di Repubblica La rivoluzione della Mela Trent anni fa, dal garage di una casa californiana, usciva

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1 Domenica La DOMENICA 26 MARZO 2006 di Repubblica il reportage Tra i fantasmi di Cernobyl, 20 anni dopo GIAMPAOLO VISETTI la memoria Cesarini, il poeta dell ultimo minuto EMANUELA AUDISIO e STEFANO BARTEZZAGHI La rivoluzione della Mela Trent anni fa, dal garage di una casa californiana, usciva un nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo Repubblica Nazionale 29 26/03/2006 FEDERICO RAMPINI CUPERTINO Amezz ora di strada a ovest ci sono le onde del Pacifico e le lunghe spiaggie dorate per il surf; a est la Sierra Nevada per sci, trekking e mountainbike. Sembra la descrizione di un villaggio-vacanze. In effetti Cupertino è sempre immersa nel verde come trent anni fa, quando la valle di Santa Clara non si chiamava ancora Silicon Valley e qui c erano più frutteti che aziende hitech. La topografia esoterica evoca la New Age californiana: il numero 1 di Infinite Loop, il Circolo dell Infinito, è l indirizzo del campus della Apple. Poco distante dai padiglioni bianchi immacolati e dalle grandi finestre in vetro smeraldo che ospitano le sue task-force di inventori, in una villetta di Los Altos tra gli alberi di melo, trent anni fa due figli della cultura hippy partorivano un idea rivoluzionaria. Il computer per tutti. Bello e facile da usare come un giocattolo. Era April Fool s Day del La festa del pesce d aprile fu scelta per fondare la Apple, usando lo stesso nome della casa discografica dei Beatles e una data di nascita da beffa goliardica. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON Diventai incompatibile col resto del mondo una sera di autunno a Parigi. Era il 1984, dalle parti di Boulevard Saint Michel, in uno di quei grandi negozi che sbraitano «high tech» con mobilio da sala operatoria e insopportabili musichette sintetiche. Ci ero entrato per comperare il mio primo personal computer. Non sapevo che ne sarei uscito due ore più tardi iscritto a una setta di fanatici. La confraternita del Codice Mac. I massoni della Mela. Per prepararmi all acquisto, avevo comprato e studiato tutte le riviste patinate sui personal computer che le edicole offrissero, come si leggono le prove su strada delle auto nuove: sperando di intuire quale nuova macchina sia un bidone e quale un gioiello. Ora stavano tutti davanti a me, con i loro nomi che oggi sembrano archeologia informatica: Bull, Atari, Commodore, Zenith, Tandy, Ibm, oggetti di un futuro presente che il venditore accarezzava con dita da pianista per vantarne le virtù. (segue nelle pagine successive) i luoghi Oxbridge, educare i padroni del pianeta ENRICO FRANCESCHINI e ANTHONY GIDDENS cultura L Argentina sognata di José Muñoz STEFANO MALATESTA la lettura I Muri di piombo dove la vita s è fermata PINO CORRIAS spettacoli Sophia Loren: me stessa in 70 souvenir NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI FOTO CORBIS

2 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 la copertina Rivoluzione Apple Inventando nell aprile del 1976 il computer personale di costo relativamente basso, dalle forme attraenti e facile da usare, Steve Jobs e Steve Wozniak hanno trasformato lo stile di vita di generazioni I visionari nel garage che cambiarono la storia FEDERICO RAMPINI (segue dalla copertina) Fu l inizio di un avventura fatta di fantasia e di estetica più ancora che di tecnologia, una vicenda che ha cambiato il nostro costume e lo stile di vita di generazioni. Tra i cervelli della Apple la battuta è classica: «Dopo il morso di Eva nel Giardino dell Eden, dopo il frutto cascato in testa a Newton nel diciassettesimo secolo, il primo aprile 1976 è la terza volta che una mela ha rivoluzionato la storia umana». L iperbole ha un fondamento. Oggi quasi nessuno ricorda l era pre-apple, quando un calcolatore poteva costare 100mila dollari, quando i computer erano bui, tetri e ostili. Accendevi lo schermo e si vedeva uno sfondo scuro, su cui bisognava imprimere lunghi comandi criptici fatti di lettere numeri segni in codice cifrato, pallide sequenze fosforescenti che apparivano come fantasmi in un deserto lunare. Da trent anni centinaia di milioni di persone nel mondo hanno imparato a dialogare con personal computer che hanno volti occhi e orecchie, simboli loquaci che si aprono su universi multicolori: tutto ha origine dall interfaccia grafica, la più grande delle innovazioni nate sotto il segno della Mela. I due protagonisti di questa epopea hanno lo stesso nome ma non ci sono due persone più diverse sulla faccia della Terra. Basta sentirli raccontare. «Steve aveva ventuno anni e capiva poco di elettronica» (Steve Wozniak su Steve Jobs). «Era l unica persona che capisse l elettronica un po più di me» (Jobs su Wozniak). Wozniak detto Woz, studente di ingegneria a Berkeley, all inizio degli anni Settanta si diverte a costruire apparecchi-parassita che replicano i segnali delle compagnie telefoniche per chiamare gratis nel mondo. Durante una celebre dimostrazione telefona in Vaticano imitando la voce dell allora segretario di Stato Henry Kissinger. Guru della tecnologia, Woz è il genio amato da tutti i colleghi e sempre accessibile: tuttora ha una webcam sulla scrivania che lo riprende, migliaia di appassionati si collegano al suo sito ogni giorno per guardarlo lavorare. Jobs è il contrario. È un groviglio di contraddizioni, un carattere impossibile, con un ego smisurato, visionario e feroce. Nasce nel 1955 a San Francisco da una psicoterapeuta e da un docente di scienze politiche che non lo vogliono e lo APPLE I Progettato da Wozniak, fu presentato al Homebrew Computer Club di Palo Alto nell aprile 1976 APPLE II La serie risale al Nella foto, il modello c (1984), il primo compatto messo sul mercato danno in adozione ai coniugi Paul e Clara Jobs. Solo all età di trent anni, già ricco e famoso, Steve conoscerà finalmente i suoi genitori biologici. È lui che ha per primo l intuizione di creare un computer per le masse. Seduce Wozniak, che ha conosciuto in un ritrovo di hacker, lo Homebrew Computer Club, e lo convince a fare una follia: abbandonare un posto sicuro e ben pagato alla Hewlett-Packard. Per finanziare il primo Apple, Jobs vende per dollari il suo furgoncino Volkswagen da figlio dei fiori. Il primo negozio a smerciare computer Apple è un ex rivenditore di videocassette porno, The Byte Shop su El Camino Real a Mountain View. Woz è un mago capace di produrre nel garage di Los Altos dei computer dalle prestazioni stupefacenti (per l epoca) al costo di poche centinaia di dollari. Eterno outsider disinteressato, pilota aereo per hobby e vittima di un grave incidente nel 1981, va in pensione nel 1985 per potersi finalmente laureare a Berkeley. Riassume la sua storia semplicemente: «Sui libri si studiano grandi rivoluzioni come la Rivoluzione industriale inglese. Ecco, noi abbiamo vissuto una cosa simile e io mi ci sono trovato in mezzo». Jobs, seguace del buddismo zen, è l esteta e il genio del marketing, l unico che sogna fin dall inizio un computer dalle forme attraenti. Di se stesso dice: «Sono un artista. Un acrobata del trapezio senza rete». Mette la sua firma su slogan che fanno epoca: Insanely Great (pazzo e grandioso), Think Different (pensare diverso), Beyond the Box (fuori dalla scatola del conformismo). È presuntuoso, geloso, irascibile. Quando Michael Scott viene assunto come primo presidente dalla Apple perché c è bisogno di un manager professionale, egli assegna a Woz il numero uno tra i tesserini d identificazione dei dipendenti; Jobs furioso pretende e ottiene di essere il numero zero. La sua aggressività verso i collaboratori inizia dalle interviste per l assunzione: quando esamina un candidato per il top management, infierisce con domande come «quando hai perso la verginità?» o «quante volte ti sei drogato con l Lsd?». Pochi mesi dopo la sua nascita la Apple riceve un offerta da un colosso dell epoca, la Commodore: 100mila dollari in contanti più l assunzione di Jobs e Wozniak con stipendi da 36mila dollari l anno. In quel momento equivale a vincere alla lotteria. Ma l ego di Jobs è più forte e ha ragione: chi ricorda la Commodore? Il 1981 è l anno del primo trauma, quando la superpotenza Ibm invade il territorio di Apple e lancia il suo personal computer. Davide replica a Golia con sfrontatezza: mentre il mondo è invaso dalla campagna pubblicitaria di Ibm che usa Charlot come simbolo, Apple compra una pagina del Wall Street Journal per pubblicare questo annuncio: «Benvenuta Ibm. Davvero. Benvenuta nel mercato più importante e eccitante. Congratulazioni per il tuo primo personal computer. Mettere il potere del computer nelle mani degli individui sta già migliorando il modo in cui lavorano, imparano, comunicano, spendono il tempo libero». In privato Jobs è sprezzante: «La più grande azienda informatica del mondo ha creato un apparecchio che non regge il confronto con quello che noi producemmo nel garage di casa mia sei anni fa». Ma l offensiva di Ibm dilaga, Apple è in difficoltà. «Voglio un computer bello come una Porsche», ordina Jobs ai suoi designer. Li porta a visitare un esposizione dell arte Tiffany a San Francisco. Recluta lo scienziatomusicista Jef Raskin per creare il Macintosh, detto Mac. Apple introduce le vedute molteplici aperte in simultanea sullo stesso schermo, la prima versione di icone e finestre che diventeranno universali col software Windows di Microsoft. Il lancio del Mac passa alla storia. Lo spot pubblicitario firmato dal regista Ridley Scott (Blade Runner) va in onda una volta sola, durante il SuperBowl, la finalissima del football americano. Dei robot-schiavi hanno lo sguardo fisso su uno schermo gigante dal quale li indottrina il Grande Fratello di Orwell, simbolo del totalitarismo ma in questo caso anche dell establishment capitalistico Ibm. Una ragazza atletica prende la rincorsa e scaglia un martello che frantuma lo schermo. Grazie a Apple, conclude lo spot, «il 1984 non sarà il 1984 del romanzo di Orwell». In un decennio Apple vende dodici milioni di Macintosh. Il nuovo pc diventa l oggetto di un culto. Con Jobs la generazione dei baby boomers dopo la contestazione, il Sessantotto e il movimento hippy, fissa la propria impronta culturale sulla nuova rivoluzione tecnologica. Nel 1985 Apple divorzia da Jobs e infila un errore strategico dietro l altro. Si ostina a non vendere la licenza del software Mac, condannandosi all incompatibilità con altri sistemi. Inizialmente sottovaluta l impatto di Internet, preferendogli un sistema chiuso. Viene surclassata da Microsoft che impone Windows come standard mondiale e nel 1993 perde la battaglia giudiziaria contro l Anticristo Bill Gates. Invano il fumetto Doonesbury, portavoce della sinistra liberal, attacca Windows come un pirata «sostenuto da tremila avvocati». Di quel periodo nero resta in eredità l ossessione maniacale per la segretezza e la sicurezza che regna a Cupertino, la sindrome del pioniere saccheggiato. Dopo undici anni di esilio, durante i quali ha stupito ancora creando la Pixar e un nuovo modo di produrre i film di animazione, Jobs torna al vertice MACINTOSH Presentato nell 84, è il capostipite della serie: il primo con mouse di serie e interfaccia grafica della Apple nel dicembre 1996 per tentare il salvataggio. Il miracolo si ripete. Grazie al talento di Jonathan Ive, designer londinese, nasce il pc dell era cool, lo imac dalla forma di un uovo trasparente che sembra un oggetto di arredamento e seduce soprattutto le donne e i teenager. Nell anno del suo lancio, il 1998, se ne vendono 800mila, al ritmo di uno ogni quindici secondi. Infine l ultima rivoluzione: ipod, il gadget contenitore di musica e canzoni, immediatamente adottato da milioni di adolescenti, presto imitati da molti genitori. Il 23 ottobre 2001 Jobs profetizza: «Con ipod ascoltare la musica non sarà mai più come prima». Ancora una volta Apple crea molto più di una tecnologia, impone un fenomeno di costume. A 51 anni, sopravvissuto a undici anni di esilio dalla sua azienda, Jobs è riuscito in un exploit unico. Ha segnato con la sua inventiva personale tre industrie diverse: i computer, il cinema, la musica. Il suo carattere è rimasto uguale. Come se le ferite della sua biografia lo costringessero a cercare una rivincita continua. Come se il Sessantotto e la New Age e la rabbia giovanile della sua generazione non fossero mai spente. Jobs rimane se stesso, uguale all enfant prodige che un giorno convinse il presidente della Pepsi Cola John Sculley a venire alla Apple provocandolo così: «Vuoi dedicare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata, o vuoi una chance di cambiare il mondo?». MAC LC Il Low Cost Color, introdotto nel 1990, ebbe enorme successo come computer domestico 1976 I PRIMI CALCOLATORI Qui sopra, i giovanissimi Steve Jobs e Steve Wozniak agli albori della loro avventura di costruttori di personal computer in California. Fu Jobs a convincere l amico ad assemblare la macchina che aveva progettato (e che sarebbe diventata l Apple I) e a commercializzarla insieme a lui

