Cintura di sicurezza esistente o in costruzione ETIOPIA Fonti: Michael Izady, «The Gulf 2000 Project», università Columbia ( SOUDAN Antoine Sfeir (a cura di), Atlas des religions, Addis-Abeba Perrin-Mame, 1999; United DU States SUD Energy Information Administration (Eia). CENTRAFRICAINE Sciiti duodecimani Alauiti Zaiditi Aleviti Yazidi Drusi Ibaditi Cristiani Ebrei Zona a rischio di pirateria Zona molto poco o non popolata GEORGIA ARMENIA AZERBAJGIAN Mossul Tigre ARABIA SAUDITA Sanaa IRAQ Baghdad Ribellione hutista RUSSIA Riyad Aden GOLFO DI ADEN Bassora Qom KUWAIT Kowait BAHREIN Manama YEMEN al Qaeda SOMALILAND PUNTLAND MAR CASPIO Tehran Intervento militare straniero della coalizione diretta da Stati uniti della coalizione diretta da Arabia saudita (con Marocco e Sudan) Shiraz IRAN Bandar Abbas Stretto Abu Mussa di Ormuz QATAR Doha Abu Dhabi Mascate EMIRATI ARABI UNITI Socotra (Yem.) OMAN TURKMENISTAN AFGHANISTAN OCEANO INDIANO PAKISTAN km Base militare russa Presenza militare statunitense (base o installazioni aeree o terrestri, presenza marittima) TURCHIA SIRIA IRAQ LIBANO ISRAELE GIORDANIA EGITTO Spese militari per abitante, media , in dollari EGITTO km Turca TURCHIA SIRIA LIBANO ISRAELE PALESTINA GIORDANIA iraniano semitico Ebrea turco KUWAIT ARABIA BAHREIN SAUDITA QATAR Kurda IRAQ YEMEN Fonte: Sipri, ARABIA SAUDITA Araba KUWAIT Azera Una regione molto militarizzata IRAN OMAN IRAN BAHREIN QATAR EMIRATI ARABI UNITI Persiana (farsi) EMIRATI ARABI UNITI Importazioni di armi, totale in milioni di dollari Forti disparità di ricchezza Reddito annuo OMAN per abitante nel in migliaia di dollari Fonte: YEMEN Banca mondiale. 1, ,8 1. Eccetto: Siria, 2007; Bahrein, Emirati arabi uniti, Oman e Territori palestinesi, Dominio linguistico Tre grandi famiglie linguistiche Baluci Fonte: Jean e André Sellier, Atlas des peuples d Orient, La Découverte, CÉCILE MARIN

7 Le Monde diplomatique il manifesto maggio in una regione che si infiamma dello scontro fra Riyad e Tehran lo sugli obiettivi scelti dalla coalizione. Ufficialmente l Arabia saudita e i suoi partner definivano gli obiettivi da bombardare, e il Pentagono forniva loro informazioni raccolte dai suoi droni e analizzate simultaneamente nei centri operativi in Arabia saudita, Qatar e Bahrein. Ma, come fa notare l esperto della difesa Richard Stark, fornire o no delle informazioni «equivale a esercitare un diritto di veto sugli obiettivi che potrebbero essere bombardati» Questa partecipazione, sia pure indiretta, alle operazioni militari saudite alle quali si aggiungono azioni via mare per impedire l approvvigionamento di armi alle milizie houthi ha tradotto un triplice obiettivo degli Stati uniti. Il primo: ritardare il più possibile, o impedire un intervento via terra di oltre 150 mila soldati sauditi raggruppati alla frontiera yemenita. Non per spirito umanitario o pacifista ma semplicemente perché Washington teme che questa offensiva si traduca in una disfatta dell esercito saudita. Memori del precedente di novembre 2009, quando questo aveva subito delle perdite importanti dopo un primo attacco contro i ribelli houthi, i dirigenti statunitensi non vogliono vedere riprodursi questo scenario, che potrebbe condurre le loro truppe a intervenire via terra, mentre si profila la campagna per le primarie presidenziali del La cautela di Washington rispetto a un intervento terrestre è rafforzata dal fatto che i due possibili partner sembrano renitenti: l Egitto, che ha comunque partecipato alle operazioni aeree, e il Pakistan, che con grande disappunto dell Arabia saudita e delle altre monarchie del Golfo, ha deciso di restare un passo indietro rispetto alla coalizione. Paese musulmano a maggioranza sunnita, il Pakistan è un alleato militare di lunga data dell Arabia saudita. Entrambi ostili all ex-urss e all India, Riyad e Islamabad hanno rafforzato la loro cooperazione durante la prima guerra d Afghanistan ( ). Il regno wahhabita è uno dei principali donatori del Pakistan mentre quest ultimo gioca il ruolo di potenza nucleare protettrice. Sollecitati da Riyad per fare pressione in particolare sul Pakistan, gli Stati uniti hanno, finora, assunto una posizione evasiva, con grande sollievo del primo ministro pakistano Nawaz Sharif. Molto criticato dal suo alleato saudita e dagli Emirati arabi uniti (Eau), quest ultimo ha promesso di intervenire solo se l integrità territoriale dell Arabia saudita fosse minacciata. «L esercito pachistano è lo specchio del paese. Esso comprende anche sciiti e c è il rischio che la lotta per l influenza fra Riyad e Tehran lo faccia implodere», spiega il politologo e blogger pachistano Khalid Muhamad, che ritiene che il suo paese non debba sostenere un «impresa espansionista» di Riyad. Washington, cercando di convincere l Arabia saudita a privilegiare la soluzione politica e a non lanciare un operazione terrestre, persegue un secondo obiettivo che riguarda la situazione in Iraq. Durante la sua visita, al Abadi ha messo in guardia gli interlocutori statunitensi contro una tale opportunità, ritenendo che il regno wahhabita avrebbe svolto nella regione «un ruolo paragonabile a quello di Saddam Hussein quando invase il Kuwait, minacciando gli altri Stati vicini». Nel marzo 2011 l intervento saudita in Bahrein, al fine di reprimere un importante rivolta popolare prevalentemente sciita, aveva già allarmato le autorità irachene. Le aveva convinte che il loro paese, ormai sotto il controllo di un potere centrale di fede sciita, sarebbe, presto o tardi, anch esso diventato vittima di un azione militare saudita. «L ultima cosa che vogliono gli Stati uniti è un aggravamento della tensione fra sauditi e iracheni, i quali ultimi accusano i primi di aver finanziato sotto banco l Organizzazione dello Stato islamico. La crisi in Yemen lascia pensare che Riyad abbia deciso di prendere l iniziativa e di comunicare ai propri rivali che ormai bisognerà fare i conti con il regno», precisa ancora il diplomatico arabo a Washington. Il terzo obiettivo perseguito dagli Stati uniti nel loro tentativo di limitare i danni legati a un intervento in Yemen è il seguente: evitare che la regione divenga un terreno di scontri indiretti fra Arabia saudita che si proclama leader del mondo sunnita e l Iran sciita. Anche qui è il pragmatismo che prevale. Già implicata in Iraq contro truppe dell Osi, e mantenendo l opzione di un azione militare in Siria, l amministrazione Obama sa che un deterioramento della situazione porterebbe alla comparsa di nuovi focolai di violenza settaria un po ovunque in Medioriente, compreso il Golfo, regione strategica per l approvvigionamento mondiale in idrocarburi. Rischio di caos dal Libano fino all India «Un idea ricorrente nel mondo arabo è che gli Stati uniti cerchino di provocare un conflitto generale fra sunniti e sciiti per meglio consolidare il loro potere nel Golfo e in Medioriente. Nulla sarebbe più avventuroso che aprire questo vaso di Pandora. Questo potrebbe infatti seminare il caos dalle coste del Libano sino all India», ritiene il politologo Hasni Abidi, del Centro di studi e di ricerche sul mondo arabo e mediterraneo (Cerman) di Ginevra. Già in Libano, Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha più volte invitato il mondo musulmano a opporsi alle «manipolazioni e ai conflitti» creati dall Arabia saudita. Questo appello fa eco alle dichiarazioni del presidente iraniano Hassan Rohani che, durante la parata annuale delle forze armate del suo paese, non ha esitato ad accusare l Arabia saudita di finanziare il terrorismo in Siria, Libano e Iraq. Riyad è cosciente che gli Stati uniti temono l aggravarsi del braccio di ferro con l Iran. Mentre i religiosi sunniti del regno continuano a riversare sui social media le loro invettive contro gli «sciiti eretici», il principe Saud al Faysal, ministro degli esteri, ripete regolarmente che il suo paese non è impegnato «in una guerra d influenza o indiretta contro l Iran». Ha però invitato l Iran a cessare la consegna di armi ai ribelli houthi. Nel contesto regionale attuale, visto il livello di diffidenza fra Washington e Riyad, che non perdona la caduta del regime di Hosni Mubarak nel febbraio 2011 in Egitto, non è escluso che l Arabia saudita vada contro i desideri del suo protettore statunitense con un intervento di terra in Yemen. Una parte della popolazione, infiammata da un discorso nazionalista e religioso virulento, aspetta una dimostrazione di forza che possa cancellare il ricordo cocente del A rischio di sprofondare: «È quello che aspetta l Iran per affermare la sua influenza sulla regione, dice allarmato un uomo d affari saudita che lavora in Virginia. Ciò rafforzerebbe quel paese che sembra il solo ad avere una strategia coerente. Non è quindi un caso se l amministrazione Obama cerca con l'iran un accordo a ogni costo.» Sono numerosi gli esperti che ritengono che alla Repubblica islamica stia riuscendo una perfetta strategia diplomatica, almeno per ora. Oltre ad aver concluso un accordo intermedio sul nucleare, Tehran ha convinto Turchia e Pakistan a non far parte della coalizione formata dall Arabia saudita per bombardare lo Yemen. Un altra vittoria importante: la Russia ha deciso di fatto di togliere l embargo, che aveva introdotto nel 2010, su alcune armi destinate all Iran. Questa decisione rilancia l esecuzione di un contratto da 800 milioni di dollari concluso nel 2007 per la fornitura di batterie antiaeree di tipo S-300. Forte di un legame più o meno riallacciato con gli Stati uniti e l Occidente, giocando il proprio ruolo in Iraq e in Siria e approfittando dei maggiori dissensi nel campo pro-statunitense, l Iran appare, almeno a breve termine, come il grande vincitore dell evoluzione della regione. Anche se le disfatte militari del suo alleato siriano preoccupano i responsabili di Tehran. Mettendosi nel campo delle colombe, la Repubblica islamica non cessa di ricordare, con Javad Zarif, ministro degli affari esteri, che l Iran «non ha invaso nessun paese da 250 anni a questa parte». I suoi appelli alla messa in opera di un piano di pace in Yemen gli hanno permesso di guadagnare punti in un mondo arabo piuttosto ostile all intervento della coalizione, perfino fra alcuni dei suoi membri. In un contesto dove le turbolenze nate dalle rivolte del 2011 non cessano di aggravarsi (2), l Iran, seppur sciita, diventa figura di riferimento in un mondo sunnita in piena confusione. (1) Rifugiato in un primo tempo nella città portuale di Aden, il presidente Hadi, eletto nel 2012, 6 mesi dopo le dimissioni negoziate del suo predecessore Ali Abdallah Saleh, alla fine è fuggito dal paese in marzo e si è rifugiato in Arabia saudita. (2) Si legga Hicham Ben Abdallah El-Alaoui, «La cecità dei governi arabi», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio (Traduzione di Luca Endrizzi) L aumento dei pericoli 11 febbraio 2011 Dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak Marzo-maggio 2011 Scontri e proteste popolari in Arabia saudita, Kuwait e nel sultanato dell Oman. 14 marzo 2011 Intervento delle forze armate saudite e degli emirati in Bahrein. Novembre 2011 L Arabia saudita e le altre monarchie del Golfo fanno pressione sul presidente yemenita affinché lasci il potere in seguito alle manifestazioni popolari. Febbraio 2012 Unico candidato, il maresciallo Abd Rabbih Mansur Hadi è eletto presidente della Repubblica dello Yemen per due anni, un mandato prolungato di un anno nel Aprile 2012 La visita del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad all isola di Abu Musa (annessa all Iran e rivendicata dagli Emirati arabi uniti) provoca un aumento della tensione fra Tehran e le monarchie del Golfo. 3 luglio 2013 Destituzione compiuta dall esercito egiziano del presidente Mohamed Morsi eletto un anno prima. Marzo 2014 Il sostegno del Qatar ai Fratelli musulmani provoca una crisi in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) 28 maggio 2014 Il maresciallo Abd al-fattah al-sisi è eletto presidente dell Egitto con il 96,91% dei suffragi. 8 agosto 2014 Inizio dei bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati uniti contro l Organizzazione dello Stato islamico (Osi) 26 marzo 2015 Una coalizione guidata dalla Arabia saudita scatena un offensiva area contro i ribelli huthi per tentare di ristabilire il presidente Hadi. Proteste da parte dell Iran. 2 aprile 2015 Firma a Losanna di un accordo-quadro sul nucleare iraniano. Un accordo che apre il campo delle possibilità in Iran Shervin Ahmadi* L a conclusione di un accordo sul programma nucleare iraniano rappresenta prima di tutto una vittoria per Tehran. Certo, il regime ha dovuto indietreggiare su alcuni punti precedentemente considerati come non negoziabili: il numero di centrifughe e il tasso di arricchimento dell uranio. Ma ottenendo in cambio lo status d interlocutore riconosciuto dall Occidente, in particolare degli Stati uniti, la Repubblica islamica vede anche disegnarsi la prospettiva di nuove cooperazioni con i suoi ex detrattori, anzitutto sul piano economico, poi forse, più a lungo termine, negli affari militari e politici. Ciò anche se nulla è ancora definito e nonostante sussistano divergenze importanti sull interpretazione dell accordo di Losanna, in particolare per ciò che concerne il ritmo al quale verranno tolte le sanzioni. Contrariamente a ciò che ci si poteva attendere, l accordo transitorio non ha suscitato una particolare euforia fra i dirigenti iraniani: hanno dato prova di riserbo senza per questo nascondere la loro soddisfazione. Dal comandante dei guardiani della rivoluzione al capo di stato maggiore passando dal presidente del Parlamento, Ali Larijani, gli * Responsabile dell edizione in farsi di Le Monde diplomatique. alti responsabili dello Stato hanno tutti reso omaggio ai negoziatori. La Guida suprema Ali Khamenei ha preso posizione abbastanza tardivamente, ritenendo che «il testo di Losanna non garantisce per forza un accordo definitivo» e che gli iraniani «non devono farsi prendere dall entusiasmo, né rallegrarsi». Queste dichiarazioni suonano come un monito per il futuro. Ma non devono fargli dimenticare che lui stesso ha facilitato questa soluzione permettendo ai negoziatori di fare delle concessioni. Alla fine solo le fazioni più dure del regime vicine all ex presidente Mahmoud Ahmadinejad e riunite attorno a un movimento detto dei «preoccupati» (Delvapassan), hanno espresso la loro opposizione rimproverando all accordo di non difendere a sufficienza l interesse nazionale. Nel corso degli ultimi mesi, il presidente Hassan Rohani e il suo governo hanno cercato di creare, con esiti alterni, un sentimento di unione nazionale attorno ai negoziati. Nel novembre 2014, sei cineasti, fra i quali Abbas Kiarostami, Asghar Farhadi e Rakhsham Bani-Etemad hanno lanciato una campagna dal tema «Non c è peggior accordo che l assenza di accordo». Per la prima volta da più di 30 anni, degli intellettuali si impegnano in maniera ferma e positiva sulle questioni della Repubblica islamica. Allo stesso tempo le manovre dell Arabia saudita e di Israele per sabotare gli accordi di Losanna hanno contribuito a ravvivare il sentimento nazionale, per non dire nazionalista. Tuttavia inutile illudersi: la conclusione di un accordo non calmerà il sentimento di impazienza che regna nel paese. L opinione pubblica iraniana ha tra l altro accolto la conclusione dei negoziati di Losanna senza entusiasmo né ottimismo, ma con un certo fatalismo. La situazione economica resta molto difficile e, anche se il governo annuncia di avere messo sotto controllo l inflazione, gli iraniani sono vessati dall aumento quotidiano dei prezzi. Il malcontento cresce e gli scioperi si moltiplicano, in particolare nel settore dell industria automobilistica e dell educazione. Divario fra il potere e la società D altronde il riavvicinamento con l Occidente crea una nuova sfida geopolitica per l Iran. I negoziati hanno dimostrato la sagacia di questo paese in materia di politica estera. Contrariamente a numerosi suoi vicini, ha sviluppato una visione strategica regionale e internazionale coerente con la creazione di una zona d influenza che si estende dalla Cina al nord dell Afghanistan fino al Mediterraneo (1). Come continuare a gestire questa influenza senza provocare delle frizioni con gli interlocutori occidentali? Che si tratti del Libano, dell Iraq, della Siria, o dello Yemen, Tehran non modifica l essenza della sua politica estera, senza per questo mettere in pericolo gli accordi di Losanna visto che i suoi diplomatici hanno fatto attenzione a separare il dossier nucleare dalle altre questioni spinose, come il riconoscimento di Israele. Resta da sapere se questo avanzamento contribuirà a far evolvere il regime dall interno. La cattiva gestione di cui soffre il paese è strettamente legata alla storia e alla natura stessa del potere iraniano, caratterizzato dalla coesistenza di diverse correnti incapaci di imporsi l una sull altra (2). Ciò che fu un vantaggio nei primi anni della Repubblica islamica costituisce ormai un fattore d immobilismo nella misura in cui ogni cambiamento necessita di un largo consenso nelle sfere dirigenti. I profondi cambiamenti degli ultimi 30 anni hanno portato a una tensione permanente con la popolazione sulle questioni sociali. Il regime fatica sempre di più a gestire le contraddizioni fra una forma di potere di apparenza islamica e lo sviluppo di una società moderna, ampiamente urbanizzata (3). Benché abbia vinto le elezioni presidenziali del giugno 2013 al primo turno, Rohani non cerca di rimettere in discussione l ordine prestabilito. Oltre alla restaurazione di un apparato statale gravemente indebolito dagli otto anni della presidenza Ahmadinejad, la normalizzazione delle relazioni con l Occidente e la fine dell isolamento del suo paese costituiscono il suo incarico principale. Supponendo che i dirigenti iraniani, rassicurati dalle prospettive di non essere più in opposizione diretta con gli Stati uniti e l Europa, optino per il cambiamento, sarà necessario dar loro un modello da seguire. Fallito il progetto di apertura politica dei riformatori alla «Gorbaciov», il favorito sembra essere il modello cinese, politicamente chiuso ed economicamente liberista. L emergere di un capitalismo industriale in Iran resta aleatorio, in quanto l economia, pur diversificata, dipende in larga misura dagli introiti petroliferi. Inoltre l apertura annunciata del mercato iraniano non afforzerà l industria e rischia di produrre la stessa situazione di numerosi paesi produttori di petrolio: un capitalismo rentier che funge da filiale locale delle grandi società transnazionali. Da molti punti di vista, la strada del cambiamento in Iran sarà ancora lunga. (1) Si legga «Il mondo secondo Tehran», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio (2) Si legga Sharareh Omidvar, «Fraktionen und Koalitionen», Le Monde diplomatique, edizione tedesca, luglio (3) Si legga «Le pouvoir iranien per la main sur les médias», Le Monde diplomatique, luglio, (Traduzione di Luca Endrizzi)

