Padova, 24 novembre 2011 Incontro promosso dall Associazione dei Genitori e dall Istituto Romano Bruni

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1 Padova, 24 novembre 2011 Incontro promosso dall Associazione dei Genitori e dall Istituto Romano Bruni Presentazione del libro Di padre in Figlio, ed. Ares Lezione Testimonianza dell autore: prof. Franco Nembrini Righetto Andrea: Buona sera a tutti. Vi do il benvenuto a nome dell'associazione genitori e dell'istituto Romano Bruni a questo primo momento di incontro con il professor Franco Nembrini, rettore dell'istituto La traccia di Calcinate (BG). Mi piace sottolineare l'amicizia e la stima nata nei confronti degli amici de La traccia che è passata anche attraverso i nostri insegnanti e alcuni momenti di incontro come quello con il professor Nembrini nel 2009 e del 13 maggio 2010 con don Lucio Guizzo e con Giuseppe, Adriano e Giovanni, cioè con alcuni genitori della scuola di Calcinate che ci hanno portato la loro esperienza proprio in occasione della nascita della nostra associazione e del nostro primo momento pubblico. Questa sera il professor Nembrini ci presenta il suo libro Di padre in figlio e questo sarà il primo di tre incontri sul tema dell'educazione e del rischio educativo che sono previsti per il mese di marzo e di cui vi daremo comunicazione più precisa appena possibile. Prima di lasciare la parola al nostro professor Frizziero, che modererà la serata, vorrei ringraziare chi ha sostenuto e collaborato alla realizzazione di questa iniziativa: la banca FriulAdria, la cooperativa Dieffe e la Federazione delle scuole cattoliche Fidae. Lascio la parola al professor Martino Frizziero. Frizziero Martino: Attraverso alcune domande che porrò al professor Franco Nembrini entriamo in merito a chi sono i protagonisti dell'educazione così come ce li ha descritti in altri incontri e così come li ha descritti nel libro la cui presentazione è il tema dell incontro di questa sera. Si è sempre rivelato interessante ascoltarti per la provocazione che le tue parole hanno sull'esperienza di ognuno di noi come educatori cioè come insegnanti e come genitori. Sono certo che dopo quest'incontro si ritorna a guardare la propria esperienza con un accento di curiosità e di interesse nuovi, con un accento di novità. Prendo spunto dal titolo del libro e la prima domanda è relativa ad uno dei due protagonisti della partita educativa e cioè il figlio, l'alunno, il ragazzo. Nella nostra esperienza spesso abbiamo modo di incontrarne di vario tipo o ci accadono fatti di vario tipo con questi ragazzi e li vediamo magari a volte svogliati, disattenti, spesso fanno confusione, non ascoltano e ci viene in mente che la loro sia una generazione mutata, cambiata, insomma diciamo che non sono come eravamo noi. Nembrini Franco: Meno male! Frizziero: Allora rispetto alla tua esperienza, rispetto a tutto quello che hai avuto modo di vedere come insegnante, come padre, come educatore ti chiedo di descrivere questi ragazzi, se ci aiuti a riguardare questi figli, questi alunni, questi ragazzi. Nembrini: Buona sera. Sono un po' agitato non solo perché c'è molta gente, ma anche per un motivo più serio: non è la prima presentazione pubblica che mi capita di fare di questo libro e dico subito la ragione di un disagio che voglio condividere con voi. Quando l incontro finisce, mi ritrovo sempre con un gruppo, di solito di mamme, che mi fermano e ci si accorge di quanto dolore c'è, di quanta fatica c'è su questa questione dell'educazione e uno avrebbe voglia di star zitto perché di fronte a tanta fatica, di fronte a situazioni particolarmente dolorose e faticose anche solo per rispetto vien voglia di star zitto, anche perché risposte non ne hai, perché formule non ce ne sono e vi voglio dire subito, perché capiate il tono dell'incontro di stasera, che non sono venuto ad insegnarvi niente perché non ho niente da insegnarvi. Ho qualcosa, questo sì, da 1

2 raccontare. Il libro è nato così. Non so bene com è perché lo devo ancora leggere e spero di farlo il prima possibile. Il libro infatti non l'ho scritto, nel senso che consiste in una decina di incontri sbobinati e trascritti, come quello di stasera, chiacchierate che ho avuto occasione di fare con gli insegnanti nelle scuole o con gruppi di genitori. In questo senso non l'ho ancora letto. Per l'insistenza di alcuni amici che hanno ritenuto di un qualche valore le cose che raccontavo, è nata l'idea di fare questo libro il cui titolo, per dire la verità, non era questo, e nelle mie intenzioni doveva essere un altro. Abbiamo litigato con l'editore perché il titolo che avevo suggerito io era Ho visto educare proprio nel senso che dicevo prima. Cioè: non è che abbia chissà che da insegnare a qualcuno, ma certamente, questo sì, posso dire di avere visto nella mia vita l educazione in atto e mi sarebbe piaciuto potesse essere il titolo del libro. Ho visto si educare. Mi sembra, infatti, di aver goduto immeritatamente di un'esperienza di educazione, e cioè quella di avere avuto due genitori, come quelli che poi vi descriverò, e di aver potuto guardare loro in azione e poi di aver visto certi