Introduzione alla cultura visualeo

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1 Nicholas Mirzoeff Introduzione alla cultura visualeo a cura di Anna Camaiti Hostert o Traduzione di Andrea Carpi Edizione originale: An Introduction to Visual Culture 1999 Nicholas Mirzoeff, tutti i diritti riservati Traduzione autorizzata dell edizione inglese pubblicata da Routledge, marchio di Taylor & Francis Group Copyright 2002 Meltemi editore srl, Roma Traduzione di Federica Fontana È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Meltemi editore via dell Olmata, Roma tel fax info@meltemieditore.it MELTEMI

2 Indice p. 9 Introduzione all edizione italiana Anna Camaiti Hostert 26 Ringraziamenti 27 Introduzione Cos è la visual culture? 32 Visualizzare 38 Potere e piacere del visivo 44 Visualità 57 Cultura 63 Vita quotidiana Prima parte Visualità 73 Capitolo primo Definizione d immagine: linea, colore, visione 74 Prospettive 92 Disciplina e colore 96 Normalizzare il colore: il daltonismo 99 La prevalenza della luce sul colore 103 Bianco 107 Coda 111 Capitolo secondo L era della fotografia ( ) 112 La morte della pittura 119 La nascita dell immagine democratica 122 Morte e fotografia

3 129 Dalla foto noir alla post-fotografia 142 La morte della fotografia 145 Capitolo terzo Virtualità: dall antichità virtuale alla pixel zone 146 Interfacce con la virtualità 152 La virtualità diventa globale 157 Telesublime 160 Realtà virtuale 164 Realtà virtuale e vita quotidiana 168 Identità virtuale 174 Vita di Rete 178 Qualcuno vuole più pixel? 182 Corpi virtuali Seconda parte Cultura 195 Capitolo quarto Transcultura: dal Kongo al Congo 200 L invenzione del cuore di tenebra 220 Resistenza attraverso il rituale 227 Memoria culturale 232 Nuove visioni dal Congo Terza parte Globale/Locale 331 Capitolo settimo La morte di Diana: il genere, la fotografia e la nascita di una visual culture globale 332 La popolarità e i cultural studies 336 La fotografia e la principessa 340 Le fotografie in India 344 Il punctum della celebrità 350 Le bandiere e il protocollo: il diavolo nei dettagli 354 La morte e la fanciulla: il simbolo della Nuova Gran Bretagna 356 Il pianeta dei pixel 365 Coda Fuoco 373 Bibliografia 387 Indice dei nomi 397 Indice delle illustrazioni 239 Capitolo quinto Vedere il sesso 240 Feticizzare lo sguardo 246 Dall inversione a opposti e ambiguità 251 Vedere il sesso femminile 257 Mescolanze: le politiche culturali di razza e riproduzione 270 Lo sguardo omosessuale: gli occhi di Roger Casement 281 Capitolo sesto Il primo contatto: da Independence Day a 1492 e Millennium 283 Arrivano gli extraterrestri 293 Il ritorno dell impero 300 Gli alieni visti come il male 306 Trekking 322 Il passato e il presente della TV

4 Introduzione all edizione italiana Anna Camaiti Hostert La follia è superiore alla temperanza (sophrosyne), perché questa ha un origine solamente umana, quella invece divina (Platone). Di contro alla possibile definizione e riconoscibilità del futuro sta la circostanza che il mondo si rinnova quotidianamente per nascita, ed è continuamente trascinato nella vastità del nuovo dalla spontaneità dei nuovi venuti. Depredando i nuovi nati del loro diritto di iniziare qualcosa di nuovo, il corso del mondo può essere deciso e previsto in senso solo meccanico (Hannah Arendt). Quando ho cominciato a pensare a questa introduzione l 11 settembre era ancora molto lontano. Le mie riflessioni sugli interrogativi che l odierna cultura visuale descritta e teorizzata da Nicholas Mirzoeff in questo libro sollevava stavano prendendo una piega molto diversa da quella che gli eventi di quel giorno hanno successivamente loro impresso. Il susseguente sbigottimento che è durato a lungo e per certi versi ancora si protrae ha determinato la chiara percezione che tutto si è trasformato, che tutto è stato rimesso in discussione, che il cammino sin qui percorso ha subito svolte inaspettate. Certo le immagini televisive di ciò che è accaduto a New York e a Washington sono state la tragica conferma che viviamo in una cultura visuale sempre più globalizzata, ma quello che fino ad allora avevo considerato il sedimento stabile delle mie riflessioni e soprattutto delle speranze che nutrivo è stato sconquassato. Così è stata ribadita con forza la riduzione del mondo a un dualismo simbolico che tende a sussumere e a ridurre la cultura globale o sotto l insegna dell universalità del modello di sviluppo occidentale o sotto quella dell integralismo teologico islamico. Peggio ancora lo scontro sembra orientarsi, sorpassando perfino il già terribile e paventato scontro di civiltà, verso una guerra di religione.

5 10 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 11 Gli attacchi all America chiaramente sono stati un atto di guerra che ha spostato l asse dei rapporti internazionali verso una radicalizzazione dello scontro politico. Sta di fatto che i bombardamenti in Afghanistan hanno scatenato forti reazioni popolari antiamericane già presenti in una certa parte del mondo arabo e hanno ancora di più polarizzato lo scontro riducendolo solo a due contendenti. La pluralità dei punti di vista, la contaminazione delle culture, la gioia legata a uno stato meticcio e contaminato della coscienza sono, almeno per il momento, bandite, la proliferazione delle tecnologie visuali permessa dalla rivoluzione digitale capace di trasformare la cultura globale, respinta. La realtà ha superato ogni finzione. Ne siamo stati sopraffatti e siamo rimasti per giorni incollati davanti al televisore inebetiti. Per me inoltre, che vivo a metà tra Italia e Stati Uniti e sono quindi parte di universi del sentire, oltreché geografici e teorici abbastanza differenti, il senso di spaesamento o come altrove l ho chiamato di outlandishness è entrato in una fase di non ritorno. Con questo termine, mutuato per l appunto da Anita Desai, autrice indiana di Baumgarnter s Bombay, ho inteso infatti qualcosa di più forte dello spaesamento di Naipaul o dell estraneità di Rushdie. Così l essere aliena anche a quella me stessa che pensavo di conoscere bene, ha determinato in quest occasione, a differenza di altri momenti in cui ne ho colto tutta la portata creativa e innovatrice, la certezza di poggiare i piedi su un terreno friabile pronto a sgretolarsi da un momento all altro. Sono state intaccate le radici profonde del mio essere e più che un passing identitario a cui ormai mi sono abituata in un osmosi continua da una cultura all altra ho e- sperito la dissoluzione permanente di emozioni che, come le Torri Gemelle, si sono disintegrate alla maniera di una meringa sbriciolata. È dunque con questo stato d animo incerto e tremulo, come la luce invocata da Hannah A- rendt a rischiarare i tempi oscuri, che metto insieme queste riflessioni forse disorganiche perché ancora in progress sono le risposte da dare agli interrogativi fondamentali che questi eventi hanno determinato. Quali conseguenze deriveranno da una guerra che dimezza letteralmente il mondo riducendolo a due soli punti di vista, togliendoci la libertà di vederlo e sentirlo invece con corpi e occhi multipli? Andremo davvero verso un clash polarizzato e irreversibile di civiltà, come ha sostenuto Huntington? Saremo tutti, comprese le anime belle, costretti a schierarci e a guardarci le spalle dai nemici? E c è una terza chance oppure tertium non datur? Gli strumenti che fino a oggi abbiamo usato per analizzare le culture altre e la visual culture in cui siamo immersi e che a esse è intimamente connessa, sono ancora validi? Il formarsi di i- dentità etniche, religiose, razziali, sessuali e di gender individuali e collettive, cioè il cuore di una cultura visuale, come è stato affetto da questi eventi? Personalmente mi sento dilaniata tra il tributo di dolore per le innocenti vittime americane e quello per le altrettanto innocenti vittime afghane della guerra scatenatasi successivamente. Le immagini televisive di New York e quelle di film-documentari come Viaggio a Kandahar hanno dispiegato in tutta la loro potenza lo spettacolo del dolore, di cui assolutamente non riesco a scorgere nessun appealing e- stetico, e accanto a esso, come suggerisce Boltanski, la necessità di una parola agente capace di esprimere nel presente, qui e ora, quella politica della pietà, o meglio ancora della pietas che trasforma la commozione in azione. Ma come? E ha ancora un senso? Le mie sono, specie all inizio, parole e frasi smozzicate, spezzettate, rotte dall emozione e dalla compassione; escono a fatica, quasi che il silenzio fosse più appropriato, specie quello che si nutre, come nel mio caso, dei momenti di passaggio in cui c è un continuo shifitng tra lingue e culture diverse. Mi mancheranno quelle Torri Gemelle, simbolo architettonico e culturale, nel bene e nel male, della civiltà nella quale vivo e sono cresciuta! Certo l attacco al cuore dell America che non è solo, come qualcuno troppo semplicisticamente e ideologicamente ha detto, un attacco alle multinazionali e ai simboli del capitale, mi ha profondamente fe-