8 8 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto UN FORNITORE DI ENERGIA VITALE PER L EUROPA Gazprom, il Cremlino e il mercato La Commissione europea ha avviato una procedura di abuso di posizione dominante contro Gazprom. Questo gigante del gas, che molti identificano come un arma al servizio della politica russa, è pur sempre un azienda in crescita all interno di un mercato sempre più concorrenziale. Per ragioni tanto economiche quanto geopolitiche, cerca di diversificare la propria clientela. CATHERINE LOCATELLI* G azprom e lo Stato russo, il cui legame è inscritto nella storia comune, intrattengono stretti rapporti ma non certo fusionali. L azienda è erede diretta del ministero sovietico dell industria del gas che nel 1989 è stata trasformata in gruppo economico di Stato, sottoposto al principio di autonomia finanziaria e di gestione. Il suo presidente Viktor Černomyrdin nel 1992 diventa primo ministro. L anno successivo, trasforma Gazprom in una società per azioni e ne ha aumentato considerevolmente il capitale. Tuttavia, lo stato è rimasto proprietario del 38% delle quote. Diventato presidente della Federazione russa nel 1999, Vladimir Putin ha riaffermato il controllo del governo su questo potente strumento geopolitico. A capo della compagnia, di cui lo Stato si è assicurato ormai il 51%, mette Aleksej Miller, a lui vicino. Controllando il 72% delle riserve (1) di un paese che detiene il 16,8% del totale mondiale (2), Gazprom è la più grande compagna di gas del mondo. Nel 2013, ha superato ExxonMobil e Shell per produzione (487 miliardi di metri cubi) e per volume di esportazione: 233,7 miliardi di metri cubi, che rappresentano il 12% dell insieme dei beni e dei servizi esportati dalla Russia. Più della metà della produzione è venduta sul mercato interno, contribuendo alla stabilità economica e sociale del paese. In virtù di un compromesso con lo Stato, la compagnia si impegna a contenere il prezzo per i consumatori russi, privati e industriali. L energia a buon mercato assume un doppio ruolo di ammortizzatore sociale per le famiglie e di sostegno indiretto alle industrie energivore. In cambio, l azienda beneficia del monopolio del trasporto e delle esportazioni attraverso i gasdotti di Gazprom export, filiale di cui è proprietaria al 100%. Le entrate provenienti dalle esportazioni sono parzialmente depositate nel bilancio statale. * Ricercatrice al Cnrs, laboratorio Pacte-Edden, Università Grenoble-Alpes. Come tutte le società russe del settore degli idrocarburi, Gazprom deve versare oltre all imposta sul reddito altri due tipi di tasse: sulle esportazioni e sull estrazione, con una maggiorazione da cui sono esenti i produttori indipendenti. Nel complesso, le compagnie di gas assicurano allo Stato il 5% delle sue entrate. Un contributo notevole, ma niente se paragonato ai proventi del petrolio, stimati intorno al 36%. Eppure, gli interessi di Gazprom coincidono solo in parte con quelli del Cremlino. L azienda si percepisce innanzitutto come un impresa e non come semplice appendice dello Stato, di cui un esempio è la società pubblica petrolifera messicana Pemex. La sua direzione, come il potere russo, se la immagina piuttosto a braccetto delle grandi società internazionali, da Shell a Exxon o a Total. Facendosi strada su mercati sempre più concorrenziali, sia interni sia esterni, la ricerca della competitività diventa cruciale. In particolare nel circuito europeo, dove realizza una parte considerevole dei suoi utili. Con una quota di mercato intorno del 30%, la Russia rappresenta la principale fonte di approvvigionamento esterna dell Unione; una fonte peraltro difficilmente sostituibile sul breve periodo, in particolare per i paesi dell Europa centrale, le cui importazioni di gas arrivano per il 70% dalla Russia. In termini di volumi importati, tenendo conto della loro grandezza, il mercato privilegiato della strategia russa è indirizzato verso Germania, Francia, Italia e Regno unito. Gazprom ha ereditato tutti i contratti Take or pay (Top) per la fornitura di gas firmati in epoca sovietica con società storiche tra cui l italiana Eni, la tedesca E.on ruhrgas o la francese Gdf-Suez. Questi contratti, di durata tra i venti e i trent anni, prevedono l indicizzazione del prezzo del gas su quello dei prodotti petroliferi, oltre a una clausola, Top, che prevede il pagamento di una fornitura minima: il consumatore si impegna ad acquistare ogni anno una data quantità a un prezzo bloccato e si espone al pagamento di una penale qualora non ritirasse la quota prevista. Questa struttura contrattuale basata sulla condivisione dei rischi e sulla stabilità dei rapporti ha assicurato la costruzione delle infrastrutture necessarie all approvvigionamento del mercato europeo a partire dai grandi giacimenti della Siberia occidentale. La maggior parte delle consegne di Gazprom all Europa è sottoposta a questa forma contrattuale anche se, puntualmente, può giocarsi la carta dei contratti a breve termine. Deve alleggerire le sue condizioni per mantenere la posizione: il mercato europeo è diventato più concorrenziale dopo l adozione delle direttive sul gas del 1996 e del 1998, seguite dal terzo pacchetto energia-clima del 2009 che intende portare a compimento l apertura del mercato dell elettricità e del gas, separando le attività di produzione e di trasporto. Dopo il 2008, la stagnazione della domanda legata alla crisi economica ha coinciso con lo sfruttamento del gas di scisto negli Stati uniti, provocando un abbondanza di gas nel pianeta. La ripercussione di questa congiuntura sui mercati basati sui contratti a breve termine ha provocato un crollo dei prezzi, mentre le quotazioni dei contratti a lungo termine più del 50% delle importazioni di gas dell Unione si sono abbassate meno drasticamente. Ne è risultata una disconnessione considerevole, ma non necessariamente duratura, tra questi due tipi di contratti. Di fronte a delle significative perdite di quote di mercato nel , Gazprom è stata obbligata a procedere a degli adeguamenti con la maggior parte dei clienti europei. Ha ridotto il prezzo di base seguendo l indicizzazione e concesso ribassi stimati tra il 10% e il 20% (3). Questa strategia di preservazione della propria competitività dovrebbe consolidarsi con l attuale riduzione dei prezzi del petrolio (oltre il 50% rispetto al giugno 2014). Dall inizio degli anni 2000, si è aperta un era più movimentata tra la Russia e l Unione europea, che fatica a definire una politica comune. Mentre South stream, le ragioni di un abbandono Durante una visita in Turchia, il 1 dicembre 2014, Vladimir Putin ha annunciato il definitivo abbandono del progetto di costruzione del gasdotto South stream, che avrebbe dovuto garantire l approvvigionamento di gas russo all Unione europea passando dalla Bulgaria e sotto il mar Nero. Per Putin, «se l Europa non vuole realizzare questo progetto, allora questo progetto non si farà. Indirizzeremo le nostre risorse verso altre regioni» principalmente l Asia. Il progetto in questione, cui partecipavano anche investitori europei (il francese Edf, l italiano Eni e il tedesco Wintershall), era stato lanciato nel 2006 per contrastare quello del gasdotto Nabucco, che avrebbe collegato i giacimenti del mar Caspio all Europa centrale, e soprattutto per aggirare l Ucraina. L abbandono del South stream è arrivato in un contesto di forti tensioni diplomatiche con l Unione europea che, nel marzo 2014, ha adottato delle sanzioni economiche contro Mosca in seguito all annessione della Crimea. Ma questa decisione rispondeva anche a una logica economica. La Russia ha preso atto dello stallo nei lunghi negoziati con la Commissione europea sull attuazione del terzo pacchetto energia. Per regolare la concorrenza, le norme comunitarie obbligano le compagnie proprietarie delle reti di trasporto del gas a metterle a disposizione di tutti i fornitori. Cessano quindi di essere prioritarie nella prenotazione della capacità di trasporto, come avvenuto finora, per l ammontare della loro partecipazione nel gasdotto. Gazprom chiedeva una deroga per poter ammortizzare l investimento necessario (circa 32 miliardi di euro). Per garantire l approvvigionamento dell Europa, ancora per molto tempo il suo primo mercato, la Russia intende sostituire il South stream con un secondo gasdotto che attraversi il mar Nero diretto verso la Turchia (Turkish stream) e che già interessa Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Qualora il passaggio dall Ucraina si rivelasse troppo incerto, l Europa dovrà andare a cercare il gas alla frontiera greco-turca, dove verrebbe collocato il terminal, costruendo costose infrastrutture nelle quali i giganti europei del gas sono reticenti a investire... per le stesse ragioni che frenano la compagnia russa. L Unione europea, dal canto suo, crede ancora nella sua capacità di rendere sicura la rotta ucraina con un accordo duraturo tra Kiev e Mosca: incoraggia l Ucraina a risolvere il contenzioso aperto, risarcendo il suo debito sul gas, e offre il suo aiuto in cambio di una liberalizzazione del settore del gas ucraino. HÉLÈNE RICHARD Krasnoyarsk, siberia, russia, Febbraio Un camion trasporta legname e barili di petrolio Gazprom la Germania ha rafforzato e assicurato il proprio rifornimento di gas proveniente dalla Russia, in particolare con il gasdotto Nord stream, i paesi baltici e la Polonia cercano di diversificare il più possibile i propri fornitori. In un contesto inasprito dai conflitti ucraini del 2006 e del 2014, a dispetto delle sanzioni europee e americane che hanno interessato il settore energetico russo, Gazprom conferma la volontà di comportarsi innanzitutto come un fornitore affidabile per l Europa. L impegno comune è stato ribadito durante i negoziati condotti dall ex commissario europeo per l energia, Günther Oettinger, destinati a trovare una via d uscita dal problema del debito di Kiev sull approvvigionamento di gas e a garantire il transito attraverso l Ucraina. Contratto a lungo termine con la Cina Ben inteso, Gazprom ha un altro asso nella manica: i costi di produzione più bassi sul mercato, anche se lo sviluppo di nuove zone di produzione potrebbe ridurre questo vantaggio comparativo. Oggi, il cuore della sua produzione si trova nella regione di Nadym pur taz, in Siberia occidentale, dove sfrutta i tre grandi giacimenti di Urengoy, Yamburg e Medvezhye. Questi «supergiganti» hanno iniziato la loro attività negli anni e, raggiungendo oggi la piena maturità, vanno in contro a una fase di decrescita della produzione. La penisola artica di Jamal, circondata dal mare di Kara, le regioni dell estremo oriente e lo sfruttamento del mare dovrebbero progressivamente prenderne il posto. Secondo Gazprom, la provincia di Jamal e la Siberia orientale da sole potrebbero coprire più del 20% della produzione nel 2020 e più del 50% nel Anche sul mercato russo Gazprom deve far fronte all aumento della concorrenza. Le compagnie di gas dette indipendenti, come Novatek, e alcune compagnie petrolifere russe, di proprietà parziale o maggioritaria dello Stato, è il caso di Rosneft, assicurano già il 27% della produzione. Su due settori importanti, l industria e le centrali elettriche, hanno iniziato a rosicchiare quote di mercato a Mezhregiongaz, la filiale di Gazprom che controlla diverse reti locali di trasmissione e di distribuzione. Lo Stato ha deliberatamente esposto la sua principale compagnia alla concorrenza, confidando nelle virtù del mercato per tenere a freno il gigante del gas, spesso definito uno «Stato nello Stato». Se mai fossero sorti dei dubbi sulla capacità di Gazprom di aprirsi a nuovi mercati, questi si sono dissolti con la firma di un contratto a lungo termine con la Cina national petroleum corporation (Cnpc), nel maggio 2014, di considerevole portata economica e strategica in un contesto di forti tensioni con l Unione europea sulla questione ucraina. Quest orientamento è stato confermato nel dicembre 2014 dalla decisione di abbandonare il progetto di costruzione del gasdotto South stream, che avrebbe dovuto collegare la Siberia all Europa, passando dal mar Nero, per finire in Bulgaria. Mosca oggi gli preferisce un tracciato verso la Turchia, che molti paesi sono pronti a prolungare, dalla Grecia all Ungheria, passando per la Macedonia e la Serbia (si legga la scheda sotto). In Asia, sono coinvolti anche i mercati giapponese e sudcoreano. Certo, l accordo sino-russo riguarda volumi relativamente limitati (38 miliardi di metri cubi all anno per trent anni), ma indica una netta svolta verso oriente e si somma alle esportazioni di gas naturale liquefatto (gnl) proveniente da Sachalin. Circa 400 miliardi di dollari (380 miliardi di euro) per trent anni di fornitura: il valore del contratto fornisce una prima indicazione di quale potrebbe essere il prezzo del gas esportato verso la Cina, anche se le sue clausole sono strettamente confidenziali. La tariffa potrebbe aggirarsi tra i 360 e i 430 dollari (335 e 402 euro) per migliaio di metri cubi, un prezzo competitivo se confrontato con i principali concorrenti che sono il Gnl e il gas turkmeno. Queste esportazioni richiederanno la costruzione di un nuovo gasdotto, il Power of Siberia, che colleghi il giacimento di Chayandinskoe (Jacuzia) a Vladivostok passando per Chabarovsk, sulle rive del fiume Amur. Gazprom ha inoltre previsto di sviluppare alcuni progetti riguardanti il Gnl, uno dei quali da Vladivostok al Giappone. Sul medio periodo, la Russia potrebbe esportare in un anno verso l Asia più di 100 gigametri cubi. Nuove zone di produzione sono state individuate in Siberia orientale e in Estremo oriente. Oltre a Chayandinskoe, dovrebbe prendere avvio lo sfruttamento di altri giacimenti, come a Kovitka, nella regione di Irkutsk, o a Talakan, nella repubblica di Sakha (4). Le esportazioni verso l Asia fanno parte di un programma più vasto adottato nel 2007, che punta a sviluppare un sistema di produzione e di trasporto (gasdotti) nella Siberia orientale e in Estremo oriente. A breve, potremmo vedere la Russia e Gazprom diventare artefici della concorrenza tra Europa e Asia e arbitrare tra i due mercati, in funzione dei prezzi. L Asia senza dubbio ha molto da guadagnarci, a fronte di un Europa che potrebbe avere molto da perdere. (1) Secondo Gazprom. (2) Riserve certe alla fine del 2013 secondo British petroleum, Statistical review of world energy, Londra, giugno (3) James Henderson e Simon Pirani, The Russian Gas Matrix: How Markets Are The Driving, The Oxford Institute for Energy Studies, (5) Keun-Wook Paik, Sino-Russian Oil and Gas Cooperation: The Reality and Implications, The Oxford Institute for Energy Studies, (Traduzione di Alice Campetti) ILYA NAYMUSHIN/REUTERS

9 Le Monde diplomatique il manifesto maggio ECONOMIA CIRCOLARE O RICICLAGGIO TOSSICO? Il Mediterraneo avvelenato In nome della tutela dell occupazione, la fabbrica di allumina delle Bouches-du-Rhône ha beneficiato di una lunghissima moratoria per porre fine allo scarico di fanghi rossi nel Mediterraneo. Vent anni dopo, l inquinamento rimane alto e i posti di lavoro sono sempre più minacciati dalla mancanza di soluzioni a lungo termine. I documenti che abbiamo raccolto dimostrano l importanza della questione sul fronte sanitario. «Oggi, qui, ne abbiamo tutti abbastanza della situazione. È la migliore tecnica conosciuta attualmente sul mercato. L azienda ha investito somme colossali per ridurre il suo impatto ambientale. Alteo si è dotata di nuove macchine per raccogliere le polveri e bagniamo sistematicamente i nostri prodotti per evitare che ci sia una dispersione nell aria delle particelle». un inchiesta di BARBARA LANDREVIE * A rsenico, uranio 238, torio 232, mercurio, cadmio, titanio, soda, piombo, cromo, vanadio e nickel sono alcuni dei componenti dei «fanghi rossi» riversati ogni giorno a centinaia di tonnellate nel mar Mediterraneo. Una canalizzazione, costruita nel 1966, scarica questi rifiuti a sette chilometri dalle coste, nel cuore di una zona particolarmente ricca di biodiversità, che dall aprile 2012 è diventata il parco nazionale delle Calanques. In mezzo secolo, quasi trenta milioni di tonnellate sono stati versati a duecentocinquanta metri di profondità, disperdendo le loro sostanze tossiche dal golfo di Fos fino alla rada di Tolone e andando a raggiungere le acque inquinate del Rodano. Questi fanghi provengono dall industria dell alluminio, che in questa regione ha una storia antica: la bauxite, minerale di alluminio, è stata scoperta nel 1821 a Beaux-de-Provence. Il processo Bayer, messo a punto a partire dal 1893, consiste nello sciogliere l allumina, contenuta al suo interno, per mezzo della soda, producendo una grande quantità di residui tossici caratterizzati dal colore rosso. La fabbrica oggi appartiene alla società Alteo, primo produttore mondiale di allumina destinata a usi diversi dalla produzione di alluminio, che esporta ogni giorno più di milleduecento tonnellate di prodotti finiti, necessari in particolare alla realizzazione di schermi piatti a cristalli liquidi e di tablet. In un territorio in cui il lavoro diventa sempre più raro, Alteo assicura quattrocento posti di lavoro diretti e più di un migliaio di condotto. Da Marsiglia a Cassis, i pescatori recuperano reti tinte di rosso e pesci pieni di metalli pesanti. Alcune specie sono completamente scomparse. Eppure, il «crimine» era già stato denunciato nel 1963, dal celebre biologo Alain Bombard, all epoca del progetto di canalizzazione. L oceanografo in pensione Gérard Rivoire si preoccupava anche dell esposizione radiologica: «La naturale radioattività del Mediterraneo è di 12 becquerel per litro; quella dei fanghi all uscita dal tubo supera i 750 Bq/l. Rappresenta un rischio altissimo per la fauna marina e per la catena alimentare». In visita da Emmanuel Macron Alteo contesta questa analisi. Alcuni studi finanziati dall azienda dimostrerebbero l «assenza di un impatto significativo di residui sugli animali acquatici, anche in profondità (1)». Le battaglie tra i tecnici e l identità dei loro sponsor evidenziano la difficoltà di far valere l interesse pubblico sulle questioni ambientali e sanitarie. «Da vent anni avrebbero dovuto mettersi a norma», insorge Corinne Lepage. Ministro dell ambiente nel 1995, aveva dato tempo fino al 31 dicembre 2015 per la sospensione degli scarichi. Non faceva che onorare la firma da parte della Francia della Convenzione per la protezione del mar Mediterraneo contro l inquinamento, adottata a Barcellona nel 1976 e rafforzata nel Giocando su un conto alla rovescia stringente, la società spera di imporre la sua soluzione: separare gli elementi solidi dai liquidi di questi fanghi grazie a un sistema di filtri-pressa per valorizzare questi scarti. I fanghi rossi, miracolo dell «economia circolare», sono trasformati in Bauxaline, una materia prima * Giornalista. stagna utilizzata nelle opere di riempimento. Nel maggio 2014, la società Aluminium pechiney, proprietaria della canalizzazione, ha chiesto alla prefettura una nuova concessione di trent anni per l opera, mentre Alteo reclama una modifica nelle condizioni di sfruttamento della sua fabbrica di Gardanne: al posto della cessazione totale dell emissione di scarichi, spera di ottenere l autorizzazione a riversare in mare ottantaquattro tonnellate all anno di effluenti liquidi. L 8 settembre 2014, il consiglio di amministrazione del parco nazionale delle Calanques ha provocato vive reazioni in seguito all approvazione di questa richiesta con trenta voti favorevoli e sedici contrari. Tuttavia, ha espresso diverse riserve: innanzitutto ha segnalato la necessità di un controllo continuo degli scarichi e dello stato della canalizzazione da parte di un comitato indipendente. Un parere non conforme avrebbe probabilmente portato alla chiusura della fabbrica, molto temuta dalle amministrazioni locali che non si erano però preoccupate per tempo né delle conseguenze sanitarie né dei rischi della delocalizzazione. Di fronte alle proteste, il ministro dell ecologia Ségolène Royal ha ordinato tre perizie e, in un comunicato del 19 settembre, ha ricordato che «l obiettivo è l azzeramento dei rifiuti di arsenico e di metalli pesanti in mare». Il primo a consegnare le proprie analisi è stato l Ente pubblico di ricerca geologica e mineraria (Bureau de recherches géologiques et minières, Brgm) (2): gli effluenti residuali non rispettano, per sette parametri, i valori limite fissati nel 1998 dal decreto ministeriale sui rifiuti liquidi emessi nell ambiente dalle strutture classificate (3). Suggerisce delle soluzioni combinate che ridurrebbero in maniera sensibile gli scarichi ma «richiederebbero molti anni per essere avviate» e, sulla proposta di Alteo, conclude: «È l unica soluzione operativa entro la fine del 2015 che non mette in discussione la continuità dell attività industriale». «Non ci aspettavamo molto di più dal Brgm», afferma Michèle Rivasi, eurodeputata del gruppo Europe écologie-les verts (Eelv), che dal 2010 è impegnata insieme al collega José Bové nell esigere la sospensione degli scarichi. Il Brgm difficilmente può essere visto come un ente indipendente, figurando tra i partner di Alteo per la commercializzazione della Bauxaline nell ambito di un progetto europeo rinominato «Bravo» (4) cosa che difficilmente Royal poteva ignorare. Dal canto suo, l Istituto francese di ricerca per lo sfruttamento del mare (Ifremer) indica che il Mediterraneo «sembra contaminato dal mercurio al pari degli oceani (5)», né più né meno. Lo studio, tuttavia, sottolinea che il canyon sottomarino di Cassidaigne, dove sbocca la canalizzazione, presenta una concentrazione di mercurio «da due a otto volte superiore al valore di riferimento geologico» e raccomanda di raccogliere ulteriori informazioni nella zona di scarico. Mentre l industriale si barrica dietro le inchieste da lui finanziate per dichiarare «l innocuità generale dei residui reperiti in mare», le conclusioni dell Agenzia nazionale per la sicurezza dell alimentazione, dell ambiente e del lavoro (Anses) appaiono ben più critiche sulla questione e sostengono che il numero limitato di dati forniti da Alteo rende le interpretazioni «molto difficoltose» (6). Gli esperti sanitari raccomandano di realizzare nuove campagne di pesca, di determinare la reale composizione dell effluente futuro e di caratterizzare la concentrazione di contaminanti associati alla trasformazione della bauxite. Lo scorso 7 aprile, dopo aver ricevuto questo rapporto, Royal ha bloccato l inchiesta pubblica sui progetti di Alteo e chiesto nuove analisi, questa volta sottoposte al controllo dell Anses. Allarmata dalle condizioni di deposito dei residui minerari, il ministro ha inoltre chiesto al prefetto di intervenire sullo stesso sito produttivo. Il mare, i bagnanti, i pesci e chi li mangia non sono i soli esposti ai pericoli della contaminazione. La preoccupazione cresce anche nei dintorni del sito di Mange-Garri, in un comune vicino a Gardanne. Da decenni, i rifiuti tossici industriali vengono stoccati qui. Grazie a un autorizzazione prefettizia del 16 novembre 2012, la Bauxaline può esservi depositata fino al Ma, nel gennaio scorso, colpo di scena: il sindaco di Bouc-Bel-Air proibisce agli abitanti a ridosso del sito di bere l acqua dei loro pozzi, di utilizzarla per annaffiare e anche per riempire le piscine. Alteo ha appena segnalato l inquinamento di una fonte, alfine di «prevenire qualsiasi possibile rischio per la salute». In mancanza di studi affidabili, Le Monde diplomatique ha fatto analizzare dei campioni nel laboratorio di tossicologia biologica e farmacologica dell ospedale Lariboisière a Parigi. L acqua è stata raccolta il 31 gennaio 2015 in tre punti: alla fonte, in un pozzo privato e all uscita del tubo in cui la fabbrica riversa le sue acque pluviali nella Luynes, il fiume più vicino. Sono presenti gli stessi elementi dei fanghi rossi, compreso l uranio 238. Le analisi che abbiamo richiesto rilevano delle concentrazioni di alluminio molto maggiori di quelle ammesse dalla normativa. Le percentuali sono superiori a quelle dichiarate in un documento provvisorio su prelievi effettuati il 3 e il 4 febbraio 2015 da Antea group per conto di Alteo. Anche le acque pluviali trasportano grandi quantità di arsenico (7), dimostrando l assenza di impermeabilità nel deposito di Mange-Garri. Altra preoccupazione: la radioattività del sito è dalle tre alle cinque volte superiore rispetto alla radioattività naturale. Nel 2006, l industriale aveva assegnato alla società Algade un incarico per lo studio dell impatto sull ambiente (8). L inchiesta aveva concluso che l esposizione dell uomo a questa radioattività non poteva superare il decimo del valore ammesso dalla normativa francese. Per Alteo, questi residui non sono più radioattivi di alcune rocce, come il granito. Ma gli effetti sulla salute possono essere molto diversi in caso di inalazione di radionucleidi attraverso le polveri dei fanghi rossi. Nel novembre 2014 dei campioni sono stati esaminati da un laboratorio indipendente, la Commissione di ricerca e di informazione indipendenti sulla radioattività (Criirad), e le conclusioni Jean-michel folon Mediterranée, 2001 indicavano (9): «Nei rifiuti analizzati si rilevano tenori nettamente superiori alla media della crosta terrestre per l uranio e i suoi discendenti (circa 140 Bq/kg); il torio 232 e i suoi discendenti (circa 340 Bq/kg)». Certo, questi risultati non si discostano troppo dalle misurazioni dichiarate da Algade. Ma le deduzioni proposte dalla Criirad sono molto diverse. Tenendo conto delle insufficienze metodologiche sul tipo di radioelementi individuati e la mancata analisi sull ingestione della polvere, non ci sarebbero certezze sull innocuità dell esposizione degli abitanti: l effetto può associarsi alla contaminazione chimica, e gli impatti sul lungo periodo sono sottostimati. D altra parte, lo studio di Algade non dimostra l assenza di radon 222, di piombo o di polonio 210, particolarmente radiotossici in caso di ingestione. Rimborso sulle fatture dell acqua Per il riciclaggio della Bauxaline, bisognerà tenere conto della nuova direttiva europea, in via di recepimento (10), che obbliga a considerare le concentrazioni di torio e uranio. La Commissione europea autorizza la commercializzazione per concentrazioni con un indice inferiore o uguale a 1. Secondo la Criirad, l indice della Bauxaline sarebbe compreso tra 2 e 4. Per venderla a costruttori di strade o di opere d arte, Alteo dovrà imperativamente ridurne la radioattività, mischiandola con altri substrati. Se aggiungiamo il costo del trasporto, il progetto rimane sempre fattibile? Quando a inizio aprile i dirigenti di Alteo sono venuti a conoscenza della richiesta di studi complementari e del rinvio dell inchiesta pubblica probabilmente all autunno si sono recati immediatamente dal ministro dell economia Emmanuel Macron per spiegare le proprie ragioni. Al termine di quest incontro, Eric Duchenne, numero due dell azienda, affermava che la chiusura della fabbrica non era all ordine del giorno. A ogni modo, la Bauxaline seduce i politici locali. Di qualsiasi fazione siano, generalmente si accontentano degli studi presentati dalla società, nonostante le associazioni ecologiste e i pescatori ne abbiano da anni denunciato l inaffidabilità. Uno dei deputati più collaborativi, eletto nelle Bouches-du- Rhône dalle liste di Eelv, è François- Michel Lambert. Il riciclo dei fanghi in materiale da costruzione diventa una soluzione emblematica per l Istituto di economia circolare, che presiede. E che, a fianco di numerose altre aziende, da Edf a Vinci o Veolia, si è unito allo stabilimento di Gardanne. «In tutto, abbiamo investito una trentina di milioni di euro», sottolinea Duchenne. L investimento nei tre filtri pressa è una rassicurazione per i sindacati, anche se l aria che tira in fabbrica «non è delle migliori», secondo Brigitte Secret, delegata sindacale Cfe-Cgc: Un lavoratore che ha chiesto di mantenere l anonimato è più circospetto: «È molto difficile conoscere la verità. Da dipendenti di Alteo, non vogliamo né metterci in pericolo né diventare degli inquinatori professionali, è evidente. Ma penso che i lavoratori accettino di non conoscere tutta la verità per poter continuare a lavorare. Non vogliono sentire un giorno che bisognerà chiudere la fabbrica perché ci sono dei rischi per la nostra salute. Perché se la fabbrica chiuderà migliaia di persone in un colpo solo si troveranno disoccupate!» In realtà, i tre filtri pressa destinati alla disidratazione dei fanghi sono stati finanziati per metà dalla società dell acqua Rhône-Méditerranée-Corse. Un bel regalo a cui si aggiunge un rimborso sulle fatture dell acqua, passate da 13 milioni di euro ad appena 2,6 milioni nel Quand era ancora deputato, nel 2012, l attuale sindaco di Bouc-Bel-Air, Richard Mallié (Ump), è stato il promotore di un emendamento su misura che ha inserito questo sconto in una rettifica alla finanziaria. «Bisognava pur salvare la fabbrica», si giustifica oggi. Questa società che ha saputo attirare a sé tanti favori, in origine apparteneva a Aluminium pechiney, che è rimasta proprietaria delle infrastrutture. Dopo la cessione di Pechiney ad Alcan, a sua volta passato nelle mani di Rio tinto quattro anni dopo, è stata assorbita dal gruppo americano Hig capital. Quest ultimo fa parte della galassia di fondi di investimento che hanno attivamente sostenuto la campagna del repubblicano Willard («Mitt») Romney contro Barack Obama alle elezioni presidenziali americane del 2012 (11). In attesa dei supplementi di inchiesta sull ambiente sollecitati dal ministro dell ecologia, il nodo della salute pubblica rimane il più difficile da sciogliere. La dispersione nell aria di elementi tossici preoccupa gli abitanti che, quando si alza il maestrale, soffocano letteralmente. Visitando le loro case, si possono vedere le tracce di questa polvere rossa che si insinua dappertutto. Stando ai nostri calcoli, dei venti abitanti che vivono a ridosso del deposito di fanghi, otto hanno il cancro, una ha la Sla e cinque soffrono di problemi di tiroide. Dopo mesi di richieste dai suoi elettori, il sindaco di Bouc-Bel-Air ha finalmente interpellato il ministero della sanità per l avvio di un inchiesta. L Agenzia regionale per la salute (Ars), quanto a lei, rifiuta di consegnare le proprie cifre di morbosità per cancro nei comuni di Gardanne e Bouc-Bel-Air. E il medico del lavoro che si occupa dei dipendenti della fabbrica non è certo più loquace... (1) Domande-risposte su (2) «Usine d alumines de spécialités d Alteo Gardanne. Tierce expertise...», rapporto finale del Brgm, Orléans, dicembre (3) N.d.T. Seguendo il dispositivo nazionale Icpe che individua le installazioni censite per la salvaguardia dell ambiente. (4) Bauxite residue and aluminium valorisation operations, progetto sostenuto dalla Commissione europea. (5) Perizia sulla «Contamination significative historique en milieu marin en Méditerranée...», Ifremer, Issy-les-Moulineaux, 23 gennaio (6) Sostegno scientifico e tecnico dell Anses, informativa n SA-0223, Maisons-Alfort, 2 febbraio (7) L alluminio è neurotossico. L arsenico è cancerogeno, responsabile di disturbi digestivi e di problemi riproduttivi. (8) Algade proviene dall ex-cogema, oggi Areva. (9) Rapporto pubblicato sul sito Hexagones.fr, dicembre (10) Direttiva 2013/59/Euratom. (11) «Vote counting company tied to Romney», Free press, 27 settembre 2012, org (Traduzione di Alice Campetti)