insegnanti, certi maestri e certi santi... Insomma: io ho visto tanto dell'educazione e poi ho provato a mia volta a tirar su quattro figli e anche nell insegnamento (questo è il mio 36º anno di insegnamento) ho provato a vivere così, a fare come avevo visto fare a questi grandi che ho avuto la fortuna di incontrare. Poi però mi han detto che Ho visto educare era un titolo criptico, difficile, la gente non avrebbe capito. Allora ne ho suggerito un altro che mi sembrava più graffiante, ho suggerito il titolo: Lasciateli stare ; sottotitolo A tutte le mamme d'italia in occasione dell'unità d'italia. Mi sembrava anche questo un titolo interessante. Mi hanno detto però che non l'avrebbe comprato nessuno, al che ho risposto che non lo avrebbero comprato le mamme ma l'avrebbero comperato i figli per regalarlo alla propria mamma. Non c'è stato verso. Alla fine è venuto fuori questo titolo, con questa copertina che ricorda un po' la Barilla o la Nutella, quei prodotti che fanno tanto casa. Ma, perché dico questo? Perché rispetto alla domanda che mi fai sui giovani d'oggi, mi sembra che vada detta subito una cosa secondo me assolutamente decisiva. - Portate pazienza, ma quando si fanno incontri come questo, uno, per brevità, rischia di essere un po' rozzo, di semplificare un po', ma è solo per non tirarla troppo in lungo.- Però una cosa mi sento di dirla con molta decisione e con molta forza che è questa: se voi mi chiedete che cosa penso dei ragazzi di oggi, che frequento veramente tanto perché ho molto a che fare con i ragazzi, in particolare con quelli delle superiori, in contesti anche molto diversi e non solo quelli della scuola, vi dico subito che sono fantastici! Cioè: se si comincia a mettere la questione su un piano di Ma che generazione! Ma come è difficile educare! Ma non eravamo così ai nostri tempi! a me sembra una grandissima menzogna, un alibi, una scorciatoia ingiusta: i vostri figli vengono al mondo esattamente come noi, come i nostri padri, come i nostri nonni e bisnonni, e forse fino ad Adamo ed Eva. I nostri figli vengono al mondo giusti, vengono al mondo fatti da Dio. In tutti e due i sensi: sono fatti da Dio e sono fatti bene, vengono al mondo esattamente come devono venire. Io ricordo sempre - è una battuta che potete rintracciare in un bel discorso del Papa alla diocesi di Roma, si tratta della lettera che fece sull'educazione nella primavera del 2008-: Guardate che i vostri figli vengono al mondo esattamente come cento anni fa, duecento anni fa, mille anni fa 1. Vengono al mondo giusti, vengono al mondo e da quando vengono al mondo fanno il mestiere dei figli. Hanno una caratteristica, che la Chiesa chiama cuore, che oggi viene chiamato desiderio. Ogni figlio d'uomo viene al mondo con un desiderio di vivere, di felicità, vuole essere contento, vuole essere sicuro che essere venuto al mondo non sia una disgrazia, una iattura. Ogni figlio cii chiede semplicemente di aiutarlo a camminare verso la felicità per cui si sente fatto. Ogni figlio d'uomo viene al mondo come promessa, la promessa di un bene possibile, di una felicità possibile, di un amore possibile, la promessa di una positività della vita. Questo è il figlio quando viene al mondo. Dico sempre: mi piace credere, mi piace pensare che i nostri figli, quando vengono al mondo - e vengono al mondo con questo desiderio, con questa attesa - fanno il loro mestiere, e il loro mestiere è: guardare sempre. I nostri figli ci guardano sempre. Sembra che dormano e invece ci guardano sempre. Mi piace pensare che sia così sin dal grembo materno, già da quando sono nella pancia della mamma è come se ci guardassero sempre. Giocano e ci guardano, vanno a scuola e ci guardano, ventiquattro ore al giorno sembrano persi nei loro pensieri, e invece ci guardano e con antenne misteriose, con dei sensori misteriosi che scavalcano e trapassano le parole. Pensate a quando un bambino ha un anno e le parole non servono, e lì invece si sta decidendo tutto, perché è proprio quando sono 1 LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI ALLA DIOCESI E ALLA CITTÀ DI ROMA SUL COMPITO URGENTE DELL EDUCAZIONE, Vaticano, 21 gennaio

3 piccoli che con dei sensori misteriosi percepiscono, assorbiscono qualcosa che noi gli trasmettiamo, sia che ne siamo consapevoli sia che no. Che vogliamo o no, noi testimoniamo una posizione davanti alla vita e questi figli, non so come, ma è esperienza credo di tutti i genitori, i figli avvertono, sentono e assumono una posizione di fronte alla vita che non è fatta di parole - dico sempre che in educazione le parole servono veramente a poco, a pochissimo - non è fatta di parole, ma che è proprio una testimonianza. Allora chiariamo subito questa prima questione: se vogliamo parlare di emergenza educativa, parliamone! Ma chiariamo subito che l'emergenza educativa non sono i figli ma sono i genitori, siamo noi. Se i figli vengono al mondo così come ho detto e fanno il loro mestiere, che è quello di guardare, il problema è che cosa vedono quando guardano, il problema è che cosa con i loro sensori avvertono man mano che diventano grandi. Il problema è dunque che adulti hanno di fronte, il