3 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 Per molti anni gli utenti dei pc dell azienda di Cupertino sono stati impossibilitati a comunicare con i prodotti dominanti sul mercato. Uno svantaggio che per loro era motivo d orgoglio. Fino alla moda dei PowerBook e poi del trendissimo ipod Ma i seguaci della Mela non sono più una setta Repubblica Nazionale 31 26/03/2006 L IPOD E IL POWERBOOK Sotto, Steve Jobs a una delle ultime presentazioni Apple. La società di Cupertino si è imposta nel mercato dei lettori portatili di musica grazie all ipod, diventato nel giro di pochissimo tempo un vero e proprio oggetto di culto. Nella foto, un PowerBook, potentissimo portatile con struttura in titanio 2006 FOTO GETTY IMAGES SI RINGRAZIA PER LA COLLABORAZIONE VITTORIO ZUCCONI (segue dalla copertina) Da un angolo del grande negozio venne verso di me una strana figura. Vestiva l uniforme da professore universitario genere Hollywood anni Quaranta, calzoni di flanella sformati alle ginocchia sotto una giacca di tweed stazzonata e un cappellino alla Jacques Tati. «Excuse me», mi parlò subito in inglese, perché non parlava altra lingua, «vedo che lei sta soffrendo per scegliere un personal computer». Ovvio, là dentro vendevano pc, non salsicce. «Mi perdoni se m intrometto e mi presento, sono un professore della Stanford University in California, sono a Parigi in vacanza con mia moglie». E allora? «Le voglio raccontare una piccola storia. Lavoro nel dipartimento di fisica e di computer non so niente. Un paio di mesi or sono una azienda vicina al nostro campus, chiamata Apple Computers, ci ha recapitato una macchinetta che nessuno aveva mai visto prima, gratis, per provarla. I miei colleghi e io le abbiamo dato un occhiata per divertimento e da allora tutti fanno la fila per adoperarla e ignorano le altre. La prego di credermi, non ho nessun interesse personale né commerciale, non lavoro per la Apple, ma mi permetta di darle un consiglio: si porti a casa questo qui e le giuro su mia moglie la signora alle sue spalle lo guardò male che questa sera lei lo userà come se lo avesse sempre avuto». Due ore più tardi, nel mio ufficio di Repubblicaa Parigi, scrivevo il primo degli infiniti pezzi che nei vent anni successivi avrei battuto sulla tastiera del computer. Computer che avrei adorato, maledetto, comperato, aggiornato, buttato, giurato di non toccare mai più, puntualmente ricadendoci, perché nella setta del Codice Macintosh si può entrare, ma non se ne può uscire. Nel negozio di Parigi avevo incontrato senza saperlo quello che poi nel gergo mistico degli adoratori della Mela si sarebbe chiamato un evangelista, cioè un missionario di quel piccolo, comico calcolatore elettronico che avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di usare il computer, pur restando sempre una frazione minima, non più del tre per cento, nel mondo dominato da Bill Gates e dalla odiata e prepotente Chiesa (per noi) Microsoft. In quel 1984 la Apple esisteva da otto anni, da un primo aprile del 1976, il giorno dei pesci d aprile scelto con umorismo goliardico dai fondatori, l estroverso, esibizionista Steve Jobs e l introverso Steve Wozniak, per annunciare la nascita della loro società. In quel giorno i due erano usciti con un prototipo di computer dal garage di Jobs ed erano riusciti a piazzare cinquanta ordini di vendita per quella cosa che fu battezzata con il nome del frutto che i due rosicchiavano in continuazione: una apple, una mela. Per tutti gli anni Settanta e per i primi anni Ottanta le prime due mele, la Mela 1 e la Mela 2, e poi una creatura chiamata Lisa avrebbero dominato il mercato nascente dei microcomputer. Fino all uscita del Macintosh che è, pure quella, una varietà di mela asprigna buona soprattutto per le crostate, la macintosh apple. E proprio quel pomo sarebbe stato il frutto proibito che IMAC Design raffinato e niente cavi di collegamento: così nel 1998 Apple torna a stupire i fan POWER MAC G3 La nuova serie, lanciata nel 1999, punta sul potenziamento delle prestazioni grafiche avrebbe indignato i guardiani dell ortodossia informatica, devoti alle misteriose formulazioni da programmatore, e avrebbe fatto assaporare per primi, a noi cospiratori, un frutto proibito e delizioso chiamato GUI, Graphic User Interface. Così condannandoci alle gioie terribili della scomunica e della incompatibilità con il resto dell universo informatico. Tutto quello che oggi è considerato normale e indispensabile la carineria civettuola della grafica, il clic e il doppio clic, il mouse, i folder a foggia di minuscola cartellina, le piccole icone che basta attivare per entrare nella musica, nei video, in Internet, in un testo o nel foglio paghe e contributi dell azienda vennero dal lavoro di un gruppo di geni barbuti, capelloni e scamiciati (con una donna fra loro, Joanna) che nel 1976 cominciarono a lavorare al progetto ideologico prima che informatico, di un computer «for the rest of us», per i non iniziati e per gli analfabeti. Nessuno dei bambini che oggi cliccano spensieratamente sotto lo sguardo invidioso e preoccupato di genitori imbranati conosce il nome di Burrel Smith, un impiegato della Apple talmente oscuro da essere all epoca noto soltanto come «impiegato numero 282», assunto per riparare i frequentissimi guasti dei calcolatori d allora. Ma fu lui con il resto dei barbudos di Cupertino, il paese dove sorge la Apple intitolato a San Giuseppe da Copertino che riuscì a domare bits, bytes, kernel, circuiti e matherboard (fingo di sapere che cosa significhino queste parole) e tradurle in simboli e metafore comprensibili. Il Codice Mac, il sistema IBOOK È il computer con cui Apple, nel 1999, sfonda nel mercato dei portatili per il grande pubblico operativo che faceva funzionare la patetica macchinetta che acquistai nella Parigi dell 84, fu la stele di Rosetta che ci permise di tradurre e capire i segreti di un computer. Alla Ibm spetta la primogenitura del personal computer di massa, la scelta di spremere i colossi che occupavano interi piani di uffici dentro le dimensioni delle scatole da pizza. Ma è alla Apple con il suo Macintosh che va il merito di avere reso commestibile la pizza dentro la scatola, poi copiata da Microsoft con il suo Windows. Quello che i chierici del linguaggio macchina, gli amanuensi dell autoexec. bat/config. sys/8088. dll/folders/iosperiamochemelacavo. exe e delle altre giaculatorie necessarie per dialogare con la scatola, chiamavano con disprezzo «il giocattolo» avvicinò il pc a quello che dovrebbe essere e ancora non è: un elettrodomestico che si accende, funziona e non pretende di essere corteggiato e rabbonito. E fu per gratitudine di cyberanalfabeta, sbalordito dalla facilità con la quale riuscii a utilizzare quel computer senza nessuna tragica curva di apprendimento, che da allora gli sono rimasto, nonostante tutte le delusioni d amore, fedele. Ho acquistato praticamente tutti i modelli esitati dalla Apple, sperperando fortune: a volte incantevoli oggetti di design, altre catenacci. Dal primo Mac capace di scrivere soltanto su dischetti da 400mila bytes (questo, sul quale becchetto ora, ne contiene 100 milioni e viaggia a velocità trecento volte superiore) all ultimo, magnifico portatile al titanio, ho sofferto le bizzarrie di una macchina che i suoi creatori strapazzavano, mentre si azzuffavano tra di loro, fino alla cacciata dello stesso fondatore Steve Jobs, perfetto paradigma di Adamo. Fui tra i primi a precipitarmi a comperare il proto-portatile Macintosh, un orrida valigia pesante come il campionario di un piazzista di piastrelle, che ebbi l infausta idea di trascinarmi all Avana per un reportage. Anche dopo avere superato l intensa e diffidente curiosità dei doganieri di Castro, persuasi che quella valigia di plastica e circuiti e tasti fosse un ordigno costruito dalla Cia per insidiare i trionfi della Revolución, scoprii con orrore che le lampadine funerarie nella mia stanza all Habana Hilton non permettevano di leggere lo schermo troppo buio del portatile. Dovetti lavorare con l abat-jour poggiata sulle spalle a foggia di bazooka per illuminare con il fioco fascio di luce i morti cristalli liquidi dello schermetto. Ma per noi cospiratori del Codice Mac, l essere minoranza eretica, privata della cornucopia di giochi e di programmi scritti esclusivamente per il Sant Uffizio di Gates, compensava la condanna all autismo della incompatibilità. Per lunghi anni le nostre mele erano come le monadi di Spinoza, sfere chiuse, incapaci di comunicare con il resto del mondo. Jobs, Wozniak e il presidente che i due avevano strappato alla Pepsi Cola avevano commesso il peccato luciferino della superbia. Avevano preteso di controllare sia il software che lo hardware, sia la macchina che i suoi programmi, come se una rete televisiva imponesse al consumatore di acquistare i televisori da essa fabbricati per guardare le sue trasmissioni. Non avevano voluto permettere a nessuno di produrre cloni e così si erano rinchiusi dentro il proprio convento. Tanto meglio per noi incompatibili. Nell arrogante masochismo del settario ho consumato anni e nottate per tentare di convincere i miei Mac a comunicare con il resto del mondo, a collegarsi con i mainframe, i cervelli centrali delle nostre aziende o redazioni, leggere e utilizzare programmi concepiti per altre fedi. Ci confortava il pensiero che la nostra, respinta in massa da consumatori che passavano alla goffa imitazione creata dalla Microsoft fino a conquistare il 95 per cento del mercato mondiale, era condivisa dai maghi del video e dell audio, dai geni degli effetti speciali hollywoodiani che creavano i loro cartoni animati e le loro magie. Neppure la coscienza che non fossero stati i Wozniak, i Jobs né l impiegato numero 282 a inventare davvero quella idea delle icone, ma che fosse stata comperata dai laboratori della Xerox Parc in cambio di un pacchetto di azioni, ci turbava. Non eravamo noi gli incompatibili, era il resto del mondo a essere tagliato fuori da noi. Segretamente, molti di noi incompatibili tenevano un amante nascosta, un portatile con processore Intel e sistema operativo Microsoft Windows, perché le catacombe possono essere scomode. Ma quando Steve Jobs, miracolosamente sopravvissuto a un cancro del pancreas e tornato alla guida della propria mela moribonda, ricominciò a sfornare oggetti di scintillante design, non ci offendemmo neppure alla vista di un assegno da 100 milioni, un elemosina, staccato proprio da Gates per salvare la Apple e poter così fingere, davanti al Congresso americano, di non essere quello che è, un monopolista. Tra l ipod, il lettore di file musicali e video, gli stupendi PowerBook al titanio portatili, la resurrezione era finalmente avvenuta. Poi l annuncio ferale. Per continuare a esistere, la nostra Chiesa aveva abiurato. La nuova generazione 2006 dei portatili Mac era stata costretta ad adottare come proprio cervello i processori del nemico, gli Intel, la fornitrice principale dell odiata Microsoft. Più pratici, più veloci, più avanzati. Migliori. Fu come se il Papa avesse annunciato l adozione del Corano, per praticità. Windows, il nemico, presto invaderà anche il nostro convento. Addio Codice Mac, addio leggende di schiavi in rivolta orwelliana contro il Grande Fratello, come cantò il primo spot di lancio, appunto nel fatidico La guerra è stata vinta, ma dal Grande Fratello. Non sarò più incompatibile. Sarò, purtroppo, normale. MAC MINI Nel 2005 Apple presenta il suo computer più piccolo ed economico (costa circa 500 euro)

4 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il reportage Stragi dimenticate DOMENICA 26 MARZO 2006 A vent anni dal disastro siamo entrati nel relitto della centrale nucleare, ora aperta al pubblico. Scoprendo che i lavori per disinnescare il reattore sono fermi, i boschi contaminati non sono mai stati abbattuti, i villaggi non sono stati bonificati, le vittime non sono state risarcite. Solo i miliardi sono spariti Cernobyl, tra i fantasmi I GIAMPAOLO VISETTI FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO CERNOBYL LE MALATTIE FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO Repubblica Nazionale 32 26/03/2006 Qui sopra, una donna ucraina malata di leucemia. A destra, tre bambine affette da ritardo mentale Sotto, una donna colpita da un tumore al cervello dopo l incidente In alto, le foto appese ai muri nell asilo abbandonato di Pripyat, una città di cinquantamila abitanti evacuata tre giorni dopo l esplosione l buco nero dell energia atomica sovietica resta un ordigno innescato. A vent anni dalla peggiore catastrofe nucleare della storia, la centrale dello scoppio ora è aperta alle visite turistiche. Nelle viscere dell inaccessibile reattore numero 4 di Cernobyl restano però sepolte 200 tonnellate di uranio attivo, quantità incalcolate di plutonio, xeno, iodio e radio. Dopo oltre cinque dalla chiusura dell ultimo reattore (15 dicembre 2000), nessuno ancora sa dire quanti anni serviranno per scongiurare una ripetizione della tragedia rimossa che incombe sull Europa. Decenni per disinquinare, fino a cinquant anni per asportare e distruggere il carburante nucleare. Quindici anni e una montagna di dollari per completare la nuova protezione del reattore saltato. Poi tutto ricomincerà, in una lotta infinita contro il tempo che consuma le difese e conserva la potenza fuori controllo. Il disastro del 26 aprile 1986 quattromila morti ufficiali per l Organizzazione mondiale della sanità, almeno mezzo milione secondo stime recentissime pubblicate in Gran Bretagna causò un esplosione 500 volte più potente di quella di Hiroshima. Dopo il fallito test sulla sicurezza, la copertura del motore atomico, duemila tonnellate di acciaio e cemento, venne scagliata cento metri più in alto, oltre il tetto della centrale. Un altro guasto, dentro gli immensi capannoni abbandonati, produrrebbe oggi un onda radioattiva fino a dieci volte maggiore. L estinzione della vita in un area di migliaia di chilometri. Il governo ucraino cerca così cinquemila volontari per costruire un nuovo sarcofago sopra il luogo dell esplosione: dovrebbe essere ultimato nel 2010 e durare cento anni; il primo, garantito per 18 anni, mostra crepe e crolli impressionanti. Ma pochi accettano uno stipendio triplo rispetto alla media, quindici giorni lavorativi al mese. Solo ora, nell indifferenza generale, iniziano infatti a morire come mosche i primi liquidatori. Centinaia i necrologi sui giornali locali. In 600mila, per 206 giorni, furono costretti a lavorare per spegnere il reattore disintegrato. A mani nude in una nube radioattiva da tremila roentgen all ora, quando trecento sono il massimo sopportabile. Nessuna informazione. Fu sacrificato anche per ritardare la fine dell ultimo impero del Novecento, l esercito di fantasmi inviato a buttare sabbia contro una bomba atomica. Sono morti consumati dal cancro e dalla leucemia, da lesioni alla tiroide: 600 vittime solo tra gli elicotteristi che sorvolarono la zona. Mai arrivati gli indennizzi promessi. Dentro la zona interdetta, monumenti e lapidi li definiscono «eroi che hanno salvato il mondo». Sono in realtà i superstiti degli ultimi condannati a morte dell Urss. Il regime comunista era in agonia, per giorni Mosca tacque. Mentre i pompieri affondavano nel terreno incandescente, buttando badilate di terra sul bitume liquefatto, gli scolari venivano accompagnati dalle maestre ad ammirare lo spettacolo. Non si potevano usare acqua, o sostanze ignifughe. Sopra i sacrificati, alta quasi due chilometri, una nuvola mortale. Per la prima volta le autorità sovietiche, già sconvolte dal ci- Oggi l inferno è un brivido per turisti: 400 dollari per un giro in una scenografia horror, con la guida che ti chiede di sorridere per le foto ricordo clone riformatore di Gorbaciov, ebbero fisicamente paura. Intuirono che il mostro scientifico partorito da un ideologia impazzita poteva sbranarle. Cernobyl non è stato solo un disastro umano e ambientale, un tracollo tecnologico: al confine tra Ucraina e Bielorussia esplose l Unione sovietica, la terza bomba atomica pose fine alla Guerra Fredda. Con l epitaffio atomico, si chiuse il Novecento delle guerre mondiali. Per questo nessuno si fida più e il progetto internazionale da oltre un miliardo di dollari, necessario a disinnescare il reattore numero 4 per altri vent anni, subisce oggi continui rinvii. I rapporti di forza sono cambiati, altre le minacce e le emergenze internazionali. La guerra del gas e il caro petrolio, l incubo di restare privi di energia, tornano a ingrossare in Europa il partito dell atomo. I fondi della Banca mondiale, che dovrebbero mettere in sicurezza ma pure distruggere Cernobyl, non vengono dunque sbloccati. La centrale dell apocalisse è un relitto dimenticato della storia, uno spavento perduto nella memoria. Così l inferno è un brivido per turisti in cerca di orrori virtuali: 400 dollari a visita per farsi passare il rilevatore di radioattività sui vestiti, per vedere i segnali luminosi passare da 15 a 878 micro- L Organizzazione mondiale della sanità parlò di quattromila morti. Ma le stime più recenti dicono che quella catastrofe è costata la vita ad almeno mezzo milione di persone roentgen nel giro di pochi passi. Credere che una breve esposizione sia innocua, che gli apparecchi siano efficienti, sono atti di fede praticati con imbarazzata diffidenza. Di uno scandalo scientifico e morale, subito ridotto a conflitto politico, resta invece ciò che immaginiamo sarebbe la Terra dopo la fine del mondo. Uno spazio vuoto, brullo e deserto, sommerso da 50mila tonnellate di sabbia. Per trenta chilometri, dal posto di blocco di Dyatky fino a Cernobyl, non s incontra una sola persona. C erano 90 villaggi, oltre 300mila abitanti, fattorie. Triangoli gialli e rossi segnalano ora case e strade sepolte sotto dieci metri di terra, il minimo per limitare le fughe radioattive. I paesi abbandonati, come Kopaci, dove si produceva il miglior lardo piccante del Patto di Varsavia, si intuiscono tra le ricresciute foreste di pini e betulle. Isbe sventrate, recinti di orti piegati, negozi crollati con la merce ancora sugli scaffali. Vengono in mente certe scene di film americani, o qualche sperduta frazione alpina. Realtà e fantascienza si confondono. Agli abitanti, costretti a sfollare in poche ore tre giorni dopo la catastrofe, dissero che presto sarebbero potuti rientrare. Portarono con sé solo un cambio di biancheria: a casa non sono mai tornati. È ancora una volta l insostenibile peso delle bugie, più che l impressione di quanto si vede e di ciò che non c è, a dominare un territorio cancellato dal globo. L immagine esterna della zona più contaminata è quella di un luogo dove l emergenza è superata, dove si lavora a disinquinamento e stabilizzazione. Arrivando, come accade andando negli ex gulag, o nella devastazione di Grozny, o nei cimiteri dei sommergibili nucleari, o nei bacini petroliferi siberiani biologicamente morti, emerge l inconfessabile verità post-sovietica. Tutto, ancora, resta finzione. Sulla via della centrale sfili davanti al cimitero dei mezzi usati per seppellire il reattore. Oltre duemila camion, elicotteri, trattori, jeep, aerei: materiale contaminato abbandonato all aria aperta. Segnali vietano di incendiare i boschi che nessuno, nonostante le promesse, ha abbattuto: alberi, erba e muschio sono radioattivi, la cenere di un rogo raggiungerebbe l atmosfera. A Cernobyl, o nella città morta di Pripyat, i palazzi vuoti sono ancora in piedi. I fondi internazionali avrebbero dovuto consentire di radere al suolo e sotterrare tutto entro 15 anni. Solo i miliardi sono spariti. Ci si muove così dentro una scenografia horror, mentre la guida chiede di sorridere per le foto-ricordo. A parte la presenza umana, il tempo si è fermato all 1.23 della notte tra il 25 e il 26 aprile di vent anni fa. Sulla piazza centrale di Pripyat, sei chilometri dalla centrale, ancora si affacciano l hotel Polissia, il ristorante Odessa, il supermercato, la casa del popolo. Sulle facciate pericolanti, simboli e slogan del defunto Pcus. Poco distante, la piscina mostra un trampolino marcito, ingombro di salvagente. Dalle finestre senza vetri della scuola si scorgono i banchi con i quaderni ancora impilati. Sulla piazza vicina, la giostra arrugginita del luna park e gli autoscontro. Nei condomini sovietici non è rimasto nessuno dei 47mila abitanti. Muri trafitti dai buchi, tetti sfondati, mobili abbandonati, asfalto frantumato, erbacce e arbusti invasivi, restano impregnati di sostanze radioattive. Tonnella-