6 12 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 13 rito come può ferire chiunque venga improvvisamente privato della sicurezza degli affetti, di qualcosa di familiare e mai prima d ora violato. Adesso lì c è un ground zero, a dire, come dopo la sganciamento di una bomba atomica, che il disastro è di proporzioni enormi, che tutto è stato azzerato. C è una voragine ancora fumante, maleodorante tomba a cielo aperto di migliaia di persone che non erano solo a- mericane, immagine di quel crocevia multietnico e multiculturale pieno di contraddizioni che è l America. Da lì spero si possa ricominciare. C è poi un paese che si sente violato, che si lecca le ferite e si interroga su molti punti oscuri del percorso internazionale trascurati e lasciati irrisolti per troppo tempo e su un modello di sviluppo ancora troppo self-centered per potere essere sostenuto appieno. E ancora ci sono interrogativi che necessitano una soluzione immediata invece rimandata dalla comunità internazionale di cui gli Stati Uniti sono i leader, come la questione etnico-politica tra Israele e la Palestina. Una polveriera che è un trigger comodo e di facciata per il terrorismo fondamentalista internazionale che ha piani di globalizzazione e di radicalizzazione dello scontro ben più ambiziosi del piccolo territorio e delle condizioni di vita umane reclamati dai palestinesi. E infine c è il pericolo anche in Occidente di ricadere nel fin troppo prevedibile tranello dell antisemitismo e dell antiamericanismo d accatto, comunque purtroppo ancora molto diffusi, che, identificando fin dalla fine dell Ottocento capitalismo ed ebraismo, hanno segnato epoche pericolose di pregiudizi antimodernisti e antidemocratici. La priorità di alcuni elementi delle mie considerazioni su altri è per tutto ciò stata ribaltata e rivoltata proprio come un calzino. Nel tentativo di districare un groviglio interiore di emozioni ed esterno di nodi irrisolti mi addentrerò, come il protagonista di Stanley Kubrick in Shining, in un labirinto la cui via d uscita non mi è affatto familiare e il cui percorso mediatico rivela ampie zone d ombra create da una realtà più brutale della finzione che ha scompaginato non solo il nostro vivere quotidiano, ma le radici profonde delle nostre identità individuali e collettive, costringendoci a ridefinire le coordinate culturali e visive del nostro mondo. È stato messo a soqquadro il nostro immaginario collettivo. Non so ancora se riusciremo a trovare una via d uscita a quest impasse che, mi auguro, non porterà allo scontro totale tra nemici. La percezione tendenzialmente visuale del mondo contemporaneo che concedeva spazi a voci multiple e a una negoziazione continua dei confini e dei limiti delle diversità delle culture si era articolata e raffinata, tra l altro, proprio con quelli che sono stati definiti i visual studies. Fino all 11 settembre questo significava percorrere strade nuove di convivenza tra identità etniche, religiose, di classe e di genere diverse che contaminandosi si stavano modificando, modificando il sentire e il vivere quotidiano di ognuno di noi. Adesso il nostro immaginario ha subito restrizioni che non potevamo neanche ipotizzare e che temo andranno a colpire anche le nostre libertà individuali e collettive. O forse, al contrario, saremo addirittura noi stessi a invocare e apprezzare queste restrizioni aprendo spazio, nel lungo periodo, a una accezione della complessità che ci farà riguardare il mondo intorno a noi e la nostra cultura più che mai visuale, sotto una luce e con una consapevolezza diverse. Sta di fatto che questa guerra, che ci costringe a schierarci, per il momento rattrappisce in un binarismo sterile un sentire che si è profondamente modificato nel corso dell ultimo secolo, privandoci di quella libertà di punti di vista che Hannah Arendt considerava come l essenza di ogni agire politico. Infatti quello che adesso ci sembra naturale per lungo tempo è stato assolutamente impensabile e impensato. La nostra vita ha luogo sullo schermo. La vita nei paesi industrializzati è sempre più vissuta sotto la costante sorveglianza di telecamere: dagli schermi sugli autobus a quelli negli shopping malls, da quelli sulle autostrade o sui ponti a quelli accanto ai bancomat ( ). L esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell era degli schermi visuali il vostro punto di vista è cruciale.

7 14 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 15 Così si apre il libro di Nicholas Mirzoeff in cui l autore prima di passare all illustrazione del campo di intervento dei visual studies cerca di definire cosa sia una cultura visuale. Dopo avere scartato definizioni che genericamente facciano riferimento a una semplice dissoluzione delle barriere disciplinari del sapere come spartiacque tra la modernità e il postmoderno attraverso la nozione semiotica di rappresentazione, o esclusivamente a una sociologia della cultura visuale capace di creare una teoria sociale della visualità i- solata dagli altri sensi, lo studioso approda a una definizione che, non appartenendo a nessuna disciplina, si concentra sui momenti in cui il visuale è elemento di contestazione, dibattito e definizione in termini di identità plurime e singolari. Ed è proprio qui che si è determinata una svolta. Il mondo come testo è stato rimpiazzato dal mondo come immagine e il campo della visualità sfida ogni tentativo di definire la cultura soltanto in termini linguistici. La rinascita di nuove barriere disciplinari non avrebbe senso dopo la rottura di quelle vecchie. È invece l idea di un corpo emergente del sapere postdisciplinare che proviene dai cultural studies anglosassoni ad affermarsi, soprattutto quelli che, basandosi sull attraversamento delle discipline tradizionali, concentrano la loro attenzione sulle i- dentità etniche, di genere, religiose e di classe nei loro processi di formazione e di contaminazione quotidiana. In questo senso la cultura visuale è una tattica del sapere che serve a studiare la genealogia e le funzioni della vita giornaliera postmoderna. È la risposta ai media visuali sia da parte degli individui che dei gruppi. La sua definizione viene dalle domande che pone e dalle vie di uscita che cerca. C è una sorta di indipendenza dalle immagini in se stesse e invece un enfasi peculiare a immaginare o visualizzare l esistenza e cose che non sono in se stesse visuali. Caratteristica della modernità che la distingue dall antichità o dal Medioevo, epoche in cui il mondo era compreso come libro e in cui le immagini non erano rappresentazioni simili agli oggetti, ma erano esse stesse oggetti, è stata la lenta costruzione della possibilità di innumerevoli ripro- duzioni indistinguibili l una dall altra come ha mostrato Benjamin. Questa visualizzazione che si può ripetere all infinito adesso è divenuta quasi obbligatoria e, certo non va a rimpiazzare totalmente il discorso linguistico, ma lo rende più comprensibile, più veloce e più effettivo trasformando tuttavia i parametri della comunicazione. Il primo passo verso una cultura dei visual studies è il riconoscimento che l immagine visuale non è stabile, ma cambia il suo rapporto con la realtà esteriore in particolari momenti della modernità. La nostra cultura visuale ha come obiettivo chiave quello di capire come queste immagini complesse si compongano. Adesso che la realtà può essere manipolata dai computer emerge la paradossalità dell immagine virtuale e l impossibilità di distinguere la fiction dalla vita reale, con il conseguente scavalcamento di essa. L immagine fotografica o filmata può anche non indicare più la realtà perché può essere manipolata. La sua virtualità postmoderna elude costantemente la possibilità di comprendere la realtà, creando una crisi del visuale che è non più solo un problema specialistico per le discipline tradizionalmente visuali. È un problema del quotidiano. La proliferazione delle immagini non rientra più nella complessità di una cosiddetta single picture. Perciò la cultura visuale si anima entro la realtà virtuale individuando punti di resistenza nella crisi dell informazione e nel surplus visuale della vita quotidiana. La distruzione postmoderna della realtà viene compiuta nel quotidiano non più dalle avanguardie. Ecco perché la cultura visuale dirige la sua attenzione non verso settings strutturati come il cinema, le gallerie d arte o altro, ma verso gli eventi visuali del quotidiano che di quei settings riproducono le immagini in altri luoghi non deputati a esse (il film nel video Tv, l opera d arte su una scatola di fiammiferi o una busta del supermercato ecc.). I visual studies rappresentano un nuovo corpo emergente del sapere postdisciplinare che si concentra sulla continua formazione e trasformazione delle identità individuali e collettive nella vita sociale quotidiana. La loro at-