problema è il papà e la mamma, il problema è che aria (dico sempre che quel che educa è l'aria che si respira è la qualità dell'aria, e la qualità dell'aria è data dall'intensità, dalla letizia degli adulti che la fanno, che abitano in quell'ambiente lì). L'emergenza educativa, se c'è, è l'emergenza di una generazione di adulti - scusate la franchezza, ma mi par proprio così - è una generazione di adulti che sembra non avere speranza sufficiente da dare ai propri figli. In questo senso vi faccio due esempi che mi sembrano efficaci. Uno lo traggo da un brano della Bibbia che mi sono imposto di citarlo tutte le volte che parlo di educazione. Da quando me lo fece leggere un mio amico prete, non ero ancora sposato, mi è rimasto impresso. E proprio un brano di un'efficacia insuperabile nel definire cos é l'educazione. E il brano con cui si chiude il capitolo sesto del Deuteronomio, che è un libro dell'antico Testamento (quando tornate a casa, guardatelo). E di una semplicità e di una chiarezza che ci lascia senza scampo, non ci lascia scampo. Dice così (vado a memoria): Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà che cosa significano queste norme, queste regole che il Signore nostro Iddio vi ha dato... 2 Cioè tradotto: quando tuo figlio arrivato a 11/12/13 14 anni comincerà a dirti: Caro papà, ma perché devo fare come dici te? Perché dovrei essere come tu mi suggerisci? Dove poggiano i cosiddetti valori che tu e la mamma mi suggerite di vivere nella vita? Chi ha detto che bisogna esser buono? Chi ha detto che si deve dire la verità? Chi ha detto che le donne bisogna trattarle in un certo modo? Chi ha detto che non bisogna essere furbi? Chi ha detto che non bisogna rubare? Perché? Capite? - Qui devo fare una precisazione importante: io sono cristiano e quindi parto da un'ipotesi, da un'esperienza che ho vissuto con i miei genitori, ma se qualcuno mi dicesse che qui non siamo cristiani e che siete tutti atei, mangiapreti, va bene lo stesso. Cioè direi la stessa cosa, vi sfiderei tutti a dirmi se è vero o se non è vero che l'educazione comunque funziona così, e cioè che tuo figlio ad un certo punto ti chiede proprio la ragione delle tue azioni. Su che cosa poggiano le cose che tu gli dici, i cosiddetti valori che tu cerchi di trasmettergli.- Bene: quando tuo figlio ti chiederà la ragione dei precetti e delle norme, quando tuo figlio ti dirà: Ma papà, ma mamma, perché dovrei seguirti? Perché dovrei fare quello che mi dici tu? Cosa gli rispondi? Perché te lo dico io? Perché lo dice la Chiesa? Sai cosa gliene frega? Perché lo dice la Costituzione?... No comment! C'è una sola possibilità di fondare i valori. Sapete qual è? Quello che dice la Bibbia in questo passo, e cioè l'esperienza straordinariamente positiva che della vita fa l'adulto che propone quei valori. Come dice anche il grande Dante: Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda 3. Ecco allora, quando tuo figlio ti chiederà così, dice la Bibbia, tu risponderai a tuo figlio così: eravamo schiavi del Faraone d'egitto e di là ci ha tratti il Signore con mano grande e potente, per darci la terra che aveva promesso ai nostri padri di darci. Così da essere felici come appunto siamo oggi. Per questo noi osserviamo... ecc, ecc. Capite? Tutto il problema dell'adulto è che di fronte al figlio (e fatte le dovute proporzioni, di fronte all'alunno) di fronte al figlio che chiede: Dammi le ragioni delle scelte che mi proponi, dei sacrifici che mi proponi, dei valori ; davanti al figlio che chiede di verificare ciò che gli dici, l'unica ragione possibile è la tua felicità, è la testimonianza di un bene che vivi tu, e che vivi tu non per lui, ma che vivi tu per te stesso. In questo senso è davvero fondamentale quel discorso del Papa che 2 Deuteronomio 6, 20-25: Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date? Tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l'egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato. (ed. Bibbia CEI) 3 Dante, Divina Commedia, Paradiso, XXVI, vv

4 identificava la parola educazione con la parola testimonianza. Non c'è altro da fare in educazione che questo: dare testimonianza che ciò che si insegna, che ciò che si suggerisce, che ciò che si chiede, lo si suggerisce per un'esperienza che si fa. E si sfida l'alunno o il figlio, man mano che diventa grande, a paragonarsi con un'esperienza di bene, con un'esperienza positiva. Lo dico in altri termini con il secondo esempio che è accaduto a me, anche se molti di voi me l'hanno già sentito dire, perché è il momento in cui io personalmente da padre ho capito un pochino che cosa fosse l'educazione. Una domenica pomeriggio stavo correggendo i temi di italiano, tutto preso dal mio lavoro - perché correggere temi e la croce e delizia degli insegnanti, è una cosa che fa anche abbioccare un pochino per cui uno si concentra molto -, avevo mio figlio Stefano che aveva 5 o 6 anni (adesso ne ho quattro e Stefano ormai compie 30 anni). Bene: mi ricordo che quel giorno tiro su la testa e al lato del tavolo, è un tavolo abbastanza grande, incrocio gli occhi di mio figlio. Era alto così e arrivava giusto al tavolo, vedevo solo gli