5 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 della Grande menzogna Repubblica Nazionale 33 26/03/2006 Io, unico superstite racconto l apocalisse MOSCA «Sono scoppiati degli incendi vicino a Kiev. Dovete andare a spegnerli». Il 26 aprile 1986 il tenente colonnello Vladimir Alimov, uno dei primi liquidatori di Cernobyl e uno dei pochi a essere sopravvissuto, fu buttato giù dal letto alle Sognava casa nella sua caserma vicino a Baikonur, in Kazakhstan. «Sembra incredibile racconta oggi che nessuno ci spiegò con precisione dove dovessimo andare, per fare cosa. A tutti sembrò assurdo volare per migliaia di chilometri per un semplice incendio. Abbiamo capito dopo alcuni mesi: il comando dell Armata Rossa aveva paura che di fronte alla verità i soldati si rifiutassero di andare a morire». Quando arrivò a Cernobyl? «La notte del 26 aprile. Non dormivo da venti ore. Un viaggio massacrante. Scali in Georgia e poi in Ucraina, a Cernigov e a Konotop. Solo il tempo del rifornimento di carburante. Chiedevo al mio capitano, Smirnov, cosa stesse succedendo. Pensavo che l Urss stesse preparando un attacco in Polonia. A Konotop ci hanno detto che c era stata una catastrofe a Cernobyl. Non avevo mai sentito quel nome». Si rese conto di essere stato mandato a seppellire un reattore nucleare? «No, ma che si trattasse di un evento gravissimo era chiaro. Lungo il percorso si formò una colonna di elicotteri mai vista, in arrivo da tutta l Unione sovietica. Ricevevamo corridoio verde, il diritto di precedenza ovunque. Atterrammo a Pripyat in dieci, non c era traccia di fuoco. Il generale Antoshkin ci consegnò delle tute di gomma, sacchi di sabbia e blocchi di piombo. E ci ordinò di decollare subito». Cosa vide quando raggiunse il reattore esploso? «Era buio. Volavo a 50 chilometri all ora, a 200 metri da terra. Nella centrale vidi uno squarcio di pochi metri. Sembrava che il tetto fosse crollato. Nulla di speciale. Per buttare sabbia e piombo nel cratere dovevamo aprire i portelloni e sporgerci per prendere la mira. Non avevamo alcuna protezione. A ogni missione mi alternavo alla guida con il capitano Smirnov». Quanti voli faceste in quelle ore? «Le norme prevedevano un massimo di sei voli al giorno. In tre giorni ci costrinsero a farne 99. Ma ormai eravamo rassegnati a morire». Perché? «Il secondo giorno un medico militare ci suggerì di consegnare al comando i dati delle nostre famiglie. Spiegò che alla nostra morte avrebbero ricevuto una pensione di 150 rubli al mese». Come scoprì il rischio della contaminazione radioattiva? «Fu la gente del posto a insegnarmi cosa significava catastrofe nucleare. Già dopo il primo volo un chimico-dosimetrista misurava i nostri livelli di radiazioni. Se i valori massimi vengono superati, la lancetta dell apparecchio crolla sullo zero. Così fu per tutti». Perché avete continuato? «Eravamo soldati, non si possono discutere gli ordini». Capì la gravità del disastro? «Nessuno comprese subito che s era alzata una nube radioattiva, che questa avrebbe contaminato mezza Europa. Ero convinto che si trattasse di un disastro locale». Come si salvò? «Dopo tre giorni avevo assorbito una dose di radiazioni non sopportabile. Assieme ad altri due equipaggi fummo caricati su un Tupolev e ricoverati d urgenza all ospedale centrale di Sokolniki, a Mosca. Fummo tenuti in isolamento per otto mesi: sia per ragioni mediche, sia per evitare che raccontassimo ciò che avevamo visto e fatto». Ha ricevuto dei risarcimenti? «Nemmeno un rublo. Ci hanno spiegato che eravamo volontari. È stato un miracolo se non sono stato espulso dall aeronautica militare. I piloti possono trasmettere una radioattività massima di 25 roentgen. Io segnavo 260. Falsificai il libretto sanitario, scrivendo 23. Anche alle autorità giovava dimostrare che i liquidatori erano guariti». Quali conseguenze ha subìto in questi anni? «Per salvarmi ho dovuto assumere ormoni di produzione giapponese. Sono ingrassato di venti chili in tre mesi e ho perso i capelli. Ho il fegato distrutto e sono sopravvissuto a una leucemia acuta. Però sono vivo: dei miei compagni di missione non è rimasto nessuno». Ha fatto carriera? «No, le malattie mi hanno fermato. Sono solo rientrato nell aeronautica. Quattro anni dopo la catastrofe sono stato decorato con l Ordine della Stella Rossa. Sei anni fa, dopo un azione in Cecenia, mi hanno riconosciuto il titolo di Eroe della Federazione russa». Si sente un eroe? «Nessun reduce di Cernobyl è un eroe. Siamo condannati a morte, salvi per caso». È vero che Cernobyl, per ragioni politiche, è un disastro gonfiato? «Attorno alla centrale ho perso i miei compagni. Trentasette elicotteristi, giovani, i migliori dell Urss. Nessuno è sopravvissuto per oltre cinque anni. In vent anni i piloti sovietici mandati a Cernobyl e morti sono stati oltre seicento. Ancora non capisco cosa voglia dire esattamente politica. Per chi si è salvato, dal punto di vista morale e psicologico, Cernobyl è piuttosto una catastrofe ignorata: minimizzata, quando non ridicolizzata mentendo a chi è morto restando formalmente in vita». (gp.v.) te di scorie, combustibile nucleare ormai inutile, giacciono nascoste sotto magazzini in rovina. Gli operai condannati ad armeggiare attorno al sarcofago della centrale sono quattromila. Raggiungono Cernobyl da Slavutich, la nuova città-modello con 25mila residenti dove ogni quartiere è stato eretto da una nazione diversa. Sorridono e abbassano gli occhi, sentendo parlare di bonifica. Ogni giorno quaranta minuti di treno, passando il confine bielorusso. Scavano, posano chilometri di filo spinato, erigono il muro che ormai isola la centrale, fanno sparire carcasse di animali morti e le tonnellate di pesci che si gonfiano e scoppiano nel Dniepr. Visite mediche ogni quindici giorni, rassicurazioni sulla salute fino a quando la malattia non si manifesta. L impressione è che il risarcimento consista in una condanna a vita: fingere di lavorare ad una bonifica fittizia. «Nella maggior parte delle stanze attorno al reattore scoppiato confessa Yulia Marusich, delegata dal governo a tenere i rapporti con gli ospiti stranieri nessuno è mai entrato. Non sappiamo nemmeno cosa ci sia all interno: i robot segnalano livelli di radioattività altissimi, fino a 3400 roentgen all ora». Sotto il sarcofago, coperto dal ghiaccio dell inverno, dopo vent anni la temperatura resta a quaranta gradi. «Per abbassare i rilasci tossici dice il custode Yuri Tatarchuk lo scheletro della centrale e la ciminiera alta settanta metri dovranno essere conservati per l eternità». È questa una categoria sconosciuta agli samosioly, i vecchi abitanti della regione tornati nelle loro case violando i divieti. Ormai sono 147, sparsi in 16 villaggi pressoché scomparsi. Non hanno avuto alternativa, cedendo al richiamo di patria e casa natale. Al numero 25 di Parishiv, quindici minuti dal reattore, abitano Maria e Mikhail Urupa, coniugi di settant anni, non un dente nelle gengive nere. Sessanta dollari di pensione, due mucche, tacchini e galline, frutta e ortaggi. Vivono isolati, in quarantena costante, come appestati. Una radio per chiamare il medico, un auto che il giovedì mattina lascia i viveri sulla porta, il vecchio cimitero al di là del campo di patate, dove riposano amici e parenti. Maria e Mikhail sono soli, circondati da chilometri di silenzio e da una selvaggia natura contaminata. «Ma chi è andato via assicurano è già morto. Noi siamo radioattivi, ma vivi». Non è mai stata calcolata la sofferenza mentale e fisica di questi milioni di ucraini, bielorussi e russi. Milioni di vittime sopravvissute alla catastrofe vivono senza sapere le conseguenze di una notte rischiarata dal fuoco. Ogni morte, un sospetto. Il simbolo mondiale del fallimento atomico resta «zona di esclusione» per le persone, a crescente inclusione di affaristi senza scrupoli. Un mostro assopito, in vendita sul mercato nero. Un ideologica Pompei contemporanea, incenerita da una ciminiera e immolata alla follia del dominio universale. Sulla piazza centrale di Cernobyl, tremila ancora nei turni di lavoro, tecnici e poliziotti addetti a non si sa cosa, pascolano due alci. Vent anni dopo, la strage rivela la profondità della propria irrisolta distrazione civile: ancora più tragica davanti alla forza di una testimonianza, alla vita che continua. FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO FOTO ROBERT KNOTH - CONTRASTO I SOPRAVVISSUTI Nella foto qui sopra, una famiglia ucraina sulle rive di un fiume a pochi chilometri dalla zona 1, quella completamente evacuata dopo il disastro A sinistra, una bambina malata di cancro alla tiroide in seguito all esplosione Sotto, la donna affetta da tumore al cervello e fotografata anche nella pagina accanto

6 Repubblica Nazionale 34 26/03/ LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 la memoria Leggende del pallone Da settant anni zona Cesarini vuol dire giocarsela fino alla fine, non disperare mai, sapere che nel novantesimo, in quell estremo segmento del tempo, ci sta ancora tutto: partita, possibilità, futuro Ora un libro racconta la vita romanzesca dell uomo, Renato Cesarini, che è rimasto inchiodato a quella metafora Il Cè, poeta dell ultimo minuto EMANUELA AUDISIO Un minuto per restare nella storia, per entrare nel lessico e nel dizionario. Un minuto solo. Un minuto, e basta. Quello che la vita è pronta a rubarti, facendoti credere che non conti. Il novantesimo. Tempo scaduto, destino che scappa, saracinesca che si abbassa. Lui però ci mise il piede, lo bloccò quel minuto, lo dilatò, lo fece diventare immenso, senza tempo. Se i palloni potessero parlare dell ansia con cui rotolano al novantesimo, direbbero che è stato lui a cambiare tutto. A dare una lezione al mondo: non cascateci, non fatevi fregare dal minuto che manca. Dentro ci sta ancora tutto: partita, possibilità, futuro. Se solo siete capaci di giocarlo quel minuto, di afferrarlo, scrollarlo, e fargli sputare quello che vi deve. In zona Cesarini, appunto. Così si dice da settant anni, così indica lo Zingarelli. Sono tanti i giocatori famosi, ma Renato Cesarini detto Cè, nato sulle colline di Senigallia nel 1906 e morto a Buenos Aires nel 1969 è l unico calciatore diventato un modo di dire. E di vivere: mai rinunciare, mai pensare che sia finita, si può sempre ricominciare da un orlo del tempo. E zac, riaprire la cerniera, rimettere fuori la testa. Avete presente la notte di Istanbul, con i milanisti che ridevano e quelli del Liverpool che piangevano? Il bello è che Cesarini, primo azzurro nella storia del calcio a segnare al novantesimo, di gol così, in nazionale, ne segnò solo uno, le altre tre reti le realizzò in serie A: contro l Alessandria nel 31, contro la Lazio nel 32 e contro il Genoa nel 33. Tre minuti in tre anni e ti salvi dall oblio. Figlio di un calzolaio emigrato a Baires, tornò in Italia con sciarpa di seta e gemelli d oro A un corteggiatore che la sera prima incontrava l amato bene si chiese: «Come è andata?». Volendo rispondere e non rispondere optò per la metafora, perché non era talmente accecato dall amore da dimenticarsi del football: «Beh, non male. Ho mosso un po la classifica». E si capì che le reti erano rimaste inviolate. L aneddoto potrebbe anche essere rubricato fra i casi di quel gergo che incrocia ironia e autoironia, dove il linguaggio del calcio serve per coprire i pudori del sentimento. Muovere la classifica è peraltro un bellissimo modo di dire, sottile e delicato. Il linguaggio del calcio a volte inventa sfumature dove non sembrerebbero possibili: i risultati sono 1 X e 2, ma ecco che c è una bella differenza fra il «rimanere inchiodati al pareggio» e il pareggio non deludente, «che muove la classifica». Ma fosse solo una questione di gergo e metafore... In realtà il calcio ha donato al linguaggio comune una rispettabile quantità di espressioni, che dimostrano come il calcio sia, o sia stato, una delle forze unificanti del Paese. «Un linguaggio molto pervasivo: il calcio»: non a caso si intitola così un capitolo dell ultimo libro di Gian Luigi Beccaria sulla lingua italiana (Per difesa e per amore, Garzanti). E in questo capitolo si omaggia giustamente Renato Cesarini, e la sua zona. È indubbio che raccontando la stessa storia è molto diverso se diciamo «mi sono salvato per il rotto della cuffia» invece di «mi sono salvato in zona Cesarini»; o se diciamo «ha capito che non era aria quando l ho guardato male» invece di «quando gli ho fatto la faccia di Gattuso». Il calcio dunque dà le sue parole alla vita associata: integrando gli elenchi di Beccaria, ci si salva in calcio d angolo, si prende un interlocutore in contropiede, si fa melina o addirittura catenaccio con un incombenza sgradita, si fa spogliatoio con i colleghi d ufficio o ci si palleggia le responsabilità. Il governo organizza ripartenze, Berlusconi desidera la rimonta, il potere di interdizione fa sempre pensare più che a un authority a un centrocampista. Si «gioca a tutto campo» anche in politica, si schierano «tre punte» anche alle elezioni, si «entra a gamba tesa» anche nelle relazioni sindacali, vi sono arbitri e moviole dappertutto, in ogni mestiere si può essere costretti ad accomodarsi in panchina (lo «scendere in campo» è riservato, si sa, a chi se lo può permettere), qualsiasi prodotto può essere catalogato «di serie B», i politici si portano ai talk show i loro ultras. E alla fine, si ricomincia: palla al centro. Sui giornali di martedì 14 marzo gli articoli sulla scomparsa di Massimo Della Pergola, inventore del Totocalcio, hanno riportato alla memoria di tutti il lessico del totocalcio: fare tredici, giocare una tripla... La sera stessa Clemente Mimun, dopo la fine del «match» fra Berlusconi e Prodi ha ringraziato i contendenti per l emozione di avere «arbitrato» un «incontro» degno della finale della Champions League. Si è saputo poi che aveva avuto al proposito STEFANO BARTEZZAGHI Un infanzia difficile Anche se il Cè non era tipo da rapina, da scippo, a lui piaceva costruire. Aveva avuto un infanzia difficile. I suoi genitori erano partiti in nave sulla rotta degli emigranti, Genova-Buenos Aires, che lui aveva nove mesi. Portandosi un rosario e uno spicchio d aglio. Il bastimento si chiamava Mendoza, il viaggo durava trenta giorni, il quartiere dei poveracci era il barrio Palermo. Il padre Giovanni fa il calzolaio, Renato per un po ripara scarpe, ma non gli interessa, lui vuole camminare, correre, curiosare. Prostitute e tango. Notte e chitarre. Acrobazie e trapezio. Numeri da circo, insomma. Infatti viene scritturato. Ha il nasone, il volto appuntito, gli occhi che brillano, un ciuffo ribelle ad ogni schema. E un giorno scopre che si possono fare giochi anche con il pallone. Finisce nella squadra del Chacarita, quartiere dove sorge il cimitero. Camposanto e calcio usano la stessa terra, i giocatori si chiamano funebreros, becchini. Cesarini si nota. È vivace, gioca bene, suona ancor meglio la chitarra. El tano, l italiano, è il suo soprannome. Sono gli anni di Raimundo Mumo Orsi, brillantina, riga in mezzo, gran sinistro, originario di Santa Maria di Bobbio, in provincia di Piacenza. Orsi per centomila lire e ottomila di stipendio mensile, arriva alla Juventus nel 28, non sa parlare italiano e soprattutto non può giocare in campionato per l ostruzionismo della federazione argentina. Due anni dopo, a gennaio del 30, sbarca pure Cesarini. In condizioni diverse da quando era partito: il transatlantico si chiama Duilio, lui ha sciarpa di seta, gemelli d oro, borsalino, e una valigia di cravatte. Il barone Mazzonis, vicepresidente della Juve, cerca di fargli capire che esiste uno stile della società, l allenatore è Carlo Carcano, il presidente Edoardo Agnelli. Cesarini, che cambia camicia tre volte al giorno e dorme in lenzuola di seta, se ne sbatte. Esordisce dieci giorni dopo il suo sbarco, non ha ancora ventiquattro anni, però la butta dentro. È una grande Juve, c è Virginio Rosetta che non ama colpire di testa, Berto Caligaris che anticipa la moda della ban- L Italia delle parole, dai bar ai duelli tv, è una partita di calcio uno scherzoso scambio di battute con l arbitro Collina. Viene un sospetto, che nel Paese dove il partito di maggioranza relativa prende il nome da uno slogan da stadio è un sospetto anche abbastanza banale: diciamo un sospetto di Pulcinella. I rapporti fra parole e cose sono sempre molto complicati, ma proviamo a fare un semplice rovesciamento. Se questo transito linguistico dal calcio alla realtà non fosse una metafora? Se, insomma, noi chiamiamo zona Cesarini la zona Cesarini non per un caso o per un vezzo, ma perché, negli anni, abbiamo iscritto la realtà al campionato di calcio? L ipotesi, diciamolo subito, più che apparire ardita e provocatoria vorrebbe iscriversi nei (cospicui) registri dell ovvio. Ci sono metafore e metafore, infatti. Se uno non vive in epoca vittoriana non trova nulla di erotico nelle «gambe» del tavolo e non nota neanche più che il collo della bottiglia si chiama come quello su cui posa la sua testa, o dovrebbe farlo. Queste sono metafore che non si possono più avvertire come tali, e infatti che la regina Vittoria facesse pudicamente coprire le gambe dei mobili fa francamente ridere. Ma poi ci sono metafore che non partono dal linguaggio ma direttamente dalla percezione, veri e propri campi metaforici che organizzano il modo in cui vediamo il mondo. Ne parla un bel libro (Metafore e vita quotidiana, Bompiani) di quel George Lakoff di cui in questi giorni è uscito un pamphlet sul linguaggio politico (Non pensare all elefante, Fusi Orari). Il calcio è una di queste metafore: lo sport e i giochi rendono sempre un immagine della società in cui sono popolari, ma nel caso del calcio e dell Italia l immagine diventa una compenetrazione. Un dibattito politico non viene solo raccontato con linguaggio calcistico: ma viene vissuto come fosse football. «Quelli che in fondo è solo una partita di calcio» siamo noi: molto in fondo, e sempre in un eterna zona Cesarini.