8 16 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 17 tenzione si concentra sul punto di vista del consumatore più che su quello del produttore. Il ruolo dello spettatore pertanto diviene fondamentale soprattutto alla luce del fatto che l esperienza visuale non può più essere completamente spiegabile entro il modello della testualità. La viabilità di quest approccio risiede nella continua abilità di sfidare le istituzioni per trasformarle e non nell essere assorbiti in esse. In questo senso i visual studies rappresentano l unica strategia dell impegno sociale e politico dell oggi. Sono una struttura interpretativa fluida centrata sulla comprensione della risposta ai media visuali da parte della gente. La loro definizione viene dagli obiettivi che gli individui e la collettività si pongono e dagli interrogativi che sollevano nel tentativo di superare i confini tradizionali del sapere per interagire con la vita giornaliera. Tutto ciò era vero fino all 11 settembre. Prima di allora il momento cruciale di riflessione poteva ancora essere quello delle forme di narrazione della pluralità degli eventi e del come l immediatezza delle immagini possa condurre a una nuova narrativa capace di influenzare il nostro rapporto con essi, con la realtà virtuale e non, svelando il carattere mediato della rappresentazione. Inoltre la frammentazione del sentire quotidiano e l immaginario collettivo e individuale della gente che in alcune parti del mondo vive liberamente, tra continue contaminazioni culturali, u- na trasformazione in progress determinava sempre più sogni disseminati, proliferati e proliferanti. C erano in ballo energie pronte a compiere investimenti desideranti diretti al raggiungimento della felicità e a nuove forme del con-vivere quotidiano. A quel mondo in comune che è il terreno della politica di cui ci parla Hannah Arendt. Adesso il panorama è cambiato e quello è diventato una sorta di wishful thinking sopraffatto e annullato dal bipolarismo impoverito del nostro immaginario che questa guerra ha determinato. È il fantasma del binarismo del Panopticon di cui Jeremy Bentham fu autore nella seconda metà del Settecento a rispuntare sullo sfondo. In quel saggio l invisibilità era prerogativa di chi guardava e la visibilità di chi era guardato. Il panopticon era una inspection house i cui abitanti e- rano isolati l uno dall altro e costantemente sotto la sorveglianza di amministratori che essi non potevano vedere. Il mondo era diviso in due: il carceriere non visto sorvegliava e controllava il carcerato sempre visibile. La chiave di ribaltamento di questo sistema di potere era la resistenza del carcerato a questa totale visibilità. Oggi quello stesso fantasma che servì a rendere invisibile il colonialismo allora in fase di espansione non è più solo una minaccia. Ricompare flesh and blood con una morfologia diversa in presenza di una crisi senza precedenti e probabilmente porterà a società blindate e sotto sorveglianza che forse saremo noi stessi a invocare e incoraggiare. La dialettica digitale del soggetto sociale dei nostri giorni mostrava prima contraddizioni che rivelavano, ad esempio in momenti delicati nei rapporti internazionali, l ombra del panopticon. Questa era mediata e contrastata però dalla presenza di una cultura visuale elaborata sulla base di u- na intervisualità in cui si presentava l interazione simultanea di una varietà di modi della visualità: i film, la fotografia, l immagine elettronica. Di questa dialettica intervisuale che mostrava forme di resistenza al fantasma del binarismo e apriva spazi alla pluralità di voci diverse, Mirzoeff ci aveva offerto un immagine a un convegno organizzato nel marzo 2000 dalla Facoltà di Scienze della comunicazione dell Università La Sapienza di Roma intitolato La casa di vetro: vite me-diate in cui erano proprio i concetti di trasparenza e di visibilità a essere analizzati. Lo studioso aveva sottolineato innanzi tutto come ad esempio durante la guerra in Kosovo, assai diversa da quella a cui assistiamo oggi, ebbe luogo un altra guerra: quella dell informazione tra CNN e televisioni locali. L apparire in un angolo dello schermo del logo CNN e dall altro di quello della televisione serba e gli interventi dei giornalisti che mettevano in guardia i rispettivi spettatori sulla fiducia da dare a quelle immagini non solo aveva smascherato la CNN come il carceriere invisibile del Panopticon, ma aveva pro-

9 18 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 19 posto il carattere altamente mediato della rappresentazione. Da questa tensione potevano scaturire nuove forme di visualità. Nell intensità della guerra i maggiori canali visuali nella cultura contemporanea apparivano simultaneamente o intervisualmente: la catena espressiva dei logo, la chiaroveggenza del panopticismo dei media, dei satelliti e della guerra dell etere e infine il campo elettrico di una tecnologia in cui macchine ed esseri umani erano interfacciati, rivelando allo stesso tempo una forma di visualità insieme più vecchia e più nuova di quella Panopticon. Mirzoeff in questo contesto individuava, tra le altre, le contraddizioni che il momernto storico portava con sé in altri luoghi di conflitti. Così parlava dell artista iraniana Shirin Neshat che era divenuta una star globale proprio per avere e- splorato la divisione di genere nella cultura islamica o dei Talebani che distruggevano in pubblico televisioni e monitor mentre rendevano invisibili allo sguardo e alla vita i corpi delle donne sotto i burka. Queste contraddizioni facevano parte del reale ed erano allo stesso tempo di alto valore mediatico. Avrebbero potuto aiutare a portare alla luce in maniera globale le infinite differenze e differenziazioni che culture diverse e resistenze locali avevano il potenziale di determinare. Erano elemento di tensione e di speranza. Quella stessa speranza, che nelle parole del medico afroamericano di Viaggio a Kandahar, finito in Afghanistan per sbaglio e costretto ad appiccicarsi una barba finta perché non gliene cresce una vera in un regime dove quello è il marchio distintivo dell appartenenza all Islam, si materializzerà soltanto nel momento in cui i corpi delle donne afghane potranno di nuovo essere guardati. Qualcuno ha scritto che ciò che è successo era altamente prevedibile in quanto la paura principale dei Talebani è quella delle donne, in particolare della loro visibilità. Questa si traduce ovviamente nel costringerle a nascondersi sotto i burka, ma anche e soprattutto nel celebrare una perversa e costante frequentazione con la morte. L esempio più e- clatante, oltre alla costrizione dell infanzia maschile nelle scuole coraniche, luoghi di fanatismo e di privazione della spontaneità e ai numerosi atti di barbarie di esecuzioni sommarie e indiscriminate, sono proprio quei kamikaze suicidi, allevati da questo regime e disposti a sprecare le loro giovani vite, uccidendo altri esseri umani. E non per disperazione, per miseria, o per ignoranza, come può accadere in Palestina, ma solo per una sorta di cupio dissolvi foriero di morte. È stato infatti più volte ricordato che i terroristi di New York e di Washington erano colti (quasi tutti studenti universitari), provenivano da famiglie benestanti saudite o egiziane e si erano addestrati nei campi Al Qaeda il cui quartier generale si trova in Afghanistan da cui si spostavano liberamente tra Europa e Stati Uniti. Questi giovani sono la dimostrazione più evidente di una cultura in cui l imbarbarimento e la sterilità di un genere, quello maschile, che ha eliminato brutalmente l altro che genera e dà la vita, conducono a flirtare tragicamente con la morte in un viaggio senza ritorno. Anch io trovo assolutamente naturale e prevedibile che un tale regime possa condurre a simili aberrazioni di morte, travestendole di fanatismo religioso. Certo è che la combinazione di integralismo religioso e misoginia diviene una miscela esplosiva capace di una radicalizzazione dello scontro senza precedenti che ha in sé il seme della morte. Ed è proprio il binomio visibilità/invisibilità che in questo contesto acquista, a mio parere, una rilevanza proteiforme e una veste nuova e terribile rispetto allo schema benthamiano e anche rispetto alle considerazioni foucaultiane secondo cui il panotticismo è parte di un ordine sociale in cui la visibilità è una trappola. Quel concetto stesso di visibilità dato per scontato anche da Foucault, il quale ne vede solo una faccia, viene rimesso in discussione ed è la chiave di lettura e di ribaltamento attuale dell ordine delle cose. Infatti, nella più mediatica delle guerre che è seguita all 11 settembre, visibilità e invisibilità degli attanti si sono scambiate e continuano a scambiarsi i ruoli solamente in funzione di ristabilire un bipolarismo formale, statico e riduttivo. Così la visibilità ripetuta e terribile della distruzione delle Torri è stata parallela all invisibilità delle responsabi-