occhi: fui impressionatissimo da quegli occhi. Mio figlio si era accostato a me e mi osservava un po' da lontano e un po' incuriosito, in silenzio, senza avere bisogno di qualcosa in particolare, cioè non era venuto lì perché aveva bisogno di mangiare, di vestirsi, di giocare o di qualcosa, ma osservava il papà che faceva il suo lavoro. In quello sguardo così silenzioso a me è parso di capire questo mi ha proprio trafitto questa cosa, è stato come un fulmine che ti attraversa il cervello - in quello sguardo mi è sembrato di sentire inespressa a parole una domanda terribile: era come se mio figlio, guardandomi così, mi chiedesse: Papà, assicurami che è valso la pena venire al mondo. Basta. Ti chiedo solo questo! Ecco: io credo che l'educazione cominci quando un adulto, guardando negli occhi suo figlio, o i suoi alunni senta una domanda così. Poi infatti non sono più riuscito a entrare in classe senza incrociare lo sguardo di trenta alunni e sentirmi detta la stessa domanda. In quello sguardo in cui mi sono sentito dire: Papà, ti perdono tutto, puoi sbagliare, possiamo essere poveri, ma assicurami che valeva la pena venire al mondo, testimoniami un bene possibile, testimoniami che tutto sto casino che è la vita - perché è un casino, perché è fatica - vale veramente la pena. A me sembra che i nostri figli, che questa generazione di ragazzi, sia proprio da questo punto di vista, mi viene addirittura da dire, meglio di altre. Nel senso che mi sembrano più liberi, più nudi. Ricordo che quando ho iniziato ad insegnare, nel 76, avevo 21 anni e avevo gli alunni di 17 e 18 anni. C erano allora guerre ideologiche e prima di riuscire ad incontrare uno davvero c'erano 12 muri da buttare giù, di qua e di là. Si era molto ideologici. Adesso questi ragazzi sono invece completamente disarmati. Certo: se mi chiedete in che cosa sono diversi oppure il perché si fa così fatica, c'è una ragione: questa è la generazione che più di tutte ho visto soffrire, questa è una generazione che soffre terribilmente nel tentativo di diventare grandi, soffre una sofferenza che ha una radice profonda e la radice profonda di questa sofferenza è una grande tristezza. Ma la tristezza che vivono deriva dall'assenza di una prospettiva, dall'assenza di un sentimento ultimamente positivo della vita e della realtà. La tristezza loro è figlia della nostra tristezza, è figlia del nostro cinismo. Poi ci stupiamo perché sembrano cattivi, ma non sono più cattivi di noi. Certamente non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi e allora questi ragazzi esercitano una strana forma di violenza, per altro anche esterna (basta pensare al bullismo, agli episodi che ogni tanto succedono), ma che per di più riversano contro se stessi. Soffrono di una violenza che gli si ritorce contro: si fanno del male in molti sensi, pensate alle crisi di panico, a questi fenomeni, ai disturbi alimentari, sono tutte forme di un rapporto difficilissimo con la realtà e con se stessi che ha però, mi pare, quella radice lì, quella radice di una incertezza rispetto alle cose. Dico questo perché qualche mese fa è successo che un ragazzo di sedici anni mi dice: Franco, alla tua generazione è andata bene, perché a voi vi hanno fregato la fede. E a voi cosa? dico io e lui serissimo mi ha risposto: A noi, invece, hanno portato via la condizione stessa della fede, cioè il sentimento della realtà - e ha aggiunto Vedi, Franco, per la tua generazione questo tavolo è un tavolo, per la mia non lo so. Ci avete lasciati soli con i nostri pensieri. Questa è al terribile definizione della maggior parte delle patologie di cui soffrono i nostri ragazzi: è una debolezza di rapporto con la realtà. Ho trovato, durante un trasloco, un quadernetto di quando ero in seconda media. Quando ero in seconda media ero già il quarto di dieci figli e mio padre, da un certo punto di vista, era la quinta essenza della sfiga: uno che fa dieci figli, che si ammala di sclerosi multipla a 42 anni, povero in canna, peggio di così... e invece trovo un quaderno, datato, quindi riconducibile all'anno della seconda media, dove con commozione ho trovato una pagina dove c'era scritta questa riga, quest'affermazione (chissà cos'era: forse un tentativo di scrivere una poesia, una canzone o una preghiera), avevo scritto questa riga: Signore, fammi essere come 4

5 mio padre. Adesso ho 56 anni e mi sto ancora chiedendo che cosa in seconda media mi ha fatto scrivere una cosa così. Quando ho letto quella frase lì, ho avuto una ventata di ricordi e mi sono ricordato benissimo di aver fortemente desiderato di essere come mio padre. Ma che cosa in seconda media, in quel contesto, in quel casino anche sociale, stava montando il 68, cosa faceva sì che io ragazzino potessi desiderare come obiettivo supremo della vita di essere come quello sfigato di mio padre? E mi viene da rispondere che mio padre mi attirava, mi incuriosiva e avrei voluto essere come lui perché sapeva le cose che nella vita era importante sapere: mio padre sapeva della vita e della morte, della gioia e del dolore, del bene e del male, della verità e della menzogna, e io intuivo (perché lui era uno che non