10 10 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Rappresentazioni che oscillano Quarant anni di immigrazione continua dalla prima pagina Commentando la sua decisione, i media si sono concentrati sulle sofferenze umane e sulla repressione poliziesca, senza veramente interrogarsi sulle cause dell immigrazione. Tuttavia oggi più che mai è necessario aprire su questo fenomeno un ampio dibattito politico, suscettibile di sfociare in una politica adeguata. Diventa quindi importante sapere quali sono gli angoli morti nella maniera in cui esso viene trattato. Per questo motivo, abbiamo svolto un analisi sistematica di 22 dei principali media francesi e statunitensi, tentando di distinguere i diversi angoli d approccio (si legga il riquadro). I dibattiti sul tema sono molto cambiati nel corso degli ultimi 40 anni. All inizio degli anni 70, negli Stati uniti, i sindacati e il potere repubblicano fanno fronte comune contro l immigrazione illegale. L ex marine Leonard Chapman, nominato dal presidente Nixon a capo del servizio americano di immigrazione e naturalizzazione (oggi integrato al dipartimento della sicurezza interna), si preoccupa dei rischi di «invasione». L American Federation of Labor- Congress of Industrial Organizations (Afl-Cio), la principale confederazione sindacale, ritiene che la manodopera messicana minacci i salari e le condizioni di lavoro degli statunitensi. César Chavez, il leggendario sindacalista californiano, organizza degli barricate per impedire che i lavoratori agricoli provenienti dall altra parte della frontiera non infrangano lo sciopero. Il Los Angeles Times del 3 luglio 1975 proclama in prima pagina: «Secondo alcuni responsabili americani, i datori di lavoro preferiscono una manodopera che possono sfruttare e pagare una miseria». Nel corso dei decenni successivi, le pressioni economiche sui lavoratori statunitensi si sono notevolmente accresciute. Tuttavia, non ha smesso di perdere terreno l idea che gli immigrati occupino i posti di lavoro degli statunitensi e contribuiscano al ribasso dei salari. Nel , essa compariva nel 47% delle informazioni relative all immigrazione riportate nell insieme dei media; nel periodo il livello è sceso all 8% (2). L economista ed editorialista del New York Times Paul Krugman rimane uno dei rari analisti a tenere conto di questo aspetto (3). Questa evoluzione riflette la riconfigurazione che lo scacchiere politico statunitense ha conosciuto tra gli anni 70 e la metà degli anni 80. Desiderosi di ingrossare le loro fila, numerosi sindacati sono portati a rivedere la loro opposizione all immigrazione clandestina. Sono incoraggiati in questo senso dalle organizzazioni che nascono alla fine degli anni 60 e si affermano durante i due decenni seguenti: ad esempio il National Council of La Raza o il Mexican American Legal Defense and Education Fund (Maldef). Questi gruppi denunciano le molteplici discriminazioni che subiscono i latinos e gli asiatici negli Stati uniti. Necessaria, questa azione ha portato a far diminuire, nei media, il dibattito sulle cause economiche dell immigrazione e sulle conseguenze dei bassi salari degli stranieri, a vantaggio di notizie sulla xenofobia. In Francia, questi temi emergono a partire dagli anni 70, per poi affermarsi all inizio del decennio successivo: il razzismo nei confronti dei lavoratori stranieri nel 1973 appariva nel 46% dei reportage contro il 25% del periodo Questa forte presenza va di pari passo con un attenzione crescente accordata alla questione della diversità culturale. Quest ultima figura nella metà degli articoli pubblicati da Liberation nel «In Francia, bisognerà imparare a vivere in una società multiculturale», affermava un editoriale del quotidiano (4). Poi, a seguito del successo del Fn in occasione delle elezioni municipali a Dreux, nel 1983, e in risposta all offensiva anti-immigrati lanciata dalla stampa di destra, i giornali vicini al partito socialista cambiano registro e relegano la questione della diversità culturale dietro a quella dell «integrazione» dei nuovi venuti nella «comunità nazionale». «Avevamo bisogno di creare una base solida per opporci al Front national e mostrare che la difesa degli immigrati faceva parte della tradizione repubblicana francese, spiega Laurent Joffrin, all epoca caporedattore di Liberation. Siamo arrivati alla conclusione che la problematica dell uguaglianza dei diritti era più efficace che il discorso sul diritto alla differenza (5).» Ledelle Moe, Congregation, 2006 Gli effetti di questa svolta furono immediati e continuano a farsi sentire 25 anni più tardi: tra il 2002 e il 2006, in tutti i media francesi, la tematica dell «integrazione» soppianta quella della «diversità culturale» (il 20% di fronte all 8%); nei giornali, la «coesione nazionale» appare nel 42% degli articoli. Negli Stati uniti, questo tasso è tre volte più basso: in un paese condizionato da un economia di mercato sempre più frammentata, la questione della «coesione nazionale» non dice molto ai dirigenti politici e a una parte dei loro elettori. La sinistra democratica si mostra molto sensibile alle rivendicazioni comunitarie, mentre la destra repubblicana si trova incastrata tra i suoi sostegni finanziari (molte aziende sono favorevoli a un immigrazione libera) e i suoi elettori, spesso ostili agli immigrati. I dirigenti politici preferiscono quindi formulare il problema in altri termini. In Francia, al contrario, l esistenza di uno Stato sociale relativamente forte permette alla nozione di comunità nazionale di conservare il suo senso. Mano a mano che la protezione sociale si affievolisce, i media sembrano voler ricorrere alla coesione culturale per riempire il vuoto. All inizio degli anni 80, questo tema era difeso soprattutto dal Fn e da giornali come Le Figaro e Le Figaro Magazine. Ma, nella massa dei servizi sull immigrazione, risultava minoritario. In seguito i principali partiti di governo si sono convertiti a questo discorso, relegando in secondo piano quello del razzismo e delle discriminazioni. L ascesa del Fn non si è interrotta, e gli immigrati e i loro discendenti, in particolare neri e arabi, continuano a subire discriminazioni, anche se i giornalisti ne parlano meno di trent anni fa. Trascurando le questioni di economia e di razzismo, i media statunitensi e francesi si focalizzano sempre di più da una parte sul tema dell ordine pubblico e della sicurezza (nel corso degli anni 2000, il 62% dei reportage negli Stati uniti e il 45% in Francia) e dall altra sull aspetto «umanitario» (nello stesso periodo, il 64% negli Stati uniti e il 73% in Francia). Spettacolari, semplici e molto attraenti queste due prospettive presentano il vantaggio di accordarsi con il discorso delle associazioni e degli organismi di Stato ostili o favorevoli agli immigrati. Soddisfano una doppia esigenza commerciale e politica. Criticare l immigrazione clandestina costituisce, per un giornale o per un canale televisivo, una formula commerciale vincente, perché, come scrive il sociologo Todd Gitlin, «l archetipo della storia mediatica è una storia di crimine (6)». Il tema dell ordine pubblico fa a meno delle spiegazioni e può essere affrontato a colpi di immagini shock: sommosse, polizia, valichi di frontiera, armi, fughe-inseguimenti e arresti. Ma esiste anche un altra spiegazione alla recrudescenza di questa prospettiva. I giornalisti francesi e, ancora di più, statunitensi, raccolgono spesso le loro informazioni presso fonti ufficiali: ministeri, comuni, amministrazioni, polizia, ecc. Le loro preoccupazioni tendono quindi ad allinearsi su quelle dei rappresentanti dello Stato e dei dirigenti politici. E poiché i governi considerano spesso l immigrazione in termini di minaccia per l ordine pubblico, i giornalisti sono incitati a fare lo stesso. In questo senso, si possono notare delle variazioni significative in funzione dell attualità politica: nel 2002, sulla scia degli attentati dell 11 settembre, mentre sia i repubblicani che i democratici non avevano in bocca che la parola «sicurezza», la prospettiva dell ordine pubblico appariva nel 64% dei servizi; nel 2004 questa proporzione era scesa al 53% (cioè circa allo stesso livello del 1994), prima di risalire al 62% nel 2005, al momento del voto della legge HR 4437 che criminalizzava i clandestini. In Francia, la tematica dell ordine pubblico emerge all inizio degli anni 80, in relazione al discorso sulla «crisi delle banlieues», poi arriva al culmine all inizio degli anni 90, quando viene ripresa dai due principali partiti politici. Nel 1991, il primo ministro socialista Edith Cresson parlava ad esempio di noleggiare degli aerei per deportare i clandestini. A partire dagli anni 2000, quando i governi successivi si riorientano sull integrazione e la coesione nazionale, la frequenza del tema securitario diminuisce. L approccio umanitario dal canto suo si è progressivamente generalizzato in entrambi i lati dell Atlantico, dove è difeso da numerose associazioni: diploteca plus Women, Terrorism, and Trauma in Italian Culture Ruth Glynn Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2013, 82,99 euro Women, Terrorism, and Trauma in Italian Culture di Ruth Glynn propone un analisi della produzione culturale italiana che, dagli anni Settanta a oggi, ha affrontato il tema del contributo delle donne alla lotta armata a partire dai cosiddetti «anni di piombo». La tesi centrale del libro è quella secondo cui la cultura italiana è stata caratterizzata da un tentativo talmente sproporzionato e ansioso di spiegare la partecipazione femminile alla violenza politica che i suoi prodotti possono essere letti come sintomatici di un trauma culturale e collettivo associato all idea che la violenza possa essere perpetrata «anche» dalle donne. Unendo i contributi psicoanalitici e sociologici provenienti dalla Teoria del trauma con gli Studi di genere, l autrice propone una prospettiva molto originale dalla quale osservare quella «amnesia difensiva» che la cultura italiana ha sviluppato nei confronti dell esperienza della violenza politica. Senza mai perdere di vista il contesto sociale, culturale e politico di riferimento, Glynn realizza una disamina molto puntuale delle strategie pratiche e retoriche attraverso le quali sono state raccontate le vite e le storie delle militanti politiche italiane che hanno scelto la lotta armata, mettendo in luce il ruolo determinante dei mezzi di comunicazione nel processo di formazione e trasformazione delle percezioni collettive di un fenomeno sociale. L esplorazione della produzione culturale italiana inizia con un analisi degli articoli apparsi nei principali organi di stampa degli anni Settanta per poi estendersi alle rappresentazioni cinematografiche della metà degli anni Ottanta, alle narrazioni autobiografiche scritte negli anni '90 dalle ex militanti politiche e ai film e alla letteratura incentrati sulle vittime e i superstiti della violenza politica. Ricercando il significato psicologico nascosto dietro le rappresentazioni culturali delle donne che hanno scelto la lotta armata, Glynn rileva in tutti i media presi in esame una comprensione antitetica della relazione che intercorre tra le donne e la violenza. Le uniche «voci fuori dal coro» sono le autobiografie delle ex militanti la cui analisi arricchisce le riflessioni di Glynn sul trauma culturale, facendo emergere problematiche legate al genere e alla sessualità in virtù delle quali il progetto di narrazione del proprio passato può trasformarsi in un occasione per «riscrivere il Sé». Le tematiche affrontate in questo volume possono costituire un punto di partenza per approfondire questioni che oltrepassano i confini del lascito della violenza politica e invitano a valutare l impatto della cultura e della comunicazione sulle relazioni di genere, sulle ansie sociali e sulla psicologia collettiva. Santina Musolino La nostra inchiesta si fonda sulla consultazione di diverse migliaia di articoli e di servizi televisivi dedicati alla questione dell immigrazione in Francia e negli Stati uniti, dall inizio degli anni 70 fino alla metà degli anni In Francia, Le Monde, Libération, Le Figaro, Les Echos, L Humanité, La Croix, Le Parisien, e i telegiornali di TF1, France 2 e Arte sono stati studiati sistematicamente. Dall altra parte dell Atlantico, l analisi è stata svolta sul New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, Wall Street Journal, Christian Science Monitor, New York Post, Usa Today, Daily News, e sui telegiornali di Abc, Cbs, Nbc e Pbs (1). Questo campione comprende dei media politici, finanziari e popolari, comparabili in ciascuno dei paesi. In seguito abbiamo studiato le prospettive adottate dai giornalisti. Piuttosto di riprendere la dicotomia forzata tra partito preso e oggettività, la questione della prospettiva (frame) mette l accento sul fatto che essi selezionano e amplificano certi aspetti della realtà a scapito di altri. Si possono raggruppare queste prospettive in diverse categorie. Tre di esse dipingono gli immigrati come delle vittime. La prospettiva «umanitaria» mette in risalto le difficoltà economiche, sociali e politiche che essi affrontano. La focalizzazione sul razzismo e sulla xenofobia attira l attenzione sugli attacchi e le discriminazioni subite in relazione alla loro appartenenza nazionale, culturale o religiosa. La prospettiva dell «economia mondiale» inscrive l immigrazione in un contesto più ampio interessandosi alla povertà a livello internazionale, al problema del sottosviluppo e delle disuguaglianze di cui la migrazione dal sud verso in nord è un sintomo. Approcci molteplici Quattro prospettive presentano gli immigrati come una minaccia: quella del lavoro, che li accusa di occupare i posti di lavoro degli statunitensi o di far abbassare i salari; quella dell ordine pubblico, che mette l accento sulla sicurezza; la prospettiva fiscale, che si preoccupa del costo presunto per i contribuenti in materia di sanità pubblica e di educazione; e infine quello della coesione nazionale, che associa le differenze culturali (tradizione, religione, lingua) di cui sono portatori a una minaccia per l unità nazionale e l armonia sociale. Le ultime tre prospettive elevano i migranti a figure eroiche. L approccio che passa per la diversità culturale mostra che le differenze costituiscono un valore aggiunto per la comunità nazionale. La prospettiva dell integrazione mette in primo piano quelli che si adattano alla società di accoglienza, tanto da un punto di vista civico che culturale. Infine, la prospettiva del «buon lavoratore» si basa sul principio che «fanno il lavoro che nessun altro vuole» (senza considerare i fattori dissuasivi per gli autoctoni, come i salari ridotti). Ciascuna di queste prospettive suggerisce una risposta diversa alla questione dell immigrazione. R.B. (1) Il lavoro di consultazione realizzato per il periodo è stato completato da un analisi qualitativa per il periodo Le conclusioni di questa inchiesta sono confortate da altri studi più recenti. Cfr. ad esempio Erik Bleich, Irene Bloemraad e Els de Graauw, «Migrants, minorities and the media», Journal of Ethnic and Migrations Studies, vol. 41, n 6, Brighton, (Traduzione di Filippo Furri)

11 Le Monde diplomatique il manifesto maggio a discrezione del calendario politico nei media in Francia e negli Stati uniti France terre d asile, la Cimade, la Ligue des droits de l homme o ancora Amnesty International in Francia; La Raza, le Maldef, l Immigrants Rights Project dell American Civil Liberties Union (Aclu) o il National Immigration Forum negli Stati uniti. Mentre le associazioni francesi vivono essenzialmente di sovvenzioni pubbliche e di contributi dei propri aderenti, i loro omologhi statunitensi sono finanziati da un alleanza eteroclita che riunisce piccoli donatori sensibili ai diritti umani, la chiesa cattolica e alcune potenti fondazioni (Ford, Carnegie, MacArthur), così come da banche, imprese di costruzione e diverse multinazionali che hanno tutto l interesse a preservare una risorsa di manodopera a basso costo. Come il tema dell ordine pubblico, anche l approccio umanitario permette di attirare l audience. Negli Stati uniti, corrisponde bene alla scrittura narrativa e personalizzata che fa faville nei media. Utilizzato bene, questo stile può restituire in modo efficace l esperienza dei migranti e sensibilizzare i lettori-spettatori rispetto a contesti sociali a loro estranei. L esempio più celebre di questo approccio è senza dubbio «Enrique s Journey» («Il viaggio di Enrique»), un reportage in sei episodi uscito nel 2002 nel Los Angeles Times, che è valso a Sonia Nazario il premio Pulitzer. La giornalista ricostruiva la storia di un giovane uomo originario dell America centrale partito alla ricerca di sua madre. La donna aveva dovuto abbandonare i propri figli affamati per trovare un lavoro che le permettesse di inviare loro del denaro e offrir loro una vita migliore. Per raccontare questa esperienza, Nazario ha seguito le tracce di Enrique dall Honduras fino alla Carolina del Nord, viaggiando addirittura sul tetto dei treni come aveva fatto lui in Messico. Il reportage finisce in modo tragico. Dopo aver sofferto tanto per la partenza della madre, Enrique si vede obbligato a imporre la stessa sorte alla propria figlia: «Qualche tempo dopo il suo arrivo negli Stati uniti, Enrique telefona [alla sua fidanzata] in Honduras. Come sospettava prima della sua partenza, Maria Isabel è incinta. Il 2 novembre 2000, mette al mondo una bambina, Katherine Jasmin. La neonata assomiglia a Enrique. Ha la sua bocca, il suo naso, i suoi occhi. Una zia incoraggia Maria Isabel a recarsi negli Stati uniti, promettendole che si prenderà cura della bambina. Se ne avrò l occasione ci andrò, dice Maria Isabel. Partirò senza la mia bambina. Enrique approva: Dovremo abbandonare la piccola.» Il libro tratto da questo reportage (7) riceve una pioggia di elogi. Il magazine Entertainment Weekly ritiene ad esempio che «l impressionante reportage di Nazario fa della polemica attuale sull immigrazione una storia personale piuttosto che politica» (22 febbraio 2006). Tuttavia, per quanto seducente possa essere, questo approccio non permette di cogliere i principali nodi del fenomeno migratorio. Certamente, il lettore rivive nei minimi dettagli le prove che affronta Enrique. Ma ignora come come sia arrivato a quel punto, e se avesse potuto evitare questo destino. Al di là delle difficoltà degli immigrati, il giornalismo dovrebbe analizzare il modo in cui l organizzazione economica mondiale e la politica estera, commerciale e sociale dei paesi occidentali come gli Stati uniti e la Francia favoriscono l emigrazione dai paesi del sud verso quelli del nord. Perché, come amava ricordare il sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad, l immigrazione è prima di tutto un emigrazione. Per quanto riguarda gli Stati uniti, più di persone hanno perso la vita nel corso dei conflitti in Guatemala, Salvador e Nicaragua, per la Tony Capellán, Mar Caribe, 1996 maggior parte assassinati dagli squadroni della morte e dalle forze militari, addestrate sostenute e armate dagli Stati uniti. Nel 1980, questi ultimi contavano meno di immigrati originari di El Salvador; dopo dieci anni di guerre e di disordini, questa cifra arrivava a Oggi supera il milione. Anche la politica commerciale di Washington ha contribuito a questa emigrazione di massa. Lungi dal migliorare le condizioni di vita e di impiego dei lavoratori messicani, l Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) firmato nel 1993 ha contribuito ad aggravare la povertà e l insicurezza, spingendo numerosi abitanti, in particolare quelli delle zone rurali, ad attraversare la frontiera. Le imprese statunitensi hanno preparato il terreno per accoglierli. I settori dell industria e dei servizi hanno adattato le loro condizioni di lavoro per poter proporre loro degli impieghi «flessibili», con una bassa remunerazione e poche agevolazioni. Nei settori della carne, del tessile, dell edilizia, della ristorazione e dei servizi alberghieri i lavoratori statunitensi spesso sono stati licenziati per essere sostituiti da clandestini molto meno costosi. Chi ha la parola? dispetto del primo emendamento della Costituzione statunitense, A che dovrebbe preservare l indipendenza della stampa di fronte allo Stato, il dibattito sull immigrazione negli Stati uniti è stato monopolizzato da voci provenienti dall amministrazione pubblica o dal mondo politico. Tra l inizio degli anni 70 e la metà degli anni 2000, il 52% delle persone invitate a esprimersi sul tema apparteneva a questa cerchia, contro il 38% in Francia. Dunque il quadro elogiativo dell associazionismo negli Stati uniti tracciato da Alexis de Tocqueville nel XIX secolo corrisponde poco alla realtà attuale almeno per quanto riguarda i media. I giornalisti francesi si mostrano anche più inclini a concedere la parola ai rappresentanti della società civile (nel 35% dei casi) rispetto ai loro omologhi statunitensi (20%). Nei due paesi, le opinioni non governative provengono soprattutto da associazioni favorevoli all immigrazione (il 12% in Francia, l 8% negli Stati uniti), di gran lunga superiori a quelle dei gruppi ostili (il 6% in Francia, il 3% negli Stati uniti). Anche i sindacati sono più presenti nell Esagono (7%) che oltre-atlantico (2%). Mentre sono interpellati puntualmente in merito a questioni particolari, i rappresentanti religiosi musulmani, ebrei o cristiani appaiono raramente nei reportage (l 1% negli Stati uniti, il 2% in Francia). Quanto agli stessi immigrati, rappresentano il 15% degli intervistati nei reportage francesi e il 12% in quelli statunitensi. Due attori di rilievo della politica migratoria rimangono relativamente invisibili nei media: da una parte le imprese (il 4% degli interventi negli Stati uniti, e il 3% in Francia); dall altra i governi stranieri e gli organismi internazionali come l Organizzazione delle Nazioni unite e l Unione europea (il 4% in entrambi i paesi). Le prese di parola degli esperti sono più numerose negli Stati uniti che in Francia (il 5% contro l 3%), ma circa la metà degli esperti statunitensi appartiene a think tanks, e non alle università. Inoltre, essi dispongono di uno spazio minore per esporre i loro argomenti: 44 parole in media, contro i 315 per i loro omologhi francesi (1). Si constata infine che nei due paesi gli organi d informazione meno vincolati a imperativi commerciali The Christian Science Monitor, PBS, L Humanité, Arte, ecc offrono una più grande diversità di pareri e di punti di vista. R.B. (1) La cifra è dedotta da un campione di sette giornali di ogni paese nel periodo (Traduzione di Filippo Furri) Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per la Francia, benché l attrattiva del lavoro sia meno significativa in ragione di una legislazione più restrittiva. Numerosi migranti originari del Maghreb o dell Africa subsahariana hanno dovuto abbandonare il loro paese a causa delle difficoltà economiche o politiche legate ai rapporti iniqui che la Francia mantiene con le sue ex colonie. «Il disagio profondo dell Africa accentua l esodo di massa, che nessun muro, neanche se toccasse il cielo, potrà fermare, spiega Arsène Bolouvi, ricercatore togolese presso Amnesty International. Le macchinazioni delle multinazionali, le vendite di armi, il controllo delle risorse, i governi autoritari sostenuti dalla Francia: tutto spinge la gente a fuggire, mettendo a rischio la propria vita, cacciati dalla fame e dalla guerra (8).» La complessità delle cause internazionali delle migrazioni compromette tuttavia la loro trattazione sotto forma di melodramma personale. Fare riferimento a ciò implica peraltro l apertura un dibattito ideologico sensibile, perché questi motivi suggeriscono l esistenza nel sistema economico e sociale di ingiustizie o di mancanze che la maggioranza della classe politica e mediatica accetta come dati di fatto. Dall inizio degli anni 70 alla metà degli anni 2000, mentre si intensificava la globalizzazione neoliberista e numerosi conflitti manipolati dagli Stati uniti mettevano a ferro e fuoco l America centrale, la percentuale di reportage della stampa che menzionavano i fattori internazionali è passata dal 30 al 12%. I giornali francesi si distinguono evocando l economia mondiale in un terzo dei loro articoli una cifra stabile tra gli anni 70 e La differenza si spiega in particolare con la maggiore presenza di correnti ostili alla globalizzazione nella cultura intellettuale e politica francese. Si tratta di una prova talmente ardua che bisogna dare il merito al giornalista Arnaud Leparmentier di averla affrontata di slancio senza esitare. «La Francia, una Grecia che si ignora», proclama in prima pagina di Le Monde (9 aprile 2015). «La Francia diventa, anno dopo anno, sempre più socialista». «Soffoca sotto le tasse e la spesa pubblica». Viene subito da pensare a uno scherzo. Leparmentier, burlone, prende in giro le eterne lamentele di Le Point, o l editoriale annuale di Serge Dassault su Le Figaro. Nemmeno per sogno. Con la massima serietà, il direttore aggiunto delle redazioni di Le Monde ripete a pappagallo le conclusioni di un rapporto dell Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Un istituzione alla quale bisogna sempre credere sulla parola: nel 2008 vantava ancora la «situazione sana» e la «capacità di resistere» delle banche islandesi, che sarebbero sprofondate qualche mese dopo, trascinando tutto il paese nel loro crollo. «La Francia continua a avere un diritto del lavoro tra i più tutelanti», si lamenta Leparmentier, e, di conseguenza, «corre il rischio di diventare una grande Grecia». Un abaco di dimensioni standard non basterebbe per enumerare le omelie giornalistiche che deducono dal disastro greco la necessità di governare la Francia ancora più a destra. Un mese prima di Leparmentier, Antoine Delhommais, suo ex collega passato senza imbarazzi da Le Monde a Le Point, s infervorava per un desiderio contrariato. «Ritornare dalle 35 alle 39 ore, rimandare Le gioie della scrittura automatica di parecchi anni l età pensionabile, abbassare il livello del salario minimo garantito rispetto al salario medio, ridurre il numero dei giorni di ferie e delle vacanze pagate, creare uno smic per i giovani ( ) È quasi un peccato che la Francia non sia nella situazione della Grecia, per avere una troika che ci obblighi dall esterno a fare queste riforme che è vano aspettare che arrivino un giorno dall interno» (5 marzo 2015). Certo, davvero, una disoccupazione al 26% e dei malati agonizzanti per carenza di cure, sarebbe magnifico. Tre anni fa il tabloid tedesco Bild (si legga l articolo di Olivier Cyran a pagina 19), dava il la: «La Francia sarà la nuova Grecia?» (31 ottobre 2012). Se dovrà rinunciare al premio per l originalità, Leparmentier conserva delle buone possibilità di aggiudicarsi quello per l accanimento. «Da vent anni, si lamentava nel 2002, gli Stati europei hanno fatto le scelte sbagliate. Non hanno per nulla aumentato le loro spese sovrane polizia, giustizia, esercito, spese amministrative ( ). In compenso lo Stato sociale (sanità, pensioni, aiuti alle famiglie, disoccupazione, contributi per l alloggio, il reddito minimo d inserimento RMI) non smette di progredire» (Le Monde, 14 giugno 2002). E, da vent anni, Leparmentier tuona. 1996: Moulinex annuncia licenziamenti, le quote delle azioni aumentano e il giornalista scrive: «Contestando questa ristrutturazione dura ma indispensabile, i ministri François Fillon e Franck Borotra danno prova di demagogia politica e di interventismo fuori luogo» (Le Monde, 21 giugno 1996). 1997: Renault chiude la fabbrica di Vilvorde in Belgio, la borsa applaude e Leparmentier giustifica l infatuazione dei mercati per le imprese che licenziano: «Dopo anni di cattiva gestione, questi gruppi sono crollati in borsa e un balzo è logico quando i dirigenti finalmente cambiano strategia» (Le Monde, 5 marzo 1997) 1998: la Germania si appresta a eleggere un nuovo parlamento e Leparmentier tira le somme. «Otto anni dopo la riunificazione, la Germania rischia di farsi soffocare dal suo sistema di protezione sociale ( ) Bisogna aggiungere un altro problema: i tedeschi fanno gli schizzinosi di fronte ai lavori che vengono loro proposti» (Le Monde, 26 settembre 1998) 1999: il fallimento del gruppo edile tedesco Phillipp Holzmann minaccia posti di lavoro, Gerhard Schröder tenta una mediazione e Leparmentier sbotta: «Il cancelliere, baluardo della modernità durante la sua campagna elettorale, oggi porta avanti una campagna difensiva, come inizia a rimproverargli una parte della stampa tedesca: il salvataggio degli impieghi di ieri e del modello renano». Il destino degli operai dell edilizia? «Il settore ha delle sovra-capacità che devono essere demolite» (Le Monde, 25 novembre 1999) Se questo simpatico progetto di società dovesse un giorno interessare il settore del giornalismo economico, l automa che dovrà rimpiazzare il nostro redattore non sarà molto difficile da programmare. Pierre Rimbert Troppo spesso tuttavia i media dei due paesi offrono solo un quadro incompleto della questione dell immigrazione, malgrado i servizi ricorrenti che le consacrano. La priorità che essi accordano alla dimensione emotiva, individuale, disarma le riflessioni politiche di fondo, preparando così il terreno alle «soluzioni» semplificatrici dell estrema destra. Rodney Benson (1) Robert Solé (intervista con Jaqueline Costa- Lascoux), «Le journaliste et l immigration», Révue européenne des migrations internationales, vol. 4, n 1-2, primo semestre (2) Salvo prova contraria, queste percentuali risultano dall analisi degli articoli e dei servizi dedicati all immigrazione nei seguenti media: Le Monde, Le Figaro, Libération, TF1 e France 2 in Francia; The New York Times, The Washington Post, Los Angeles Times, ABC, CBS, NBC negli Stati uniti. (3) Cfr. ad esempio Paul Krugman, «North of the Border», The New York Times, 27 marzo (4) «Une implosion statistique, une bombe dans l immaginaire», Libération, Parigi, 9 settembre (5) Intervista con l autore. (6) Todd Gitlin, The Whole World is Watching: Mass Media in the Making and Unmaking of the New Left, University of California Press, Berkeley, (7) Sonia Nazario, Enrique s Journey: The Story of a Boy s Dangerous Odyssey to Reunite with His Mother, Random House, New York, (8) Citato in Nicolas de La Casinière, «À Nantes, les carences de la Frances décriées», Libération, 12 luglio (Traduzione di Filippo Furri)