10 20 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 21 lità dell attentato, peraltro non rivendicato mai direttamente ancora da nessuno, e della reazione americana, avvenuta solo dopo diverse settimane. Immediatamente però il grande schermo è apparso diviso tra Bush e bin Laden, ambedue invisibili e introvabili subito dopo il massacro, mentre la visibilità dello scontro tra i due a colpi di video e pubbliche dichiarazioni è stata immediata. I due si sono impadroniti dello schermo, polarizzando l attenzione e il conflitto. Così l America e l Occidente si sono ridotti alle alleanze militari e allo spiegamento di armi e il mondo islamico è divenuto il grembo del terrorismo internazionale che ha attaccato il gigante. Si sono sprecati fiumi di inchiostro e trasmissioni televisive sia sulla spiegazione diretta o indiretta della superiorità dell uno sull altro, sia al contrario sulle infinite sfumature dell uno e dell altro, ma sempre entro una frame logica bipolare. Tutti siamo caduti nel tranello. Anche la CNN e Al Jazeera (la cosiddetta CNN del mondo arabo che ha sede nel Qatar) si sono divise lo spazio dell etere e di nuovo si è ripetuta la guerra mediatica. Non più però la televisione globale CNN contro le televisioni locali, come nella guerra del Kosovo. Adesso a fronteggiarsi sono due televisioni globali, perché il conflitto locale si è globalizzato e la globalizzazione si è spettacolarizzata. Gli angoli dello schermo televisivo come ai tempi della guerra del Kosovo si sono di nuovo riempiti tutti e quattro. Gli angoli alti hanno come logo fisso CNN e Al Jazeera mentre quelli bassi hanno i loghi delle televisioni locali e dei singoli programmi televisivi che cambiano di volta in volta a seconda dei paesi e dei programmi. Ma in questo caso non si contendono l audience a colpi di veridicità delle immagini o a colpi di svelamento dell osservatore osservato: il carceriere invisibile smascherato dal carcerato visibile. C è stata viceversa una meta-alleanza tra i due network televisivi. L accusa ad Al Jazeera da parte degli americani è stata quella di rendere manifesti i messaggi di bin Laden occultando con essi il suo aiuto al terrorismo internazionale. CNN pertanto si è limitata a trasmettere solo in parte e cen- surati per motivi di sicurezza nazionale i proclami dello sceicco del terrore. Al Jazeera viceversa, essendo l unica televisione ammessa in Afghanistan ha affermato che è suo dovere dare visibilità alle notizie e se queste sono i messaggi dello sceicco invisibile è suo precipuo compito trasmetterle integralmente, assieme alle sollevazioni antiamericane che scuotono molti dei paesi arabi e non solo l Afghanistan o il Pakistan. E ha accusato il governo americano di sottoporre i suoi network a una sorta di terrorismo dell informazione, imponendo censure impensabili. La CNN d altra parte si è alimentata per avere notizie dall Afghanistan proprio da Al Jazeera, come dimostrano i loghi affiancati delle due televisioni in qualunque programma CNN. Il figlio maggiore di bin Laden, il quale con un abilità mediatica senza precedenti continua a rilasciare comunicati e a confezionare video minacciosi e strategici, in un intervista a un giornale arabo ha dichiarato che suo padre e i suoi uomini non saranno mai presi perché sanno diventare invisibili, così come Rumsfield, il ministro della Difesa americano non ha dato nessuna informazione sulle caratteristiche morfologiche e logistiche degli schieramenti militari e non ha permesso nessuna ripresa televisiva delle forze dirette in Afghanistan perché questo poteva compromettere l esito delle operazioni. Quindi in questa guerra dove visibili sono solo le immagini di repertorio e dove i contendenti, sempre e solo uomini, si combattono a colpi di video o di conferenze stampa dosando attentamente le loro apparizioni e sparizioni, si stravolgono i rapporti di potere del vecchio panopticon benthamiano le cui fondamenta poggiavano sul bipolarismo: invisibilità-dominante; visibilità-dominato. Dominato e dominante si scambiano continuamente i ruoli e le proteiformi caratteristiche di visibilità/invisibilità a essi legate. La globalizzazione è ormai avvenuta. La minaccia del panoptincon è quella di un binarismo formale che elide la pluralità e i cui terrapieni tattici non sono fissi, ma altamente mobili: i due avversari cambiano di volta in volta postazione, spiazzando soprattutto lo spet-

11 22 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 23 tatore il cui ruolo viene forzatamente ridotto in quanto sa ben poco di questa guerra e il cui punto di vista diviene assolutamente irrilevante. Prima dell 11 settembre si poteva ancora pensare a un ordine instabile, complesso e frammentato sempre pronto a ricombinarsi in fogge e forme diverse plurali aprendo spiragli di speranza e facendo emergere gli invisibili, smascherando da un lato il ruolo dei carcerieri non solo quello dei Talebani, ma anche quello dei pochi custodi e detentori del potere economico e delle risorse universali negate ai tre quarti del mondo e dall altro ridando voce e corpo alle vittime, a chi, ad e- sempio come le donne afghane, tra le tante altre vittime, era preda di un controllo brutale e violento. Adesso invece la proteiforme occupazione degli spazi dell immagine si ricombina sì continuamente, ma solo per ribadire un dualismo rigidamente misogino e schematico appannaggio ora dell uno o- ra dell altro dei due attanti della guerra ai quali importa soltanto vincere, distruggendo l altro. Tertium non datur. Nessuno avrebbe mai pensato che la perversità della performance degli attacchi terroristici, iniziata, va detto, non per sete di giustizia, ma solo per fame di potere e di conquista da parte dello sceicco del terrore, sarebbe stata capace di un riduzionismo così potente. All annuncio della guerra Nicholas Mirzoeff si trovava in Nuova Zelanda e abbiamo avuto uno scambio di opinioni. Di una lettera mi piace riportare, con la sua autorizzazione, alcuni brani che tradiscono anche in lui la preoccupazione di una radicalizzazione e bipolarizzazione dello scontro. Scrive lo studioso: L attacco al World Trade Center è stato, tra l altro, un tentativo reazionario di riasserire una rappresentazione visuale del mondo come clash di forze opposte. Dalla collisione fisica di due dei più potenti simboli del progetto moderno per superare i limiti del corpo e dello spazio l aereo e il grattacielo i terroristi hanno con successo fatto emergere un punto di vista del mondo teologico. Gli Stati Uniti d altra parte con la loro risposta hanno confermato l assolutezza del punto di vista contrario, proprio quando sembrava che la disseminazione della tecnologia di- gitale potesse essere elemento di grande trasformazione. I Talebani e i loro alleati erano naturalmente contrari a questa trasformazione. In questa emergenza compito della cultura visuale è asserire l urgenza di trovare mezzi per rappresentare la cultura globale uscendo da binarismi restrittivi. In termini a più lunga scadenza è ancora troppo presto per fare affermazioni compiute Allo stesso modo, da collocare in una posizione di stallo sono sia gli attacchi agli Stati Uniti che la loro risposta militare. Ambedue sono affermazioni militarizzate di posizioni reazionarie. La loro e- gemonia corrente non è, credo, destinata a durare a lungo in termini globali. Gli Stati Uniti molto probabilmente stazioneranno in questa fase acuta di reazione fino a che bin Laden non verrà ucciso. Dopo di che seguirà il solito isolazionismo. Visualmente parlando penso che questo significhi il riemergere della censura e di controlli disciplinari che richiederanno contestazioni a livello locale. In un certo senso siamo in presenza di una somiglianza culturale: la crisi incontrata da parte dell era digitale della riproduzione rimanda a quella che l era della riproducibilità meccanica esperì con l avvento del fascismo. Allora fu l estetizzazione della politica nazionale come affermò Benjamin, oggi è la spettacolarizzazione della cultura globale. La via d uscita da questa impasse sarà più veloce e meno definita di quella degli anni Trenta, una specie di copia dei nostri tempi incerti. Quale non si sa ancora. La speranza è che un nuovo tipo di complessità scaturisca nel lungo periodo da questo quadro radicalizzato, una complessità che si ricompone attorno a priorità diverse e inusitate e presta attenzione a molte delle voci mute e invisibili fino a oggi ignorate. Non solo quelle lontane e sofferenti delle donne e dei bambini afghani, ma anche quelle nostre rimosse nel quotidiano, qui e ora, che devono dare spazio a fenomeni trascurati del modo di essere e di vivere di ognuno di noi. Mi auguro che tutto ciò ci porterà a riflettere e a rivedere i nostri modelli di sviluppo, la struttura più intima della nostra cultura visuale e l ambiente circostante nel quale ci muoviamo, viviamo e respiriamo ogni giorno. Un attenzione nuova a una