parlava mai), capivo che dietro a lui avrei potuto camminare sicuro. Non sapeva parlare italiano, non sapeva molte cose, ma sapeva quello che nella vita è importante sapere e ci comunicava un sentimento invincibile della positività della vita, ci comunicava che la vita è bene, pur nel dolore, nella morte, nella malattia, nella fatica, nella privazione ma la vita è bene! Per questo giudizio tu ti sentivi di diventar grande tranquillo. L'educazione inizia quando ci si comincia porre il problema di questo sentimento della realtà. Frizziero: Su questo tema devi proprio aiutarci ad entrare. Nella figura di tuo padre tu hai visto una posizione positiva davanti alla vita, tu, da figlio, hai visto questo. Ora, anche i nostri figli e gli alunni ci guardano, dicevi, e cosa vedono? Allora siamo messi al muro, cioè siamo fregati! Ti chiedo: attraverso questo esempio di tuo padre che hai fatto, o con altri esempi, puoi mostrarci, descriverci questo tipo di atteggiamento, di posizione positiva che dobbiamo avere davanti alla realtà come insegnanti e come genitori, come padri? Nembrini: Sì, mi vien da dire che dobbiamo aiutarci a prendere sul serio la parola che abbiamo usato prima: testimonianza. A volte, un po' scherzando e un po' sul serio, di cose così ne racconto un'infinità. Uso questo slogan un po' provocatoriamente: il segreto dell'educazione è non avere il problema dell'educazione. Io ringrazierò sempre il mio papà, la prima cosa che in cielo gli dirò è Grazie papà! e lo ringrazierò di una cosa: che si è occupato della sua santità e non della mia. A me sembra che il grande segreto dell'educazione sia quello che mi ha mostrato mio papà: non aveva il problema di convincerci di niente, non ci voleva portare da nessuna parte, ha scommesso veramente nella sua assoluta semplicità (in questo senso dico è possibile per tutti), lui ha scommesso tutto sulla nostra libertà, sulla nostra ragione, è come se vivendo ci sfidasse continuamente. Eravamo bambini e avevamo un appartamento di 62 m², ed era un po' pochino lo spazio per dodici persone, anche dormire era un po' un casino perché c'era la cameretta delle femmine e poi la cameretta dei maschietti, con i letti a castello etc; alla sera i maschi si azzuffavano in camera, si tiravano i cuscini, uno piangeva e faceva dei capricci... quando mio padre entrava a farci pregare, non è che entrava per farci pregare, ma entrava per pregare lui e tu vedevi e sentivi quest'uomo che entrava e non si metteva a sbraitare: Fermi tutti: adesso si prega!, con il problema di far pregar noi. Si metteva in mezzo alla stanza, in ginocchio e cominciava lui a pregare: Padre nostro che sei nei cieli... e tu che stavi facendo il cretino con tuo fratello, ti zittivi necessariamente. Sono cose che ho capito dopo, sono cose che si capiscono da grandi, ma adesso capisco perché ci zittivamo: perché la domanda, che sorgeva spontanea, era una domanda di una curiosità religiosa e io mi chiedevo Ma chi è così grande da meritarsi mio padre in ginocchio? Chi è che si merita una cosa così? Deve essere, per fare inginocchiare mio padre che per me era l'uomo con la U maiuscola, una cosa gigante. E anch'io ero curioso di conoscere questa cosa grande. Era come succedeva con la mamma. La mia mamma andava a messa prima tutte le mattine. Non ha mai perso una messa se non stava proprio male o era in ospedale. Alle cinque, nei nostri paesi, c'era la messa prima (in realtà c'era anche la messa delle 3.00, ma era la messa del cacciatore, una messa variabile tra i quattro e i sei minuti e poi partivano tutti con i cani, compreso il prete, e andavano a caccia. Poi c'era la messa delle mamme). Mia mamma andava a messa alle Cosa faceva tutte le mattine? Tutte le mattine sceglieva un figlio, lo chiamava in silenzio per portarlo a messa, e quando toccava a te era una roba...! Era un onore, un'emozione, una roba incredibile: eri scelto da tua mamma per andare a messa. Certo, aveva la sua parte anche la cioccolata con panna che si poteva mangiare in quelle occasioni soltanto - il cristianesimo ha una sua prima convenienza, altrimenti non lo si capisce -. (Leggete S. Giovanni Bosco come parla della convenienza del 5

6 Vangelo). Allora tu, quando la mamma ti chiamava, eri tutto gasato, in silenzio ti mettevi le scarpe e si usciva con il freddo, nella neve per andare a messa prima. Io, la cosa che trattengo di più di quella messa, sapete qual è? Una cosa simile a quella che vivevo con mio papà, perché mia mamma era lì che t'insegnava le cose, ti insegnava a pregare, a guardare, a vedere e poi andava a fare la comunione col suo velo e quando tornava nel banco, per cinque minuti, non c'era più: con la testa buttata tra le mani, era come rapita, non gliene fregava più niente di te. Lei stava proprio davanti a un'altra Cosa. Io mi ricordo che le spostavo il velo senza darle troppo fastidio, perché prendevi un cartone che chi ribaltava nel banco. Però volevo guardare dove stesse guardando e non una volta sola l ho sorpresa in lacrime. Ma io venivo via da quella messa con una voglia di diventar grande per partecipare anch'io a quel mistero che si portava via la mia mamma, a quei cinque minuti