7 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 I GOL DI RENATO I gol segnati I gol segnati I gol segnati I gol segnati I gol segnati I gol segnati fino al 15 dal 16 al 30 dal 31 al 45 dal 46 al 60 dal 61 al 75 dal 76 al 90 dana con il fazzoletto bianco attorno al capo, c è Combi in porta, Bertolini che corre per tutti, i fratelli Varglien, Felice Borel che ha il 36 di piede, Giovanni Ferrari che vincerà campionati e mondiali. E c è Cesarini che ha troppa vita per giocarsela solo al novantesimo, infatti gira con una scimmia sulla spalla, fuma un pacchetto di sigarette al giorno, impara l italiano, dice lui, dalle maitresse e in piazza Castello apre una tangheria, con due orchestre e i musicisti vestiti da gauchos. Di sera a suonare c è anche lui. Becca multe, le paga, se le fa anche un po scontare, ma non rinuncia alle scommesse e a se stesso: si rapa per tre volte i capelli a zero, si presenta ad una festa in pigiama bianco e foulard, arriva tardi all allenamento, scendendo in smoking dal taxi, si cala dalla grondaia dell albergo, dov è in ritiro, per andare a fare baldoria, ricambia una bottiglia di champagne che gli fa arrivare al tavolo Edoardo Agnelli con altre dodici, insomma se la gode, soprattutto di notte. E non rinuncia all eleganza, pigiama e vestaglia di raso. Ma in campo gioca e segna. Esordisce in maglia azzurra nel 31, ma la indossa solo undici volte, troppo ribelle per il ct Pozzo, che gli preferisce gente più solida. Però arriva quel minuto lì, straordinario e unico. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l Italia gioca contro l Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, uno a zero, gol di Libonatti. Avar fa l uno pari, Orsi riporta l Italia in vantaggio, ma Avar segna di nuovo: due a due al novantesimo. Tutto o niente da rifare. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. Ad un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per tre a due. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro». Repubblica Nazionale 35 26/03/2006 CAMPO DI CALCIO METAFORA DI VITA Va in libreria, edito da Bompiani, il libro di Luca Pagliari Zona Cesarini. Campo di calcio, metafora di vita (280 pagine, 8 euro). Il libro ha una prefazione di Alessandro Del Piero, contributi di Roberto Nestor Sensini, Paolo Rossi, Bruno Conti, Roberto Mancini, e riporta la voce di alcuni altri grandi campioni del calcio di oggi che sentono di dovere qualcosa al lontano esempio del giocatore italo-argentino: Francesco Totti, Gabriel Batistuta, Roberto Baggio. Il libro scritto da Pagliari esce in occasione del centenario della nascita di Renato Cesarini (11 aprile 1906) e vuole essere un omaggio a un fuoriclasse di cui il grande pubblico, non solo del calcio, conosce soltanto la metafora che ne porta il nome. Dietro quella metafora c è un uomo di straordinario fascino che si vantava della sua origine di figlio di emigranti: La mia università è stata la strada e la vita di ogni giorno mi ha insegnato qualcosa. Basta saper guardare SCIMMIA DA COMPAGNIA Nelle foto, Renato Cesarini in tre immagini degli anni Trenta: sul campo di calcio; in sciarpa, cappello e completo elegante; con la scimmia che teneva come animale da compagnia e che usava portare a spasso su una spalla La consacrazione Renato a venticinque anni entra nella storia, ma non se ne accorge subito. Dovrà passare una settimana. Eugenio Danese è il primo giornalista a parlare di «zona Cesarini», quando il 20 dicembre l Ambrosiana batte due a uno la Roma con un gol di Visentin all ottantanovesimo. Ormai Renato ha firmato il suo minuto, non ci possono essere altri proprietari. In tutto tra Juventus e nazionale Cesarini giocherà 158 partite e segnerà 55 reti. Nel 35 ripartirà per l Argentina, giocherà nel River Plate e vincerà altri due scudetti, poi a trentaquattro anni diventerà allenatore della squadra che verrà chiamata «La Maquina». La macchina, sì, per la precisione delle giocate. Dicono che quel River Plate è capace di attraversare il campo senza far toccare terra alla palla. Cesarini capisce molto prima dell Olanda di Cruyff che «si difende e si attacca in undici». Non lo intuisce dai libri sul calcio, ma dalla sua vita. «Nella mia esistenza ho fatto il calzolaio, l acrobata, il pugile, l artista di strada, il calciatore, il radiocronista, l organizzatore di corse ciclistiche, il suonatore. Il calcio non può essere molto diverso, tutti devono sapere fare tutto». Non conta l ultimo minuto, ma come si gioca fino all ultimo secondo. Allenerà altre squadre Cesarini, tornerà in Italia, sarà lui a scoprire Omar Sivori, a portarlo alla Juve, e a far esordire nel 47 Boniperti. Quel selvaggio di Sivori che non dava retta a nessuno, che s inchinava solo a Cesarini e lo chiamava maestro. Forse perché Renato non aveva figli e Omar non aveva padre. Una volta la zona Cesarini era invenzione, eccezionalità, sorpresa. Ora è cambiata, è più facile segnare al novantesimo. Ci sono gli specialisti, quelli che entrano per gli ultimi minuti, senza una goccia di sudore, pronti a matare quelli cotti di fatica. Adesso sono in tanti a firmare quella zona, negli ultimi tre campionati i più bravi sono stati Christian Vieri con cinque gol, Kakà e Totti con quattro. Una volta invece al novantesimo ci arrivavi con tutta la partita nelle gambe, le sostituzioni non erano ammesse, dovevi restare sulla croce fino all ultimo, senza poter chiedere controfigure. La zona Cesarini la riconosci dalla sensazione: tu che vai in paradiso, la palla che va all inferno, l arbitro che fischia la fine, il rimpianto che va a morire, il cuore che ti si deposita in fondo alla rete, la terra che gira più dolcemente. E tutta la vita, con la sua montagna di secondi.

8 DOMENICA 26 MARZO 2006 le storie Sport sempreverdi Si chiama kushti, è l antica lotta indiana nella sabbia, un wrestling di duemila anni fa che comporta l adesione a uno stile e a una filosofia di vita, ancora oggi insegnata in migliaia di akhara, le palestre-monastero. E che adesso fronteggia il nemico più insidioso: la modernizzazione, che pretende combattimenti brevi su materassi di gomma I gladiatori della terra rossa LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 RAIMONDO BULTRINI NEW DELHI Diamanti della terra rossa! Virtuosi! Insegneremo al mondo il senso del dovere... «Lottatori! La debolezza sarà debellata, forza e virilità restituiti all uomo, l orgoglio della nazione restaurato...». Un poeta di fede nazionalista hindu ha cantato così trent anni fa le lodi del kushti, l antica lotta indiana sulla sabbia praticata da atleti pahalwan, il corpo cosparso di fango, nelle palestremonastero chiamate akhara. Si è fatto giorno da poco e sulle rive del sacro fiume Yamuna, alla periferia di Delhi, una nebbia vaporosa e densa sale dall acqua fino a lambire il rettangolo di sabbia mossa dove il ventiquattrenne Surender ha appena passato due ore a spingere, avvinghiarsi, sbuffare e lottare contro un avversario dai muscoli d acciaio e con la sua stessa voglia di vincere. Lavato, oliato e riposato, si avvicina all effigie del dio scimmia Hanuman, protettore dei wrestler, in posa di devozione, mentre al suo posto combatte ora un ragazzo che appare mingherlino al cospetto degli altri pahalwan dell akhara. Il giovinetto esita a lanciarsi contro il lottatore che gli danza pesantemente intorno, di pochi anni più anziano ma già formato nei muscoli e nello spirito. Leone e gazzella finalmente s incontrano, affondano nella sabbia e riemergono tra spruzzi e tonfi sordi di bicipiti e toraci che si urtano. La terra di cui sono cosparsi li rende statuari come certe figure di atleti della Greca antica. E il paragone non è solo simbolico, se già al tempo di Alessandro, nel terzo secolo prima di Cristo, olimpionici greci portarono le arti marziali del Mediterraneo in India. L akhara sullo Yamuna potrebbe somigliare a una palestra dell era vedica, se non fosse per i pur vetusti attrezzi ginnici d acciaio che hanno sostituito i pesanti sassi da sollevamento, l aratro per esercitarsi a tirare, le gigantesche clave per rafforzare le clavicole e gli avambracci. Lo ha fondato una leggenda del wrestling indiano, il maestro Changdi Ram, vincitore di un oro ai Giochi asiatici e gloria nazionale, oggi settantenne. Ma il vecchio guru non sembra un nostalgico: «Se è cambiato il kushti? E che cosa non è cambiato al mondo? Nel nostro paese viaggiavamo su cavalli, elefanti, cammelli, carretti. E alle olimpiadi si GLI ATLETI Nelle foto in questa pagina, due momenti di un match di kushti a New Delhi FOTO SIMONA CALEO combatteva esclusivamente sulla terra nuda. Le gare di lotta non avevano limiti di tempo, ci si poteva battere da mattina a sera prima che uno dei due soccombesse all altro. Ora si usano i materassi e ci sono solo tre round che durano due minuti. Se vuoi una medaglia devi allenarti a buttare giù l avversario prima possibile, che significa cambiare stile, filosofia, tutto». Di tanto in tanto guru Changdi lancia un occhiata alla buca di sabbia dove il suo studente esile sta per essere sollevato come un fuscello. Ce la farà un giorno a diventare un muscoloso pahalwan? gli chiediamo. «Sì, con un paio d anni di lavoro duro e molto latte, panna ghie mandorle», replica il maestro. Il ghi è una specie di burro pastorizzato, altamente proteico, mentre le mandorle contengono un numero elevato di calorie. È il cibo ideale per gente che ogni giorno passa ore e ore a esercitarsi. Ma per alimentarsi adeguatamente diecimila calorie contro le mille di un indiano normale un lottatore dovrebbe spendere tra le 200 e le 400 rupie, dieci dollari al giorno, una cifra che pochi possono permettersi. «Un tempo a finanziare i pahalwan erano i re e i principi, poi i mecenati spiega Changdi Ram oggi devono guadagnarsi il pane da soli, e molti hanno un lavoro». Quando tre anni fa l India decise di bandire le buche di sabbia per gli allenamenti degli atleti, destinati a gareggiare sul duro in palazzetti dello sport e stadi, ci fu una mezza sollevazione tra gli akhara indiani, e alla fine non tutti hanno abolito il perimetro sabbioso. Non solo perché la lotta su sabbia costituisce ancora un attrazione formidabile nelle aree rurali, durante feste religiose e sagre, ma anche perché pochissimi centri potevano permettersi l acquisto dei materassi.

9 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 de all educazione universitaria e in alcuni paesi la percentuale è molto più alta. In Austria, in Svezia e in Australia oltre il cinquanta per cento dei ragazzi si iscrivono all università. L Unione europea ha fissato come obiettivo da raggiungere entro tempi relativamente brevi quello di ottenere che l ottanta per cento dei giovani prosegua gli studi a livello postsecondario. Nell aprile del 2005 il presidente dell Unione europea José Manuel Barroso ha dichiarato in un discorso che «mai quanto oggi le università hanno occupato un posto così alto nell agenda della Commissione». È giusto dire che chi lavora nelle università ha un atteggiamento ambivalente nei confronti di questi progetti di espansione su larga scala: è certamente auspicabile che il maggior numero possibile di persone vada all università, eppure benché l educazione accademica sia diventata un fenomeno di massa la condizione sociale e la paga degli accademici sono diminuite. È difficile attrarre i migliori, persino nelle migliori università. In molti adesso sono attratti da quelle stesse occupazioni ad esempio nell industria o in banca che la mia generazione (che certo aveva i propri vezzi) non avrebbe mai preso in considerazione. Che ruolo dovrebbe occupare dunque l università specialmente quella di élite nell economia della conoscenza? E se le università di élite sono importanti, come possiamo affrontare il problema che in Europa queste non sono all altezza delle loro controparti statunitensi? I vertici delle grai luoghi Cattedrali del sapere Nonostante la storica rivalità, Oxford e Cambridge sono viste come una cosa sola, un posto che occupa i sogni di tanti giovani ambiziosi. Qui hanno studiato mezza dozzina di primi ministri inglesi, compreso l attuale, decine di capi di stato e di governo, sovrani stranieri, politici, imprenditori, alti funzionari. E persino un presidente degli Stati Uniti. Ecco il loro segreto LA SEDE Una locandina promozionale dell Università di Oxford, l interno del campus e la tenuta circostante Oxbridge, l educazione ENRICO FRANCESCHINI OXFORD La sera del 10 ottobre 1968, su una banchina del porto di Southampton, sotto un insistente pioggerellina, un distinto signore in bombetta, impermeabile e ombrello diede il benvenuto a un ragazzone americano lungo e grosso appena sbarcato da un piroscafo. Il signore in bombetta lavorava per l Ufficio ammissioni dell Università di Oxford. Il ragazzone, che aveva vinto una prestigiosa borsa di studio, si chiamava Bill Clinton. «Dopo un silenzioso viaggio in autobus, arrivammo a Oxford verso le undici di sera e non trovammo anima viva», ricorda l ex presidente degli Stati uniti nella sua autobiografia, «fatta eccezione per un piccolo furgone illuminato che vendeva hot dog, pessimo caffè e cibo di scarsa qualità in High Street, accanto all istituto a cui ero stato assegnato». In quell istituto del tredicesimo secolo, in una piccola stanza al primo piano, col bagno al pianterreno («il che spesso mi costringeva a gelide corse giù per le scale»), il giovane Clinton trascorse due anni, studiando scienze politiche (una tesi sul terrorismo, «sterile bisturi che seziona il corpo civile della società»), giocando a rugby, leggendo Hemingway, visitando nel weekend la tomba di Shakespeare a Stratford-upon-Avon e quella di Marx a Londra, spingendosi fino a Parigi e a Mosca durante le vacanze estive, ripensando all America che s era lasciato alle spalle in quel fatale 68, l anno dell assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, e al futuro che l aspettava. Tornò a casa nel 1970, con tre piccoli doni ricevuti dai compagni di studi, un bastone da passeggio, un cappello di lana inglese, una copia di Madame Bovary (che ancora possiede), e con una poesia di Carl Sandburg stampata in mente: I due atenei inglesi entrano nella top ten mondiale delle cosiddette università d élite, di cui fanno parte anche Harvard, Yale e Princeton «Digli di stare spesso da solo e di scoprire se stesso/ digli che la solitudine è creativa se lui sarà forte/ e che le decisioni finali si prendono in stanze silenziose». Scoprire se stessi Ogni autunno, migliaia di ragazzi e ragazze provenienti da ogni angolo della Gran Bretagna e della Terra, emozionati e impacciati, piombano tra i merli, le torri, le guglie e le gotiche figure che adornano la più gloriosa cittadella universitaria d Europa, con l obiettivo, come aveva Bill Clinton, di «scoprire se stessi» e incamminarsi verso un luminoso futuro. Non tutti, ovviamente, sono destinati a diventare presidenti di una superpotenza, ma alcuni ci vanno vicino: mezza dozzina di primi ministri britannici compreso l attuale, decine di capi di stato, di governo e sovrani stranieri, per tacere di innumerevoli ministri, alti diplomatici, banchieri, imprenditori, giuristi, scrittori, scienziati ed artisti, sono passati per queste aule da cui grondano storia e conoscenza. Ad attirarli, oltre alla fama del luogo, al valore dei docenti e alla ricchezza delle risorse, è un sistema educativo forgiato nei secoli, che nel 1894 uno studente e più tardi docente (di una nuova scienza, da lui stesso inventata: l antropologia), Robert Ranulph Marett, così descriveva: «Oxford basa il suo metodo sull uso della dialettica socratica, ovvero sul dialogo come mezzo attraverso cui una persona più anziana intraprende uno scambio di punti di vista con una persona più giovane avendo come comune obiettivo la ricerca della verità». Ogni primavera, più o meno di questi giorni, molte più migliaia di ragazzi e ragazze aspettano con trepidazione di trovare nella posta una letterina con l intestazione Oxford University, per scoprire se sono stati accettati. È un attesa lancinante. Il Regno unito ha centododici università. L Europa intera circa duemila. L America cinque volte tante. Ma le cosiddette università «di Repubblica Nazionale 38 26/03/2006 GLI EDIFICI L università di Cambridge in una locandina pubblicitaria, un portone d ingresso e uno dei cortili interni Quei campus dove si fabbrica il nostro futuro ANTHONY GIDDENS H o iniziato a insegnare all università molti anni fa: a quei tempi si cominciava da giovanissimi, e io avevo solo ventidue anni quando ottenni il mio primo incarico universitario in un piccolo college nel cuore dell Inghilterra. Non riuscivo a immaginare un inizio migliore per la mia carriera: lavorare per un università, fare la vita dello studioso, mi sembrava la cosa migliore che si potesse fare. Com era possibile che qualcuno desiderasse lavorare nel mondo degli affari? Essere avvocato, o dipendente pubblico, con le loro routine sempre uguali? Quello dell università non era il mondo di tutti i giorni (almeno così mi sembrava): uno studioso, in quanto tale, è libero di seguire i propri interessi, spaziare per la storia e intrattenersi con le migliori menti del passato e del presente. A quei tempi lavorare in un università era davvero per pochi: solo il sette per cento dei giovani erano ammessi. In quanto luogo in cui si produceva conoscenza poi, l università non aveva praticamente rivali. È stato solo anni dopo che mezzi di comunicazione, gruppi di ricerca, consulenti d amministrazione ed altro hanno iniziato ad erodere il territorio tradizionalmente occupato dall università. Persino i salari accademici nel Regno Unito, almeno a quell epoca, erano abbastanza alti, alla pari di quelli di altre professioni. Le cose adesso sono cambiate. Veniamo ai nostri giorni. Adesso, nella maggioranza dei paesi sviluppati almeno il trenta per cento dei giovani acce-