12 24 ANNA CAMAITI HOSTERT INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 25 miriade di particolari fino a oggi trascurati ci renderà forse più attenti alle differenze, alle nostre identità, al nostro sentire. Questo potrà essere, mi auguro, l inizio di un percorso nuovo di uscita dall emergenza di questi tempi oscuri. Tornare a essere nella pluralità del mondo, avrebbe detto Hannah Arendt, per tornare alla politica. Ma ora ci siamo svegliati disse per lungo tempo. Per sempre voleva aggiungere Fridolin, ma prima ancora che pronunciasse quelle parole, lei gli pose un dito sulle labbra e sussurrò come fra sé: Non si può ipotecare il futuro (il corsivo è mio). Così Albertine la protagonista di Doppio sogno alla fine del piccolo romanzo di Arthur Schnitzler si rivolge al marito, ben sapendo che viviamo in un mondo sul quale, come ebbe a dire Heinrich Mann nel discorso commemorativo per la morte di Schnitzler nel 1931, non veglia più alcun Dio. Anche nel mondo di adesso, viste le atrocità cui assistiamo, sembra ripetersi la sua assenza, eccetto che in quest occasione si cerca, in modo peraltro non nuovo, di attirarne la complicità e il consenso o da una parte o dall altra. Speriamo che lui/lei, proteggendoci gelosamente dal tarlo della follia, almeno non cada nel tranello del tertium non datur. Roma, novembre 2001 Bibliografia Appadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large. Cultural Dimension of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press; trad. it. 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi. Arendt, Hannah, 1968, Men in Dark Times, San Diego, Harcourt Brace & Company; trad. it. 1995, Che cos è la politica?, Milano, Edizioni Comunità. Benjamin, Walter, 1955, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Scriften, Frankfurt am Main, Surkamp Verlag; trad. it. 1966, L opera d arte nell epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi. Bentham, Jeremy, 1962, Panopticon, Works of Jeremy Bentham Published under the Superintendence of His Executor, John Bowring, New York, Russell and Russell, 11 voll.; trad. it. 1983, Panopti- con, ovvero la casa d ispezione, a cura di Michel Foucault, Michelle Perrot, Venezia, Marsilio. Bhabha, Homi, 1994, The Location of Culture, London, Routledge; trad. it. 2001, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi. Boltanski, Luc, 1993, La Souffrance à distance, Paris, Édition Metailiè; trad. it. 2000, Lo spettacolo del dolore, Milano, Raffaello Cortina Editore. Camaiti Hostert, Anna, 1996, Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze, Roma, Castelvecchi. Debord, Guy, 1967, La societé du spectacle, Paris, Buchet Chastel; trad. it. 1990, La società dello Spettacolo, Milano, SugarCO. Desai, Anita, 1988, Baumgartner s Bombay, London, Penguin Books; trad. it. 1992, Notte e nebbia a Bombay, Milano, La Tartaruga (ripubblicato nel 1999 da Einaudi). Foucault, Michel, 1976, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi. Friedberg, David, 1989, The Power of Images: Studies in the History and Theory of Response, Chicago, Chicago University Press; trad. it. 1993, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino, Einaudi. Huntington, Samuel P., 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster; trad. it. 1997, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti. Jenks, Christopher, 1995, Visual Culture, London, Routledge. Mirzoeff, Nicholas, a cura, 1998, The Visual Culture Reader, London, Routledge. Mirzoeff, Nicholas, a cura, 2000, Diaspora and Visual Culture. Representing Africans and Jews, London, Routledge. Mulvey, Laura, 1989, Visual and Other Pleasures, Bloomington, Indianapolis, Indiana University Press. Rogoff, Irit, 2000, Terra Infirma : Geography s Visual Culture, London, Routledge. Said, Edward, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 1991, Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri. Said, Edward, 1993, Culture and Imperialism, New York, Knopf; trad. it. 1998, Cultura e imperialismo: letteratura e consenso nel progetto coloniale dell Occidente, Roma, Gamberetti. Schnitzler, Arthur, 1931, Traumnovelle, Berlin, Fischer Taschenbuch Verlag; trad. it. 1977, Doppio sogno, Milano, Adelphi. Shelton, Anthony, 1995, Fetishism: Visualizing Power and Desire, London, South Bank Center. Sturken, Marita, Cartwright, Lisa, 2001, Practices of Looking: An Introduction to Visual Culture, Oxford, Oxford University Press.

13 Capitolo settimo La morte di Diana: il genere, la fotografia e la nascita di una visual culture globale Se si sopprime l immagine, scompare non solo Cristo, ma l intero universo diceva Niceforo, patriarca di Costantinopoli, in risposta alle tesi degli iconoclasti alla fine del primo millennio cristiano (Virilio 1988, p. 44). Per quanto drammatica, questa affermazione sembra quasi riduttiva, all indomani dei sorprendenti eventi che sono seguiti alla tragica morte di Diana, principessa del Galles, in un incidente d auto nella notte del 31 agosto Prima di morire, Diana era una combinazione di pop star, modella d alta moda e icona della monarchia, oltre a essere la persona più fotografata del mondo. La sua morte ha scatenato un cordoglio globale sentito intensamente in patria, ma, sorprendentemente, anche a livello internazionale. Diana ha ricevuto le stesse forme di venerazione di una santa dell America latina, le è stato attribuito dal primo ministro britannico Tony Blair il contraddittorio titolo di Principessa del Popolo ed è stata commemorata da Elton John come la rosa d Inghilterra. Si è unita alla necrocrazia mediatica che comprende Marilyn Monroe, James Dean, ed Elvis Presley, eclissandoli completamente. Una donna, il cui ammirevole impegno a favore dei meno fortunati non aveva mai comportato alcuna prospettiva di drastici cambiamenti sociali, è diventata il simbolo di un mutamento fondamentale nella cultura politica britannica. Si è trattato davvero di uno degli eventi del millennio, che ha coinvolto un vasto numero di persone, dando vita a conseguenze impreviste e stabilendo dei precedenti fino a quel momento inimmaginabili. Una drammatica settimana dopo, la Gran Bretagna