che la rendevano però così radiosa, generosa, paziente, santa. Un bambino, quando ha dei genitori così, capisce che loro hanno una loro fisionomia, una loro strada, una loro fede che non hanno bisogno di convincerti di qualcosa. E come se ti dicessero: Figlio mio, guardami! Sono qui: guardami! Fa i tuoi conti, paragonati lealmente con quello che vedi in giro e poi decidi. Io ho cercato di tirar su i miei figli così. Non ho ricette da darvi, non ho suggerimenti, ho questa cosa da raccontare e ho provato a far così. Io non ho mai detto ai miei figli: Ragazzi, dovete pregare! Mai. Ho sempre cercato, sperato, pregato perché i miei figli sorprendessero me e mia moglie a pregare e mi sembra che abbia funzionato. Ricordo ancora quando una volta ho portato Andrea a prendere il treno e io non avevo mai chiesto ai miei figli di dire l'angelus 4. Quel giorno, al mattino, io e l Andrea siamo rimbambiti uguali, nei primi tre quarti d'ora della mattina abbiamo capacità cerebrale zero e quindi eravamo assonnati. Mio figlio Andrea, che faceva il liceo, come se mi dicesse Vuoi dell'acqua? mi fa Papà, ma tu hai già detto l'angelus stamattina?. Quasi svengo: non me l'aveva mai chiesto mio figlio. Poi abbiamo pregato insieme, ma sono rimasto sconvolto perché ho capito che lui aveva capito, aveva guardato, aveva fatto il suo lavoro, aveva guardato tanto. Allora probabilmente aveva sorpreso il papà e la mamma che dicevano l'angelus, ma solo perché ne hanno bisogno loro, perché sono più contenti loro, sono più capaci di perdonare loro, perché la vita è più giusta così, perché è più bello così, non perché Devo far dire le preghiere a mio figlio. Questo è una cosa interessante. Provate a immaginare questo applicato a tante piccole cose, a tanti accorgimenti con cui tiriamo su i figli: è infinitamente più decisiva la testimonianza che diamo, per quel che viviamo noi, di tutta la preoccupazione che abbiamo di farli diventare in un certo modo. Mi viene allora in mente un'altra cosa che è questa: se è così, allora vuol dire che ci sgombriamo la testa dalla preoccupazione che i nostri figli non vanno mai bene. L'educazione si può allora definire con una parola che a me piace tantissimo e che è la parola misericordia. L'educazione è una cosa per cui tu hai davanti quattro figli e 30 alunni e ti vanno bene così. Non ti vanno bene nel senso che non devono cambiare, che non devono crescere, che non devono imparare, capitemi: non sono ingenuo. Ma capite anche come è diverso che un padre e una madre dicano a loro figlio: Figlio mio, ti voglio bene! Cosa che non gli diciamo mai perché pensiamo che debbano capirlo per forza. Dopo di che gli rovesciano addosso, con ricatti morali pazzeschi, tutto il bene che gli vogliamo, per esempio: Tu non ti rendi conto... papà lavora per farti studiare... abbiamo fatto un sacco di sacrifici... E sti figli che non ne possono più che gli sia versato addosso in questo modo il bene che gli vogliamo. Invece diciamogli semplicemente che gli vogliamo bene, cioè che innanzitutto ci vanno bene così come sono. Voler bene vuol dire amare. L'amore, dice il Vangelo, è questo: che Dio ci amati per primi, mentre eravamo ancora peccatori. Perché se il buon Dio dopo aver aperto le cataratte del cielo, e aver guardato giù avesse detto: Che schifo. Ma cos è sta roba? avrebbe dovuto, se facesse come noi, avrebbe dovuto urlare: Oh, laggiù. Sentite: io vengo a darvi una mano, però prima almeno fate il vostro dovere.noi infatti diciamo ai nostri figli: Io ti voglio bene, però almeno studia. Io ti voglio bene, ma prima... Esigiamo una contropartita di un bene che non c'è. In fondo gli diciamo: Io potrei volerti bene quando tu sarai un po' di più come penso che tu debba essere. Ma un figlio, se si sente trattato così, soprattutto ad una certa età, scapperà, si difenderà da questa volontà di cambiarlo perché non va mai bene. Invece la possibilità di cambiamento, mi sembra - però ditemi se vi sembra esagerato- parta dal contrario, cioè bisogna perdonarli sempre ed è dentro questo perdono che nasce quella curiosità e anche quel desiderio di 4 L Angelus è la preghiera che ricorda l incarnazione di Gesù Cristo. Il papa la recita ogni domenica da piazza San Pietro. La Chiesa, tradizionalmente, indica di recitarla alla mattina, a mezzogiorno e alla sera. 6

7 essere degno dei propri genitori e perciò quella risposta positiva che mette in cammino anche un cambiamento di sacrifici e mette in cammino l'educazione. Cioè il punto di partenza è l'affermazione del bene dell'altro, è l'affermazione dell'altro fatta come misericordia, come gratuità di volergli bene. Invece ingenuamente facciamo il contrario. Apro qui una parentesi: non è che siamo cattivi, siamo tutti bravissimi come genitori. Piantiamola di pensare quello che vogliono farci credere (anzi come fanno credere alle mamme quelle riviste che leggono dalle parrucchiere, perché quello lì mi sembra il nodo culturale decisivo di un'intera generazione di mamme: letture schifose che gli insegnano che non sono brave a far le mamme), cioè che bisogna avere il team, che se tu non hai uno psicologo o almeno un dietologo, un prete - se sei