10 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 GLI ALLIEVI I POLITICI GLI SCIENZIATI GLI SCRITTORI GLI ATTORI E I REGISTI ILLUSTRI Tra i politici di successo usciti da Oxford ci sono Margaret Thatcher, Tony Blair, Bill Clinton (foto), Indira Ghandi, Benazir Bhutto, Abdullah di Giordania, il principe giapponese Naruhito Dagli studiosi dell atomo Rutherford e Bohr ai padri del dna Watson e Crick: Cambridge è l ateneo che ha vinto più Nobel. Da Oxford è uscita Dorothy Hodgkin (foto), l unica donna inglese Nobel per la fisica Da Swift a Wilde, da Aldous Huxley a T.S. Eliot: dal 1200 ad oggi sono tantissimi i talenti che hanno studiato a Oxford. Da Cambridge è uscito, invece, il Nobel Bertrand Russell (foto) Attori, registi, presentatori tv: anche il mondo dello spettacolo ha fatto tappa a Oxford. Hanno studiato qui il regista Ken Loach e Hugh Grant (foto), oltre al direttore generale della Bbc Mark Thompson LE ATTIVITÀ La cerimonia delle lauree honoris causa (Encaenia), l allenamento della squadra di canottaggio e la mensa di Oxford dei padroni del mondo élite», come le definisce la graduatoria pubblicata annualmente, sono cinquecento in tutto il mondo, e le top 10, quelle che ne costituiscono la crema, il cui solo nome evoca esclusività e certezza di ritrovarsi dopo la laurea al vertice della propria professione, sono sempre le stesse. In Europa, Oxford e la sua sorellina inglese, Cambridge, acerrime rivali ma viste come una cosa sola, Oxbridge, località inesistente sulle carte geografiche eppure nei sogni di tanti giovani ambiziosi, e dei loro non meno ambiziosi genitori. In America, le università della Ivy League, la lega dell edera, dal nome della tenace pianticella che s arrampica sulle loro mura, con Harvard, Yale, Princeton in testa a tutte. Il rifiuto può essere devastante. Un ragazzo russo che ha terminato con il massimo dei voti gli studi di scuola superiore a Londra, lo chiameremo K. per difenderne l orgoglio ferito, sta ancora cercando di capire perché Cambridge abbia respinto la sua domanda d iscrizione a giurisprudenza. Superata la prima selezione basata su curriculum e raccomandazioni scritte (almeno tre, obbligatorie), è stato convocato per un colloquio. Un anziano professore, schiaritosi la gola, gli ha domandato: «Nel 1973, con la sentenza Roe contro Wade, la Corte Suprema degli Stati uniti legittimò l aborto. È giusto, secondo lei, che la Corte Suprema legiferi su questioni simili, o dovrebbero essere lasciate alle legislazioni dei singoli stati?». Qualcosa, nella sua pur argomentata risposta, non deve avere convinto il professore. Le rette sono alte, dai 10 ai 40mila euro l anno, ma vi si può accedere anche grazie a numerose borse di studio, come quella che nel 68 portò qui Bill Clinton L esame di ammissione A Nathan Clements-Gillespie, che nonostante il nome è italiano, figlio di americani ma cresciuto a Roma, è andata meglio a Oxford, dove nel 2004 fece richiesta d iscriversi a lettere. La commissione esaminatrice gli chiese prima di parlare di uno dei libri da lui citati nel suo autoritratto intellettuale (Tenera è la notte, Francis Scott Fitzgerald), quindi gli mise sotto il naso un sonetto, invitandolo a spiegare cosa, esattamente, lo rendeva «una poesia». Nathan se la cavò, ora è al secondo anno di corso ed è diventato presidente dell Unione studenti italiani di Oxford, associazione che conta 144 membri «siamo il gruppo straniero più numeroso dopo i greci», dice e che organizza, eventi, dibattiti, cene di pastasciutta, queste ultime «per distinguerci dai barbari inglesi», avverte un ironico trafiletto sul loro sito Internet. «Oxford è l ambiente più stimolante che si possa immaginare», commenta Paola Cadoni, torinese, iscritta a un master in Relazioni internazionali al St. Anton College. «Vai a pranzo in mensa, a tavola parli casualmente della tua tesi con un professore che ti fa subito mille domande, e quando torni sui libri hai già capito qualcosa di più». Il metodo socratico, insomma, anche col boccone trai denti. Un tempo, a Harvard, Yale e Princeton vigeva una ripugnante politica delle ammissioni, o meglio delle esclusioni, per limitare il numero degli ebrei: fu introdotto un criterio di selezione anche estetica, di modo che uno studente poteva essere respinto con l annotazione «basso di statura, orecchie a sventola», come rivela The chosen, un libro appena uscito in America che ha scatenato un putiferio di polemiche. Oggi questo non capita più, e tuttavia ci sono ancora manuali che spiegano tutti i trucchi per essere ammessi a Oxbridge o nei college Ivy League, da come vestirsi per il colloquio a come rispondere alle domande trabocchetto. Precondizione per essere ammessi, naturalmente, è avere i soldi: diecimila euro l anno per la retta di Oxford, senza contare vitto e alloggio, tre-quattro volte tanto per Harvard. Ma esistono anche prestiti e borse di studio: come quella che, una piovosa sera dell autunno 1968, permise a un ragazzo americano di povere origini di approdare nella più gloriosa cittadella universitaria d Europa e «scoprire se stesso». GLI STUDENTI Un gruppo di studenti di Cambridge dopo la lezione, i celebri canottieri dell ateneo e la grande mensa universitaria duatorie dei migliori atenei del mondo sono infatti dominati da istituti americani, e solo una manciata di università europee come Oxford e Cambridge appaiono tra le prime cento. Molti emeriti studiosi lasciano l Europa per gli Stati Uniti, e quelli che tornano sono solo una minoranza. L Europa guarda con invidia all altra sponda dell Atlantico; eppure nell educazione universitaria americana non tutto funziona, e questo è oggetto di accesi dibattiti. Nelle università private le rette sono cresciute in maniera esorbitante, facendo crollare le richieste di iscrizione da parte degli studenti meno abbienti. Sono pochi gli istituti che hanno fondi sufficienti da potersi permettere di offrire agli studenti sovvenzioni tali da supplire a una parte delle mancate iscrizioni. Solleva inoltre grandi preoccupazioni il mutevole ruolo delle università, che si crede siano spesso motivate da interessi commerciali. Cosa è stato della loro tradizionale missione di promuovere la ricerca in modo disinteressato? Alcuni critici hanno persino parlato di «università in rovina». Mentre in Europa cerchiamo di riorganizzare le nostre università e portarle a livello mondiale, dovremmo prestare attenzione a queste preoccupazioni. Abbiamo bisogno di più università d élite. Perché? Perché rappresentano i principali centri di ricerca e di innovazione, il nucleo di molto di ciò che influenza il resto del sistema universitario. Ma non dobbiamo trasformarle in fabbriche del sapere. La crescita dell università può essere stimolata da interessi di ordine principalmente economico, ma non dovrebbe essere ridotta ad un imperativo economico. L educazione universitaria è vitale in quanto aiuta a trasmettere i grandi valori del cosmopolitismo e del civismo, e un sistema universitario in crescita deve assicurare la continuità dei valori umanistici e delle tradizioni liberali. Come possiamo venire a patti con queste problematiche? La risposta potrebbe darla soprattutto una maggiore disponibilità di mezzi. In Europa, ad eccezione di uno o due paesi come la Svezia in cui le tasse sono altissime, la crescita dell educazione universitaria è avvenuta per lo più in assenza di ulteriori risorse. Il risultato è che le università sono massicciamente sovrappopolate (come in Italia, ad esempio) e si registrano alti tassi di abbandono da parte degli studenti. Esistono poi i problemi di cui abbiamo già parlato: condizioni di lavoro mediocri per i docenti, strutture di ricerca scadenti e la mancanza di competitività rispetto agli Stati Uniti. I tentativi e gli sforzi del sistema americano insegnano che non esiste una pozione magica per risolvere il problema di una maggiore disponibilità di fondi per l educazione universitaria. Ed è ovvio che nella maggior parte dei paesi lo stato non può sobbarcarsene l intero costo. Dove si può reperire il denaro mancante? L industria può contribuire in parte, nei casi in cui esista una sinergia di ricerche e sviluppo con gli atenei, ma esiste una sola vera grande fonte di entrate, ed è rappresentata dagli studenti. Per coloro che ne usufruiscono, l educazione universitaria nell economia della conoscenza si traduce in ampi vantaggi in termini di guadagni percepiti nel corso della vita lavorativa. Perché allora non chiedere a coloro che traggono vantaggio dall educazione universitaria di ripagarne parte dei costi? Il minimo accenno alla possibilità che gli studenti debbano contribuire alla propria educazione tende a provocare un accanita resistenza da parte degli studenti stessi. Ma questi contributi regalerebbero al sistema nuove risorse, e questo permetterebbe di migliorare le condizioni di tutti, compreso un aumento dei salari per i professori, o magari una paga proporzionata al loro rendimento. Al tempo stesso, il pagamento delle rette promuoverebbe una maggiore giustizia sociale, dal momento che oltre un certo punto non è giusto che a pagare siano coloro che all università non ci vanno. Il sistema più equo è quello introdotto in Australia e più recentemente nel Regno Unito secondo cui l educazione universitaria è gratuita nel momento in cui la si riceve. Per il pagamento, che avviene dopo la laurea ed è regolamentato secondo il sistema fiscale, si stabiliscono delle particolari condizioni di prestito. Chi non supera un certo reddito non deve ripagare nulla; una sostanziale proporzione degli introiti viene destinata a borse di studio e a sovvenzioni per gli studenti meno abbienti. Non si tratta di un sistema perfetto, ma tutto considerato è il migliore che esista, e può coesistere con le università private a patto che anche queste si diano da fare per attrarre studenti provenienti dai settori meno privilegiati della società. Se in un futuro prossimo la maggioranza dei paesi dell Unione europea non implementerà un sistema analogo, o qualcosa che gli assomigli, non c è alcuna possibilità che le università europee possano finalmente mettersi al passo con quelle degli Stati Uniti.

11 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 L artista sudamericano, celebre per le storie a fumetti e per i personaggi - Alack Sinner, Sophie - creati con Carlos Sampayo, affronta ora quella che forse è la sua vera vocazione: la pittura-pittura Chiamato a disegnare un libro sul suo paese, La pampa y Buenos Aires, che è in uscita per Nuages, ha chiuso gli occhi e si è calato nel rischioso pozzo dei ricordi, nella breve età dell oro di quando era ragazzo e abitava in una periferia di Buenos Aires che era già pampa... Orizzonti celesti sempre attraversati da cirri spinti a velocità folle da un vento che non conosce ostacoli Repubblica Nazionale 40 26/03/2006 STEFANO MALATESTA PARIGI Nel periodo tra le due guerre vivevano a Parigi centomila argentini, la maggior parte di Buenos Aires, che non erano di passaggio, ma si consideravano stanziali e come di casa. Li vedevi installarsi nei caffè, nelle brasserie, farne dei luoghi di incontro e di convegno, essere presenti a tutte le mostre e frequentare le trattorie e le bettole: gli ultimi ad arrivare e gli ultimi ad andar via. Erano difensori di cause perse, oratori immaginosi e parlatori sfiancanti, pronti alla polemica e più stravaganti della media degli artisti che si incontravano in giro, e anche abbastanza squattrinati. Pronti a morire per l arte. E quandole vin rouge ordinaire era finito e gli ultimi amici si erano dileguati, rimanendo seduti nelle poltrone di vimini allungavano le gambe e sognavano l Argentina e gli altri paesi latinoamericani, immaginando che fossero liberi da caudillos e capataz, da militari criminali e da tierratenientes brutali, che non avevano mai speso un peso per migliorare tutte quelle terre rubate agli indiani. E sognavano che le ragazze che fingevano di recitare il rosario al vespro si sarebbero accorte di loro e l indomani avrebbero preparato di nascosto la valigia per scappare insieme al primo momento opportuno. Il tango, le donne, le nuvole l Argentina tra memoria e sogno Capitale artistico-letteraria I latinoamericani che ho conosciuto, molti anni più tardi, erano colti, maneggiavano un sapere enciclopedico e trovavano sempre un modo diverso e più rapido per risolvere qualsiasi problema ti tormentasse, dal lavandino che gocciolava al vicino di stanza che russava e non ti lasciava dormire. Avevano in riserva dei numeri imprevedibili perché dicevano chi avrebbe mai frequentato un sudamericano ignorante e privo di fantasia? Un cileno come il regista Raul Ruiz sapeva di letteratura inglese come Borges e faceva film di lungometraggio in otto giorni. E naturalmente viveva a Parigi, che considerava la sua città anche se era nato sotto le Ande. José Muñoz è nato a Buenos Aires. Ha abbandonato l Argentina nel José Muñoz macchina delle riprese si spostasse in Da allora è vissuto in Italia e poi in Francia e anche lui considera Parigi la sua città, almeno la capitale di una nazione letterario-artistica che supera i confini e gli oceani. In questi anni ha lavorato moltissimo, pubblicando stupende storie che vanno definite in lingua francese: bandes dessinées,per- ché storia a fumetti suona troppo riduttivo e non rende la straordinaria perizia degli autori. Ma se pensate ai fumetti di Pratt e di Moebius, allora capirete un po meglio quale sia il livello. Pagine in bianco e nero, con riquadri o scenette che sono visti da un angolazione sempre differente, come se la LE ZIE DESIDERATE Le immagini della pagina, dell artista argentino José Muñoz, sono tratte dal libro La Pampa y Buenos Aires La più grande, in alto a destra, porta il titolo di Zie desiderate continuazione portandosi in tutti gli angoli e provando tutte le inclinazioni possibili, in modo che a volte ti sembra di camminare di sbieco, come nello studio del dottor Calligaris. Queste inquadrature impreviste mi ricordano dei fumetti superbi, pubblicati in Italia nel dopoguerra e firmati Milton Caniff. Disegnava delle donne così attraenti, partendo dai tacchi a spillo visti in primo piano, e poi saliva per li rami. Credo comunque che la vera vocazione di José sia la pitturapittura senza generi, e chiamato a disegnare un libro sull Argentina dalle Edizioni Nuages di Milano si è messo ad evocare il suo passato come uno sciamano, ma senza entrare in trance, anche lui semisdraiato su una poltrona di vimini. Poi ha chiuso gli occhi e si è calato lentamente nel profondo e rischioso pozzo dei ricordi. In questo modo è riuscito a saltare il periodo storico più recente e anche quello più tragico del suo Paese per ritrovare la breve età

12 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL LIBRO E LA MOSTRA La pampa y Buenos Aires di José Muñoz esce in questi giorni per le Edizioni Nuages (208 pagine, 160 immagini, 36 euro Ma è disponibile anche un edizione rilegata di 30 esemplari con un disegno a china dell autore, a 500 euro). Giovedì 30 marzo alle 18 nella Galleria Nuages, via del Lauro 10, Milano, si inaugura alla presenza dell autore la mostra La Pampa y Buenos Aires (dura fino al 20 maggio) con cento opere tra inchiostri e tempere, tutti i disegni riprodotti in quello che Muñoz ha definito il libro della mia vita. José Muñoz è celebre anche come autore di fumetti di grande successo e in particolare per i personaggi (Alack Sinner, Sophie) creati in collaborazione con lo scrittore Carlos Sampayo Repubblica Nazionale 41 26/03/2006 dell oro di quando era ragazzo e abitava con i suoi in una periferia di Buenos Aires che era già pampa. La sua non è stata una operazione di rimozione come si può nascondere o dimenticare gli anni del vuelo?. Ma capiva che quel periodo tremendo si sarebbe mangiato il resto e ha deciso di eliminarlo. Così se vi imbattete in facce digrignanti, e sono solo due o tre, non di più, prendetela come la prova che nessuno ha scordato nulla. Territorio indiano E le prime immagini ad arrivargli sono state quelle del cielo, il cielito delle pampas, non azzurro ma celeste, sempre percorso da nuvole che vanno con una folle velocità, che lasciano lungo il percorso striature bianche e poco dopo scompaiono, trasportate da un vento che non conosce ostacoli. Fino a metà del secolo diciannovesimo tutto il territorio che circondava Buenos Aires ad ovest e a sud apparteneva agli indiani, che in Argentina con i Tehuelches della pampa e soprattutto in Cile con gli Araucani si erano dimostrati più abili e più coraggiosi dei feroci Aztechi o degli inconcludenti Inca, resistendo a qualsiasi tentativo di penetrazione nei loro territori. Sebbene nessuno lo riconoscesse a quei tempi, quella regione vasta quasi 500mila chilometri quadrati, dove pascolavano più di quaranta milioni di capi selvatici, tra cavalli e bovini, costituiva la più grande e potenziale sorgente di ricchezza di tutte le Americhe: una ricchezza che non apparteneva ai privati ma alla mano pubblica. Oltre agli indiani, che non si ponevano il dilemma giuridico sulla proprietà, c era un altro gruppo sociale che credeva di poter disporre liberamente degli animali come se fosse il solo proprietario della pampa. Si chiamavano gauchos, un nome che da noi evoca ilarità e canzonette: «Nella pampa sconfinata», e pensiamo ad un ruolo di Rodolfo Valentino nei Quattro cavalieri dell apocalisseinterpretato da Franco Franchi. Questi gauchos erano un terrificante impasto di bestialità e di romanticismo, di rozzezza e di poesia, ed entrarono presto nel mito argentino, che non guardava troppo per il sottile. Ma le giovani generazioni non si sentivano affatto rappresentate e la gente dell avanguardia, che si definiva ultraista come Borges, che ci azzeccava con la mistica machista del rude cavaliere che puzzava come un caprone e che non si era mai messo un paio di mutande in vita sua? Eppure fu proprio Borges a scrivere testi che grondavano colore locale e più tardi anche un libretto sul tango, che affermava di non amare. Anche José non doveva andare pazzo per i gauchos: non se ne vede nemmeno uno in tutto il libro. Mentre le ragazze gli dovevano piacere tutte, vicine di casa e amiche, frequentatrici del locale e ballerine, studentesse e casalinghe e naturalmente puttane, che nei giornali venivano chiamate meretrici e i bordelli lupanari. È in questi lupanari prima al Barrio de La Boca, cioè al porto, poi a El Parque che qualcuno, nessuno ha mai saputo dire con certezza il suo nome, ha suonato il Tutte le ragazze dipinte da José hanno visi allungati alla El Greco, occhi scuri ed enormi, i capelli arricciati di cui si prendono soverchia cura, i vestiti di seta a due pezzi e a pois bianchi e neri con la spaccatura alta fino ai fianchi primo tango, scritto mescolando tre componenti, come si fa con i buoni vini: quello che veniva chiamato ballo negro, la milonga e la habanera. Una danza per puttane. Quale signorina di morigerati costumi, avrebbe mai pensato di infilare la coscia nuda tra le gambe del suo partner e di sgambettare dietro la sua schiena? Poi il tango andò in Francia, subito dopo la prima guerra mondiale, ebbe un successo travolgente e tornò in Argentina con l avallo del Tout Paris. In quei mesi, anche se i protagonisti non se ne accorsero o non capirono, si stava svolgendo una rivoluzione dei costumi che avrebbe lasciato il segno per decenni. Le ragazze, che avevano già gettato fuori della finestra i busti, ora tagliano la gonna fino al ginocchio e i capelli cortissimi, da sembrare dei maschi, vanno nel sud della Francia, fanno il bagno seminude d estate e prendono il sole, riservato prima ai contadini e considerato estremamente pernicioso. E il tango fa parte di questa rivoluzione. Tra le donne dipinte da José ce ne sono alcune così argentine che mi sembra di averle conosciute, per il tipo fisico apparentemente sempre uguale. Non troppo alte, con il viso allungato, alla El Greco, e gli occhi enormi, scuri, quasi sempre estremamente simpatiche, i capelli arricciati di cui avevano soverchia cura. Con un sospetto di provincialismo nei vestiti e in generale nel modo di presentarsi. Buenos Aires, nel passato, mi è sempre sembrata la più europea tra le città sudamericane e le porteñe così legate ai modi di vita della vecchia Europa da risultare commoventi. Ma l ultima volta che ci sono stato, ho avuto una impressione molto differente. Mentre attraversavo il parco del quartiere Palermo, uno dei luoghi più famosi del tango che Borges (vorrei sapere quante volte l ho citato) definiva «un enorme metafora», non ho incontrato che giovani abbronzate e atletiche, strette nelle loro guaine elastiche da ginnastica che indossavano a qualsiasi ora e per qualsiasi avvenimento, tranne forse che per andare a sentire l opera al Colón. Ridevano e chiacchieravano mentre correvano, non sembravano affatto preoccupate dei pesos che sparivano nell aria e meno ancora delle metafore. Ma quando vanno a ballare il tango nei locali di San Telmo, nello stesso quartiere dove ci sono gli antiquari, dov è finita buona parte della storia della borghesia argentina in ninnoli e gioielli (qui ho trovato, all interno di una vecchia rivista dei primi anni Trenta, Critica, un supplemento a colori chiamato Colorado e diretto da Luis Borges. E sotto la sua firma appariva una bellissima vignetta e il nome del suo autore: Guevara. Ho cercato disperatamente di avere notizie su quel Guevara, ma nessuno ne sapeva nulla), continuano a mettersi quei vestiti a due pezzi con la spaccatura alta fino ai fianchi, di seta a pois bianchi e neri, che preferisco a tutti gli altri. Tra i disegni delle tanghiste che indossavano i vestiti a pois mi è sembrato di riconoscere Evita Duarte, il primo mito assoluto dell Argentina: stesso naso grosso, stessa dentatura sporgente, stessa fragilità fisica che nascondeva un temperamento di ferro. Ma la mia amica Gloria Argeles, una scultrice argentina che vive a Roma, chiamata per un consulto, ha detto che non poteva essere lei. Il suo tratto caratteristico, infatti, erano i capelli biondi tirati allo spasimo sulla nuca e legati da uno chignon. E che lasciassi perdere questi fantasmi.