12 12 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto I CREDITORI HANNO CAMBIATO VOLTO La metamorfosi del debito africano Da decenni il debito africano è oggetto di molte attenzioni, da parte sia delle istituzioni finanziarie internazionali che delle associazioni che ne chiedono la totale cancellazione. Diversi Stati del continente si sono sdebitati grazie all aumento dei prezzi mondiali delle materie prime, ma altri hanno conosciuto un evoluzione di segno opposto e sono minacciati da fondi avvoltoio. Sanou Mbaye* N ell euforia del periodo dell indipendenza, conquistata negli anni 1960, i paesi dell Africa sub-sahariana cercarono di superare la divisione internazionale del lavoro che assegnava loro il ruolo di esportatori di materie prime e importatori di manufatti. Essi lavorarono dunque alla diversificazione delle proprie economie con l industrializzazione e il rafforzamento delle capacità produttive. Ma ben presto si trovarono di fronte a una difficoltà: con l unica eccezione del Sudafrica e della Rhodesia (l attuale Zimbabwe), al tempo governati da una minoranza bianca, nessun paese aveva accesso ai mercati internazionali di capitali, in mancanza del via libera da parte delle agenzie internazionali di rating del credito. Dovettero dunque limitarsi ai fondi privati accordati dagli Stati, ai fondi bilaterali previsti dal Club di Parigi (1) e ai fondi multilaterali prestati dalle organizzazioni internazionali: Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca mondiale, Banca africana di sviluppo (Bad). Al tempo stesso, i proventi delle esportazioni, sui quali contavano, si riducevano in maniera sensibile, per la caduta dei corsi mondiali dei prodotti agricoli, il cui indice era passato da 155 nel 1977 a 94 nel I costi delle importazioni, invece, crescevano continuamente. Nel 1979, l aumento dei tassi d interesse da parte degli Stati uniti, deciso unilateralmente per far fronte al deprezzamento del dollaro, finì per far esplodere il debito del continente. Gli interessi delle agenzie di rating Per «risanare»i propri conti, i paesi africani si rivolsero allora nuovamente alle istituzioni finanziarie internazionali. Queste prescrissero le loro «medicine mortali»: lo sviluppo, i programmi di aggiustamento strutturale (Pas) i quali imposero la deregolamentazione finanziaria, il libero scambio, le privatizzazioni, la riduzione dei salari, la compressione dei bilanci pubblici ecc. Questi programmi si sono moltiplicati, prescrivendo tutti la stessa pozione: il libero scambio e il liberismo economico (si legga il riquadro). Nel quadro dell iniziativa Paesi poveri molto indebitati (Hipc), lanciata nel 1996, trentasei paesi, trenta dei quali africani, hanno beneficiato di un alleggerimento totale di 76 miliardi di dollari dovuti a titolo di servizio del debito bilaterale e multilaterale. Tuttavia, * Economista, autore di L Afrique au secours de l Afrique, L Atelier, Ivry-sur-Seine, secondo il Comitato per l annullamento del debito del terzo mondo (Cadtm), queste misure sono state un inganno: lo stock del debito dell Africa subsahariana è infatti salito dai 2 miliardi di dollari nel 1970 ai 331 miliardi di dollari nel Fra il 1970 e il 2012, i rimborsi effettuati sono stati pari a 435 miliardi di dollari, ovvero quattro volte il capitale preso in prestito (2). I paesi africani devono inoltre far fronte ai fondi di investimento chiamati «fondi avvoltoio». Questi acquistano a prezzi speculativi, sul mercato secondario, crediti dovuti da Stati in difficoltà. Aspettano poi il ritorno di quei paesi a una situazione normale (la fine delle turbolenze politiche, per esempio), e li portano davanti a tribunali negli Stati uniti e in Gran Bretagna per ottenere il rimborso dei debiti, degli arretrati di pagamento e degli interessi. Una prima ondata ha colpito l Africa fra il 2000 e il 2008, anno della crisi finanziaria mondiale. Il numero esatto di attacchi è difficile da valutare perché, per non danneggiare la propria immagine, gli Stati preferiscono evitare l esposizione mediatica e negoziano con i fondi avvoltoio a margine delle cause in tribunale. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), contro paesi poveri molto indebitati sarebbero stati avviati diciassette procedimenti giudiziari, quindici dei quali contro paesi africani (3). Nell aprile 2014, una decisione della Corte d appello degli Stati uniti del Nono circuito ha dato ragione alla Repubblica democratica del Congo (Rdc) contro FgHemisphere Associates. In prima istanza, questo fondo aveva ottenuto il diritto di acquisire beni e averi della Générale des carrières et desmines (Gécamines, la società delle cave e delle miniere), che avrebbe dovuto rispondere dei debiti dello Stato congolese, al quale appartiene. Hemisphere chiedeva 104 milioni di dollari alla Rdc per un contratto di fornitura di elettricità insoluto. Con la crisi finanziaria del 2008, i fondi avvoltoio si sono rivolti ai mercati europei, ma non per questo hanno lasciato l Africa. Nel 2010, la Bad ha creato la Facilité africaine de soutien juridique (Fasj, Struttura africana per il sostegno giuridico) per sensibilizzare i governi circa l importanza degli aspetti giuridici della gestione del debito sovrano. La Fasj insiste sulla necessità che i governi siano affiancati da consiglieri esperti. Due fatti suscitano al tempo stesso una speranza di sviluppo e il timore di un nuovo indebitamento. In primo luogo la presenza sempre più affermata sulla scena africana di paesi emergenti in fase di rapida industrializzazione, come Cina, India, Corea del Sud, Malaysia, Turchia e Brasile. Dall inizio degli anni 1990, le loro importazioni di materie prime e le loro esportazioni di manufatti a prezzi più favorevoli stanno dando un vantaggio reale ai paesi della regione. Questo ha aumentato le loro possibilità di crescita economica e permesso di ridurre i debiti in corso, grazie all aumento dei proventi delle esportazioni. Così, la Nigeria, prima potenza economica del continente, ha potuto, nel novembre 2005, riscattare 12 miliardi di dollari sui 18 che doveva ai creditori del Club di Parigi. Nel 2009, l Angola è diventata il primo partner commerciale africano della Cina. Pechino ha annullato il debito angolano di 67,38 milioni di yuan (10 milioni di dollari) ed eliminato i diritti di dogana sulle importazioni di 466 categorie di prodotti, in favore di Luanda. La mappa degli investimenti cinesi coincide con quella delle risorse naturali importanti: Sudan, Angola e Nigeria per il petrolio, Sudafrica per il carbone e il platino, Rdc e Zambia per rame e cobalto. Il crescente coinvolgimento di Pechino apre possibilità, ma fa anche correre rischi allo sviluppo africano. I cinesi hanno assunto il controllo di alcune industrie locali, acquisendo le quote di esportazione verso i mercati occidentali di prodotti africani come il tessile. Pechino studia il mercato dell Etiopia, le cui esportazioni di tessili sono cresciute del 257% in dieci anni. Il modello di cooperazione adottato consiste in un pacchetto che combina investimenti diretti, prestiti concessionari (che comprendono una parte in doni in linea di principio, almeno il 35%), commercio e aiuti pubblici. Senza una regola relativa alla ripartizione, non è sempre possibile determinare se i prestiti concessionari sono compresi nel debito in corso o se fanno parte integrante dell aiuto. Tenuto conto del volume importante di prestiti di questo tipo, cresce l inquietudine quanto al fardello futuro del debito dei paesi africani se, nell ottica cinese, i prestiti concessionari non sono assimilabili all aiuto. Secondo fatto: l apertura all Africa dei mercati di capitali. Ormai diversi paesi hanno ottenuto la valutazione da parte delle agenzie specializzate: Congo-Brazzaville, Costa d Avorio, Egitto, Ghana, Kenya, Mozambico, Uganda, Ruanda, Senegal, Zambia. Nella maggior parte dei casi, il voto si è rivelato più alto o uguale a quello ottenuto da nazioni più industrializzate come Turchia, Brasile o Argentina. In questi ultimi anni è cresciuto l interesse degli investitori internazionali per questi mercati, ormai considerati per la maggior parte come mercati intermediari a elevato rendimento. Sono attivi anche gli investitori istituzionali nazionali come le banche, le società di assicurazione o i fondi pensione e gli investitori privati locali. A partire dal 2007, paesi come Senegal, Gabon, Ghana hanno ottenuto milioni di dollari sui mercati dei capitali: 200 il primo, il secondo, 750 il terzo. La tendenza dovrebbe continuare ed estendersi. Il Kenya sta per lanciare un prestito obbligatorio (cioè emesso dallo Stato o da investitori istituzionali) di 25 miliardi di dollari per la costruzione di un secondo porto, di un gasdotto di chilometri e di una via per il trasporto del petrolio a partire dal Sud Sudan (4). In Etiopia, la diga della Rinascita è stata finanziata grazie a titoli sottoscritti dagli stessi etiopi. Fra i paesi africani che sono riusciti ad attirare i capitali privati con l emissione di prestiti obbligatori c è il Ruanda, la cui banca centrale ha emesso i primi prestiti in dollari nell aprile Secondo l indice Bloomberg, gli investitori hanno ottenuto un livello di redditività dell ordine del 9,3%, superiore dunque al 6,6% generato dai mercati dei capitali emergenti. Come spiega Aboubacar Fall, presidente del consiglio di gestione della Fasj, «questa riuscita finanziaria dipende essenzialmente dalla buona qualità delle riforme strutturali avviate da diversi anni in Ruanda, e alla diversificazione delle basi della sua economia (5)». I timori di Christine Lagarde Secondo l agenzia di rating Fitch, le emissioni di debiti sovrani degli Stati sub-sahariani dovrebbero arrivare a 6 miliardi di dollari nel 2015, dopo il record di 6,25 miliardi dell anno precedente. Kenya, Costa d Avorio, Ghana e Senegal prevedono di mobilizzare fra 500 milioni e 1,5 miliardi di dollari di euro-obbligazioni sul mercato dei capitali. Lo Zambia, con 1 miliardo di dollari, lo scorso 7 aprile si è affacciato sul mercato internazionale dei capitali. Questa ripresa dei prestiti può far temere una nuova crisi del debito. La direttrice generale del Fmi, Christine Lagarde, ha espresso i propri timori ai ministri delle finanze e ai governatori delle banche centrali dell Africa subsahariana nel maggio 2014, nel corso del loro incontro a Maputo, in Mozambico: «I governatori dovrebbero essere attenti e prudenti per evitare di sovraccaricare i loro paesi di debito pubblico», ha avvertito, prima di precisare che quello che è «un finanziamento supplementare», è però anche «una vulnerabilità supplementare» (Les Echos, 30 maggio 2014). Comunque, il rischio di sovra-indebitamento rimane limitato. Le finanze pubbliche sono migliorate cinque paesi della regione (Benin, Burkina Faso, Costa d Avorio, Guinea-Bissau e Togo) hanno anche dei surplus l inflazione è sotto controllo, le riserve di valuta straniera e il risparmio sono aumentati, il debito estero si è ridotto. Per Tiémoko Meyliet Koné, governatore della Banca centrale degli Stati dell Africa dell Ovest (Bceao), «le prospettive di crescita dell Uemoa [Unione economica e monetaria dell Africa occidentale (6)] sono favorevoli. Indicano che il debito dovrebbe rimanere stabile nell insieme degli Stati membri (7)». I paesi dell Uemoa prevedono di emettere miliardi di franchi Cfa (4,4 miliardi di euro) di debito nel La Bceao prevede una crescita economica del7,2% nella subregione, contro il 6,6% nel 2014, e il Fmi punta sul 5,8% per l insieme dell Africa sub-sahariana nel Per ottenere i fondi necessari ai massicci investimenti di cui hanno bisogno, soprattutto nei settori dell agricoltura, dell energia e delle infrastrutture, i governi africani e le società pubbliche e private ricorrono sempre più ai prestiti sui mercati dei capitali nazionali, regionali e internazionali. L investimento pubblico, essenziale alla ripresa economica, è ormai centrale nelle politiche nazionali. (1) Creato nel 1956, il Club di Parigi è formato da venti Stati creditori nei confronti di paesi del Sud. (2) «Les chiffres de la dette 2015»,Cadtm, Bruxelles, Si legga anche Demba Moussa Dembélé, «La maschera africana di Tony Blair», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre (3) «Heavily Indebted Poor Countries (Hipc) Initiative and Multilateral Debt Relief Initiative (Mdri) Statistical update», Fondo monetario internazionale, Washington, DC, 12 dicembre (4) Sarah McGregor, «Kenya spends $25 billion on bond-backed port for oil: freight», Bloomberg.com, 4 settembre (5) «Fondsvautours: comment l Afrique évite le syndrome Argentine», Financial Afrik, 7 agosto2014, (6) L Uemoa riunisce Benin, Burkina Faso, Costa d Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. (7) Jeune Afrique, Parigi, 6 marzo (Traduzione di Marinella Correggia) Quattro meccanismi Iniziativa per i paesi poveri molto indebitati (Heavily Indebted Poor Countries, Hipc): programma di riduzione dei debiti gestito dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Lanciato nel1996, si organizza intorno a misure di liberalizzazione dell economia che permettono a un paese di essere dichiarato eleggibile (decision point) e poi di beneficiare di alleggerimenti intermedi del debito finché questo non diventa «sostenibile» (punto finale, completion point). A quel punto i creditori concedono una riduzione concertata dello stock del debito. L impatto dell iniziativa si misura soprattutto rispetto al servizio del debito. Per i trentasei paesi che hanno superato il decision point, il servizio del debito rapportato al prodotto interno lordo è passato, secondo il Fmi, dal 2,9% in media nel 2001 allo 0,9% nel Iniziativa per l alleggerimento del debito multilaterale (Iadm). Lanciata nel 2005 dal G8 di Gleenagles (Scozia), si rivolge soprattutto ai paesi che arrivano al completion point dell iniziativa Hipc. Essi beneficiano di un annullamento dell insieme dei loro debiti verso il Fmi, la Banca mondiale e la Banca africana di sviluppo (Bad). Dal disindebitamento ai fondi avvoltoio SENEGAL MAURITANIA BURKINA FASO LIBERIA COSTA GHANA D AVORIO Importo del debito estero in miliardi di dollari ,5 NIGERIA CONGO ANGOLA REP. DEM. DEL CONGO SUDAN 1993 ETIOPIA KENYA TANZANIA MOZAMBICO MAURITIUS SENEGAL MAURITANIA BURKINA FASO LIBERIA COSTA GHANA D AVORIO SEYCHELLES Debito estero in percentuale sul Pil da 2 a 29 NIGERIA da 30 a 79 da 80 a 149 più di 150 CONGO ANGOLA REP. DEM. DEL CONGO SUDAN KENYA TANZANIA MOZAMBICO ETIOPIA Mancanza di dati SEYCHELLES MAURITIUS SENEGAL SIERRA LEONE MAURITANIA LIBERIA COSTA D AVORIO BURKINA FASO GHANA SÃO TOMÉ E PRINCIPE NIGER NIGERIA CONGO Principali debiti parzialmente riscattati dai fondi avvoltoio dal 1999 CAMERUN ANGOLA SUDAN OUGANDA REP. DEM. DEL CONGO ZAMBIA ETIOPIA KENYA TANZANIA MOZAMBICO MADAGASCAR SEYCHELLES MAURITIUS km Fonti: Banca mondiale; Banca africana di sviluppo. Gli accordi di partenariato economico (Ape) regolano i rapporti commerciali fra l Unione europea e i paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (Acp) (1). Prevedono misure di libero scambio. L African Growth and Opportunity Act (Agoa) è una legge votata dal Congresso degli Stati uniti nel 2000 e rinnovata per dieci anni nell aprile Grazie a tariffe preferenziali, facilita l esportazione verso il mercato statunitense di una lista di prodotti provenienti dai quaranta paesi africani dichiarati eleggibili ( (1) Si legga Jacques Berthelot, «Il bacio della morte dell Europa all Africa», Le Monde diplomatique/il manifesto, septembre 2014.