cattolico - tu non sai tirar su i tuoi figli. Ecco, io mi permetto di dire (anche qui lo dico scherzosamente, in modo rozzo: so benissimo quando serve lo psicologo) che dobbiamo piantarla veramente di pensare di essere inadeguati. Non è vero! Siete tutti i migliori genitori possibili per i vostri figli. Si è fidato Dio a farveli mettere al mondo! Allora fidatevi un po' anche voi. Certo: abbiamo il problema di questa responsabilità, di questa capacità di speranza da comunicare ai figli. Noi diamo per scontato questa speranza, questo bene che loro fanno fatica invece a rintracciare in giro, ci siete? Allora dandola per scontata cosa facciamo? Cadiamo nell'equivoco in cui la cultura, ahimè, in cui siamo immersi ci fa cadere e cioè di usare come criterio di valorizzazione dei figli le loro performance soprattutto scolastiche. Mi sembra che un'intera generazione di madri - non ce l'ho con le mamme, però loro ne soffrono un po' di più - credono veramente che la scuola sia una roba seria, ci credono un casino cioè non si accorgono che tirano su un figlio per vent'anni facendogli credere seriamente che il suo valore di persona sia dato dal voto scolastico. Dal voto! Prima che dal voto, dalla scuola che sceglie: se sceglie un liceo vuol dire che sono stato un bravissimo genitore, come genitore ho funzionato proprio. Se sceglie un Istituto tecnico o un professionale i due genitori cominciano a dire: Porca miseria.... Se questo povero disgraziato di figlio, per caso, avendo scarsa o nulla attitudine per i libri - cosa che è una virtù - dovesse decidere di andare a lavorare perché gli piace fare il cuoco allora fallimento! Esaurimento: dall'analista sia la mamma che papà perché non ce l'hanno fatta a tirare su i figli. Capite? Ma provate a pensarci: ci sono dentro degli equivoci educativi terribili nelle mie battute. Io, grazie a Dio, ho dieci fratelli e facevo vedere ai miei figli la foto dove siamo tutti assieme e chiedevo a loro qual era lo zio che gli piaceva di più, e tutti mi dicevano zio Peppino, Giuseppe, perché è un po matto. L'idolo dei miei figli è quello che ha fatto la terza media a sberle, poi l'imbianchino e l'operaio. Allora dicevo ai miei figli di andare avanti pensandola così, vorrei che aveste davanti degli adulti contenti in modo che vi piaccia diventare come loro, non che è necessariamente dovete essere laureati o chissà cosa. (Ora, tra l altro, stanno studiando tutti e quattro lettere... che è una iattura. Proprio loro che mi dicevano: Tu papà hai fatto voto di povertà mettendo al mondo quattro figli e facendo l'insegnante hai fatto voto di miseria ). Però dovete discutere di questa questione della performance scolastica, dobbiamo parlarne, dobbiamo avere il coraggio di parlarne perché ci sono dei vizi da correggere importanti. I ragazzi fan fatica ad andare a scuola esattamente come noi facciamo fatica ad andare a lavorare. E, come dico sempre, te, mamma che vuoi tanto bene a tuo figlio, fai forse per il suo bene quella benedetta domanda da quando fa la prima elementare a quando fa la quinta liceo? Immaginate questo povero figlio, provato da cinque ore, chiuso in una stanza con 30 alunni, che si devono muovere nello spazio di circa 60 cm² di banco (sono alti due metri, hanno una fame della Madonna, tempeste ormonali) a sentire per cinque lunghissime ore dei deficienti che normalmente non gliene frega niente di loro e di quel che insegnano e che li bastonano, arriva finalmente a casa e finalmente depone il peso della vita, rappresentato dalla cartella, in un angolo - e lì già: Metti apposto la cartella! - mette a posto la cartella dicendo: Datemi questo benedetto piatto di pastasciutta. Arriva la pastasciutta, inforca la prima forchettata, e fin dalla più tenera età, appena messa in bocca la pastasciutta che cosa si sente chiedere dalla sua mamma che gli vuole tanto bene? Com'è andata oggi a scuola?, ma come faranno a non avere l'ulcera gastrica fin dall'adolescenza e turbe psicologiche notturne? Crepa se la mamma gli dice per una volta: Guarda che bel figlio che ho qui, e come mangia con appetito. Bravo: stasera premio! L'unica volta in cui ho litigato ferocemente con mia moglie è stato proprio per una cosa così. Ho fatto sempre una vita molto garibaldina e per alcuni anni sono riuscito mediamente a essere a casa una sera alla settimana (se volete ne parliamo dopo di questo: ho avuto quattro figli maschi e Dio mi ha benedetto anche in questo, però se ci fossero qui vi direbbero quello che un giorno mi hanno detto con mia grande sorpresa quando gli ho chiesto espressamente: Quando vado in giro a parlare ci sono sempre dei genitori che mi 7