13 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 la lettura Strade del terrorismo La giovane fotografa Eva Frapiccini è tornata nei luoghi in cui dalla metà degli anni Settanta fino ai primi Ottanta gli eversori rossi uccisero oppure caddero sotto il fuoco delle forze dell ordine Ha realizzato i suoi scatti nelle stesse ore in cui avvennero gli omicidi, frugando nella memoria di quei fondali E in aprile e maggio le sue immagini saranno esposte a Roma I Muri di piombo dove la vita si fermò Repubblica Nazionale 42 26/03/2006 PINO CORRIAS Ne cadeva uno ogni mille. Intercettato in un punto qualunque della strada e in un punto esatto della vita. Mentre camminava da solo. O in mezzo al traffico, periferia piovosa di Torino, quartiere Lorenteggio di Milano, centro storico a Roma. Chiazza di sangue e gesso orizzontale. Sirene in lontananza. Squillo di telefono all agenzia Ansa: «Questa mattina un nucleo armato ha colpito», eccetera. Perché era quasi sempre di mattina presto che il destino, nel decennio italiano di piombo e di furori, tatuato Brigate rosse, Prima linea, Nuclei armati rivoluzionari, si metteva al lavoro per scrivere le sue sentenze d addio. L agente Francesco Ciotta, a Torino, saluta la moglie che lo guarda dal balcone di casa, entra in auto e muore, colpito da tre colpi di pistola, sotto al riverbero del primo sole, ore otto in punto. Il giudice Emilio Alessandrini, a Milano, si ferma al suo ultimo incrocio di nebbia gelata, dopo avere accompagnato il figlio alla scuola elementare raccomandandogli di stare attento al freddo. I cinque uomini della scorta di Aldo Moro, a Roma, vengono spazzati via alle nove e cinque, tra le palazzine fiorite della Camilluccia, da 93 colpi di fucili automatici che cambieranno la storia del Paese, insanguinando il punto più alto del terrorismo politico italiano, e l inizio del suo lentissimo declino. Ora che il tempo ha fatto sparire i fiori, ma non del tutto il dolore, che ha reso incongrue le circostanze, ma non del tutto i torti, né la memoria, riaffiorano di colpo queste immagini intitolate ai Muri di piombo. Una trentina in tutto. Perfettamente vuote di dettagli d epoca, ma cariche di ridondanza narrativa. Monumenti capovolti a vittime ormai invisibili. Luoghi declinati ognuno nell istante finale della storia che li ha resi incandescenti per un giorno e opachi per sempre. Il corridoio dell Università statale dove muore Guido Galli. La scalinata su cui rotola Vittorio Bachelet. Il granito scheggiato su cui cade il magistrato Riccardo Palma. L aiuola accanto alla quale si incastra l automobile frantumata e in fuori giri del colonnello Antonio Varisco. Tutte inquadrate, tre decenni più tardi, in quello stesso attimo, in quello stesso punto, con quella stessa luce, dallo sguardo di una fotografa, Eva Frapiccini, che ha più o meno gli anni di quel sangue, ventisette, e la curiosità ostinata della giovinezza. E la bravura di trasformarle in un catalogo di lampi, e in una rivelazione che ci riguarda. Storie del secolo scorso La rivelazione ha a che fare con lo spazio e con il tempo. Perché questo catalogo racconta proprio storie d altro secolo e di desuete proporzioni nazionali, ora che il terrorismo si è fatto pervasivo e planetario. E di una lotta di classe che spegnendosi diventava sovversione, ma solo ai margini slabbrati del corpo sociale. E per le ragioni sbagliate: senza sapere nulla della spropositata ricchezza delle nazioni occidentali, rispetto alle autentiche miserie dei quattro quinti del mondo. Senza sapere nulla del potere: addirittura immaginando di combatterlo in un solo Stato, di poterlo colpire al cuore, come un bersaglio. Di cancellarlo con un po di piombo, in un agguato. Usando il corpo della vittima (la vita di un uomo) come un messaggio e un proclama. La lotta armata in Italia nasce a cavallo tra il 1969 e il 1970, dopo l autunno caldo operaio, dopo le rivolte studentesche, dopo i boati di piazza Fontana e i segnali sottotraccia di un fantomatico golpe imminente. Nasce come forma estrema di impazienza: ora o mai più. Ma funzionerà esattamente al contrario, come formidabile congelatore di equilibri politici e fuorviante regolatore di tensioni sociali. Nasce nella grande fabbrica in declino, dentro agli immensi capannoni della Pirelli, o nei reparti della Sit Siemens di Milano, che «produce telefoni e brigatisti». Ma in realtà arruola impiegati frustrati, come Mario Moretti e Corrado Alunni, studenti cattolici, come Renato Curcio e Mara Cagol, comunisti delusi dalle lentezze del riformismo, come Alberto Franceschini e Robertino Rosso. Pesca nella retorica resistenziale, annettendosi le giovani memorie di Giovanni Pesce, il gappista di Senza tregua, e le vecchie pistole partigiane sepolte nel doppio fondo del formidabile anno Pesca nel fiume gonfio dei cortei extraparlamentari, da Potere operaio a Lotta continua. Dall antifascismo militante. Dalle molte contiguità di ceti intellettuali (riviste, giornalisti, artisti) che moltiplicano la prima propaganda armata (quella ancora senza sangue) in consensi neanche tanto sotterranei. Imbraccia i primi fuochi dei nuovi operai senza partito né identità, dei giovani metropolitani senza indirizzo. Nell atto di fondazione delle Brigate rosse, il cosiddetto Libretto giallo, battuto a macchina nei giorni della prima riunione semiclandestina a Chiavari, Hotel Stella Maris, Renato Curcio cita il LA SCORTA DI MORO Nell agguato che porta al rapimento di Aldo Moro muoiono sotto i colpi dei terroristi cinque carabinieri della scorta. I loro nomi sono: Raffaele Jozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi Una geografia di sangue ha reso questi pezzi di città incandescenti per un giorno e opachi per sempre LA MOSTRA Le opere di Eva Frapiccini saranno in mostra dal 4 aprile alla fine di maggio nell ambito del Festival internazionale di Roma FotoGrafia, che è alla sua quinta edizione. Direttore artistico è Marco Delogu. I principali musei, a cominciare dai Musei capitolini e da Palazzo Braschi, ospiteranno le mostre direttamente prodotte e commissionate dal festival, mentre altre saranno allestite presso istituti di cultura stranieri, gallerie, accademie, locali e librerie per un totale di oltre cento esposizioni. Per informazioni: Infoline: 06/ ROMA Via Mario Fani 16 marzo 1978 rivoluzionario brasiliano Marcelo De Andrade che parla degli intrecci di asfalto metropolitano come di una prossima giungla guerrigliera. Scrive: «La lotta armata è la via principale della lotta di classe. La città è il cuore del sistema, il centro organizzativo dello sfruttamento economico e politico. Deve diventare per l avversario un terreno infido: ogni gesto può essere controllato, ogni arbitrio denunciato. La lunga marcia nella metropoli deve cominciare oggi e qui». Stava già tutta in quell inchiostro l imminente geografia di sangue che per una dozzina d anni, secondo la contabilità del ministero degli Interni, avrebbe imbrattato e «reso infido» il territorio di ogni periferia italiana o fabbrica o piazza: quasi 15mila attentati, con 394 morti, 1033 feriti e molte migliaia di militanti arrestati, processati, condannati. Una guerra feroce e niente affatto marginale che ha reso unica l Italia, tra le democrazie europee, per estensione e durata del conflitto, in confronto ai cento caricatori svuotati una volta per tutte dalla Raf in Germania, con scia solo temporanea di morti, sequestri, rapine, o da Action Directe in Francia, liquidata per sempre a fine anni Settanta. E nemmeno paragonabile ai baschi dell Eta o agli irredentisti irlandesi dell Ira, che nella loro lotta di lunga durata rivendicavano tutt altro: indipendenza, territorio, lingua, identità, ma anche liberissimo mercato. Nessun polveroso leninismo o soviet o avanguardie di classe. Unica l Italia anche per dinamite e stragi nere (151 morti) dopo piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l Italicus, e le segrete connivenze di quei poteri sotterranei che hanno deviato indagini, rallentato i processi, e garantito impunità ai colpevoli. Come specchio complementare alla guerriglia rossa. Come opposto estremismo che bilancia l allarme, propaga insicurezza, indica una sola via d uscita, al centro. Un pulviscolo di lotte incendiarie Una guerra scompaginata e insieme continuamente riaggregata dalla velocità della ristrutturazione industriale. Trasformata in un pulviscolo di lotte incendiarie, dalle rapine collettive alle armerie ai capireparto gambizzati in fabbrica. Moltiplicata dallo spontaneismo armato di mille sigle, mille gruppi Formazioni comuniste, Unità combattenti, Comitati comunisti rivoluzionari, Barbagia rossa, Azione rivoluzionaria che assaltano un pezzetto di cielo e poi una banca, un carcere. Versano sangue e inchiostro. Per poi lasciarsi smantellare con la medesima velocità dalle confessioni dei propri militanti, a misura di un fallimento completo e tragico. Forzato dall isolamento, dal corto circuito politico, ma anche dall offensiva di intelligence e militare del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che comincia ai bordi della Renault rossa dove giace il cadavere di Moro, 9 maggio 1978, e chiude la partita liberando il generale americano James Lee Dozier, a Padova, 2 febbraio Che è il vero inizio della fine del partito armato, nonostante la coda degli anni futuri, i morti accatastati, fino a Massimo D Antona, fino a Marco Biagi, come in una bolla d aria e di senso, ora che la guerra alle nostre città viene davvero dagli altri quattro quinti del mondo, sale sulla metropolitana di Madrid, fermata di Atocha, scende da un autobus a due piani nel centro di Londra. Anche a distanza di tanti anni si provano piccolissime vertigini davanti a queste foto che per certe angolazioni, dal basso verso l alto, assomigliano all ultimo sguardo della vittima, all ultima cosa vista nei loro punti di caduta. Che è poi la sola equivalenza finale di ogni morte: quella della guardia carceraria Lorenzo Cotugno, ucciso sotto casa a Torino, e quella del nappista Antonio Lo Muscio, che muore nel centro di Roma dopo essersi aperto un varco sparando tra la gente. Quella del passante Emanuele Iurilli, studente, diciotto anni, inciampato nei 70 proiettili di tiro incrociato tra un commando di Prima linea e una pattuglia di poliziotti, e quella sul selciato di Sesto San Giovanni, del soldato brigatista in fuga, Walter Alasia, vent anni, che muore uccidendo chi lo insegue. Il tempo ha asciugato il sangue, reso quasi del tutto incomprensibili le spiegazioni. E vale per tutti il dettaglio, adesso perfettamente assolato, del marciapiede dove la mattina di un brutto giorno di pioggia del 1980, a Milano, cadde Walter Tobagi, il giornalista del Corriere, ucciso alle spalle. C era acqua dappertutto quel giorno e lui stava a faccia in giù tra il cordolo del marciapiedi e la pozzanghera che zampillava. Il cielo era sparito, coperto da una nuvola nera di ombrelli e divise e impermeabili e uomini che stanno piangendo. Il traffico ringhiava intorno. Sembrava non ci fosse più una via d uscita. Oggi la foto ha ripulito tutto. Ha lasciato evaporare la rabbia, le lacrime. E sa come restituirci almeno un colore per l addio.

14 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 MILANO Viale Leopardi dicembre 1976 VITTORIO PADOVANI, SERGIO BAZZEGA, WALTER ALASIA Il vicequestore Padovani, 47 anni, e il maresciallo Bazzega, 32 anni, entrano nella casa della famiglia Alasia per un controllo antiterrorismo. Walter, 20 anni, spara e uccide entrambi. Viene colpito a morte da altri agenti mentre tenta la fuga. Nella foto, i funerali dei poliziotti TORINO Corso Toscana 30 ottobre 1977 ROCCO SARDONE Il giovane militante di Azione rivoluzionaria ha 22 anni, viene da Tricarico in provincia di Matera. Muore per l esplosione di una carica di tritolo che, insieme a un complice, stava sistemando per un attentato: probabilmente ha manovrato il timer in modo non corretto TORINO Corso Re Umberto novembre 1977 CARLO CASALEGNO Il vicedirettore de La Stampa (nella foto) viene colpito da quattro proiettili di pistola mentre si trova nell androne della sua abitazione. Aveva già ricevuto minacce ma era senza scorta perché quel giorno era stato dal dentista. Muore dopo 13 giorni di agonia TORINO Largo Belgio 10 marzo 1978 ROSARIO BERARDI Protagonista di numerose azioni contro le Brigate Rosse, il maresciallo Berardi, 53 anni, sta aspettando il tram quando viene freddato a colpi di mitra, sparati prima alle spalle e poi al volto. L omicidio avviene poco prima dell inizio del primo processo contro le Br Repubblica Nazionale 43 26/03/2006 LORENZO COTUGNO Guardia carceraria, 31 anni. Esce dalla sua abitazione per andare alle carceri Nuove. I terroristi lo aspettano: gli sparano sette colpi. Cotugno risponde al fuoco, ne ferisce uno, ma viene raggiunto dai proiettili di un terzo brigatista. Aveva subito numerose minacce ROMA Piazza Nicosia 3 maggio 1979 TORINO Lungodora Napoli aprile 1978 PETRO OLLANU, ANTONIO MEA Un commando di brigatisti fa irruzione nella sede del comitato provinciale della Dc, derubando i presenti. All uscita i terroristi vengono intercettati da un auto della polizia. Nella sparatoria muoiono il brigadiere Mea, 34 anni, e l agente Ollanu, 25 anni ITALO SCHETTINI Avvocato e consigliere provinciale dc, ma soprattutto imprenditore edile che aveva fatto fortuna comprando e affittando appartamenti nel quartiere romano di Centocelle, dove le Brigate rosse erano molto radicate. Viene ucciso nell atrio del palazzo in cui aveva lo studio MILANO Metro Stazione Goria 12 novembre 1980 ROMA Via Ticino 6 29 marzo 1979 RENATO BRIANO Il capo del personale della Magneti Marelli viaggia in metropolitana per raggiungere lo stabilimento di Sesto San Giovanni. La persona che gli siede accanto è un brigatista, che spara due colpi col silenziatore e poi, con un complice, abbandona con calma la carrozza