14 332 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 333 non appariva più come una nazione antica e il mondo aveva potuto sperimentare, per la prima volta, come una visual culture globale possa cambiare la vita quotidiana in un istante. In questo capitolo non ripercorrerò gli eventi della vita di Diana, né mi occuperò delle conseguenze della sua morte sulla monarchia britannica considerazioni queste che ho già sviluppato in altri lavori. Esaminerò invece la morte di Diana come l evento che ha segnato la fine della fotografia e la nascita di una visual culture globale. La popolarità e i cultural studies Bisogna ammettere che questa notevole manifestazione del sentimento popolare non era stata prevista dai critici della visual culture e dei cultural studies. Gli studiosi del Centro per i cultural studies contemporanei di Birmingham avevano annunciato lo studio della resistenza attraverso il rituale, ma con questo concetto sicuramente non intendevano il funerale di una principessa, il discorso di un conte o le canzoni di un noto cantante su Lite Radio. Sembra che diciotto anni di thatcherismo abbiano indotto molti ricercatori a lasciar perdere la cultura di massa e a condurre invece i loro studi su gruppi marginali e di minoranza. Per quanto questo filone di indagine sia stato necessario e importante, bisogna che ora sia controbilanciato da uno studio più ampio su quel corpo sociale variegato e disomogeneo che gli americani chiamano classe media, e che funge da centro vitale per la cultura politica britannica. Studi recenti su argomenti come la comunità bianca (Dyer 1997) rispondono a questa esigenza, che diviene ancora più sentita alla luce della morte di Diana. Darcus Howe ha visto la reazione alla morte di Diana come un momento di grande importanza: È arrivata come un ladro di notte: imprevista e inattesa, unita, disciplinata e organizzata. La maniera in cui si è manifestata, lo stoicismo di questo enorme movimento di Inglesi, fa pen- sare che si sia formata durante un lungo periodo di tempo. Non si è trattato semplicemente di un atto di impulsività e i- steria, tipico della spontaneità volgare, ma di un leggero trance, dovuto alla morte del loro comandante in capo, Diana Spencer. ( ) Quelli di noi che si occupano di questioni sociali e politiche ( ) non avevano idea della sua esistenza, e ci siamo oltretutto trovati a mal partito, per negligenza storica e per non aver saputo osservare abbastanza attentamente (Howe 1997). In questo commento attento e misurato sembra esserci un eco dell ammissione di Stuart Hall che l arrivo del femminismo rivoluzionò totalmente il progetto dei cultural studies: Uso intenzionalmente la metafora: come un ladro che di notte è penetrato in una casa e, interrotto, ha fatto un rumore indecente e ha colto l occasione per defecare sul tavolo dei cultural studies (Hall 1980, p. 282). Mentre la metafora del ladro di notte sembra essere la stessa a cui allude Howe, a colpire immediatamente l attenzione è il riferimento escatologico, più tipicamente inglese di quanto Hall non vorrebbe ammettere. Sembra che sia stato il trauma di essere criticato dall interno dal femminismo a indurre Hall a esprimersi in maniera così pungente (Brunsdon 1996). Questo atteggiamento tradisce anche il timore che il femminismo e la femminilità siano in qualche modo più volgari e più fisici rispetto al serio studio della cultura popolare. Nel suo racconto della morte di Diana, Howe cerca sempre di evitare la volgarità e, per estensione, la superficialità. D altra parte, come hanno sottolineato sia Billy Bragg che Linda Grant, molti commentatori della sinistra hanno trovato gli eventi della settimana funebre di Diana sdolcinati e banali, arrivando a paragonarli a latrati di una muta di cani, per citare Euan Ferguson. Diversi corrispondenti del quotidiano di centro-sinistra «Guardian» hanno parlato con tono ostile dell isteria di massa che ha accompagnato la morte di Diana («Guardian» 5 settembre 1997). L isteria naturalmente viene vista come un difetto prettamente femminile, quindi il cordoglio popolare si trasforma nella femminizzazione dello Stato.

15 334 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 335 Secondo Linda Grant, questo disprezzo è dovuto a uno sprezzante, puritano disdegno delle apparenze, e una convinzione che la vera bellezza sia solo quella interiore, mentre qualunque altro tipo di bellezza sia nulla più di un ingannevole artificio. È lo stesso atteggiamento che porta a considerare il calcio un onesto gioco della classe lavoratrice, e lo shopping e il pettegolezzo, invece, come insignificanti e superficiali passatempi di donne sciocche che non hanno altro di meglio da fare. E questo disdegno è un altra forma di misoginia ( ). Questa è l importante e inevitabile realtà: non ci può essere profondità senza superficialità (Grant 1997). In quest ottica, Diana era un simbolo della visual culture, femminizzata in rapporto al Mondo, una principessa pop che amava i Duran Duran, gli Wham! e John Travolta più della musica approvata dalla critica, in breve una persona che incarnava quello che gli inglesi intendono con lo sprezzante termine volgare. Alla cultura popolare è stata data dignità accademica sulla base del fatto che permette davvero alla gente di affrontare delle tematiche serie che si trovano dietro alla volgarità di superficie. La morte di Diana ci ha messo di fronte al fatto che questa distinzione è, come tutte le distinzioni, una forma di elitismo, che pretende di separare il vero grano dell esperienza popolare dalla pula della sua volgarità. Le sottoculture, a cui tanto hanno inneggiato gli scritti dei cultural studies degli anni Ottanta, hanno lasciato il posto prima alle culture dei fan, come quella degli appassionati di fantascienza, e ora al mondo mediatizzato del post-fandom (Redhead 1997). La sinistra inglese, dalla quale hanno avuto origine i cultural studies, si è completamente sbagliata sul fenomeno Diana, proprio per la sua profonda diffidenza nei confronti delle immagini e dell apparenza. Già alla sua morte, Diana era diventata un icona visiva globale la cui immagine era diffusa attraverso tutte le tre forme di visualità moderna e- sposte in questo libro. La sua immagine aveva un potere straordinario perché riuniva l immagine formale della monarchia, la fotografia popolare e l immagine virtuale. Con la sua scomparsa, l inusuale combinazione di questi elementi si è disgregata. Gran parte del senso di spaesamento generale seguito alla sua morte si può attribuire alla distruzione dell ordine simbolico della vita quotidiana. Come componente della famiglia reale inglese, beneficiava di quell eco di potere che si accompagna all immagine formale della monarchia. In verità, il suo grande successo in questo ruolo ha evidenziato il fatto che la monarchia ha un importanza che molti commentatori non le attribuivano. Fin dagli anni Cinquanta, la stampa popolare aveva criticato la regina Elisabetta II per la sua freddezza e i suoi troppo rari sorrisi, un opinione questa che divenne ancora più diffusa negli anni Sessanta (Kelley 1997, p. 171). Nel 1969, in risposta alle pressioni dei nazionalisti gallesi, la regina aveva indossato un semplice vestito invece delle vesti regali e del diadema, in occasione dell investitura del principe di Galles. In occasione del venticinquennale dell incoronazione della regina nel 1977, la Gran Bretagna sembrava indecisa se si dovesse festeggiare o piangere l evento. Mentre in molti quartieri si organizzavano festeggiamenti in strada, la canzone dei Sex Pistols ironicamente intitolata God save the Queen era in testa alle classifiche, nonostante fosse bandita dalla BBC. La rivista «New Statesman», un influente giornale di centro-sinistra, pubblicò un numero anti-venticinquennale con un resoconto di quello che avevano detto alcuni bambini di 9 anni, della parte nord di Londra, a proposito della monarchia. Uno dei giudizi ricorrenti era: non mi piace la regina perché è troppo snob, troppo altezzosa. Con quella faccia bianca e il rossetto rosso sembra il Joker; con quei vestiti sembra un porcospino con le maniche a sbuffo. Pensa troppo a se stessa e non si interessa dei poveri (Fenton 1977). Questa critica si concentra sulle apparenze; i vestiti della regina sono fuori moda e il suo modo di presentarsi la fa rassomigliare al cattivo, piuttosto che all eroe, di una serie di fumetti. Per dirla con i Sex Pistols, non è un essere umano. I bambini intervistati avrebbero avuto 29 anni al momento della morte di Diana, l età di molti di quelli che hanno partecipato alle manifestazioni di cordoglio nelle strade