13 Le Monde diplomatique il manifesto maggio SU UN ISOLA IN PIENO CAMBIAMENTO, FRA SPERANZE E PREOCCUPAZIONI Quando Cuba «debate» L annuncio di una visita ufficiale del presidente francese a Cuba, l 11 maggio 2015, segna una nuova tappa del disgelo fra L Avana e le potenze occidentali. Il capo di Stato cubano Raúl Castro e il suo omologo statunitense Barack Obama hanno scambiato una storica stretta di mano al vertice delle Americhe, lo scorso aprile. Un accelerazione della storia che nell isola suscita interrogativi Janette Habel * N el 2018 Raúl Castro avrà 87 anni e non si ripresenterà per un nuovo mandato presidenziale. Fra tre anni, dunque, la generazione della Sierra Maestra non sarà più al potere. Tre anni sono pochi per riformare l economia, adottare una nuova costituzione, gestire la normalizzazione dei rapporti con Washington, avviata con l incontro fra il presidente cubano e quello statunitense al Vertice delle Americhe a Panamá, in aprile. Il regime sopravviverà alla scomparsa della sua direzione storica? Il Partito comunista cubano (Pcc) ha già indicato un successore: il primo vicepresidente Miguel Diaz-Canel. Ma le sfide rimangono. Per affrontarle, Castro conta sulle Forze armate rivoluzionarie (Far), l esercito nazionale di cui è stato ministro per mezzo secolo, sul Pcc e sulla Chiesa cattoloica, che ha avuto un ruolo cruciale nei negoziati con Washington (1). Le riforme economiche hanno accentuato le disuguaglianze (2), e generale è l incertezza sul futuro del paese. Il Pcc cerca di rispondere lanciando consultazioni popolari nei periodi precongressuali. Castro ha ribadito che sarà così anche per il settimo, previsto per aprile Ma fra gli intellettuali, membri e non membri del Pcc, è già iniziato il dibattito, in particolare in rete, malgrado il limitato accesso a internet. Raùl Castro si è dedicato al compito di «attualizzare» il socialismo cubano un eufemismo per indicare la liberalizzazione economica attuata a partire dal Queste riforme non sono state contestate da Fidel Castro, anche se decostruiscono la società che egli aveva cercato di edificare. «Il modello cubano non funzionava più, nemmeno per noi», ha riconosciuto l ex presidente (The Atlantic, settembre 2010). La situazione economica non lasciava scelta. L aiuto di Caracas aveva permesso all isola di raggiungere un tasso di crescita medio del 10% fra il 2005 e il 2007, ma la crisi finanziaria e le difficoltà del partner bolivariano hanno cambiato le cose: «Nel 2013, il commercio fra Cuba e il Venezuela è diminuito di un miliardo di dollari; potrebbe ridursi ulteriormente nel 2014», faceva notare nell ottobre 2014 l economista cubano Omar Everleny Pérez Villanueva (3). Secondo alcune stime, questa riduzione sarebbe pari al 20% del volume precedente. Militari coccolati Nel mese di marzo 2014, il governo ha adottato una nuova legge sugli investimenti esteri definita da Raúl Castro «cruciale». Fatta eccezione per la salute, l educazione e la difesa, ormai tutti i settori sono aperti ai mercati esteri, con la garanzia di un esonero delle imposte per otto anni o anche di più in certi casi, soprattutto nelle «zone speciali di sviluppo economico», come il porto di Mariel (4), costruito con l aiuto del Brasile. I progetti devono comunque ricevere l autorizzazione degli organismi governativi: «Non è il capitale a definire l investimento (5)», sottolinea Deborah Rivas, direttrice degli investimenti stranieri al ministero del commercio estero. Fa notare l economista Jesus Arboleya Cervera: «Gli emigrati sono già investitori indiretti in piccole attività commerciali [attraverso il denaro che mandano alle loro famiglie]; ormai una loro partecipazione su più larga scala non è ostacolata dalla legge ma dall embargo (6)» L assunzione dei lavoratori si fa sotto il controllo di agenzie statali. Tuttavia, per alcuni, la trasformazione * Universitaria. rosa de dominicis dell isola avviene ancora con eccessiva lentezza: «Non si può attualizzare qualcosa che non ha mai funzionato, sbotta Pérez Villanueva. Non c è crescita. Quest anno, se Dio ci assiste, arriveremo forse all 1% (7).» A questa preoccupazione economica, la giovane sociologa Ailynn Torres risponde con una domanda politica: «Che cosa vogliono fare con il modello economico che ci propongono? Quasi sono i perdenti e i vincenti in questo modello (8)?» Secondo la narrazione ufficiale, instillare una dose di mercato nell economia dell isola dovrebbe consentire un miglioramento delle performance senza indebolire la giustizia sociale. Ma ormai la povertà riguarda il 20% della popolazione urbana (era il 6,6% nel 1986). La soppressione della tessera di razionamento, la libreta, è stata annunciata e poi rinviata, perché avrebbe pesato sui più poveri. In una società nella quale l eguaglianza costituisce un elemento identitario, i beneficiari e le vittime delle riforme risaltano con maggiore chiarezza. Fra le vittime, secondo lo stesso Raùl Castro, vanno annoverati «i dipendenti dello Stato, pagati in pesos, il cui salario non basta per vivere», gli anziani un milione settecentomila cittadini «che hanno pensioni insufficienti rispetto al costo della vita (9)», ma anche le madri nubili, la popolazione nera che non è quasi per nulla destinataria delle rimesse dei migranti cubano-statunitensi e gli abitanti delle province orientali (10). Fra i vincenti figurano i lavoratori delle imprese miste, quelli del turismo, i contadini del settore agricolo privato, una parte degli imprenditori autonomi (cuenta propistas), insomma, una intera popolazione che accede a una moneta forte: il Cuc (Convertible Unit Currency). In effetti dal 2004 questa valuta si è aggiunta al peso cubano; un Cuc equivale a 24 pesos tradizionali. Il Cuc intendeva sostituire il dollaro, autorizzato nel Così, funzionano in parallelo due economie: quella del peso e quella del Cuc, frequentata dai turisti e da tutti i cubani che lavorano con loro. Per smorzare le tensioni suscitate da queste disparità, Castro conta sulla lealtà delle Far, al fine di conciliare liberalizzazione economica e permanere di un sistema politico a partito unico. In effetti, dalla grande crisi degli anni 1990 (11), la gerarchia militare gestisce settori essenziali dell economia grazie al Grupo de Administracion Empresarial S. A. (Gaesa), una holding delle imprese che essa controlla. È al loro interno che è stato sperimentato il «perfezionamento delle imprese», ispirato alle tecniche manageriali occidentali per stimolare la produttività. Il prestigio delle Far persiste presso la popolazione, ma i privilegi dei quali esse godono suscitano critiche; non è raro sentir dire: «Loro non hanno problemi di alloggio» un allusione al moderno complesso immobiliare riservato ai militari e alle loro famiglie all Avana. Quanto al Pcc, ha perso influenza, ma Castro ne ha cambiato la direzione, con più giovani, più donne e più meticci. Per l economista Pedro Monreal González, il Pcc mantiene credibilità, e «lo Stato gode ancora del sostegno popolare per la sua capacità di fornire beni pubblici ritenuti essenziali da molti cubani». A febbraio 2015, il Pcc ha annunciato l entrata in vigore di una nuova legge elettorale prima della fine del mandato di Raúl Castro. Questo annuncio fa seguito a quello di febbraio 2013 riguardante la creazione di una commissione per la riforma della Costituzione. Come rinnovare la direzione del partito nominando quadri che non hanno la legittimità dei vecchi, in mancanza di un dibattito pubblico che permetta di scegliere fra candidati portatori di proposte diverse? L attuale modalità di nomina, che richiede in ultima istanza l avallo del Pcc, nel lungo periodo sembra poco sostenibile. La rivista Espacio Laical, pubblicata dall arcivescovado dell Avana (con uno status non ufficiale), è stata a lungo il luogo privilegiato dei dibattiti politici. Per un decennio ha dedicato seminari e articoli alla riforma della Costituzione, al ruolo del Pcc, alla rifondazione degli organi del potere popolare (Opp). I responsabili di Espacio Laïcal, i cattolici laici Roberto Veiga e Lenier González, insistevano sul «contrasto fra il pluralismo della società e la mancanza di spazi nei quali questo pluralismo si possa esprimere (12)». Ma, nel giugno 2014, i due rendono pubbliche le loro dimissioni forzate a causa delle critiche «molto gravi» dirette nei loro confronti e di quelli del cardinale Jaime Ortega y Alamino (13). Evidentemente, l arcivescovado voleva che la rivista adottasse un approccio più «pastorale», cioè meno politico. Quattro mesi dopo, il Centro cristiano di riflessione e dialogo Cuba (14) accettava di patrocinare un progetto simile con la rivista Cuba Posible, della quale Veiga e Gonzales sono i coordinatori. Il primo numero riferiva di un seminario dedicato alla sovranità del paese e al futuro delle istituzioni. L articolo V della Costituzione attuale è oggetto di forti critiche. Il Partito comunista è definito «martiano [da José L'avana, cuba, aprile Parco dedicato a Don Chisciotte Martí, ispiratore dell indipendenza cubana], marxista-leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana», e «forza dirigente suprema della società e dello Stato». Una definizione contestata dalla Chiesa, ma anche da esperti. «L idea del partito di avanguardia perde di significato quando questo diventa un partito di potere», ci dice il sociologo Aurelio Alonso. Pertanto, la costruzione di uno «Stato inclusivo che possa comprendere il pluralismo politico e ideologico» è un compito urgente. Pluralismo o pluripartitismo? Per Veiga, occorre prevedere «la possibilità di autorizzare l esistenza di altre forze politiche radicate nei fondamenti della nazione», anche se non pensa che questo sia realizzabile nel breve periodo (15). Attualmente, nessuno sa se la riforma elettorale annunciata consentirà l elezione di deputati vicini alla Chiesa, o di altre personalità indipendenti. Una lenta corsa Il dibattito riguarda anche le modalità di elezione del presidente, il cui numero di mandati ormai è limitato a due, di cinque anni ciascuno. Secondo alcuni, le elezioni dovrebbero essere a suffragio universale diretto, per dare legittimità al nuovo capo dello Stato. Il politologo Julio César Guanche pone l accento su una rifondazione del «potere popolare» ufficialmente incarnato dalle assemblee municipali, a livello provinciale e nazionale (16). Occorre costruire una «cittadinanza democratica e socialista», propone dal canto suo il sociologo Ovidio D Angelo. Ma le «organizzazioni di massa» sono troppo «subordinate al Pcc» per diventarne l espressione. Tanto più che «la narrazione ufficiale sta minando la base sulla quale si fonda la sua legittimità storica», osserva Guanche, precisando che «mettere in discussione l egualitarismo apre la porta alla messa in discussione dell ideale più potente del socialismo: l uguaglianza». È una critica poco velata del discorso di Castro che al congresso della Centrale dei lavoratori cubani (Ctc), ha denunciato «il paternalismo, l egualitarismo, le eccessive concessioni a titolo gratuito e le sovvenzioni indebite, una vecchia mentalità forgiata nel corso degli anni». Questa «vecchia mentalità» non risparmia il Pcc, nel quale continuano a regnare l unanimismo e le velleità di censura. Pratiche oggetto di contestazione. Per la prima volta, si è vista all Assemblea nazionale la mano alzata di una deputata che votava contro il nuovo codice del lavoro: era Mariela Castro, figlia di Raúl, la quale protestava contro il rifiuto di inserire nel testo il divieto delle discriminazioni sessuali. Allo stesso modo, la de-programmazione del film del regista francese Laurent Cantet Retour à Ithaque (2014), che illustra il disincanto cubano, ha provocato le proteste di alcuni suoi colleghi dell isola. In questo contesto, la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati uniti appare al tempo stesso necessaria e pericolosa. Il governo cubano sa che L'avana, cuba, aprile Fermata di autobus l obiettivo di Washington rimane il regime change. Per ora, ha vinto la prima partita non facendo alcuna concessione; ma è il momento di attenuare l ottimismo. «C è il rischio che prendano tutto, come fanno dappertutto. Ai cubani, che cosa rimarrà?», si chiede un pensionato. «Hanno appena comprato uno dei nostri giocatori di baseball per 63 milioni di dollari», aggiunge un altro. «Sono in tanti a chiedersi che sarà del loro futuro», constata il sociologo Rafael Acosta. Che succederà dopo la fine del blocco. Come controllare l afflusso di dollari e turisti? Fra i soggetti controversi si trovano le migliaia di proprietà nazionalizzate con l avvento della rivoluzione. Il governo non vuole indennizzare i proprietari che all epoca abbandonarono il paese. Sul piatto della bilancia metterà il costo (valutato in 100 miliardi di dollari) di un embargo di mezzo secolo, e la restituzione della base di Guantánamo. La cancellazione del blocco ha bisogno dell accordo del Congresso statunitense, nel quale repubblicani e democratici sono divisi. Il 14 aprile, Obama ha finalmente cancellato Cuba dalla lista degli Stati che «sostengono il terrorismo», ma il Congresso aveva 45 giorni di tempo per opporvisi. I passi successivi dovrebbero essere la ripresa delle relazioni diplomatiche e la nomina dei due ambasciatori. Quanto al processo di normalizzazione, promette di essere lungo. L Avana approfitterà di questa lenta corsa per evitare la destabilizzazione del paese e coltivare i propri rapporti con l America latina, la Cina e l Unione europea. Tuttavia, in assenza di un dirigente storico che incarni la lotta contro l «Impero», potrebbe diventare più difficile in futuro unire e mobilitare la popolazione cubana. (1) Si legga «Cuba, il partito e la fede», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno (2) Il coefficiente di Gini, che permette di misurare le disuguaglianze, era di 0,24 nel 1986, di 0,38 nel 2002 e di 0,40 nel (3) Atti del seminario «Cuba: soberanía y futuro», Cuba Posible, n. 1, L Avana, ottobre (4) Il porto, che potrebbe diventare il più grande terminal merci dei Caraibi, si trova nelle vicinanze di un passaggio strategico per le navi che percorrono il canale di Panamá. (5) Granma, L Avana, 17 aprile (6) Jesús Arboleya Cervera, «Integracíon y soberanía», Cuba Posible, 20 gennaio 2015, www. cubaposible.net (7) Cuba Posible, n. 1, op. cit. (8) Ibid. (9) Discorso al XX congresso della Centrale dei lavoratori cubani (Ctc), 22 febbraio (10) Mayra Espina, «Desigualdad social y retos para una nueva institucionalidad democrática en la Cuba actual», Espacio Laical, n. 2, L'Avana, (11) Fra il 1991 e il 1994, il prodotto interno lordo era sceso del 35%. (12) «Cuba y Estados Unidos: Los dilemas del cambio», Cuba Posible, n. 2, febbraio (13) Ibid. (14) Il Ccrd-C si definisce come una «istituzione religiosa della società civile». (15) Cuba Posible, n. 2, op. cit. (16) Cuba Posible, n. 1, op. cit. Idem per le citazioni che seguono. (Traduzione di Marinella Correggia) rosa de dominicis

14 14 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Hong Kong: gravidanza fatale per le domestiche Ogni anno, migliaia di domestiche filippine o indonesiane immigrate a Hong Kong sono licenziate illegalmente. La loro colpa? Essere rimaste incinte. Bramoso della loro forza lavoro, il territorio rifiuta che esse formino una famiglia. Licenziate, hanno due settimane per fare i bagagli. dalla nostra inviata speciale Alexia Eychenne * Hong kong Pausa dal lavoro di lavoratrici domestiche Occorre tendere l orecchio per sentire Shenyl, la cui voce sottile fatica a imporsi sul rumore del sonaglio che agita suo figlio Ibrahim, 3 anni e grandi occhi neri. La giovane filippina di 31 anni, viso arrotondato da un foulard nero, ha lasciato il suo villaggio nel Direzione Hong Kong, con il visto siglato «Fdh», che sta per Foreign Domestic Helper («aiuto domestico straniero»). Come lei, più di trecentomila migranti dall Asia meridionale posseggono questa «formula magica» per una nuova vita: quella di collaboratrice domestica in una famiglia del territorio. La stragrande maggioranza viene da Giava, in Indonesia, o dalle Filippine. Per dieci anni, Shenyl ha lavorato sei giorni su sette nell intimità delle famiglie di Hong Kong, secondo una routine costante: cucinare, lavare, lucidare e allevare i figli degli altri. La domenica, a Hong Kong, ci sono Manila o Jakarta sotto i grattacieli: durante le loro rare ore di riposo, le domestiche si accampano sui prati dei parchi, raggiunte da altri immigrati, per la maggior parte uomini (1). Coppie di esuli si formano nei viali alberati di Kowloon Park, dietro una grande moschea bianca. Nel 2012, Shenyl incontra un rifugiato pachistano e resta incinta. La sua vita cambia completamente alla nascita di Ibrahim: «Ho richiesto il suo certificato allo stato civile, racconta dalla sede di una piccola organizzazione non governativa che assiste le domestiche diventate madri. Controllando il mio dossier di immigrazione, l impiegato mi ha comunicato che il mio visto era scaduto». Il suo principale in effetti aveva appena messo fine al suo contratto, e questo nella totale illegalità: il diritto del lavoro prevede un periodo di maternità di dieci settimane per le domestiche assunte da più di dieci mesi e vieta di licenziarle durante la gravidanza. Ma, legale o no, la rottura del loro contratto di lavoro ha per effetto quello di invalidare immediatamente il loro visto. «Avevo due settimane per rientrare nelle Filippine», sospira Shenyl. Ventisette anni di presenza, ma nessuna carta di soggiorno Impossibile sapere ufficialmente quante donne hanno subito questa ingiustizia, ma le associazioni in difesa degli immigrati vi vedono un flagello in crescita. Kristina Zebua combatte a fianco delle domestiche da più di dieci anni. «La nostra lotta ha riguardato prima il salario minimo, il diritto al riposo e la denuncia delle violenze», riferisce questa indonesiana, instancabile in merito alla sorte di quelle che lei chiama le sue «clienti». «Poi, nel 2006, alcuni immigrati hanno cominciato ad accennare al fenomeno di donne incinte, o che avevano appena partorito, licenziate e prive di documenti.» Alcuni attivisti creano una struttura dedicata, PathFinders, che riceve più di seicento domestiche all anno. «È ancora una goccia nell oceano, assicura Zebua. Le nostre previsioni basate sull età media delle domestiche e i casi individuati ci lasciano pensare che parecchie migliaia di donne sono interessate ogni anno. Ma è estremamente difficile raggiungerle.» Le indonesiane sono le più vulnerabili di fronte a questi licenziamenti abusivi, valuta Nicole Constable, antropologa all università di Pittsburgh e autrice di uno studio a lungo termine sulle domestiche che diventano madri ( 2): «Nell insieme, esse sono più giovani e meno istruite delle filippine, che hanno una lunga storia di militanza a Hong Kong, spiega. Le indonesiane spesso non leggono né l inglese né il cinese e non hanno accesso a internet. Questi fattori contribuiscono a lasciarle nell ignoranza dei loro diritti.» Gli operatori sociali confessano ugualmente di essere incapaci di informare e * Giornalista. sostenere le birmane, le bangladesi, le tailandesi o le cingalesi, ultime arrivate nel flusso crescente di immigrate. Quasi cinquant anni di storia legano Hong Kong alle sue domestiche. A partire dagli anni 70, il presidente filippino Ferdinand Marcos ha l idea di mandare giovani contadine, attraverso agenzie di collocamento, verso paesi vicini e prosperi. Il beneficio sarebbe duplice: disoccupazione e sottoccupazione in ribasso, e trasferimenti di reddito inviati in valuta da queste lavoratrici in aumento. L Indonesia segue i suoi passi dieci anni più tardi organizzando l emigrazione delle sue giovani donne verso il Vicino Oriente, poi verso Hong Kong dopo la crisi finanziaria del All epoca, Hong Kong completa il passaggio al terziario e deve mettere le sue donne al lavoro. «Tenuto conto della scarsità e del costo dell assistenza, le domestiche offrono una soluzione poco cara per occuparsi dei bambini e delle persone anziane, spiega Albee Chen, dipendente di PathFinders originaria di Hong Kong. Senza di loro, le coppie non potrebbero lavorare in due.» Nel corso degli anni, le migranti diventano un discreto motore di crescita di cui rapidamente Hong Kong non può più fare a meno. Fin dal 2006, l Asian Migrant Centre stimava di 13,8 miliardi di dollari di Hong Kong (1,6 miliardi di euro, 1% del prodotto interno lordo) il loro contributo all economia, sia grazie ai loro consumi che ai risparmi realizzati sull assistenza dei bambini e degli anziani. Hong Kong tuttavia ne tollera solo una presenza a tempo determinato. Costrette a vivere presso i loro datori di lavoro, le domestiche devono lasciare la famiglia al paese di origine. A differenza degli altri stranieri, esse non possono ottenere il permesso di soggiorno permanente, assegnato normalmente dopo sette anni di presenza. Questa disuguaglianza di trattamento è stata l oggetto di un aspra battaglia, stroncata nel marzo 2013 dalla più alta giurisdizione di Hong Kong. Evangeline Vallejos, originaria delle Filippine, rivendicava questo diritto dopo ventisette anni di presenza. La sua istanza è stata respinta. Al termine del processo, il New York Times (3) riportava le parole di Christopher Chung, membro del consiglio legislativo di Hong Kong: «Quando queste straniere arrivano, il loro unico obiettivo deve essere quello di lavorare come domestiche.» Un opinione largamente condivisa: «Le famiglie si aspettano dalle migranti che non siano altro che lavoratrici, che non abbiano alcuna distrazione e, naturalmente, nessuna vita sessuale», conferma Zebua. La gravidanza di queste donne disattende queste aspettative. Non c è da stupirsi quindi che un numero considerevole di datori di lavoro calpesti il loro diritto alla maternità, per avarizia o ignoranza, ma soprattutto perché rimette in discussione il posto che la società concede loro. Una visita sui forum online per stranieri (4) la dice lunga sulla mentalità dei datori di lavoro spiazzati. Si scambiano soluzioni per non sobbarcarsi una lavoratrice «colpevole»: «La vostra domestica dovrebbe assumere la responsabilità di tutto questo. Dovreste parlarle e, con un po di fortuna, arriverete a farla partire», si legge per esempio nelle discussioni. «Non è colpa vostra se è rimasta incinta.» «Non avrebbe potuto proteggersi?» «Verificate con la compagnia aerea fino a quale fase della gravidanza può prendere l aereo.» «Proponete di pagarle il costo di un aborto che potrà poi rimborsarvi.» La maggior parte degli abusi resta impunita. Nel 2014, il ministero del lavoro è stato investito da millenovecentotredici denunce di domestiche, di cui soltanto quattordici per un licenziamento senza giusta causa alla notizia di una gravidanza. «Nove contenziosi sono stati risolti per conciliazione e cinque sono stati giudicati», precisa un porta voce del ministero. «Le agenzie di collocamento dissuadono queste donne dallo sporgere denuncia dicendo loro: Se fai causa al tuo datore di lavoro, non ne troverai altri, si rammarica Zebua. Il loro ruolo consiste essenzialmente nell insegnare loro a essere sorridenti e diligenti in qualsiasi circostanza.» Dopo il deposito del loro ricorso, «un periodo nel limbo» Una volta licenziate, essendo il loro visto scaduto, molte donne restano a Hong Kong e si nascondono per sfuggire a un espulsione senza speranza di ritorno. «Cercando di avvicinarle, ho scoperto una città che non immaginavo», testimonia Albee Chen. Dal 2007, gli operatori sociali incontrano le donne incinte nascoste negli angoli di Chungking Mansions, un gigantesco palazzo del quartiere di Tsim Sha Tsui. Dedalo di corridoi illuminati dal neon, funge da campo base per gli immigrati dal subcontinente indiano. Altre domestiche si trasferiscono nei Nuovi territori, alle porte di Shenzen. A Hong Kong, città verticale, gli slum si affastellano sui tetti. Le donne senza documenti vivono in rifugi di lamiera, con un solo materasso per abitazione. «Durante i tifoni, l acqua s infiltra e tutto è da ricostruire», sospira Chen. Gli attivisti tentano di dissuadere le donne dal restare in clandestinità, ma esse non hanno una alternativa migliore. Nata a Java, Nirmala (5) è arrivata a Hong Kong sette anni fa. Sulle sue ginocchia, sua figlia di due anni ha i capelli crespi del padre africano e gli occhi a mandorla della madre. Quando la coppia da cui lavorava l ha licenziata, Wang Chai, Hong Kong agosto 2008 Lavoratrici domestiche allo sportello immigrazione la giovane donna ha accettato il procedimento di resa: i clandestini accettano di «recarsi» al dipartimento dell immigrazione, ciò sospende la loro espulsione per il tempo dell esame del loro ricorso contestazione del licenziamento o domanda di asilo. Ma i tempi possono raggiungere mesi, persino anni, durante i quali esse hanno il divieto di lavorare. «È un periodo nel limbo, riassume Nicole Constable. Queste donne dipendono da amici o da associazioni per cibo e alloggio.» Con mezze parole, le donne raccontano di prendere qua e là lavori in nero, solo strumento per sopravvivere poiché i loro risparmi sono andati al paese d'origine. Questa attesa, che si aggiunge allo sconforto del licenziamento, le rende particolarmente vulnerabili. «Quando ho dovuto lasciare i miei datori di lavoro, ero completamente abbattuta, testimonia Nirmala. Avevo lavorato duro, notte e giorno, senza vacanze, e da un giorno all altro mi sono ritrovata sulla strada. Ho dormito a casa di un amica per tre mesi, poi ho cominciato a bighellonare nei bar, a fumare, a bere» Nirmala lascia la sua frase in sospeso. La questione della prostituzione è tabù, ma le Ong sanno che non è raro incontrare ex domestiche nei locali di «accompagnatrici» del quartiere a luci rosse di Wan Chai. Le domande di asilo presentate dalla maggior parte delle donne licenziate hanno poche possibilità di arrivare a buon fine. «Il numero di accettazioni è molto basso per l insieme dei migranti e ancora più per le domestiche, constata Mark Daly, un avvocato canadese divenuto il più celebre difensore dei migranti a Hong Kong. Risente del pregiudizio secondo il quale le loro domande sarebbero false o troppo tardive.» Questi tentativi hanno il solo vantaggio di lasciar loro il tempo di preparare una partenza che poche di esse desiderano. Per giustificare la decisione di non concedere la residenza permanente a Evangeline Vallejos malgrado i suoi ventisette anni di presenza, i giudici di Hong Kong hanno stabilito che le migranti dovevano conservare dei legami «sinceri» con il loro paese d origine. La realtà è infinitamente più complessa. Nirmala non è più la benvenuta in Indonesia. «La mia famiglia non vuole vedermi da quando non invio più denaro», dice con voce spenta. Le madri nubili sono rifiutate. Kristina Zebua conosce a memoria il discorso di alcuni parenti, eco crudele di quello degli abitanti di Hong Kong: «Ti abbiamo mandata là per lavorare e riportare denaro, non per restare incinta! Cosa facevi laggiù? Andavi a letto a destra e sinistra?» Shenyl ha tentato di tornare al proprio paese dopo la promessa del padre di suo figlio di raggiungerla. Ma non si è fatto più vivo. «Ho dovuto crescere mio figlio da sola e ho gettato la vergogna sulla mia famiglia. I vicini, e in seguito i miei genitori mi hanno insultata e minacciata di morte.» Shenyl è tornata a Hong Kong con un visto turistico prima di presentarsi alle autorità nella speranza di un ipotetica regolarizzazione. La giovane donna guarda con tenerezza Ibrahim e sogna: «Forse, quando sarà più grande, rientreremo nelle Filippine e affronteremo la situazione insieme. Grazie a suo padre, mio figlio è residente a Hong Kong. Lui almeno ha in mano tutte le possibilità.» (1) Si legga Julien Brygo, «L abc del perfetto servitore: lava, stira, taci», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre (2) Nicole Constable, Born out of Place: Migrant Mothers and the Politics of International Labor, University of California Press, Oakland, (3) Keith Bradsher, «Hong Kong court denies residency to domestics», The New York Times, 25 marzo (4) Asiaxpat, (5) Il nome è stato cambiato. (Traduzione di Monica Guidolin)