15 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 Apre a Roma il 7 aprile una mostra delle cose che la più celebre attrice italiana ha portato via dai set dei suoi cento film: foto, copioni, costumi di scena, trofei e regali eccellenti È stato un lavoraccio - dice adesso lei - ci ho messo tre mesi, frugando in cantina, a trovare, ricordare, scegliere. E piano piano ho ripreso in mano il filo saldo dei miei anni, ho costruito una specie di autobiografia per oggetti La mia vita in settanta souvenir La sua immagine perfetta protegge il mistero dei suoi sentimenti È il muro dietro cui nasconde paure, rimpianti, illusioni Repubblica Nazionale 44 26/03/2006 NATALIA ASPESI questa idea di dedicarle una mostra, al Vittoriano a Roma, «una cosa insolita, e ne sono stata subito lusingata». Dice Sophia Loren: «È stato un lavoraccio, frugare in casa, in cantina, tra tutte le cose accumulate in anni C era e anni, ci ho messo tre mesi a trovare, a ricordare, a scegliere. E piano piano ho ricatturato cose dimenticate, memorie assopite, il filo saldo della mia vita, piena di momenti belli e di cose belle a testimoniarli, cose lontane nel tempo, oppure recenti, che mi hanno suggerito una specie di autobiografia attraverso gli oggetti e i documenti che l hanno attraversata e rappresentata». Per esempio i simboli di un esistenza speciale, trionfale: come il liso grembiulino nero che copriva appena il suo magnifico corpo giovane nell indimenticabile film di De Sica La ciociara;o il fastoso abito da sera confezionato da Schubert (il sarto delle dive di un epoca sfrenata, quella della Hollywood approdata a Roma per girare i suoi kolossal a buon prezzo), da lei indossato per la presentazione alla regina Elisabetta d Inghilterra e che Giorgio Armani sta facendo restaurare. «Quante cose ho conservato, nella mia lunga carriera, dei miei film, più di cento! Di ognuno ho tenuto qualcosa, il copione, le fotografie di scena, un cappello particolarmente grazioso, un costume che mi piaceva, il regalo di un attore, la lettera di un regista». Nel suo sontuoso e silenzioso appartamento nella vecchia, elegante Ginevra, c è nel largo corridoio un solenne mobile Ottocento in cui si accumulano decine di premi: Oscar, Leoni, David di Donatello, Bambi, Telegatti, coppe e targhe e medaglie ricevuti da tutto il mondo. Dai cassetti sono spuntate le lettere di Pompidou, di Chirac, di Nancy Reagan, di Clinton, suoi ammiratori devoti; dai ripostigli gli impolverati doni di innamorati respinti, come l anfora d argento di Cary Grant; dalle casse i vecchi dischi di canzoni napoletane, e poi le montagne di fotografie della famiglia, dell infanzia, dei tempi duri, della felicità. Non ci sarà il suo diario, che qualche anno fa ha distrutto per non lasciare a nessuno la possibilità di conoscere quella Sophia che la sua attenta riservatezza ha sempre protetto; non ci saranno sue foto di quando rinchiusa in una clinica di Ginevra, aspettava il suo primogenito Carlo Jr, e fuori si erano accampati i reporter per rubare l immagine della diva che sembrava non potere aver figli, finalmente incinta: nessuno riuscì ad avere questo privilegio, a accaparrarsi questo scoop, non fu possibile neppure riprendere la sua ombra dietro le tende delle finestre all ultimo piano del suo rifugio ospedaliero. Questo è un periodo bello per la bella signora nata a Pozzuoli, di passaporto francese, che vive a Ginevra ma è spesso a Roma ospite della sorella Maria, con cui divide il grande amore per la I RITRATTI Nella foto grande, Sophia Loren ritratta da Tazio Secchiaroli. In alto, l attrice sulla copertina di Cine Illustrato, con il marito Carlo Ponti alla nascita del primo figlio, e in un ritratto fotografico del 64. Qui sopra, un biglietto d auguri di Marcello Mastroianni e un telegramma di Cary Grant. A destra, la Loren con Totò in un calendarietto di barberia mamma e il dolore per la sua scomparsa. C è questa mostra, che si inaugura il 7 aprile, intitolata Scicolone Lazzaro Loren: le fasi della sua vita, curata da Vincenzo Mollica, sponsorizzata da Giorgio Armani, che poi girerà il mondo. Il 9 aprile, per noi fatidico momento elettorale (e la più napoletana delle nostre celebrità, ormai straniera, non voterà), sarà il quarantesimo anniversario del suo matrimonio civile con Carlo Ponti, avvenuto a Parigi nel 1966, e lei era naturalmente fulgida nel perfetto completo giallo di Dior: «No, non lo festeggerò, come non ho mai festeggiato i miei compleanni: è stato un momento magico della mia vita, tanto desiderato e atteso, ma che appartiene a un altra epoca, molto lontana». Forse anche a un altra Loren, che sposava finalmente l amatissimo produttore Carlo Ponti, allora di 53 anni, a cui era legata da 16 anni, con cui aveva affrontato un matrimonio in Messico nel 1957 per soddisfare la bacchettona America, ma non valido nel nostro paese dove neppure si era cominciato a discutere di divorzio. Il bigottismo dell Italia democristiana era tale che dopo le pseudo nozze messicane i legali consigliarono a Sophia di non rientrare in patria per non correre il rischio di essere arrestata, come prevedeva, naturalmente solo per le donne, l accusa di adulterio. Per poterla sposare, e placare le ire dell Osservatore Romano o della pessima stampa che giudicava la buonissima signora una rovinafamiglie, e bollava la coppia innamorata come pubblici peccatori, come concubini, Carlo Ponti aveva preso il passaporto francese per ottenere il divorzio dalla prima moglie Giuliana Fiastri. Sophia aveva 32 anni ed era al culmine della sua fama internazionale, della sua avventura americana: in quell anno avrebbe lavorato accanto a un Marlon Brando esageratamente truccato, con la regia del vecchio Charlie Chaplin, in La contessa di Hong Kong, film allora vituperato e che visto oggi invece va rivalutato. Adesso, quattro decenni dopo, a fine maggio, ci sarà una nuova grande gioia, una appassionante novità: Sophia diventerà per la prima volta nonna, di una piccola Lucia, meraviglioso regalo che le faranno il figlio Edoardo e la sua giovane compagna. In un epoca di sciagurati brevi divismi, Sophia Loren è l ultima grande diva che continua ad emozionare le folle, a offrire loro una immagine mitica mai più eguagliata, come se il tempo per lei non passasse mai. Ogni decennio della sua vita è stato in qualche modo il riflesso di una Italia che cambiava. È stata poverissima quando l Italia era povera, ha adorato la bellissima madre e sofferto per l assenza di un padre immeritevole, come tante famiglie disastrate del dopoguerra, ha affrontato quasi bambina la pericolosa trafila della sopravvivenza attraverso i concorsi di bel-

16 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Prima tappa il Vittoriano, poi la mostra girerà il mondo Il vestito strappato della Ciociara I RICORDI In alto, un disegno di Zavattini e un biglietto di auguri di Chaplin. A destra, la Loren con Vittorio De Sica sulla copertina di Cinema e una pagina del fotoromanzo del 1952 Prigioniera di un sogno AMBRA SOMASCHINI A biti, lettere, biglietti d auguri, costumi di scena. Libri, quadri, dischi, disegni. Pezzi di vita sistemati in un ordine cronologico meticoloso e perfetto, inanellati l uno all altro come in una lunga, scintillante collana. La collana del successo confezionata negli anni. Una scrupolosa manutenzione degli oggetti selezionati tra l appartamento di Ginevra, la villa californiana della Hidden Valley, la casa di Pozzuoli. Sophia Loren si mette in mostra senza girare. Si autocelebra senza anniversari. La Sophia-leggenda racconta sé stessa. Il «monumento al sesso», come l ha definita recentemente il New York Times, la donna che Harpers & Queen ha annoverato tra le cento più belle del ventesimo secolo apre un sipario nuovo dal 7 aprile al 7 maggio al Vittoriano, a Roma (organizzazione Alessandro Nicosia, sponsor Giorgio Armani). La mostra poi viaggerà in Argentina, negli Stati Uniti, in Canada, in Europa. Sono settanta colli preparati durante l inverno. E mentre li raccoglieva, scartava, separava la diva si metteva allo specchio: «Sofi, ma allora ne è valsa la pena? Hai fatto davvero qualcosa? Sì, ne è valsa la pena». La selezione degli oggetti è avvenuta nella casa svizzera affacciata sul grande giardino, con l aiuto di Vincenzo Mollica. Il titolo della mostra resterà invariato anche all estero, il titolo della sua vita: Scicolone, Lazzaro, Loren. La miss, i fotoromanzi, la star. Il mix di povertà e ricchezza, semplicità e talento, cucina verace e scollature vertiginose in un puzzle di film, manifesti, copioni, ninnoli, fumetti, dediche, bigliettini. La posta ricevuta da Marlon Brando, Charlie Chaplin, Lauren Bacall, Jeanne Moreau, Frank Sinatra. Il vestito strappato all altezza del ginocchio sinistro de La Ciociara, quello scuro e bellissimo indossato per incontrare la regina d Inghilterra. Lo sperone donato da John Wayne, il fumetto di Andrea Pazienza, l anfora argentea di Cary Grant. E poi gli abiti fuori set allineati nella scenografia essenziale di Armani, le foto, da Secchiaroli a Luxardo a Avedon, le cover che l hanno ritratta da icona globale sui magazine internazionali, i dischi («Che m hai imparato a fà»). E le dediche. Ettore Scola: «Posso solo ritrovare nella mente qualche oggetto, un quadernino a quadretti, un piccolo binocolo da cortile, un cappello nero a falda larga legati ai miei ricordi di Sophia per chissà quali segrete corrispondenze». Alda Merini: «Sophia ha avuto il coraggio di sporcare la propria inalterabile bellezza con la nostra quotidianità». lezza, i fumetti, poi il cinema dalla porta sbagliata, quella delle comparse, in cui avrebbe potuto perdersi, come tante, diventare la ragazzetta smaniosa sfruttata e poi buttata dal produttore. Ma lei era in cerca di un Pigmalione e ancora ragazzina lo trovò nello sciupafemmine produttore Carlo Ponti, che rimase irretito, commosso, da quella giovane di avvenenza unica e procace, ma anche timida, insicura, eppure così matura, così seria, così cocciutamente decisa ad imparare, a diventare una vera attrice: una ragazza che non voleva perdersi, che sognava una vita protetta, una vita normale, per bene, una vera famiglia, un marito, dei figli. Che arrivarono, Carlo Jr nel 1968, Edoardo nel 1973, a placare i fantasmi di una infanzia che lei dice di non aver mai avuto, a lenire quel dolore, quello sperdimento che hanno accompagnato la sua adolescenza e giovinezza, che non ha mai dimenticato. Oggi tanti amici dei suoi anni professionali più belli, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Goffredo Lombardo, i protagonisti del grande cinema italiano tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non ci sono più e lei li ricorda con un po di malinconia, ma senza aggrapparsi al passato, guardando invece al futuro. Lavora: ci sono due proposte, una per la televisione e una, grandiosa, per il cinema, che sta studiando. Ci sono i suoi figli, oggi lontani, a Los Angeles, che l adorano: Loren il primo direttore d orchestra e sposato con una musicista Sophia ungherese, il secondo autore e regista e presto padre. Certo la bella casa, da cui la signora Sophia Ponti esce solo per la passeggiata mattutina, è silenziosa, vuota, tra i suoi magnifici tappeti Aubusson, e i vasi della dinastria Ming, e i lampadari che provengono dai palazzi della corte di Vienna, e i dipinti astratti, e le centinaia di cornici d argento da cui sorride la moltitudine di persone della sua vita. Nel suo studio il marito Carlo, 92 anni, con le sue ciabattine di lana, si occupa ancora di cinema e della sua salute, e ogni tanto la sua voce rimbomba autoritaria nelle grandi stanze. Sua moglie studia i copioni, legge, prepara le lasagne, fa disciplinatamente quella ginnastica che le consente di avere ancora quel corpo saldo, quella vita sottile, quelle gambe inimitabili. Però c è una Sophia segreta che neppure i suoi cari hanno mai visto: quella che si alza presto al mattino e davanti allo specchio ogni giorno, ricostruisce Sophia Loren, rientra nella sua eterna bellezza come in un ruolo, in un destino da cui le è impossibile separarsi: la sua incantevole immagine, il suo cocciuto rifiuto agli anni, offerti a se stessa e al mondo, sono il muro dietro cui, da sempre, nasconde e protegge il mistero dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, di quello che non rivelerà mai, la sua vulnerabilità, forse le paure, le illusioni, i rimpianti. FOTO TAZIO SECCHIAROLI-PHOTOMOVIE

17 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 i sapori Bicchieri doc È una delle sorprese migliori del prossimo Vinitaly, in calendario a Verona dal 6 al 10 aprile: piccoli produttori biologici crescono e presentano le loro etichette migliori Perché le bottiglie di qualità - spesso nate da colture biodinamiche, invecchiate secondo natura e poi certificate - stanno sfatando tutti gli antichi pregiudizi Le aziende presenti al quarantesimo Vinitaly 100 Le aziende che producono vini bio presenti al Vinitaly LICIA GRANELLO una volta il Vinitaly. E c è ancora, quarant anni dopo. Mai così grande, articolato, imperdibile. Con tutti i difetti, i limiti, gli errori che accompagnano fedelmente l evolversi delle grandi manifestazioni (in programma dal 6 al 10 aprile a Verona), snob- C era barlo è difficile: che siate produttori o semplici appassionati, che fabbrichiate opinioni o bicchieri, vedere riunite sotto lo stesso tetto meglio, sotto tetti vicini, per un totale di 80mila metri quadri oltre quattromila aziende vinicole tra le più gettonate e prestigiose del pianeta, è una tentazione davvero irresistibile. All interno, troverete di tutto, dalla mega-enoteca alle degustazioni guidate, dagli abbinamenti con il meglio delle cucine del mondo all elezione dei quaranta vini del mito italiano, e moltissimo altro ancora. Ma quest anno, soprattutto, ci sarà una presenza-record di aziende certificate biologiche: oltre cento, dislocate tra consorzi e associazioni. Mai come oggi il bio sta dismettendo i panni della cenerentola delle produzioni di qualità, anche tra i vini. Ci hanno confuso le idee, detto che non era possibile, che per essere sano in vigna e nel bicchiere il vino doveva pagar pegno sul piano della bontà. E che pegno: vini con un impronta di terra stampata sul palato o allappanti come limoni spremuti, sgraziati e incompiuti, con un presente mediocre e un futuro impossibile. Ma piccoli vini crescono. Insieme a una generazione di giovani vignaioli, molti dei quali formati secondo i cardini dell agricoltura sostenibile, pronti a lasciarsi alle spalle i bidoni di Mancozeb (l anticrittogamico cancerogeno tra i più usati in agricoltura) per instaurare un diverso rapporto con la terra e con ciò che la terra produce, senza abdicare ai comandamenti della gola. L Italia si sta dimostrando terra d elezione, se è vero che su dieci aziende bio europee, quattro sono nostre. Quantità e qualità: basta dare un occhiata alle guide critiche per scoprire che negli ultimi anni, insieme agli ettari di vigna convertiti, sono cresciuti in maniera esponenziale voti e giudizi tecnici. Dal Piemonte alla Sicilia, le donne sono tante, tantissime. Quasi tutte votate, più che al biologico, alla biodinamica (che tiene in maggior conto la salute e la naturalità dei terreni). Sarà per il rapporto forte, empatico, con la terra, la fertilità, i cicli della luna e delle maree: una sorta di corrispondenza tra i tempi della natura e quelli del corpo, declinati al femminile da sempre. E siccome le sfide vanno raccolte a tutto tondo, anche le uve utilizzate sono spesso poco conosciute, lasciate a lungo nel limbo dei vitigni di poca resa e temperamento bizzoso. Così, via libera al Frappato siciliano e al Ciliegiolo toscano: mica facili da domare, ma golosi e riconoscibilissimi nel bicchiere. Ma non è tutto bio quello che luccica. La mancanza di una legislazione europea specifica rende il settore ancora molto frammentato e con qualche incertezza di troppo (come per la regolamentazione dell uso della solforosa): ma i vini da uve biologiche, o realizzati con il metodo biodinamico, godono di controlli seri e sconosciuti alle produzioni convenzionali. Poi ci sono i ribelli storici. Quelli che fanno il vino buono, naturale e basta, rifiutando i bollini e mettendo a garanzia le loro facce contadine senza compromessi. Sono i VinoVeristi di Teobaldo Cappellano, i VinNaturisti di Angiolino Maule, gli antagonisti di Critical Wine, il gruppo tanto caro a Luigi Veronelli. Li ritroverete, figli spuri ma non minori, nei giorni della fieramadre, a pochi chilometri di distanza, tra Villa La Mattarana (San Michele Extra), Villa Favorita (Monticello di Fara) e il centro sociale veronese Chimica. Vale la pena di visitarli tutti. Assaggiando, gustando e commentando. Ma prima, prenotate una camera in zona. Il ritorno dal Vinitaly meglio non farlo al volante. 48 litri È il consumo annuo pro capite di vino in Italia ROSSO 2003 STELLA CAMPALTO Stella di Campalto - Podere San Giuseppe produce un grande Rosso di Montalcino da uve iscritte alla Docg del Brunello e certificate biologiche, con quasi due anni di permanenza in legno e cinque mesi in bottiglia. Prezzo: 23 euro DOVE GUSTARLO IL GIGLIO (con camere) Via Soccorso Saloni 5, Montalcino (Si) Tel Chiuso martedì, menù da 27 euro DOVE COMPRARLO ENOTECA LA FORTEZZA Piazzale Fortezza, Montalcino (Si) Tel VinoBio La scommessa del c era una volta SATÈN 2002 BARONE PIZZINI Nel cuore della Franciacorta, terra di bollicine d eccellenza, Barone Pizzini è l unica azienda ad usare i metodi della viticoltura biologica. Il suo Satèn (la parola garantisce una ridotta pressione e perlage finissimo) costa 22 euro DOVE GUSTARLO IL VOLTO Via Mirolte 33, Iseo (Bs) Tel Chiuso mercoledì e giovedì a pranzo, menù da 40 euro DOVE COMPRARLO LE CANTINE DI FRANCIACORTA Via Iseo 56, Erbusco (Bs) Tel CHIANTI CLASSICO 2003 BADIA COLTIBUONO Nel 2003, Emanuela Stucchi Prinetti ha portato a compimento la conversione al biologico. Intorno all abbazia romanica riconvertita a colto agriturismo con ristorante, si coltivano Sangiovese e Canaiolo La bottiglia è in vendita a 12 euro DOVE GUSTARLO RISTORANTE CARLONI Via G. Puccini 24, Gaiole in Chianti (Si) Tel Chiuso mercoledì, menù da 25 euro DOVE COMPRARLO ANTICA DROGHERIA MANGANELLI Via di Città 71, Siena Tel LE TRAME PODERE LE BONCIE Nei sette ettari del suo podere - gioiello a Castelnuovo Berardenga, Giovanna Morganti produce Chianti Classico e olio extravergine certificati biologici. L etichetta di riferimento, Le Trame 2002, è in enoteca a 18 euro la bottiglia DOVE COMPRARLO OSTERIA LE PANZANELLE Località Lucarelli 29 Radda in Chianti (Si) Tel Chiuso martedì, menù da 25 euro DOVE GUSTARLO ENOTECA I TERZI Via dei Termini 7, Siena Tel