16 336 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 337 di Londra. Tuttavia, nell editoriale dello stesso numero il «New Statesman» scrive: la monarchia è morta, e questo è già un male: ma è un morto che potrebbe pericolosamente tornare in vita ( ) dato che la democrazia parlamentare è ampiamente screditata agli occhi dell opinione pubblica e non del tutto stabile. Ci si riferisce alla monarchia come se avesse un ruolo centrale nelle questioni di governo, nonostante gli stessi componenti della famiglia reale si tenessero ben lontani dalla politica dei partiti. Nel 1981, in occasione del matrimonio di Carlo e Diana, le femministe indossavano distintivi con lo slogan Non farlo, Di, mentre molti altri considerarono l intero evento come un rozzo tentativo di distogliere l attenzione dai problemi della disoccupazione di massa di allora. In effetti, sia la regina che il principe Carlo presero le distanze dalle politiche della signora Thatcher, rinsaldando così la strana alleanza tra la monarchia e la sinistra inglese. Ironicamente, fu la stessa Diana ad ottenere quello che non erano riusciti a fare decenni di prese di posizione da parte dei repubblicani e della sinistra, cioè screditare la monarchia attraverso i mass media. È in queste storie popolari che si trova il fenomeno osservato da Darcus Howe. Per persone come quei bambini del nord di Londra, Diana era semplicemente l ultima occasione del vecchio sistema di presentarsi con un volto umano. La fotografia e la principessa Quindi, la fotografia era fondamentale per l importanza di Diana. La principessa non era un simbolo solo perché le fotografie che attiravano tanta attenzione raffiguravano sempre lei come persona, piuttosto che l astratta nozione di monarchia che la regina Elisabetta II si era impegnata tanto a rappresentare. Nella visione monarchica del mondo, la persona del monarca è quasi irrilevante, dato che la monarchia avrà sempre un rappresentante. Per capire invece quanto contasse chi era Diana come persona, basti immaginare quali sarebbero state le reazioni alla morte di una figura comparabile alla sua, come Hillary Rodham Clinton. Non era semplicemente una bella donna o una celebrità, ma una persona che aveva raggiunto quella che ora appare come una posizione senza precedenti nell immaginario globale, attraverso il mezzo della fotografia, un mezzo che venne eclissato durante il suo periodo di celebrità. A uno sguardo retrospettivo, non sembra essere una coincidenza che l ascesa a star di Diana, nei primi anni Ottanta, si accompagnò alla trasformazione della rappresentazione visiva grazie alla riproduzione elettronica delle immagini. Era importante che Diana non fosse perfetta, che avesse delle giornate-no e soprattutto che fosse così pubblicamente infelice, perché tutto questo era visibile nelle foto che stavano a testimoniare l esistenza della realtà in un mondo virtuale. È stata la fotografia a creare la fantasia di una principessa, con tutti gli stereotipi di genere a essa associati, e poi a dissolverla letteralmente di fronte ai nostri occhi. Diana rivelò che la sua bulimia era il desiderio di dissolversi completamente, come un aspirina solubile. L invisibilità in questo caso era una fantasia non di potere, ma di fuga, soprattutto di fuga dai fotografi. La storia di Diana è stata raccontata attraverso le fotografie. È stato spesso sottolineato, all indomani della sua scomparsa, come fosse in qualche modo una creatura dei media, o, addirittura, come manipolasse le foto posando per esse, quasi fosse possibile ignorare la selva di macchine fotografiche che seguivano ogni sua mossa. Più appropriatamente, come disse Roland Barthes ciò che costituisce la natura della Fotografia, è la posa (Barthes 1980, p. 79). Come Madonna, Diana ha innalzato l arte di posare a vette altissime, ma, come Madonna ha ripetuto spesso, che non c è niente di nuovo nel costruire la propria immagine, cosa tipica delle giovani donne che seguono la moda e la musica popolare. Diana e Madonna sono riuscite a vivere questa fantasia su un palcoscenico globale, grazie alla nuova capacità delle comunicazioni elettroniche di diffondere le immagini istantaneamente in tutto il mondo. Secondo il giornalista di tabloid Harry Arnold, la conclusione era sempli-

17 338 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 339 ce: In qualche modo è stato un matrimonio fabbricato dai media. Diana è stata creata, se vogliamo, come la sposa per Carlo. Senza dubbio questa era l intenzione dell entourage reale. Nel 1977 si disse del principe Carlo, citando le solite fonti, che avrebbe presto sposato una persona rispettabile e di bell aspetto, che poi sarebbe rimasta nell ombra, per quanto possibile. Il rifiuto di Diana di essere l oggetto passivo di questa costruzione mediatica mandò all aria questo semplice piano. I vari scrittori reali concordano sul fatto che la percezione che Diana aveva di se stessa si modificò quando si unì alla monarchia mediatica che i Windsor erano diventati. Andrew Morton attribuisce questo cambiamento a Carlo stesso, che la definì paffutella poco prima del matrimonio (Morton 1997, p. 128). Kitty Kelley afferma che Diana si sentì mortificata, oltre che per il commento di Carlo, anche quando vide che in televisione appariva grassa come una mucca (1997, p. 234). Il suo a- spetto fisico mutò drasticamente per soddisfare l aspettativa mediatica di un corpo snello e sodo, prima a causa della bulimia, e successivamente attraverso il lavoro quotidiano in palestra. Il pubblico dei media passava sotto scrutinio o- gni suo cambiamento di look, tanto che, alla fine, si può dire che abbiamo creato la principessa che volevamo vedere. Indipendentemente da quale sia stata la causa prima, Diana fu coinvolta in un complesso interscambio di immagine e sguardo con i media riguardo alla sua rappresentazione non appena divenne un personaggio pubblico. In quanto tale, era un esempio classico dell idea di Lacan che lo sguardo è un processo biunivoco, per il quale io vedo me stesso che mi guarda, sono foto-grafato (Lacan 1964, p. 108). Per Diana, era quasi letteralmente impossibile vedere se stessa in qualsiasi modo senza essere foto-grafata. Il senso reale del suo essere guardata era un esempio di quello che Coco Fusco chiamava la sorveglianza sessuale di tutte le donne da parte degli uomini, o dei gay e delle lesbiche da parte degli eterosessuali, dei travestiti da parte di chi si veste in maniera convenzionale, eccetera. Allo stesso tempo era anche un complesso veicolo di identificazione: per le donne, attraverso un altra donna; per gli uomini eterosessuali attraverso una donna (eterosessuale) e per i gay attraverso l icona della femminilità. Con il passare del tempo, Diana arrivò anche a rappresentare le differenze razziali dal punto di vista delle minoranze britanniche, cosa che sarebbe stata inimmaginabile per il resto della famiglia reale, ancora ammantata di nostalgie imperiali. La cineasta Lucy Pilkington affermò dopo la sua morte: Era un outsider. Per questo i neri la amavano tanto. Sappiamo cosa vuol dire impegnarsi con tutte le proprie forze senza mai essere accettato. In più ai neri piaceva il fatto che fosse legata a un egiziano, Dodi al-fayed. Si può dire che Diana sotto molti aspetti era una donna nera («Independent on Sunday» 7 settembre 1997). Vale la pena rimarcare come, pur essendo figlia di un conte e moglie di un erede al trono, riuscisse a superare le divisioni etniche della Gran Bretagna post-coloniale meglio di chiunque altro. La gente ha attribuito alle fotografie di Diana una notevole varietà di significati. Un esempio è dato dallo scrittore Blake Morrison: L ho conosciuta una volta, durante un evento per raccogliere fondi a favore della croce rossa. Forse è esagerato dire che l ho conosciuta : ero in fila, insieme con diversi altri scrittori, e lei mi strinse la mano e passò oltre. Ma ho la fotografia: ha la testa leggermente abbassata per rendere gli occhi più grandi e mi guarda con Quello Sguardo, lo sguardo che dice (con una certa malizia) siamo uniti in questa causa, lo sguardo che ti faceva pensare a Byron ( così giovane, così bella, / così sola, affettuosa, indifesa ), lo stesso sguardo che sapevi aveva rivolto a tutti gli altri presenti in sala, ma che ti mandava a casa con la sensazione che valeva la pena impegnarsi nella beneficenza, che con un po più di sforzo si poteva rendere il mondo un posto migliore, più gentile e tollerante (Morrison 1997). La sensazione provata da Morrison non era una conseguenza dell incontro in sé, troppo breve per suscitare memorie o sentimenti, ma della fotografia. Diana vedeva il suo im-