15 Le Monde diplomatique il manifesto maggio LA FORZA DEI PITTORI CONTRO GLI ARTIFICI DEI MERCANTI Vedere o avere? Davanti a un opera di stupefacente bellezza chi non ha mai pensato o sentito dire: «Bisogna vedere per credere»? Oggi, i difensori di quella che la critica designa come «arte contemporanea» hanno invertito la proposizione: ormai bisogna credere prima di vedere. E, basando il loro credo sulla risposta del Risorto nel Vangelo secondo Giovanni «Beati quelli che hanno creduto senza aver visto» (Giovanni 20, 29), dichiarano che non si tratta più per lo spettatore di provare la potenza emozionale di un opera, di capirne l intelligenza, di applicare il proprio spirito critico alla tela; esigono, in nome della loro autorità commerciale, istituzionale o artistica, innanzitutto che ognuno dimentichi il proprio sapere e la propria cultura per credere che «è arte» quel che loro affermano. Il «credere» ha dunque sostituito il «vedere» sotto gli auspici della santa Trinità: l artista, il curatore di mostre e il critico d arte. Le malelingue direbbero: il Padre, il Figlio e il povero di spirito... Il primato del successo finanziario sull autorità del talento L arte contemporanea o più esattamente un mercato delle pulci elevato a dignità artistica assomiglia al Teatrino delle meraviglie che due ciarlatani mettevano in scena in un racconto di Cervantes. I due imbroglioni andavano di villaggio in villaggio a mostrare e far adorare il famoso retablo. Tutti dovevano versare un obolo prima di poter ammirare l immagine sacra che potevano scorgere solo gli spagnoli di sangue puro, quanti cioè non erano ebrei, né convertiti, né bastardi. Beninteso, non c era proprio niente da vedere, ma tutti vedevano qualcosa per paura di ricevere epiteti infamanti. Era sufficiente una parola ingannevole perché quel che non c era fosse visto! Nel caso dell arte contemporanea come in quello del Teatrino delle meraviglie, non c è nulla da vedere ma, con la fede impressa negli occhi, il catechismo museale ben stampato nella mente, dobbiamo considerare questo nulla come arte e applaudirlo anche a costo di sottometterci alla regola imposta. Il problema non è stabilire una gerarchia tra le opere. Nell arte contemporanea ci sono indubbiamente alcune creazioni notevoli, così come esistono nella Francia di oggi grandi tendenze pittoriche, nonostante siano ignorate dei poteri pubblici e disprezzate dalla critica. Il problema è l egemonia di questa forma artistica che invade tutti i campi del «vedere» in nome del moderno (post o neo), del modernismo, della modernità, della moda in ogni sua declinazione. I fondi regionali di arte contemporanea (Frac), le Direzioni regionali per gli affari culturali (Drac), tutte le rime in «ac» delle istituzioni culturali ne sono interamente pervase, e la pittura, come Gesù nel Vangelo di Matteo, «non ha un posto dove poter riposare» (Matteo 8, 20). Attualmente, a Parigi e in Francia non esiste alcun luogo pubblico in cui si possa ammirare la creazione pittorica contemporanea esposta con regolarità nelle grandi gallerie private. Crudele mancanza. In occasione dell ultima mostra di * Cineasta, scrittore. Questo testo riprende una parte di Conversations sacrées, opera concepita insieme al pittore Patrice Giorda (L Atelier contemporain, Strasburgo, 2015). Cadaveri in formalina, immagini di ragazze nude coperte di fango: queste audacie molto convenzionali, sorrette dal valore finanziario, prodotto dall effetto moda, dominano l arte contemporanea. In maniera più discreta, alcuni pittori continuano ad affrontare la tela per produrre deflagrazioni estetiche e sensoriali in grado di nutrire l occhio, il cervello e l intero corpo dello spettatore. Ernest Pignon-Ernest, il pubblico si è ammassato nella galleria Lelong a Parigi (1). La folla non si può usare altro termine non era venuta per acquistare; era venuta in massa per vedere l opera di un artista che poteva scoprire unicamente in questo luogo privato! Pignon-Ernest è solo un esempio tra mille del trattamento riservato oggi ai pittori che quotidianamente affrontano su tela le sfide del tratto, del colore, della luce e sono ostracizzati, come in Cervantes, giudicati «passatisti», «accademici», «reazionari», ossia «ebrei e bastardi» dell arte. Prendiamo per oro colato è proprio il caso di dirlo! la provocazione che sarebbe, per sua natura, l espressione stessa dell arte contemporanea. Chiaramente, non dobbiamo cercarla nella fattura delle opere esposte. La stragrande maggioranza di queste ultime oscilla tra il gioco al dottore dei bambini e un Duchamp rivisitato, un Warhol senza verve, un tonto vanesio del calibro di Vadius e Trissottino la cui celebre replica potrebbe servire come didascalia a molte installazioni, mostre, esibizioni o performance: «Oltre a questo, egli scrive meraviglie in versi e in prosa, e potrebbe, se volesse, mostrarvi qualcosa». Grazie, Molière, per questo meraviglioso condizionale «potrebbe, se volesse» capace di far svenire tutte le donne sapienti di ieri e di oggi. GÉRARD MORDILLAT* Michelangelo Merisi, detto Caravaggio Vocazione di san Matteo, La forma non è affatto sorprendente: cadaveri in formalina come al Museo dell Uomo, palloncini modellati a forma di cane come se ne incontrano alle fiere, totem di Lego, ammassi di mattoni rubati da un cantiere, un cavo teso in una stanza vuota, video dell eterna ragazza nuda avvolta, a seconda dei casi, nella seta, nel fango, nella sabbia, nel sangue, nella merda... Il modo di produzione è industriale, la mano dell artista ormai non è altro che quella di un caposquadra che dirige i propri operai con il fischietto. No, la provocazione dell arte contemporanea dipende da un unico fattore: il denaro il prezzo a cui questi lavori sono valutati e venduti (2). Non è bello perché è bello (indipendentemente dal significato che attribuiamo a questo termine), è bello perché è caro! L autorità del successo finanziario prevale sull autorità del talento. L avere soppianta il vedere. L opera, in realtà, importa poco o nulla. Conta unicamente il suo valore commerciale, come nella vecchia storiella ebraica del pantalone con una gamba sola che un credulone cerca di infilare prima di scoprire a proprie spese che non è fatto per essere indossato ma per essere venduto e rivenduto, così come oggi le opere più in vista dell arte contemporanea. «I borghesi del XIX secolo compravano William Bouguereau (3), oggi acquistano Jeff Koons», ironizza Pignon- Ernest. La financial art ha scalzato le Belle Arti. Scommettiamo che un giorno ammesso che non sia già accaduto un opera sarà costituta unicamente dall affissione del suo prezzo. E non sarà il quadrato nero su fondo bianco di Kazimir Malevic, ma la ricevuta fiscale ingrandita alle dimensioni delle Nozze di Cana, di Veronese. Un pensiero pittorico fatto di colori, ombre e luci Per dipingere ci vogliono talento e coraggio, mentre per vendere del niente incastonato di pattume o diamanti servono boria e cupidigia. Invece, siamo di fronte a un caso di innata imbecillità quando sentiamo un Damien Hirst sostenere da spaccone che «chiunque può dipingere come Rembrandt», perché basta «allenarsi» (4). Le tele di Filippo Lippi, Nicolas Poussin, Matthias Grünewald, Tiziano, Caravaggio, Pablo Picasso, Georges Rouault, Paul Gauguin, Edward Hopper, Diego Velázquez, Simone Martini e altri, la cui lista è infinita, si rivolgono a noi al presente, riflettono (in ogni senso), «pensano», come diceva Daniel Arasse e soprattutto «pensano pittoricamente», come aggiunge Patrice Giorda (5). La storia della pittura della grotta Chauvet oggi ci dice molte più cose sul mondo in cui siamo che cento rivendicazioni del «contemporaneo». Ci insegna a vedere dove gli altri ci ingannano, se già non ingannano se stessi. Si torna allora alla questione di vederci bene o di non vederci niente, perché questo pensiero pittorico non è fatto di parole ma di colori, ombre e luci, di cui dobbiamo, tocco dopo tocco, decifrare la grammatica. C è qualcosa di profondamente fisico nella visione di una tela; l emozione non è necessariamente intellettuale, può far avvampare tutti i meridiani del corpo, una scossa che contrae i muscoli ed eccita i nervi. Bisogna metterci del proprio, sporcarsi le mani, come Tiziano che finiva le sue tele «più spesso con le dita che con un pennello (6)». Restituendo al «vedere» la sua forza sovversiva opposta al «credere» clericale e commerciale, quanti oggi dipingono controcorrente rispetto alle vanità e alle frodi «contemporanee» ridanno all atto del dipingere la dignità, il mistero, la capacità di trasformare il mondo con un solo sguardo. (1) Si legga «Il miracolo del disegno contro l amnesia», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre (2) Si legga Philippe Pataud Célérier, «L art (contemporain) de bâtir des fortunes avec du vent», Le Monde diplomatique, agosto (3) William Bouguereau ( ) è un pittore accademico. (4) «Damien Hirst: Anyone can be Rembrandt», The Guardian, Londra, 14 novembre (5) Per vedere l opera di Patrice Giorda: Galerie le Lutrin/ Paul Gauzit, 4, Place Gailleton Lione. Cfr. anche le novità su (6) Citato da Marco Boschini, Le Ricche Miniere della Pittura Veneziana, Venezia, (Traduzione di Alice Campetti) diploteca plus Imparare ad amare Giuseppe Ferraro Castelvecchi, 17,50 euro Giuseppe Ferraro, docente di filosofia morale da sempre attento a un applicazione pratica del sapere filosofico, parte dalla nota sentenza di Nietzsche «si deve imparare ad amare», contenuta nella Gaia Scienza, per riflettere e indagare il diverso dispiegarsi della fenomenologia amorosa, dall intimità al desiderio, dalla gelosia al possesso, passando attraverso il tradimento, l abbandono e l amicizia. Testo caleidoscopico e divulgativo al tempo stesso, Imparare ad amare manifesta sin dall inizio la propria vocazione al paradosso «gnostico», cioè a un andamento speculativo che, dimostrando la paradossalità dell universo amoroso in tutte le sue specificità, conduce il lettore a un grado superiore di comprensione delle dinamiche e dei vincoli amorosi; d altronde lo stesso monito di «imparare ad amare» è un monito paradossale in quanto nessuno può insegnarci ad amare, impariamo ad amare solo dopo che siamo entrati nell amore: amando e soltanto amando, si può imparare ad amare. Ovviamente, trattandosi di un libro sull amore, c è un interrogativo di fondo che per tutti è imprescindibile, un interrogativo che sottende l intera speculazione: cosa è l amore vero? Giuseppe Ferraro non ha dubbi circa la risposta da fornire a questa domanda ricorrente: per sapere cosa è l amore vero, bisogna rivolgersi a chi ritiene che l amore vero non esista, sono loro a saperne dare la perfetta definizione. Lo indicheranno magari come fedeltà, lo intenderanno come amicizia, salvo poi chiedere se l amicizia vera esiste, risponderanno ancora in coro che non esiste. Mentre se ci azzarderemo a chiedere cosa è l amore vero a quelli che ne sostengono l esistenza, questi non daranno una definizione ma cominceranno senza sosta a raccontare il loro amore. Diranno di come è lui, di come è lei. Questa affermazione, apparentemente paradossale, ci fa comprendere una variabile innegabile dei processi di conoscenza, e cioè quella per cui possiamo definire con rigore e precisione le condizioni in cui non siamo coinvolti in prima persona, quelle dalle quali vantiamo una consapevole distanza, mentre chi si trova in una determinata condizione (l amore ma anche la libertà, per esempio), possiede un sapere incarnato di quella condizione che è il sapere non dell essere ma dello stare a essere, perché chi ama sa che dell amore non si può dire che cos è, si può raccontare di quel che fa, dei suoi effetti, di quel che fa essere. L amore cambia, trasforma. Giuseppe Ferraro, analizzando poi alcuni capolavori della letteratura mondiale, come Anna Karenina di Tolstoj o L amore al tempo del colera di Gabriel Garcia Marquez, e rievocando i grandi maestri della filosofia come Platone o Blanchot, prova a ricostruire alcune tappe fondamentali dell educazione sentimentale, l unica educazione, probabilmente, che dà senso al nostro esserci al mondo, l unica che può riqualificare la nostra vita, approssimandoci all unica morte che vale la pena conoscere e che si riassume nell espressione «morire d amore», un espressione che allude a una morte senza morte: gli amanti muoiono per vivere. Il loro è morire senza perdere la vita. Morire d amore è non finire mai di amarsi, non smettere mai di morire. Claudio Finelli La testimonianza di Vittorio Arrigoni da Gaza Restiamo umani The Reading Movie Un film di Fulvio Renzi diretto da Luca Incorvaia scritto da Vittorio Arrigoni DVD in vendita sullo store del sito a 9,5 euro comprese le spese di spedizione Il ricavato del libro sarà interamente devoluto all asilo Vittorio Arrigoni a Gaza

16 16 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Quando viene meno la pluralità delle lingue nelle organizzazioni internazionali Il costo del monolinguismo Il luogo comune è che generalizzare l'uso dell'inglese nelle organizzazioni internazionali permetterebbe di realizzare considerevoli risparmi. L'analisi delle cifre relativizza questa asserzione che si basa su una visione limitata e di parte. L'imposizione di un'unica lingua genera ingiustizie ed errori, mentre la diversità linguistica favorisce l'esercizio dei diritti e la vitalità democratica. Dominique Hoppe* I n seno alle organizzazioni internazionali la politica linguistica è oggetto di intensi dibattiti. Sebbene le regole statutarie definiscano le lingue ufficiali e le lingue di lavoro (6 lingue alle Nazioni unite [1], 24 nell Unione europea [2]), si impone poco a poco un monolinguismo di fatto. Si parla, quasi senza complessi, di un nuovo linguaggio comunicativo: l English lingua franca (3) (Elf). Presentata a lungo come il risultato deplorevole ma inevitabile di tagli al bilancio, questa evoluzione sembra oggi accettata. Gli uffici delle organizzazioni internazionali accettano ormai il predominio dell inglese e i suoi difensori sostengono la sua internazionalizzazione: affrancato dalle pratiche e dalle interpretazioni dei madrelingua, non costituirebbe più una minaccia per la diversità linguistica o l imparzialità. Spesso adepti della dottrina della «nuova gestione pubblica» (4), coloro che difendono l Elf insistono sul fatto che il suo uso sarebbe il migliore mezzo per impedire un insostenibile aumento dei costi. Tuttavia questo argomento non regge all analisi. L Unione, che ha il sistema formale più esigente in termini di lingue di lavoro, spende circa 1,1 miliardi di euro all anno per i servizi linguistici, il che corrisponde all 1% del bilancio, 0,0087% del prodotto interno lordo (Pil), 2,20 euro per residente o 2,70 euro per cittadino con più di 15 anni. Anche se potrebbe aumentare, una spesa di meno dello 0,01% del Pil non potrebbe essere considerata come economicamente insormontabile. Inoltre, le riduzioni dei costi evocate per giustificare l Elf si fondano generalmente sui rapporti di bilancio delle organizzazioni coinvolte. Le riduzioni si riferiscono esclusivamente ai costi primari diretti (traduzioni, * Presidente dell Assemblea dei funzionari francofoni delle organizzazioni internazionali (Affoi) ECO TOURISM IN interpretariato) e indiretti (spese generali associate ai servizi linguistici) imputati alle istituzioni stesse. Sulla base di questi criteri, si può falsamente «dimostrare» che il monolinguismo è meno caro del multilinguismo. In realtà, il costo reale di un regime linguistico si apprezza solo prendendo in considerazione le spese secondarie e implicite, non solamente per la stessa organizzazione, ma anche per l insieme degli attori coinvolti. Ridurre o sopprimere le traduzioni non ne elimina la necessità, per esempio. Queste dovranno essere effettuate altrove e rappresenteranno dunque un onere per qualcun altro. Ciò che è presentato dai sostenitori dell Elf come una riduzione dei costi non è nient altro che un trasferimento degli stessi. L errore del presidente dell Eurogruppo Il lancio nel 2014 del nuovo programma «Erasmus+» per l educazione, la formazione, la gioventù e lo sport fornisce una dimostrazione degli effetti perversi di un tale trasferimento. In contraddizione con le regole linguistiche dell Unione europea, la guida del programma era stata inizialmente pubblicata unicamente in inglese, per poi essere tradotta dopo la data limite per la consegna dei dossier per il primo ciclo di candidature; la situazione era dunque simile a ciò che si verificherebbe se l Elf fosse ufficialmente riconosciuto. Il documento è stato quindi tradotto, in funzione dei mezzi di ciascuno, a diversi gradi di precisione, in più lingue (ma non tutte) e da attori differenti (ministeri, università, associazioni, società private ). L accesso al contenuto era parziale e cambiava da una lingua all altra; le traduzioni offerte si sono rivelate a volte contraddittorie. Il gran numero di doppioni rendeva difficile l identificazione della migliore informazione. Così, la mancanza di traduzione iniziale ha EAST & SOUTHERN AFRICA Based in Malawi since 2005 follow us prodotto confusione e moltiplicazione dei costi. Gli anglofoni, loro sì, hanno potuto approfittare della situazione visto e hanno avuto un più facile accesso alla richiesta di fondi e alle possibilità offerte dal programma. Se allarghiamo l analisi comparativa fra monolinguismo e multilinguismo alla comunicazione nei due sensi (esprimersi e comprendere l altro) la differenza dei costi esplode. Ancora una volta è l Unione europea che offre l esempio più evidente. Attualmente i testi sono ufficialmente tradotti in 24 lingue, e ciascun cittadino può scegliere la lingua nella quale rivolgersi alle istituzioni. Ciò rende la comunicazione diretta possibile per tutti. Permette anche a tutti i cittadini europei di partecipare, se lo desiderano, ai più importanti dibattiti finanziari o politici. Questa politica multilingue è dunque garante del processo democratico stesso. Gli studi più recenti indicano che, se l inglese fosse l unica lingua dell Unione, il costo di acquisizione delle competenze linguistiche necessario affinché ciascun paese possa intervenire e partecipare in maniera equa alle attività comuni sarebbe di circa 48 euro per cittadino europeo ogni anno. Al di là del fatto che il processo di apprendimento richiederebbe un periodo di tempo considerevole e che niente prova che sia sociologicamente realizzabile, siamo lontani dai 2,70 euro dell attuale multilinguismo europeo, con tutti i suoi limiti (5). Un aneddoto riassume bene il costo finanziario degli errori e dell approssimazione nell uso dell inglese e quello, più politico, delle difficoltà di comprensione, di espressione e di negoziazione legati all impiego di una lingua «imposta». Nel marzo 2013, intervistato dal quotidiano britannico Financial Times, il presidente dell Eurogruppo, l olandese Jeroen Dijsselbloem, dichiarò che il piano di salvataggio europeo di Cipro poteva essere considerato come un modello riproducibile, provocando una caduta dell euro e dei valori bancari. Questa dichiarazione, contraria alle posizioni dell Eurogruppo, riposava su un errore. Dijsselbloem, che non conosceva il senso della parola inglese template («modello» in linguaggio informatico), non ha osato dirlo: ha dunque mal compreso la domanda e risposto in maniera erronea. Se i vantaggi economici globali del monolinguismo sono contraddetti dalle cifre, il suo interesse per i britannici o gli irlandesi è incontestabile. Il madrelingua approfitta di una posizione privilegiata in campi come traduzione, interpretariato, edizione, educazione o produzione di strumenti educativi. Essendo la sua lingua il punto di riferimento, può sviluppare attività nel settore in maniera ottimale e a costi minori, coperti dalle organizzazioni interessate. Questo vantaggio strategico gli procura de facto dei risparmi sostanziali che potranno essere investiti altrove, con effetti considerevoli. Mai compensato, questo fenomeno rompe l equilibrio fra nazioni e l uguaglianza fra i cittadini europei che sono il cuore delle politiche multilaterali. Nel 2001 il British Council stimava il valore dei prodotti legati alla lingua inglese a 13 miliardi di euro (6). Nel 2005 un rapporto (7) ordinato dall Alto consiglio di valutazione della scuola esaminò queste cifre nel dettaglio. Prendendo in considerazione la crescita del prodotto interno lordo (Pil) nominale, gli effetti moltiplicatori e le rendite liberate, i mercati privilegiati furono stimati in 8,4 miliardi di euro, i risparmi per traduzione e interpretariato in 2,2 miliardi di euro e l economia realizzata nell insegnamento di lingue straniere in 6,4 miliardi di euro. Nel 2014 questo effetto di trasferimento in favore del Regno unito, dovuto alla posizione dominante dell inglese, fu stimato in 21 miliardi di euro. Sotto l influenza della «nuova gestione pubblica», le preoccupazioni di bilancio azzerano il dibattito sui regimi linguistici. Tuttavia, le sfide sono prima di tutto politiche. Nel 1998 Boutros Boutros-Ghali, ex segretario delle Nazioni unite e allora presidente dell Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), ne esprimeva già la natura: «Il primo motivo della nostra posizione sul plurilinguismo è il rispetto dell uguaglianza fra gli Stati. Sappiamo che il fatto di obbligare funzionari internazionali, diplomatici o ministri a esprimersi in una lingua che non è la loro equivale a metterli in situazione di inferiorità. Ciò li priva infatti delle capacità di sfumatura e di raffinatezza, il che equivale a fare delle concessioni a coloro che si esprimono nella loro madrelingua. Sappiamo anche che tutti i concetti che sembrano affini sono spesso differenti da una civiltà all altra. Le parole esprimono una cultura, una maniera di pensare e una visione del mondo. Per tutte queste ragioni, credo che, come la democrazia di uno Stato è fondata sul pluralismo, la democrazia fra gli Stati deve essere basata sul plurilinguismo (8)». L analisi dei siti internet delle organizzazioni internazionali prova che la stragrande maggioranza di queste soffre di monolinguismo (9) e delle sue ripercussioni culturali e concettuali. Sulle 30 agenzie decentralizzate dell Unione europea, 21 presentano il loro sito unicamente in inglese, 5 offrono una lingua differente privilegiando comunque l inglese e solo 4 sono davvero linguisticamente diversificate. In campi diversi come quelli coperti dall Autorità bancaria europea (Abe), l Agenzia di cooperazione fra i regolatori nazionali dell energia (Acer) o l Agenzia europea della difesa (Aed), la conoscenza dell inglese è necessaria per informarsi. Senza parlare dei regolari rapporti sulla minaccia islamista in Europa, che sono pubblicati dall'europol esclusivamente in inglese Una certa visione del mondo Michele Meister Communication A livello globale i segni dell egemonia culturale e concettuale sono incontestabili. Si sa che il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno, a partire dagli anni 80, costruito una forma di sviluppo fondata sull ideologia neoliberista e applicato questa ideologia indifferentemente ad America latina, Sud-Est asiatico e oggi Europa del Sud. Come non preoccuparsi del progressivo slittamento della giustizia penale internazionale verso un modello che privilegia il diritto giurisprudenziale della common law (10)? Gli esempi della stessa natura sono numerosi. Come si può essere sorpresi allora della diffidenza che nutrono i cittadini per le istituzioni multilaterali? Sintomo emblematico di una certa visione del mondo, il monolinguismo è un indicatore importante degli equilibri geopolitici globali. Limitarlo aumenterebbe la capacità delle nazioni di agire insieme in maniera armoniosa nel rispetto delle proprie differenze. (1) Mandarino, russo, inglese, francese, arabo e spagnolo. (2) Tutte le lingue ufficiali di ognuno degli stati membri sono lingue ufficiali dell Unione europea. (3) Una lingua franca è una lingua comune utilizzata da persone di madrelingua diversa. (4) Dottrina che utilizza i modelli della gestione privata nella gestione pubblica. (5) François Grin, «Valeur du français, valeur du multilinguisme: exploration des convergences pour une politique francophone du multilinguisme», in Jean François Simard e Abdoul Echraf Ouedraogo (a cura di), Une francophonie en quête de sens. Retour sur le premier Forum mondial de la langue française, Presses de l université Laval, Quebec, (6) British Council, «Annual report ». (7) François Grin, «L enseignement des langues étrangères comme politique publique», rapporto per l Alto consiglio di valutazione della scuola, Parigi settembre 2015, trad.it: L insegnamento delle lingue straniere come politica pubblica, Roma, Esperanto Radicala Asocio, (8) Simposio sul plurilinguismo nelle organizzazioni internazionali, Ginevra, 5-6 novembre (9) «Rapport synthétique des analyses des pratiques linguistiques appliquées aux sites Internet des organisations internationales» (2013), (10) Si legga Cyril Laucci, «Quando si impone il diritto anglosassone», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile (Traduzione di Luca Endrizzi)