18 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 GAVI PISÈ LA RAIA Tra laboratori didattici per le scuole e campi estivi organizzati per i bambini, Caterina Rossi Cairo e Tom Dean producono Gavi e Barbera da uve coltivate con il metodo biodinamico. La bottiglia di Pisè è in vendita a 12 euro DOVE GUSTARLO CANTINE DEL GAVI Via Mameli 69, Gavi (Al) Tel Chiuso lunedì e martedì a pranzo, menù da 36 euro DOVE COMPRARLO ENOTECA LE CAVE Via Circonvallazione 9, Gavi (Al) Tel LA VIGNA DEL FRAPPATO Tre passioni: Luigi Veronelli, il rocker Nick Cave e il vino. La siciliana Arianna Occhipinti rilancia un uva dimenticata nella zona di Vittoria con i princìpi del guru della biodinamica, il francese Nicolas Joly. La bottiglia costa 15 euro DOVE GUSTARLO DUOMO Via Bocchieri 31, Ragusa Ibla Tel Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 45 euro DOVE COMPRARLO ENOTECA SOMMELIER Piazza Italia 35, Scicli (Rg) Tel AMPHORA CASTELLO DI LISPIDA Sulla scia dei vini arcaici di Josko Gravner, Alessandro Sgaravatti produce nel castello ottocentesco in provincia di Padova quattro vini naturali, di cui uno da uve Tokai, l Amphora, fermentato e affinato in terracotta. In enoteca da 35 euro DOVE GUSTARLO BACCO D ORO Via Venturi 14, Mezzane di Verona Tel Chiuso lunedì sera e martedì menù da 30 euro DOVE COMPRARLO GODENDA Via Squarcione 4, Padova Tel BAROLO OTIN FIORIN CAPPELLANO Nato a l Asmara e approdato in Langa 35 anni fa per prendere in mano l azienda di famiglia, Teobaldo Cappellano, uno dei grandi saggi dell enologia piemontese, coltiva e vinifica con rispetto assoluto per la terra DOVE GUSTARLO OSTERIA DEL VIGNAIOLO Frazione Santa Maria La Morra (Cn) Tel DOVE COMPRARLO ENOTECA FRACCHIA E BERCHIALLA Via Vernazza 9, Alba (Cn) Tel Repubblica Nazionale 47 26/03/2006 Rousseau annegò nell alcol il mito del buon selvaggio MASSIMO DONÀ GRAPPOLI ANTI-MAFIA Il nome, Centopassi, è preso dal film di Marco Tullio Giordana sulla storia di Peppino Impastato. Il vino, un Nero d Avola in purezza, verrà prodotto a partire dalla prossima vendemmia. A realizzarlo, con la supervisione di Slow Food, sarà la Cooperativa Placido Rizzotto (il sindacalista di Corleone ucciso dalla mafia) con uve coltivate nelle terre confiscate a Totò Riina. L etichetta è uscita da un concorso indetto all interno di un istitituto tecnico torinese, dopo una visita alla casa della memoria di Cinis, insieme al procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli e al fratello di Peppino Impastato, Giovanni. A distribuire il vino, sarà la Coop Italia, che già commercializza la pasta Libera terra Quellodella natura originaria, incontaminata e pura, è uno dei miti più antichi della storia dell umanità. Da sempre gli umani guardano nostalgicamente alla propria supposta origine, illudendosi di poterla riattingere grazie ad artifici che di quella sono di fatto la più radicale negazione. Da ciò la contraddizione di un umanità che sembra non rendersi conto che quello della naturalità si profila all orizzonte come il più straordinario degli artifici. Se tutto questo è vero, non può stupire che oggi anche il prodotto forse più caro all antico sapere mitologico, ossia il vino, viva sino in fondo, e nella sua forma più radicale, tale contraddizione. Ossia, che per un verso esso cerchi di ritrovare una condizione di perfetta ma improbabile naturalità (dimenticando il suo risultare da operazioni complesse e risolutamente artificiali), e per un altro verso cerchi invece di fare della rigenerazione genetica la condizione di possibilità per una perfezione, sì perduta, ma non al punto da impedirci di averne in qualche modo memoria e per ciò stesso, forse, di poterla ancora e sempre desiderare. Da ciò, forse, il nostro attuale e delirante rapporto con il vino. Un prodotto che non a caso gli antichi avrebbero legato alla figura più complessa e contraddittoria della loro mitologia: Dioniso. Il quale poteva assumere, di volta in volta, le fattezze di un giovinetto effeminato dalle forme delicate e dunque sessualmente incerte, oppure quelle di un satiro rude e ispido, ispiratore della più devastante sregolatezza. Una divinità che i greci accolsero con sospetto e solo da ultimo si risolsero ad accogliere con tutti gli onori nel proprio Olimpo. Dioniso metteva infatti in questione l ordine costituito, stimolava l emersione del fondo originariamente libero di ogni ordine, e trovava il proprio symbolon perfetto nel vino. E soprattutto nell ebbrezza che tale alimento rende universalmente sperimentabile. Dioniso, insomma, come emblema di libertà. Ma per ciò stesso della contraddizione più radicale. Come, infatti, liberarsi dalle catene della necessità (caratterizzante appunto la vita del mondo naturale ) senza diventare vittime di una tecnica necessariamente vincolante alla logica dell efficacia, e dunque liberatrice solo per il tramite di una logica forse ancor più ferrea di quella espressa dalle semplici leggi del mondo naturale? E poi, come liberarsi dalle strettoie dell efficacia senza ritrovarsi gettati, di contro, nel cuore più profondo di una necessità (quella naturale) di cui non conosciamo, e forse mai conosceremo, il segreto codice universale? Non è certo un caso che il più grande teorico dell utopia del buon selvaggio (sostenitore di un idea di natura incontaminata e originariamente buona), ossia Rousseau, usasse bere da solo, malinconicamente, nascondendosi furtivo nella cantina dei propri ospiti, forse a causa di una malcelata consapevolezza del fatto che la natura, in verità, non è affatto buona, e che dunque non restasse altro che ubriacarsi in compagnia del proprio inconfessabile segreto. Ma neppure può essere un caso che l inganno di Odisseo, progettato per sconfiggere Polifemo, ovvero l emblema della natura bestiale e pericolosissima, prevedesse sì la somministrazione del vino quale condizione di possibilità del trionfo della cultura (o dell artificialità) sulla natura, ma dovesse costare la vita a molti dei compagni di ventura dell eroe omerico (che pagarono a caro prezzo, dunque, la sua illimitata curiositas). Come se il cieco cantore e poeta volesse ammonirci: attenzione, ché il bene procurato dalla tecnica ad alcuni comporta quasi sempre il male dei più. (L autore insegna filosofia teoretica all Università San Raffaele di Milano e ha scritto il saggio Filosofia del vino )

19 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006 le tendenze Cose di casa Non esiste un materiale più adatto a sintetizzare la sostanza della modernità: economico, eclettico, multiforme, in continuo rinnovamento e arricchimento. Per dirla con Roland Barthes: Il mondo intero può essere plastificato, e perfino la vita. Come dimostrano le novità del Salone del mobile, che apre a Milano il 4 aprile CASO E CREATIVITÀ Piani a disposizione casuale per la lampada di Foscarini Big Bang, in metacrilato Design di Enrico Franzolini e Vicente Garcia Le nuove Plastiche Belle, versatili, disposte a tutto così trionfa l arredamento-zelig AURELIO MAGISTÀ Bella, simulatrice, disposta a tutto, è partita da umile condizione. Ma grazie alla sua impareggiabile capacità di soddisfare qualsiasi richiesta e di adattarsi a ogni bisogno, con il tempo ha saputo entrare nei migliori salotti, senza sfigurare al confronto di presenze più blasonate. A causa della sua vita disordinata e stressante, può invecchiare male o precocemente. Per fortuna può contare su una grande famiglia. È la plastica, ovvero, come è più corretto dire, le plastiche: polimeri che costituiscono una pressoché innumerevole tribù di materiali in grado di arricchirsi continuamente di nuovi ritrovati. È difficile immaginare, e forse non esiste, un tipo di materiale più adatto a sintetizzare le caratteristiche della contemporaneità. Democratico per costi bassi e versatilità d uso. Eclettico per prestazioni: può essere morbido, come i poliuretani che vanno a imbottire i divani, o rigido come il plexiglass. Difficilmente inquadrabile in una razza o in una specie : può essere naturale, seminaturale e artificiale (si pensi per esempio a una termoplastica naturale come l ambra). Mutando configurazione, quantità e qualità dei mattoncini che lo compongono, è in grado di offrire una gamma di prestazioni sorprendente per varietà ed estensione. Come Zelig ha una grande capacità mimetica: assume le sembianze di sostanze come la pelle o il marmo. E dunque è entrato in modo massiccio nella nostra vita, rendendola più facile e leggera com è nel suo carattere, fino a rendersi indispensabile. Oggi alcuni protagonisti di questa grande famiglia sono diventati anche oggetto di culto e di collezione. La bachelite (o bakelite), per esempio, che dagli anni Venti andò rapidamente a sostituire i delicati interruttori elettrici di porcellana e il guscio di radio e telefoni, è adesso molto amata per la consistenza importante e il severo rigore. Ma siccome nessuno è perfetto, anche le plastiche hanno i loro difetti. Il primo è quello dell impatto sull ambiente, anche se occorre osservare che il problema viene soprattutto per via del nostro stile di vita che privilegia l usa e getta. E per fortuna, come registra Corepla, il consorzio che si occupa del recupero delle plastiche, in Italia aumenta di continuo la percentuale del riciclo. L altro difetto, in particolare per quanto riguarda l arredamento e ancor più il design, è che la plastica ha origini umili e un immagine povera che sembra adattarsi male agli obiettivi sempre più ambizioni di queste discipline. In realtà non è così, perché da tempo grandi designer Gaetano Pesce, Alessandro Mendini, Ettore Sottsass per citarne alcuni e marchi prestigiosi hanno riscattato le plastiche da questo presunto peccato originale, le hanno sdoganate da ogni sospetto, ammesso che ce ne fosse davvero bisogno. Anche un occhiata in anteprima alle novità del Salone internazionale del mobile di Milano, che si inaugura il 4 aprile, consolida la certezza che le plastiche sono materiali molto amati. In fin dei conti, si può forse ricordare la frase di Roland Barthes, riportata anche nel volume Plastiche: i materiali del possibile di Cecilia Cecchini (Alinea editrice, 164 pagine, 25 euro): «La gerarchia delle sostanze è abolita, una sola le sostituisce tutte: il mondo intero può essere plastificato, e perfino la vita». Da tempo l immagine povera è stata riscattata dal lavoro di grandi designer e dalle produzioni di marchi di punta: e il peccato originale è stato perdonato RIGIDA LEGGEREZZA La scocca è in poliuretano rigido, il rivestimento in cuoio, le gambe a forma di cono in alluminio anodizzato Citazione spaziale per Lagò, sedia progettata da Phillipe Starck per Driade SCALA DI COLORE Ciotole di plastica con base in silicone: colore, praticità, versatilità d uso per i contenitori di SiliconeZone, con diametro massimo di 28 centimetri MORBIDO ABBRACCIO La plastica di cui è fatta Cocca è stata nobilitata e impreziosita dal designer Carlo Colombo con una importante verniciatura, e dotata del morbido abbraccio di un cuscino

20 DOMENICA 26 MARZO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 UN MATRIMONIO D ACCIAIO Applique e sospensione E1, diffusore in policarbonato trasparente e rosone in acciaio cromato PIASTRELLE COLORATE Piccole mattonelle in materiale plastico compongono il ripiano del tavolo X-Tile di Casamia by Frezza Da sottolineare le due varianti di colore e i tre piedi Repubblica Nazionale 49 26/03/2006 MOVIMENTO SEXY La curiosa seduta rosa in ecopelle, ovvero materiale plastico, è un dondolo Fa parte della serie Sixty di Maiuguali, creata ispirandosi ai sontuosi comodi e glamorous sedili delle automobili americane degli anni Cinquanta DOPPIA FUNZIONE Sirio è un tavolino contenitore in policarbonato lucido con base in metallo verniciato argento e piano d appoggio in alluminio. Anche in giallo. Di Green CLASSICO IMITATO Il Sacco di Zanotta è un piccolo classico molto imitato In produzione dal 68, viene rinnovato ogni anno; l involucro in ecopelle contiene palline di polistirolo espanso Si adatta alla forma del corpo DOVE TU MI VUOI Il candelabro D-Cube in policarbonato può essere usato sia appeso al soffitto, come un lampadario, che appoggiato su un qualsiasi mobile La mia lampada-zucca fatta di gioielli bambini PATRICIA URQUIOLA H o conosciuto la plastica a Milano. Venivo da Madrid, studiavo da architetto, in Spagna non c era quel gusto e quella cultura del disegno che ho trovato in Italia. Il mio incontro con la plastica non è avvenuto nelle università, nelle scuole o negli studi, almeno non subito. Ma a cena a casa di amici. C era qualche invitato in più? Ecco che saltava fuori la Plia, la pieghevole ideata da Piretti per Castelli. Ce l avevano tutti, era un oggetto familiare e insieme di culto. Un invenzione geniale: una sedia che non ingombra perché non c è, appare solo quando serve, e quando è lì non prende spazio anzi lo decora con la sua trasparenza e intelligenza. Succedeva vent anni fa. Rimasi a Milano per finire gli studi con Castiglioni. Da allora ho cominciato le mie ricerche con la plastica: la sedia Flower per De Padova con Magistretti, per Kartell con Lissoni la libreria One, la Fjord per Moroso. La plastica ti pone di fronte ai suoi difetti, ti costringe ad avere a che fare con le imperfezioni del suo fluire. Si tratta di gestirli, giocarci, trasformarli in decoro. È un materiale naturale e insieme tecnologico, che puoi e devi usare riempiendolo delle tue esperienze, delle tue memorie, dei tuoi sogni. Nel tavolino-vassoio Usame per Kartell, tutto trasparente, ho eliminato le nervature, aggiunto decoro direttamente nello stampo. È venuto fuori un oggetto silente e dolce, un attrezzo utile che si può trasportare nei vari ambienti della casa, in salotto come in camera da letto, per bicchieri, bottiglie, libri. Dice «usami», e mentre lo fa non perde la sua gentilezza, i fiori di jinko inseriti fanno ombre e riflessi, sono visibili in tridimensionale dandogli un aspetto di sospensione. Un po art decò. E tutto questo con costi ridotti, perché questa è l altra forza che ha la plastica, una virtù non ancora esplorata del tutto: è malleabile ai progetti creativi, economica, riproducibile e non per questo meno importante. Lo scorso anno con il tavolino T-table, sempre per Kartell, questo mi è stato ancora più chiaro. Il desiderio era quello di una ricerca sul possibile legame tra naturale e artificiale e degli effetti che la loro amicizia avrebbe potuto produrre. Era un periodo in cui leggevo cose sul transgenico e sugli innesti. Mi sono detta: perché non pensare a un oggetto che richiami un elemento come il fossile, un tavolo transgenico dove la plastica traduca un resto di erbacce. Ho lavorato sulla superficie per ottenere nuovi effetti visivi e tattili. Sul piano del T-table si alternano pieni e vuoti che disegnano una specie di ricamo. C è chi lavora sul barocco, sulla memoria storica riproposta in chiave ironica. Io preferisco giocare su una naturalità che sia ricca di segni: la plastica, che è un campo ancora tutto da indagare, secondo me ha tutte le potenzialità per produrre ancora scoperte. Gli stampi stessi sono opere d arte, gli oggetti che si producono a volte sono complessi per ricerca e gusto, ma a prezzi abbordabili. Io lavoro con l industria, ne devo tenere conto. E mi piace che sia così, perché il design è un pensiero delle cose per tutti. È anche un ispirazione semplice, privata, frutto di una passeggiata. Ero a Bruxelles, fui colpita da uno di quei braccialetti fatti di perline con l elastico, di quelli che usano le bambine. Lo portai insieme alla mia amica Eliana Gerotto da Foscarini. Dicemmo: vogliamo fare una lampada così. Accettarono, nacque Caboche, una specie di zucca fatta con un centinaio di sfere stampate in polimetilmetacrilato trasparente che si montano su fascette a loro volta stampate circolari. Ognuno può costruirla da sé come fosse un braccialetto. Fa una luce bellissima. Ed è plastica. Caboche è al femminile. Gioiello di plastica. In futuro ce ne saranno sempre di più, e avranno di che imparare anche dal riciclaggio e dal riuso. O così spero. L autrice è architetto e designer

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