18 340 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 341 pegno nella beneficenza come viaggi fuori città a incontrare i Tesco s 1 : vale a dire escursioni di un giorno a incontrare la gente comune. Quindi è difficile che i pensieri di Morrison venissero da lei. La fotografia, che funge da memoria sostitutiva di un incontro brevissimo, di fatto crea un incontro virtuale con Diana che non è mai accaduto, ma sarebbe potuto accadere. Come i fan di tutto il mondo, Morrison trova nella foto una propria serie di significati, partendo, come molti altri, dallo sguardo di Diana, lo sguardo diretto all insù dei suoi occhi azzurri, la testa leggermente chinata, che crea un intensa sensazione di presenza e bisogno sia negli uomini che nelle donne. Il suo sguardo porta Morrison, egli stesso un poeta, a pensare a Byron e poi a perorare la causa romantica di creare un mondo migliore. È uno scrittore troppo attento e intelligente per dire tutto questo senza una traccia di ironia inglese, ma io sono convinto che ci credeva davvero, almeno nell istante del suo incontro con la foto di Diana. Le fotografie in India Diana non è stata semplicemente un ricettacolo delle e- mozioni altrui. La sua capacità di trasformare una banale fotografia in un immagine carica di significato risaltò, nel modo forse più sorprendente, durante la sua visita al Taj Mahal nel Questo monumento all amore eterno è una tappa obbligata per tutti i turisti occidentali che visitano l India, e Diana durante la sua visita seguì le orme fotografiche delle molte celebrità che l avevano preceduta. La regina e il principe Filippo vi si erano recati durante la loro visita nel febbraio del 1961, ma al chiaro di luna, quindi non c erano foto dell avvenimento. La coppia reale posò invece per i fotografi accanto al cadavere di una tigre di più di tre metri, che lo stesso principe Filippo aveva ucciso. Accanto ai cacciatori ci sono due elefanti con le loro portantine, il mezzo di trasporto tradizionale dell élite imperiale. In effetti queste fotografie di cacciatori bianchi con le loro tigri erano raffigurazioni tradizionali dell immaginario Raj (Thomas 1995, p. 4). La foto- grafia del trofeo di caccia trascurava convenientemente di mostrare che il cacciatore aveva sparato alla tigre da una piattaforma rialzata dopo che, nelle parole del corrispondente di «Life», la tigre era stata portata a tiro dai battitori indigeni. In altre parole, gli indiani corsero tutti i rischi per permettere ai cacciatori bianchi di godersi un uccisione facile e senza pericolo. La stessa regina è in mezzo al gruppo, con la sua solita espressione austera e con in mano una videocamera, indicando che anche lei ha sparato alla tigre 2. Filippo è in piedi a sinistra e distoglie completamente lo sguardo dall obiettivo. La foto fu accolta molto male in patria; il «Daily Mirror» accusò il principe di aver sparato alla tigre in modo sleale, da una piattaforma alta otto metri e propose un analogia tra quella piattaforma e il divario tra la famiglia reale che caccia e uccide e il sensibile popolo britannico («Life» 3 febbraio 1961). Per rendere evidente questo divario, a Diana basterà essere se stessa. Nella foto di caccia alla tigre, la coppia reale appare distante, imperialista e non in contatto con il mondo moderno. Non si può dire lo stesso della successiva celebrità in visita al Taj Mahal, Jackie Kennedy. Anche lei visitò il Taj Mahal al chiaro di luna, ma ebbe cura di tornarvi anche di giorno, in modo da poter essere fotografata. L immagine fu pubblicata da «Life», a colori e a pagina intera; Jackie Kennedy è nella classica posa dei turisti che visitano il Taj, in piedi accanto alla panchina vicino alla grande vasca. Il monumento non si riesce a vedere per intero perché il fotografo ha posto Jackie leggermente sulla destra. Il risultato dà la sensazione che Jackie sia padrona dell immagine e dell edificio dietro di lei, come sottolinea elegantemente Wayne Koestenbaum: Come Versailles, o la Casa Bianca, il Taj Mahal è un monumento che misura la grandezza e sublimità di Jackie Kennedy. Fotografata di fronte ad esso, sembra minuscola, ma sembra anche che il Taj Mahal diventi la sua estensione, sua proprietà, suo mandatario, in modo che lei possa assorbire e rivendicare la sua grandezza. (Koestenbaum 1995, p. 102).

19 342 NICHOLAS MIRZOEFF LA MORTE DI DIANA 343 La fotografia non ci parla di amore e di memoria, ma di quell aria di autorità e rispetto che Jackie Kennedy e- manava così naturalmente. L immagine mostra come il suo vestito, a fantasia blu e verde acqua, si intoni perfettamente con i colori del Taj Mahal, così che, anche se la stampa un po sgranata non permette di vedere bene il suo volto, l intera scena sembra appartenere a Jackie. Mentre la famiglia reale britannica ha voluto a tutti i costi farsi rappresentare alla vecchia maniera coloniale, «Life» racconta che giorni dopo la sua partenza la gente la chiamava ancora Ameriki Rani, la regina dell America («Life» 30 marzo 1962). Trent anni dopo, toccò a Diana posare davanti al Taj Mahal, durante una visita ufficiale in India con il principe Carlo. Come Jackie Kennedy, visitò il monumento da sola, ma dando vita a immagini con una risonanza completamente diversa (vedi fig. 7.1). Si fece fotografare nello stesso classico punto, ma seduta sulla panchina invece che in piedi. Inoltre, le foto furono scattate con un angolo più ampio ed escludono la grande vasca di fronte alla principessa. Il risultato è che Diana, più che dominare il monumento come Jackie, ne sembra sovrastata. La sua figura è quasi un dettaglio nell insieme dell immagine, ma possiamo riconoscerne i tratti distintivi della testa leggermente inclinata e dello sguardo rivolto all insù. Senza l acqua della vasca, la massa di marmo bianco e il cielo terso danno una sensazione di calore oppressivo. Diana indossa un vestito comune, dai colori rosso e rosa che certamente non si intonano con quelli del Taj Mahal, e con questa discordanza sottolineano la sua solitudine. Dai servizi televisivi sull avvenimento si e- vince che, in effetti, c era un orda di cameraman e fotografi che riprendevano la principessa dall altro lato della vasca. Tuttavia, quelle foto divennero dei suggestivi tributi all amore perduto, ancora più efficaci per l uso di un cliché visivo come il Taj Mahal. Per il pubblico britannico, primo destinatario di questa foto, l ambientazione indiana era assai appropriata per il tema della perdita. Quella che Salman Rushdie ha definito Fig La principessa Diana al Taj Mahal. nostalgia imperiale era molto sentita negli anni Ottanta, grazie anche alla serie televisiva The Jewel in the Crown e a film come Passaggio in India che seguivano un approccio nostalgico. Queste risonanze imperiali erano, naturalmente, un tratto caratteristico del governo Thatcher, soprattutto dopo la vittoria nella guerra delle Falklands del Dieci anni più tardi, il governo di John Major non aveva più alcun sogno di gloria e la famiglia reale si apprestava a vivere quello che la regina definì il suo annus horribilis. La perdita che Diana simboleggiava al Taj Mahal non era solo la fine dei propri sogni di felicità coniugale, ma la disillusione di molti britannici, soprattutto di coloro che non avevano tratto benefici dall effimero boom economico degli anni Ottanta, accompagnato dalle ambizioni neoimperialiste della moderna politica conservatrice. L immagine di Diana fu così efficace, perché aveva la capacità di superare la demarcazione fra personale e politico in un modo che gli accademici, i politici e gli scrittori non sono mai stati capaci di imitare.

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