17 dossier Le Monde diplomatique il manifesto maggio La germania, potenza senza desideri «Alla Francia piacerebbe che qualcuno obbligasse il Parlamento [ad adottare delle riforme], ma è difficile, siamo in democrazia.» Queste parole, pronunciate lo scorso 16 aprile dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, non mostrano solo il disprezzo dei dirigenti europei per la sovranità popolare. Sottolineano soprattutto l inedita posizione di forza che la Germania ha conquistato in Europa, imponendo ai suoi vicini una cultura economica centrata sull equilibrio di bilancio. Ma questo culto conservatore votato allo zero zero deficit, zero debito, zero tolleranza nei riguardi di Atene nasconde fratture profonde all interno del paese; in materia di moneta unica e immigrazione (si legga alle pagine 18 e 19), di industria militare (si legga a pag. 21) o ancora di rapporto delle donne con il lavoro (si legga a pag. 20). Infine, altri contrasti percorrono la zona euro (si legga qui sotto). Per quanto tempo? Egemone per caso D opo la guerra, la Repubblica federale di Germania non ha mai coltivato il progetto di guidare l Europa. Tutti i suoi responsabili politici, di qualunque colore, pensavano che il loro paese avesse un problema fondamentale nei confronti dei suoi vicini: era troppo grande per suscitare amore e troppo piccolo per incutere timore. Dunque occorreva che si fondesse in una entità europea più ampia, per poi guidarla insieme ad altre nazioni come la Francia. Dato che poteva accedere ai mercati esteri e approvvigionarsi in materie prime ed esportare i suoi manufatti, la Germania non si preoccupava di acquisire una posizione dominante sulla scena internazionale. L integrità dell Europa aveva una tale importanza agli occhi del cancelliere Helmut Kohl ( ) che ogni volta che fra i partner si verificava qualche attrito, egli si affrettava a fornire i mezzi materiali per salvare l unità europea, o almeno la sua apparenza. Il governo di Angela Merkel deve oggi far fronte a una situazione completamente diversa. A sette anni dall inizio di una crisi finanziaria della quale non si vede tuttora la fine, tutti i paesi d Europa e anche oltre si rivolgono alla Germania affinché trovi una soluzione, e spesso, una soluzione alla Kohl. Ma i problemi attuali sono troppo grandi per essere risolti mettendo la mano al portafogli. La differenza fra Merkel e il suo predecessore non è nel fatto che la prima aspiri a diventare la Führerin dell Europa: è che l epoca la obbliga, lo voglia o no, a mettersi i pantaloni per occupare la scena europea. Le difficoltà sono notevoli. Sul fronte europeo, l integrazione è sfociata in una catastrofe politica ed economica. E la Germania, diventata un attore abbastanza importante da essere accusata di tutti i mali, resta troppo piccola per offrire rimedi. In Europa, gli anni seguenti la crisi monetaria hanno avuto ragione della simpatia che i governi tedeschi del dopoguerra erano riusciti bene o male a suscitare nei loro vicini. Nei paesi mediterranei, e in una certa misura in Francia, la Germania è più detestata di quanto lo sia mai stata dal Non si contano le caricature dei suoi dirigenti vestiti con uniformi della Wehrmacht con tanto di croce uncinata. Per i candidati di sinistra come per quelli di destra, il mezzo più sicuro per vincere le elezioni è far campagna contro la Germania e la sua cancelliera. Nel Sud dell Europa, l adozione del «quantitative easing (1)» da parte della Banca centrale europea è stato applaudito come una vittoria su Berlino. In Italia, Mario Draghi, ex quadro della Goldman Sachs e fervente difensore del neoliberismo, viene acclamato come un eroe nazionale perché a più riprese avrebbe avuto la meglio sui «tedeschi». Il nazionalismo risorge nell insieme dell Europa, anche in Germania, un tempo il paese meno nazionalista di tutti. La politica estera dei paesi dell Europa del Sud ormai consiste nel tentare di strappare concessioni alla Germania, in nome dell interesse nazionale, della «solidarietà europea» o magari dell intera umanità. Nessuno sa quanto tempo occorrerà per guarire le ferite causate dall Unione europea nei rapporti fra la Germania e paesi come l Italia o la Grecia. * Direttore emerito dell Istituto Max Planck per lo studio delle società, di Colonia, autore de Du temps acheté. La crise sans cesse ajournée du capitalisme démocratique, Gallimard, Parigi, Pagine 18 e 19 Wolfgang Streeck * Daniel Richter, Uwe Take the long and winding road, 2006 Per un ironia della storia che non può essere sfuggita alla cancelliera, l Unione economica e monetaria, che doveva definitivamente consolidare l unità europea, rischia oggi di frantumarla. I responsabili politici tedeschi cominciano a capire che il conflitto non si riferisce al «salvataggio» dello Stato greco o delle banche francesi (e tedesche), e che un abile intervento chirurgico sotto forma di un nuovo «piano di aiuti» non farà rinascere l unità. Al contrario: il conflitto è legato alla stessa struttura della zona euro, che riunisce società disparate, con istituzioni, pratiche e culture molto dissimili, riflesse dai diversi contratti sociali che regolano i rapporti fra il capitalismo moderno e la società. A queste economie politiche divergenti corrispondono regimi monetari distinti (2). Schematicamente, i paesi del Mediterraneo hanno sviluppato un modello di capitalismo nel quale la crescita si fonda anzitutto sulla domanda interna. Se necessario, la si stimolerà grazie a un inflazione alimentata dai deficit pubblici e da potenti sindacati garanti della sicurezza dei posti di lavoro, soprattutto nel settore pubblico. L inflazione permette agli Stati di ottenere prestiti più facilmente, svalutando il loro debito. Questi paesi possiedono inoltre un sistema bancario pubblico o semipubblico fortemente regolato. Tutti questi elementi combinati assicurano in teoria un armonia relativa fra gli interessi dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro, in particolare nelle piccole imprese che vendono i loro prodotti sul mercato interno. Ma la contropartita della pace sociale è un deficit di competitività sul piano internazionale, che occorre periodicamente compensare svalutando la moneta nazionale, a scapito degli esportatori stranieri. Ovviamente, la condizione di questa politica è la sovranità monetaria. Le economie dell Europa settentrionale, in primo luogo della Germania, funzionano in altro modo. Dal momento che devono la loro crescita al successo sui mercati esteri, sono ostili all inflazione. Questo vale anche per i lavoratori e i sindacati, soprattutto oggi, quando ogni aumento dei costi può provocare delocalizzazioni. Un economia di questo tipo non si preoccupa di poter svalutare. Mentre i paesi mediterranei compresa, in una certa misura, la Francia hanno beneficiato in passato della loro flessibilità monetaria, paesi come la Germania hanno adottato una politica monetaria rigorosa. Ecco perché si mostrano anche ostili al debito, benché, a causa del loro debole livello di indebitamento, essi beneficino generalmente di bassi tassi d interesse. E poiché possono fare a meno della flessibilità monetaria, essi evitano il rischio di bolle speculative sui mercati azionari. Infine, questa politica va a vantaggio dei risparmiatori, che sono molti. Il detto «Erst sparen, dann kaufen» («Dapprima risparmiare, poi acquistare») riassume bene l atteggiamento tradizionalmente incoraggiato dalle istituzioni politicoeconomiche in Germania. sui prestiti e la spesa pubblica, come nell Europa del Sud. Dunque, uno dei due modelli dovrà, per avvicinarsi all altro, riformare il proprio sistema di produzione e al tempo stesso il contratto sociale sul quale si fonda. Attualmente i trattati costringono i paesi mediterranei a diventare «competitivi», sotto la guida di una Germania garante del rigore monetario. Ma non è quello che i loro governi desiderano o possono fare almeno nel breve periodo. Di conseguenza, due linee si scontrano all interno della zona euro, in una lotta tanto più violenta perché non si riferisce solo ai mezzi di sussistenza ma anche al modo di vita dei popoli. Lo testimoniano gli stereotipi che oppongono i «greci pigri» ai «tedeschi austeri», che «vivono per lavorare anziché lavorare per vivere» e appaiono come guardiani inflessibili perché difendono al tempo stesso i trattati e il proprio contesto capitalistico. I tentativi degli europei del Sud di ottenere una maggiore flessibilità dell euro che permetterebbe loro di ritrovare i tassi di inflazione, i deficit pubblici e le svalutazioni su cui si fonda la loro economia si scontrano con l opposizione degli Stati e degli elettori del Nord, che rifiutano di fare i prestatori di ultima istanza per i loro vicini meridionali. I paesi della zona euro non possono convergere, ma non vogliono nemmeno separarsene, almeno per ora: i paesi esportatori dell Europa del Nord venerano i tassi di cambio fissi, mentre quelli del Sud vogliono tassi d interesse più bassi possibile, e in cambio accettano una limitazione dei deficit, nella speranza che i loro partner si mostrino più clementi dei mercati finanziari. Attualmente, la Germania e i suoi alleati hanno la meglio. Nel lungo periodo, nessuno si può permettere di perdere la battaglia: il perdente si vedrebbe costretto a ricostruire la propria economia politica e a intraprendere un cammino di transizione lungo, incerto e tumultuoso. I paesi del Sud sarebbero condannati a costruire lo stesso mercato del lavoro che esiste nell Europa del Nord, e i tedeschi a smetterla con la loro mania del risparmio, che i loro partner ritengono distruttrice ed egoista. In questo senso, si può ritenere che il programma di quantitative easing adottato dalla Bce, che ufficialmente mira a far risalire il tasso di inflazione al 2%, si inscriva in una strategia vantaggiosa per i paesi mediterranei. E del resto si è immediatamente tradotto in una riduzione del tasso di cambio della moneta unica. Ricordiamo che Enrico Letta, durante il suo breve passaggio alla presidenza del consiglio in Italia (aprile 2013-febbraio 2014) imprecava contro il livello di questo «fottuto euro» che impediva la ripresa nel suo paese. Il problema è che un simile deprezzamento favorisce soprattutto paesi esportatori come la Germania e non migliora affatto la situazione delle economie più deboli. Nel più lungo periodo, potrebbe anche scatenare una corsa mondiale alla svalutazione. Inoltre, in Germania le industrie esportatrici non si dispiacerebbero di un miglioramento ulteriore della propria competitività, mentre i risparmiatori dovrebbero sopportare a lungo tassi di interesse negativi. Le discussioni sul futuro del regime monetario europeo sono sia morali che tecniche; e su questo piano, occorre sottolineare che nessuna di queste forme di capitalismo è superiore alle altre. L applicazione del capitalismo nella società, una questione di improvvisazioni e compromessi, non è mai pienamente soddisfacente, da nessun punto di vista. Questo non impedirà ai sostenitori di ogni modello nazionale di ritenere carenti gli altri a confronto con il proprio, che sarebbe naturale, razionale e conforme ai più elevati valori sociali. Così, i tedeschi non comprendono che, quando intimano ai greci di «riformare» la loro economia politica, e dunque di riformare se stessi, per farla finita con gli sprechi e la corruzione, quello che si chiede è di sostituire la corruzione tradizionalmente radicata nella società greca con un altra: quella moderna e finanziarizzata alla Goldman Sachs, inerente al capitalismo contemporaneo. Cosa c'è di nuovo a destra, di Dominique Vidal Pegida, l'islamofobia e la demografia (D. V.) «Bild» contro i I violenti conflitti ideologici ed economici che lacerano l Europa e ciclonudisti, di Olivier Cyran alimentano i nazionalismo non sono vicini a calmarsi. Anche supponendo che l austerità finisca per rendere più competitiva l Europa del Sud, si stima che essa determinerà anche nei paesi debitori una riduzione del livello di vita del 20-30% rispetto alla situazione precedente Pagine 20 e 21 al Viene loro imposto questo regime con l assicurazione che Il passo indietro delle donne dell Est, di Sabine Kergel la liberalizzazione dei mercati rafforzerà le loro economie, le quali Egemone per caso, seguito da pagina 17 dell'articolo di Un regime monetario unificato non può andare a vantaggio al potranno dunque recuperare il loro ritardo e ridurre le disparità di Wolfgang Streeck Imbarazzo e silenzi sul commercio di armi, tempo stesso delle economie basate sul risparmio e sugli investimenti, come nell Europa del Nord, e delle economie che si fondano continua a pagina di Philippe Leymarie - 20

18 18 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto dossier Ricchezza e povertà Prodotto interno lordo in miliardi di euro Tasso di povertà 1 Disoccupazione e povertà in percentuale 16,1 % 16 Cosa c è % ,2 % Uscire dall euro, ma verso destra. È la base del programma dell Alternativa per la Germania (Afd), una formazione politica nazionalista e conservatrice. Il cui sviluppo semina il panico Statistiche Tasso di disoccupazione 2 7,7 % Quota di popolazione con reddito inferiore al 60% del reddito medio dopo i trasferimenti sociali 2. In età lavorativa Fonti: Eurostat; Destatis. Popolazione: 80,9 milioni di abitanti al 30 giugno 2014; 7,2 milioni gli stranieri. Tasso di natalità: 1,41 bambini per ogni donna nel Popolazione attiva: 42,1 milioni alla fine del 2014 (28,6 milioni in Francia), in leggerissimo aumento. Saldo migratorio: persone nel Nel 2013 le donne ricevevano una paga oraria inferiore del 23% rispetto agli uomini nel territorio della ex Repubblica federale di Germania, contro il 6% in meno nel territorio della ex Repubblica democratica di Germania. Fra il 2007 e il 2011 (ultimi dati disponibili), il reddito reale lordo del 10% più povero è diminuito del 6,1%, mentre quello del 10% più ricco è aumentato dello 0,7%. Nel 2012, la Germania presentava la maggiore disuguaglianza nella zona euro quanto alla ripartizione della fortuna netta (valori mobiliari e immobiliari meno i debiti) misurata dal coefficiente di Gini. Nel 2012, il quarto più povero dei tedeschi possedeva una fortuna netta uguale a 0; la metàdei tedeschi possedeva una fortuna netta inferiore a euro; l 1% più ricco aveva una fortuna di almeno euro. Nel 2011, il 10% delle famiglie più ricche possedeva il 59,2% della ricchezza netta dell insieme delle famiglie, mentre la metà più povera ne possedeva il 2,8%. Nello stesso anno, la ricchezza netta media delle famiglie dell ex Repubblica democratica di Germania era di euro, contro i euro per i tedeschi dell Ovest. Fonte: Destatis; «Life situation in Germany», ministero federale del lavoro e degli affari sociali, Bonn, marzo 2013; «Vermögensverteilung», bollettino settimanale dell Istituto tedesco per la ricerca economica, n. 9, Berlino, 26 febbraio 2014; «Household wealth and finances in Germany: results of the Bundesbank survey monthly report», Bundesbank, rapporto mensile, Francoforte, giugno Dati raccolti da Eva Spiekermann. Lavoro atipico 1 Precario Uomini Donne «Mini-jobs» 2 Tempo parziale A tempo determinato Lavoratori autonomi Numero di occupati in milioni 0, Queste categorie non si sommano, un posto di lavoro può appartenere a più d una 2. Impiego remunerato al massimo con 400 euro mensili (450 euro dal 2013) Fonti: Destatis, «Atypische Beschäftigung»; Bundesagentur für Arbeit, , dal nostro inviato speciale Dominique Vidal* Dobbiamo a Franz Josef Strauss una delle leggi d acciaio della politica tedesca. Pilastro della Repubblica di Bonn, il boss dell Unione cristiano-sociale (Csu), sorella minore bavarese dell Unione cristiano-democratica (Cdu), nel 1986 aveva affermato: «A destra della Csu, non deve esistere alcuna forza democraticamente legittimata». Trent anni dopo, si starà rivoltando nella tomba? Per la prima volta dal 1945, la Democrazia cristiana vede crescere una concorrenza alla sua destra: Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, Afd). «Un successo senza precedenti, sintetizza Alban Werner, dell Istituto per le scienze politiche di Aix-la-Chapelle. Mai prima d ora un nuovo partito era riuscito in così poco tempo ad avvicinarsi tanto alla soglia del 5%» che consente di ottenere deputati al Bundestag. Nata nell aprile 2013, l Afd solo cinque mesi dopo ha ottenuto il 4,7% dei voti. Nel 2014, gli elettori le hanno aperto le porte dei parlamenti di tre Länder dell Est (Sassonia, Turingia e Brandeburgo), con, rispettivamente, il 9,7%, il 10,6% e il 12,2% dei voti. La formazione, poi, ha iniziato in bellezza il 2015 entrando a metà febbraio, seppur di misura (con il 6,1%), nel Parlamento della città-land occidentale di Amburgo. Nel frattempo, con generale sorpresa, otteneva il 7% dei voti e sette deputati alle elezioni europee del maggio L «alternativa» proposta da Afd si concentra anzitutto sui piani di aiuto alla Grecia messi in opera dal 2010 con il consenso dei principali partiti tedeschi, e contro la moneta unica. La piattaforma del partito per le elezioni legislative del 2013 pretende una «dissoluzione programmata della zona euro» e «la reintroduzione delle monete nazionali o la creazione di raggruppamenti monetari più piccoli e più stabili». «La reintroduzione del Deutsche Mark non deve essere un tabù», prosegue il testo, che chiede anche una «modifica dei trattati europei per permettere a ogni Stato di uscire dall euro. Ogni popolo deve poter decidere democraticamente circa la propria moneta». Altre richieste: che * Giornalista. Pegida, l islamofobia e la demografia Berlino si opponga a ogni nuovo piano di aiuto alla Grecia e «che i costi della politica detta di salvaguardia non siano pagati con i soldi delle tasse. Le banche, i fondi speculativi e i grossi investitori privati sono i beneficiari di questa politica. Devono essere i primi a risponderne». Un insieme di sensibilità diverse, talora contraddittorie «Il coraggio di dire la verità: i greci soffrono, i tedeschi pagano, le banche incassano.» Questo manifesto, lanciato in piena crisi dell euro, riassume le origini dell Afd. Il suo programma per le elezioni europee, l anno dopo, sottolineava che la moneta unica nuoceva all Europa: occorreva dunque dividere quest ultima in due, una del Nord e una del Sud, oppure rinunciare all Unione (1). Ma, presentandosi a elezioni a livello federale, poi nei Länder, il partito ha allargato il suo campo d azione: sicurezza, immigrazione, famiglia e anche politica estera. Altrettanti temi sui quali, come sull Europa, si agitano all interno del partito sensibilità diverse, addirittura contraddittorie. Autore di un primo libro, molto pedagogico, sul nuovo partito (2), Sebastian Friedrich, dell Istituto di ricerca linguistica e sociale di Duisburg, distingue tre correnti principali: i «populisti» dell imprenditrice Frauke Petry, di Sassonia, i «conservatori» del giurista Alexander Gauland, del Brandeburgo, e i «neoliberisti» del professor Bernd Lucke di Amburgo, il quale funge anche da «ponte» fra le tre correnti. La formazione non ha ancora un programma nazionale: lo deve stilare al prossimo congresso, previsto per dicembre 2015 a daniel richter, senza titolo, 2009 Brema, mentre l ultimo si era occupato essenzialmente di problemi relativi alla direzione (3). «Traduttore traditore», recita il detto. Tutti i nostri interlocutori sono d accordo nel rifiutare di definire l Afd, in tedesco, rechtsextrem (estrema destra): «Fa pensare troppo al Partito nazional-democratico di Germania (Npd) e più in generale ai neonazisti. In realtà, invece,, questo partito è semplicemente a destra della Cdu-Csu», assicura Freidrich. Al Parlamento europeo, i suoi eletti hanno scartato l ipotesi di aderire a un eventuale gruppo non ancora costituito del Fronte nazionale francese e dei suoi alleati, così come a quello creato dal Partito per l indipendenza del Regno unito (Ukip) di Nigel Farrage. Hanno preferito aderire al gruppo dei Conservatori e riformisti europei, a fianco dei tories e dei polacchi di Diritto e giustizia. «Anche se, sfuma Petry, una dei tre portavoce del partito, siamo meno critici di loro rispetto all Unione europea e all euro.» Sulla base delle informazioni fornite dalla direzione dell Afd, i suoi ventunomila membri si caratterizzano per l appartenenza al genere maschile (il 60%) e un livello di studi medio o elevato. Quanto al loro percorso politico, Petry ci fornisce cifre precise: «Oltre il 60% dei nostri aderenti non ha mai militato in un altro partito, il 10% viene dalla Cdu-Csu e il 5% dal Partito liberale (Fdp). Il resto è passato per altri gruppi: Die Linke (La sinistra), i Pirati e i Grünen (i Verdi) con la sola eccezione del Npd: non accettiamo suoi ex aderenti. Come vedete, riuniamo culture politiche diversificate». Per quanto si sa, vale anche per gli elettori: Farsi fotografare con un paio di baffetti alla Hitler non facilita la carriera politica. Soprattutto al di là del Reno. Ne sa qualcosa Lutz Bachmann, fondatore di Pegida (acronimo tedesco di «Europei patrioti contro l islamizzazione dell Occidente»). Le folle che radunava a Dresda si sono dissolte come neve al sole: i 25mila partecipanti del dicembre 2014 erano scesi diecimila il 13 aprile 2015, malgrado la presenza del dirigente nazionalista olandese Geert Wilders. Quasi scomparsi anche i raduni del lunedì in altri luoghi. Va detto che gli oppositori di Pegida in quelle occasioni sfilavano in numero ben maggiore rispetto ai suoi sostenitori, spesso delegittimati dalla presenza di neonazisti. Che la capitale della Sassonia sia un feudo di Pegida non stupisce il giornalista berlinese Thibaut: «Dresda è sempre stata un terreno fertile per l estrema destra, ricorda. Negli anni 1930 fu un bastione del partito nazista. E i terribili bombardamenti alleati che, fra il 13 e il 15 febbraio 1945, distrussero la città e uccisero trentacinquemila persone vaccinarono una parte della popolazione contro la de-nazificazione. Infine, come tutti i grandi centri dell ex Repubblica democratica tedesca (Rda), la città dopo l unificazione si è sentita declassata.» L islamofobia è il principale punto di convergenza fra i manifestanti, ma nel loro mobilitarsi pesa anche la sensazione di non essere ascoltati, e nemmeno uditi, dalla classe politica. Da qui la ripresa dello slogan «Wir sind das Volk» («Noi siamo il popolo»), scandito nell autunno 1989 da tutti quelli che volevano democratizzare il sistema comunista o rovesciarlo (1). A un quarto di secolo, questa parola d ordine traduce una sfida della base verso le élite, accusate di essersene allontanate. Il «popolo» di Pegida attacca tutto ciò che ritiene responsabile del declino della Germania: l euro che la fa pagare per gli europei del Sud, i richiedenti asilo e più in generale gli stranieri che rubano il lavoro ai tedeschi e al tempo stesso ne minacciano la stabilità, le élite corrotte, i media In realtà, la richiesta di una riduzione drastica dell immigrazione si oppone non solo all etica ma ancor più agli interessi economici del paese. Infatti, con meno di 1,4 bambini per ogni donna (contro i due della Francia), la demografia della Germania è in pericoloso declino. Tanto che, secondo le statistiche europee, la popolazione da qui al 2050 potrebbe scendere da 80,7 milioni a 65,5 (2). A meno che ogni anno il saldo migratorio registrasse un saldo positivo di diverse centinaia di migliaia di persone Il crollo demografico è anche accompagnato da un marcato invecchiamento della popolazione. Dal 2050, gli attivi sarebbero due volte meno numerosi, con una serie di catastrofi prevedibili, dalla deindustrializzazione all impossibilità di finanziare tanto la sicurezza sociale quanto le pensioni. In mancanza di un massiccio flusso immigratorio, la Francia supererà la sua vicina prima della metà del secolo, in termini demografici ma anche economici. Non c è da stupirsi dunque se la Repubblica federale si qualifica ormai come «paese d immigrazione» (Einwanderungsland), dopo aver rifiutato per decenni di farlo; gli immigrati erano chiamati «lavoratori invitati» (Gastarbeiter). Inoltre, dal 2000, una dose di ius soli è stata iniettata nel codice della nazionalità, fondato sul ius sanguinis (3). Gli stranieri possono dunque, a certe condizioni, diventare tedeschi dopo otto anni di soggiorno, e i loro figli nati in Germania già alla nascita: sarebbe il caso di mezzo milione di turchi, un quarto di quella popolazione. La Germania è il paese che accoglie più immigrati nell Unione europea, con oltre 450mila nuovi ingressi nel 2013 (4). L insediamento stabile di stranieri in gran parte europei non è però l unica protezione contro la spada di Damocle del declino demografico. La debole natalità ha molto a che fare con le difficoltà incontrate dalle donne tedesche, per le quali far crescere dei bambini significa nella maggior parte dei casi abbandonare la carriera professionale (si legga l articolo a pag.20). Anche la grande coalizione di governo a Berlino ha dovuto consolidare la propria politica familiare: allungamento del congedo parentale remunerato, aumento del numero di nidi e asili d infanzia, innalzamento degli assegni familiari, ecc. Siamo lontani, molto lontani dalle reazioni epidermiche dei pegidisti, che pretendono di difendere il loro paese mentre, ad applicare la loro politica, ne risulterebbe minacciata la stessa esistenza. Ma l onda sassona non è già in fase di riflusso? Se il movimento dovesse spegnersi, sicuramente fra i suoi eredi principali ci sarebbe l Alternativa per la Germania (si legga l articolo qui sopra). Per convincersene, basta ascoltare una dei suoi portavoce, Frauke Petry, fare uno slalom sul soggetto: «Non abbiamo niente contro le manifestazioni dei cittadini, finché non sono violente. Ma attenzione ai retropensieri. Ci teniamo a distanza dall estrema destra. Bachmann è molto problematico. Al tempo stesso, non si può ridurre Pegida a quell uomo. Anche noi denunciamo il fallimento dell integrazione, gli eccessi nel diritto di asilo e i rischi dell islam politico. L Afd ha punti in comune con Pegida, ma non legami. Non siamo il suo braccio politico». Il principio dei vasi comunicanti non si applica a questi movimenti? D. V. (1) Questa parola d ordine fu rapidamente modificata in «Wir sind ein Volk» («Noi siamo un popolo»): l unificazione della Germania entrava nell agenda politica. (2) Eurostat, bilancio e indicatori demografici, 8 dicembre (3) Si legga Benoît Bréville, «Perché non diventeremo mai cinesi», Le Monde diplomatique/ il manifesto, gennaio (4) Secondo le statistiche dell Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). (Traduzione di Marinella Correggia)

19 dossier Le Monde diplomatique il manifesto maggio di nuovo a destra in precedenza, un gran numero di loro si asteneva o votava per piccoli partiti. Secondo diversi istituti demoscopici, i sostenitori dell Afd appartengono soprattutto alle classi medie, mentre il Npd recluta negli ambienti popolari (4). Ma Gauland cita la propria esperienza elettorale nel Brandeburgo: «Nella mia circoscrizione, ho ottenuto due volte più voti nei quartieri popolari che nei quartieri benestanti». Secondo il sondaggio dell istituto Dimap pubblicato dal Morgenpost (5), alle elezioni per il Bundestag del settembre 2013, su un po più di due milioni i voti, l Afd avrebbe attratto ex elettori del Fdp, della Cdu-Csu, dei Verdi, del Partito social-democratico (Spd) e di Die Linke. Eppure, i dirigenti dell Afd che abbiamo incontrato parlano poco della precarietà, che si diffonde velocemente nella società tedesca. Questa infatti paga, in ritardo ma a un forte prezzo, le «riforme» avviate, a suo tempo, dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder: secondo le ultime statistiche, il tasso di povertà è arrivato al 15,5%, ovvero 12,5 milioni di persone disoccupati, ma anche lavoratori dipendenti e pensionati (6). Da qui l importanza del salario minimo introdotto quest anno. Per Gauland, sono altre preoccupazioni ad attirare l elettorato di Die Linke: «Gli ex comunisti si ritrovano nel nostro discorso sulla sicurezza, ma anche nella politica anti-statunitense e prorussa che io e i miei amici portiamo avanti». «Questa eterogeneità riduce il margine di manovra dell Afd, ritiene Sabine am Orde, che si occupa del partito per il quotidiano Tageszeitung. È il caso, per esempio, dei rapporti con Pegida (si legga l articolo «Pegida, l'islamofobia e la demografia» a pagina 18). A Est, Frauke Petry e Alexander Gauland hanno rapporti stretti con un movimento nel quale vedono un potenziale elettorale. Ma a Ovest, Bernd Lucke mette in guardia contro una collocazione a destra troppo netta, che potrebbe compromettere le chance del partito.» Nella Cdu le cose sono più chiare: «Chi parla con Pegida ne fa subito le spese», precisa Anja Maier, giornalista sempre alla Tageszeitung. «All Afd, aggiunge, sono le sparate antisemite a suscitare immediate reazioni, anche su Facebook.» Censura e autocensura: il binomio funziona. Ricevendoci alla sede del Parlamento di Brandeburgo, a Potsdam, Gauland aveva assicurato d impeto: «Non abbiamo niente a che vedere con l estrema destra. Questa etichetta rinvia all esperienza terribile del Terzo Reich, che ha compiuto crimini atroci e ridotto in macerie la Germania. Noi non siamo antisemiti, com era fino a poco fa il vostro Fronte nazionale». Ma il leader della destra dell Afd non ha forse partecipato a una delle manifestazioni di Pegida, dove bisognava essere ciechi per non notare la presenza di neonazisti? «È un malinteso, risponde il nostro interlocutore, abbiamo solo assistito, discutendo con alcuni partecipanti per capirne le motivazioni.» L Afd fa proseliti fra le «classi medie arrabbiate» I successi elettorali dell Afd ispirano ai politologi tedeschi la stessa domanda che a lungo ci si è posti davanti all affermarsi del Fronte nazionale in Francia: si tratta di un voto di protesta o di adesione? In genere si propende per la prima risposta. Secondo Friedrich, il partito recluta fra le «classi medie arrabbiate, radicalizzate dalla paura della crisi che comincia a colpirle e dalla demagogia antimusulmana di Thilo Sarrazin». Noto per il suo libro Deutschland schafft sich ab (La Germania si distrugge da sé) (7), che ha venduto due milioni di copie, e già membro del direttivo della Bundesbank, Sarrazin è considerato uno dei padri spirituali di Pegida e partecipa a incontri dell Afd pur essendo tuttora membro dell Spd! L Spd dunque mantiene fra i suoi ranghi un provocatore per il quale la Germania scompare a causa della caduta dei tassi di natalità presso le classi più istruite e dell afflusso di immigrati musulmani, e che diffonde una teoria fumosa su un «gene ebreo». Secondo Werner, «l Afd si presenta come la sola opposizione di fronte ai partiti dell establishment. Sfrutta una collera popolare che potrebbe rapidamente trasformarsi in scelta strutturata, ma anche ridimensionarsi». In effetti la breve vita del partito, l estensione progressiva della sua problematica politica e l assenza di programma a livello federale invitano alla prudenza quanto alle motivazioni dei suoi sostenitori. Per superare la soglia fatidica del 5%, alle prossime elezioni al Bundestag, previste per il 2017, i dirigenti dell Afd hanno l'asso nella manica: la grande coalizione al potere. Il crollo del partito liberale Fdp ha portato Angela Merkel ad allearsi con l Spd (8). Muovendosi verso il centro, Merkel ha liberato spazio politico alla propria destra. In questo spazio ci sono centinaia di migliaia di cittadini completamente smarriti: di fronte alla crisi dell euro, all aumento della criminalità, alle dimensioni del fenomeno migratorio, alla cosiddetta «islamizzazione», alla diversificazione dei modelli familiari, ecc. «Non bisogna esitare ad andare a destra, a rompere i tabù e il politicamente corretto. Insomma non dobbiamo fare come quei partiti di governo che non dicono le cose», ammonisce Gauland. Petry si esprime nello stesso senso e polemizza: «Voglio imparare a praticare il mio ruolo di oppositrice. Ecco la mia differenza rispetto a Bernd Lucke: senza dubbio, egli vuole arrivare più velocemente al governo». Ogni paese presenta naturalmente un paesaggio politico specifico, che non è possibile ricondurre interamente alle tendenze generali del Vecchio continente. Ma l Afd non è un daniel richter, Ultimo natale, 2009 RENANIA DEL NORD WESTFALIA RENANIA PALATINATO SAAR Geografia della disoccupazione Tasso di disoccupazione nel 2014 in percentuale 15,4 11 7,5 (media) 4 1,4 SCHLESWIG- HOLSTEIN MECLEMBURGO POMERANIA OCCIDENTALE AMBURGO BREMA BASSA SASSONIA HESSEN BADEN WÜRTTEMBERG SASSONIA ANHALT TURINGIA BAVIERA BERLINO BRANDEBURGO SASSONIA Fonte: «Statistische Ämter des Bundes und der Länder» (online), Ufficio statistico federale tedesco ( caso isolato. Su scala europea, le formazioni di estrema destra sono in forte ascesa: in una quindicina di Stati, sfiorano od oltrepassano il 10% dei suffragi; in cinque, superano il 20%. Stagnano invece nei paesi (Regno unito, Italia, Germania) nei quali i partiti «euroscettici» registrano uno sviluppo significativo. Dominique vidal (1) Programma per le elezioni legislative del 2013, politica monetaria, e «Mut zu Deutschland. Für ein Europa der Vielfalt», programma per il politicamente corretto. (2) Sebastian Friedrich, Der Aufstieg der AfD. Neokonservative Mobilmachung in Deutschland, Bertz + Fischer, Berlin, (3) A partire da dicembre 2015, Lucke sarà l unico presidente del partito. (4) Senza grandi successi: nel settembre 2013, l Npd ha ottenuto solo l 1,28% dei voti. (5) «4,7 Prozent: Wo wurde die AfD eigentlich gewählt?», Hamburger Morgen Post, 23 settembre 2013, de (6) «Allemagne: 12,5 millions de personnes sous le seuil de pauvreté, un record», Les Echos, Parigi, 20 febbraio (7) Thilo Sarrazin, L Allemagne disparaît, Editions du Toucan, Parigi, (8) Fra il 2009 e il 2013, il Fdp è crollato al 14,6% al 4,8% dei voti, uscendo dunque dal Bundestag. L Spd ha preferito allearsi con la destra, benché l insieme delle forze di sinistra e degli ecologisti abbia la maggioranza dei seggi. (Traduzione di Marinella Correggia) «Bild» contro i ciclonudisti Con le sue copertine strillate e oltre due milioni di copie vendute ogni giorno, «Bild» si considera il portavoce della Germania popolare. Dal 2010, il tabloid porta avanti una guerra di luoghi comuni contro la Grecia. Olivier Cyran * I l 26 febbraio, la pagina 2 del Bild titolava a tutta pagina: «Basta! Non diamo altri miliardi a quei ghiottoni dei greci!» Stampato su uno sfondo blu, il colore dell Europa, campeggiava sotto il titolo un appello ai lettori a scattarsi una foto con la pagina e mandare il selfie al giornale per la pubblicazione sul sito internet. Un offensiva concepita sia per aumentare la frequentazione del sito e la notorietà del marchio Bild, sia per pesare sul dibattito pubblico. Il giorno successivo i deputati al Bundestag dovevano pronunciarsi sullo sblocco di nuovi aiuti dell Unione europea ad Atene, o meglio ai suoi creditori. Senza questa perfusione, lo Stato greco si sarebbe ritrovato nell incapacità di servire gli interessi del proprio debito e costretto a lasciare la zona euro. Un uscita chiesta a gran voce dall ala destra dell Unione cristiano-democratica (Cdu) di Angela Merkel, e dall editore di Bild, il gigante dell editoria Axel Springer che, dagli anni 1950, non ha mai lesinato l appoggio ai conservatori. In Germania presso le classi medio-alte si è soliti considerare il Bild un prodotto di basso livello da ignorare o disprezzare. Ma il tabloid più venduto in Europa 2,2 milioni di copie giornaliere (1) non si fa notare solo per i toni strillati o le misure delle pinup. Fornisce anche uno ferreo stereotipo ideologico: da un lato la Germania che lavora duro, risparmia e vota Cdu, dall altro tutti gli altri, tanto più se sono di sinistra, musulmani o stranieri. A seconda dei casi, la figura del nemico assume le sembianze del comunista, del pacifista, del terrorista, dell arabo, del russo ecc. Ma negli ultimi cinque anni nessuna categoria ha ottenuto un attenzione pari a quella riservata ai greci. Nella messinscena del Bild, questi ultimi * Giornalista. sono un blocco omogeneo di fannulloni e truffatori i quali mettono in pericolo una cosa che è ancora più sacra dell ordine o della sicurezza: le tasche del contribuente e la stabilità della moneta. I titoloni del quotidiano nei primi mesi della crisi dell eurozona erano tali da far considerare un modello di moderazione le prime pagine del settimanale francese Valeurs Actuelles: «Crisi, di chi è la colpa? Della Grecia!» (12 febbraio 2010); «Ecco come i greci si danno da fare per sprecare i nostri preziosi euro Guardate cosa si permettono» (1 marzo); «Neanche un quattrino ai greci!» (2 marzo); «È colpa loro!» (12 marzo); «Non hanno bisogno del nostro aiuto!» e «Il greco mendica i nostri miliardi!» (24 aprile); «Chi può ancora credere ai greci?» (27 aprile); «Non prendeteci per degli idioti!» (8 maggio); «Salvate l euro!» (11 maggio); «Senza l euro è tutto finito» (15 maggio). Una lista lunga e un po indigesta va dai «pensionati d oro» e «bevitori di ouzo» del 2010 ai «greci ghiottoni» di oggi. È difficile pensare che un simile martellamento, da parte di un giornale che sì in quindici anni ha perso la metà dei suoi lettori, ma che rimane letto da dieci milioni di germafoni e il cui sito internet ha conosciuto un boom (17,8 milioni di visitatori unici in febbraio), non produca alcun effetto. Una sintesi molto utile al consenso economico di Berlino Se Bild suscita avversione in una grande parte dell opinione pubblica, i dirigenti politici raramente storcono il naso. Il ministro dell economia Wolfgang Schäuble e la cancelliera Angela Merkel gli concedono regolarmente interviste. Oskar Lafontaine, già pezzo grosso del Partito socialdemocratico (Spd) e fondatore di Die Linke, teneva una rubrica settimanale, come Peter Gauweiler, ex ministro dell interno bavarese. La porosità fra il tabloid scandalistico e le élite politiche si manifesta con evidenza nel 2013, quando Peer Steinbrück, all epoca candidato alla cancelleria, ingaggia un giornalista di Bild, Rolf Kleine, come portavoce nel corso della campagna elettorale. Tenuto conto degli scritti di Kleine, coautore di un pezzo di bravura intitolato «Greci sull orlo del fallimento, vendete le vostre isole, e anche l Acropoli!» (27 ottobre 2010), non era proprio automatico assegnargli il compito di animare la speranza di un alternanza a sinistra. La casa Springer non gli ha tenuto il broncio: il transfuga, una volta concluso il proprio contributo alla disfatta dell Spd, ha ripreso a lavorare come notista politico al Bild. Da quando è arrivata al governo la coalizione di sinistra Syriza, il tabloid berlinese ha raddoppiato il furore. Bersaglio privilegiato è il ministro delle finanze Yannis Varoufakis, definito di volta in volta «butor», «posterboy», «greco bugiardo», «greco rapace» e anche «ciclo-nudista di estrema sinistra». Il diluvio di epiteti può far sorridere, ma solleva anche la questione dell influenza che un simile accanimento può esercitare sul corpo sociale. I sondaggi evidenziano una crescente ostilità nei confronti della Grecia: il 52% dei tedeschi sarebbe favorevole all esclusione di Atene dalla zona euro, l 80% ritiene che il governo Tsipras non sia «serio» (2). Ma questo clima non si può attribuire ai soli richiami di guerra del Bild. Alla fine, la stampa presentabile ne condivide gli assunti di base: celebrazione dell euro forte e della disciplina di bilancio e fuoco di sbarramento contro un governo greco ritenuto «completamente irresponsabile», secondo l espressione del giornale di centro-sinistra Die Zeit. Sostenitore dichiarato dell euro e delle «persone comuni», istituzione al servizio degli abbienti e «barricata stampata su carta al servizio della strada» (3), Bild opera una sintesi molto utile al consenso economico tedesco. Ma il suo potere è limitato. L «azione selfie» non ha dissuaso il Bundestag dall approvare l aiuto ad Atene e l iniziativa presso i lettori si è rivelata così deludente che Bild ha presto lasciato cadere l idea. Un mese dopo, in occasione della visita a Berlino di Alexis Tsipras, il tabloid faceva ammenda titolando: «Le cinquanta ragioni per le quali la Grecia ci è così cara» (23 marzo). La lista comprendeva l olio d oliva, Nana Mouskouri, il muesli con yogurt greco e Asterix alle Olimpiadi. (1) Questo dato, dell istituto demoscopico privato Statista si riferisce al quarto trimestre del Il quotidiano britannico The Sun conosce una diffusione analoga. (2) Sondaggio della catena televisiva Zdf, 13 marzo (3) Secondo un espressione di Kai Diekmann, caporedattore di Bild, in un intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, 14 settembre (Traduzione di Marinella Correggia)

20 20 maggio 2015 Le Monde diplomatique il manifesto dossier Il grande passo indietro A 25 anni di distanza, la vita quotidiana delle donne tedesche continua a essere caratterizzata dalle diverse concezioni del loro ruolo da una parte e dall altra del Muro. Sabine Kergel * L a maggior parte dei sociologi aveva pronosticato che la vita delle donne all Est e all Ovest si sarebbe armonizzata nel breve e nel medio termine, grazie al processo di unificazione; troppo ottimisti? Per esempio, nel 2007 solo il 16% delle madri di bambini fra i 3 e i 5 anni lavorava a tempo pieno nell Ovest del paese, contro il 52% all Est. E, anche se il tasso di natalità dell ex Repubblica democratica tedesca (Rdt), è ormai basso come quello dell Ovest, rimangono forti disparità. Anche quanto a percentuale di bambini nati fuori dal matrimonio: nel 2009, il 61% nella parte orientale, contro il 26% nella parte occidentale. La popolazione femminile dei nuovi Länder è stata particolarmente colpita dagli sconvolgimenti sociali e politici provocati dall unificazione. Nella Rdt le madri, al contrario di quelle della Repubblica federale di Germania (Rft), conciliavano senza problemi vita familiare e vita professionale. L assorbimento dell Est da parte dell Ovest ha provocato un vertiginoso aumento del loro tasso di disoccupazione e ha stravolto modi di vivere, progetti, fiducia in se stesse. In tutta la Germania, come altrove in Europa, il tasso di attività delle donne era notevolmente cresciuto dopo gli anni 1950, ma l evoluzione nella Rdt era stata senza paragoni con quella dell Ovest. Alla fine degli anni 1980, il 92% delle tedesche dell Est occupava un lavoro, contro il 60% delle loro vicine occidentali. E l uguaglianza era evidente, un caso quasi unico al mondo. Mentre a Ovest le donne orientavano i loro progetti di vita secondo schemi ancora molto impregnati dell immaginario familiare e patriarcale tradizionale, all Est la loro indipendenza economica nei confronti del marito era praticamente naturale. La caduta spettacolare della natalità verificatasi nella Rdt nel corso degli anni 1970 indusse il regime a introdurre diverse misure per incitare le donne attive a procreare, con uno sforzo particolare a favore di madri sole o divorziate. Talvolta messa in ridicolo per la sua giustificazione ideologica (aumentare i membri di una «società socialista»), questa politica permetteva di armonizzare progetti professionali e compiti genitoriali. Invece, dall altra parte del Muro la condizione di madre portava spesso con sé privazioni, addirittura un pericoloso avvicinamento alla povertà, soprattutto in caso di divorzio o di abbandono da parte del coniuge. Niente di strano, dunque, che le donne della ex Rdt abbiano spesso percepito la riunificazione come una minaccia alle loro condizioni di vita. Attraverso l inedita esperienza della disoccupazione, è crollato un sistema di valori fino ad allora ritenuto ovvio. «All agenzia * Sociologa, ricercatrice all Università libera di Berlino. dell impiego, quando dici sola con due bambini, non sanno di cosa stai parlando. L addetta seduta di fronte a me non mi ha neanche rivolto uno sguardo, niente, racconta Ilona, madre single ed ex commessa a Berlino Est. Riempie il modulo, in fretta, e poi fuori e avanti il prossimo.» Nella Rdt le donne vivevano sotto la protezione di uno Stato onnipotente che manteneva il padre e la famiglia in una funzione sociale subalterna. La socializzazione dei bambini, sotto l egida delle istituzioni, avveniva in gran parte fuori dalla cellula familiare. Questo attaccamento all autonomia non è scomparso con il Muro. Una protezione sociale affidabile, condizione essenziale per l uguaglianza dei diritti Uno studio condotto presso berlinesi disoccupate agli inizi degli anni 2000 rivelava modalità di rapporto molto diverse con il lavoro e i bambini. Tutte le donne consideravano questi ultimi come un elemento centrale della loro esistenza, ma quelle che venivano dall Ovest davano loro più importanza che al lavoro. Benché coscienti delle difficoltà in agguato, tendevano a vedere la mancanza di occupazione come un occasione per giocare appieno il proprio ruolo di madri. Al contrario, le berlinesi dell Est mettevano in primo piano l istruzione e la realizzazione dei propri progetti professionali, ritenendo che se avessero ritrovato un lavoro, i bambini sarebbero cresciuti in condizioni migliori. Essendo «più a proprio agio» nella condizione di lavoratrici, avrebbero assolto meglio anche il ruolo materno. Esse consideravano l autonomia un elemento positivo per sé e per tutta la famiglia. Le madri di Berlino Ovest ritenevano in generale che nessuno più di loro fosse in grado di prendersi cura dei loro figli. Pur riconoscendo l utilità di nidi e asili d infanzia, tendevano ad avere problemi con gli orari troppo stringenti. Al contrario, per le madri di Berlino Est, abituate agli orari più flessibili della Rda, l accesso ai nidi d infanzia era un fattore cruciale, tanto più che i datori di lavoro ne tenevano conto nella loro politica di assunzioni. Nel 2000, Anna, commessa disoccupata di 28 anni, non nasconde la sua collera davanti ai rifiuti a ripetizione che incassava per la sola ragione di essere una madre sola. «Ti ripetono di continuo: Che cosa? Ha due bambini? Ah ma allora non è possibile. Quando gli spiego che ho trovato il modo di sistemarli, fanno comunque orecchio da mercante.» E poi l eterno sospetto che potrebbe fare altri figli: «Eppure non ci sono molte possibilità che io rimanga di nuovo incinta. L ho daniel richter, Sissignore, 2009 Egemone per caso continua da pagina 17 reddito; ma è una chimera, se si tiene conto della forza dei vantaggi cumulativi che operano su questi mercati (3). Le disparità regionali, aggravate dall austerità, dovranno essere riassorbite grazie a una soluzione politica all interno della zona euro, sulla base del modello di redistribuzione adottato dall Italia a favore del Mezzogiorno e dalla Germania per i nuovi Länder. Tuttavia, il 4% all incirca del prodotto interno lordo che questi due paesi dedicano a quelle regioni non riesce a impedire che le disuguaglianze di reddito aumentino (4). Le disparità economiche provocheranno conflitti fra gli Stati membri della zona euro e al loro interno. I paesi del Sud chiederanno programmi di crescita, un «piano Marshall europeo», politiche regionali per aiutarli a costruire un infrastruttura competitiva e una solidarietà materiale in cambio della loro adesione al mercato unico e all unità europea in generale. I governi del Nord, per ragioni economiche e politiche, non potranno fornire che una piccola parte dei fondi necessari (5). E in compenso, esigeranno di poter controllare i criteri e le modalità di spesa, se non altro per un fatto di politica interna: i loro oppositori potrebbero facilmente accusarli di spreco, clientelismo e corruzione. Ma gli Stati del Sud resisteranno alla violazione della propria sovranità da parte del Nord, criticandone l avarizia. La Germania, il più grande e certamente il più ricco dei paesi membri, sarà accusata di imperialismo politico ed egoismo economico, senza poter fare grandi cose: gli elettori non permetteranno che i loro governi sostengano in modo incondizionato i paesi del Sud e rifiuteranno di finanziare una politica regionale europea mentre pagano già per l ex Germania dell Est. Per quanto tempo la coalizione guidata da Angela Merkel sarà capace di calmare al tempo stesso i partner europei e i suoi elettori? Potrebbe essere vicina a esaurire le forze. Le industrie esportatrici tedesche e i loro sindacati hanno fatto della continuazione dell unione monetaria una priorità assoluta e, con l appoggio di una sinistra euro-idealista, hanno reso sacro l euro (6). La cancelliera, che ascolta sempre i suoi sostenitori, ha pronunciato questa celebre frase: «Se fallisce l euro fallisce l Europa (7)». Per questo si è rassegnata a fare dolorose concessioni, in particolare durante il voto al parlamento dei «piani di salvataggio» per la Grecia. Il governo tedesco che funziona come un comitato esecutivo di industrie esportatrici sarebbe pronto a sacrificarsi per la sopravvivenza dell euro. Ma quello che era un consenso generale a favore dell integrazione europea si è incrinato. D improvviso ha fatto la sua comparsa l euroscetticismo. Un nuovo partito, l Alternativa per la Germania (Afd), minaccia da destra l Unione cristianodemocratica (Cdu) (si legga l articolo di Dominique Vidal a pag. 18). Per resistergli, i partiti centristi, socialdemocratici compresi, devono guardarsi dal cedere alle richieste di altri paesi. Finora, i trasferimenti di fondi interni all Unione e all eurozona erano spesso camuffati da fondi regionali o sociali europei. Ma l unione monetaria avrà bisogno non solo per «salvare» la Grecia, ma anche e soprattutto dopo il suo «salvataggio» di somme notevoli, che non potranno essere dissimulate. Diverse ricorsi alla Corte costituzionale hanno cercato di politicizzare l Europa e di allertare l opinione pubblica tedesca. Per un po è sembrato che il governo Merkel approvasse tacitamente l inventiva con la quale la Bce aggirava il divieto del prestito diretto a Stati membri, quando la stessa Bundesbank levava alte grida di indignazione. Ma, dal momento che il conflitto di distribuzione fra paesi della zona euro sarà presto un problema cronico, il costo politico ed economico dell unione monetaria diventerà forse così esorbitante che il governo non potrà più nasconderlo né difenderlo, soprattutto in un contesto nel quale la popolazione tedesca si trova messa a dura prova dall austerità di bilancio. Benché la Germania sacralizzi l euro, in linea di principio potrebbe farne a meno. Per equilibrare le performance economiche, sarebbe forse meglio restituire una certa sovranità monetaria ai paesi europei e dare un più grande margine di manovra al Sud (e al Sud-Est, che spera di entrare nella zona), invece di rimanere nel quadro della moneta unica. I dubbi sulla sostenibilità di questo regime iniziano a crescere, anche in Germania. Dopotutto, supponendo che i tedeschi abbiano ragione di pensare che in certe circostanze l austerità è buona per la salute economica, non bisogna dimenticare che in pratica essa ha fatto miracoli solo quando è stata accompagnata da una svalutazione della moneta nazionale (8). Di fatto, la coesione della zona euro si fonda ormai solo sulla paura delle possibili conseguenze di un suo eventuale frantumarsi. Ma presto forse questo non basterà più a convincere gli elettori tedeschi a continuare ad assicurare la sopravvivenza dell unione monetaria. Di fronte all ascesa del nazionalismo, le élite politiche potranno ritenere preferibile non identificare più l euro con l Europa e ascoltare gli economisti, sempre più numerosi, anche in Germania (9) che auspicano un sistema monetario più flessibile e meno unitario, vicino al Sistema monetario europeo in vigore negli anni 1980 (10). Quest opzione non sarebbe la panacea, ma in un economia capitalista gravata da molteplici contraddizioni interne non può esistere una soluzione ideale. Forse le esportazioni tedesche soffrirebbero per un po, ma la sorte dei contribuenti e la reputazione del loro paese presso i vicini potrebbero giovarsene. Merkel ha saputo cambiare radicalmente la sua posizione sull energia nucleare. Non si può escludere che passi alla storia come la cancelliera che avrà liberato l Europa da una moneta unica diventata incubo comune. Wolfgang Streeck (1) Programma di riscatto delle obbligazioni pubbliche e private da parte della Bce, per un ammontare di 60 miliardi di euro al mese, deciso nel gennaio 2015 per contrastare i rischi di deflazione. Detto in altro modo, la Bce stampa moneta. (2) Si legga Charles B. Blankart, «Oil and vinegar: A positive fiscal theory of the euro crisis», Kyklos, vol. 66, no 4, Zurigo, 2 013; Peter Hall, «The economics and politics of the euro crisis», German Politics, vol. 21, no 4, Chemnitz, (3) Come evidenzia Thomas Piketty ne Il Capitale del XXI secolo, Bompiani, I «vantaggi cumulativi» implicano l arricchimento dei ricchi e l impoverimento dei poveri. (4) Wolfgang Streeck, Lea Elsäser, «Monetary disunion: The domestic politics of Euroland», MPIfG Discussion Paper 14-17, Istituto Max-Planck per lo studio delle società, Colonia, 2014, (5) Secondo stime fondate sull esperienza dell Italia e della Germania, i trasferimenti di fondi necessari per impedire l aumento delle disuguaglianze di reddito all interno della zona euro supererebbero ampiamente le capacità di pagamento della Germania, della Francia e dei Paesi bassi insieme. Cfr. Wolfgang Streeck e Lea Elsässer, op. cit. (6) Si tratta forse di un antico riflesso automatico interiorizzato dai tedeschi nel periodo del dopoguerra: la tendenza a confondere l identità collettiva con la moneta, quel che Jürgen Habermas a qualificato come «D-Mark Patriotismus» («patriottismo del Deutsche Mark»). (7) Intervento al Bundestag, 7 settembre (8) Mark Blyth, Austerity. The History of a Dangerous Idea, Oxford University Press, New York, (9) Cfr. Heiner Flassbeck, Costas Lapavitsas, Against the Troika. Crisis and Austerity in the Eurozone, Verso, Londra e New York, (10) Si legga Frédéric Lordon, «Uscire dall euro?», Le Monde diplomatique/il manifesto, agosto (Traduzione di Marinella Correggia)

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