8 contestano e mi dicono che bisogna essere presenti. Vi chiedo: ma quando andavo in giro, voi sentivate la mia mancanza in quegli anni lì? Loro mi hanno risposto: No: tu c'eri! Mi hanno spiegato che la percezione che hanno di quando erano bambini è che io c'ero, mentre invece fisicamente non c'ero e questo per tante ragioni. Una è sicuramente questa: che ho avuto la grazia di sposare una che si chiama Grazia, che lo è di nome e di fatto, e che al posto di dire: Quello stronzo del papà non c'è neanche stasera. Cosa che mediamente si farebbe, diceva ai nostri figli: Dobbiamo ricordarci del papà perché è andato dove c'è bisogno. L'ho mandato io. Non ha mai detto ai figli è andato via contro di me ha sempre detto l'ho mandato io perché là c'è bisogno. Ecco, quando c è una donna così ti puoi permettere di stare a casa anche una sera alla settimana. Voglio solo che si capisca che c'è un modo di intendere la vita che facilita molte cose e su questo dopo vale la pena fare un'osservazione...) Vi dicevo che ho litigato con mia moglie una volta sola, questo è l episodio: arrivo a casa e siccome era saltato un convegno a Roma, mi sono trovato improvvisamente un mercoledì libero, l agenda bianca. Ero entusiasta, sono arrivato a casa e dico ai miei figli: Ragazzi, è successo un miracolo: mercoledì ho la giornata libera. Andiamo a fare un bel giro in montagna! Mia moglie ha osato dire: C'è la scuola.... Cosa c è?...la scuola? Cioè io, con la vita che faccio, riesco a cavarmi una giornata, riesco portare i figli in montagna per una intera giornata e l'obiezione che mi fai è che c'è la scuola? Ma tu ti rendi conto che se questi quattro qui non andassero a scuola per un mese non cambierebbe nulla? Ma tu che giudizio di valore hai sulle persone, sulla famiglia, su quel che vale, quel che non vale? Rimettiamo a posto le cose, diamo alle cose il loro peso! Che mia moglie mi avesse detto così mi ha fatto proprio tristezza, mi sono proprio arrabbiato. Ma che proporzione hai delle cose? C'è la scuola? Solo se sei malato uno può pensare una cosa così, a fronte delle possibilità di una giornata insieme con il loro papà che ha una voglia matta di stare un po' con loro! Era per fare un altro esempio di un criterio che poi dà proprio forma alla giornata, all'uso del tempo, dei soldi, allo stare con gli amici. Si capisce? Frizziero: Volevo dirti che mi chiamo Martino, faccio l'insegnante, insegno in una scuola... A parte gli scherzi: mi sembra valga la pena che tu ci possa spiegare anche la partita che c è tra scuola famiglia. Che aiuto reciproco ci si può dare a questo livello? Perché mi pare che questi esempi siano eclatanti e descrivono un certo modo di stare davanti ai propri figli. Però credo anche (da quello che vivo nel liceo dove insegno o che ho incontrato come esperienza educativa) che ci sia la possibilità di condividere tra genitori e insegnanti questo modo di stare davanti ai ragazzi e davanti alla vita. Tra l altro tu hai messo su una scuola, sei rettore di un istituto. Come fai la tua scuola? E come traffichi queste cose che ci hai detto anche a livello scolastico? Nembrini: Dalla tua domanda capisco che possiamo rischiare di non intenderci perché dico cose decisive in modo forse troppo semplicistico. Spero che mi capiate bene e di non essere frainteso su ciò che ho appena detto. Quel che dicevamo prima sulla questione dell'adulto è veramente fondamentale. A me sembra che, se abbiamo il coraggio di mettere a tema la questione dell'adulto come stiamo dicendo questa sera, si capisce di più anche tutto il problema del lavoro, della famiglia e del ruolo della scuola. Io non ci credo più quando si parla del dialogo tra le due istituzioni. Mi sembra che siamo arrivati ad un livello di crisi tale per cui le tre istituzioni tradizionalmente deputate all'educazione (Chiesa, scuole e famiglia) stiano una peggio dell'altra. Invece si può parlare di una ripresa di dialogo tra scuola e famiglia solo se si riprende la responsabilità di ciascuno. Cioè: qui siete in cinquecento, seicento. Immaginate se da domani mattina seicento persone a Padova fossero consapevoli della loro responsabilità, fossero lietamente impegnati nella vita, contenti e non lamentosi o perennemente incazzati sempre contro qualcuno. Se sei, settecento persone a Padova, domani mattina, si muovessero per la città fischiando si vedrebbero! Io sono sicuro che se i ragazzi che stanno nei parchi cittadini o sulla piazza e a fare le vasche, a bighellonare (quei ragazzi che vediamo per strada così persi, così soli) vedessero uno e due o tre, e la mamma che va a far la spesa, il vigile, il fruttivendolo e il tranviere, gli operai contenti della vita, io credo che i giovani di Padova comincerebbero un tam tam, magari su facebook, chiedendosi che cosa sta succedendo a Padova dal momento che si vede una generazione di adulti contenta della vita. Vi giuro che lo registrerebbero. Quindi io credo che se c'è una possibilità di ripresa di dialogo, sia questa: che devi cominciare tu, perché se aspetti il dialogo tra scuola e famiglia, aspetti invano, ma se 8

9 cominci tu, mi sento sicuro di dirti che scopriresti proprio, magari là dove non te l'aspettavi, troveresti proprio lì un alleato inatteso. E viceversa se l'insegnante cominciasse a dire queste cose, a star dentro la scuola così, a chiamare le cose con il loro nome, scoprirebbe dei colleghi che non vedono l'ora di star con i ragazzi così, di spendersi nel lavoro così, e ne nascerebbe una rete, un movimento, un onda di bene e di rapporti, di iniziative e si rimetterebbe in movimento qualcosa. Io credo che possa nascere solo così. Disse una volta Giovanni Paolo II, quando parlava di San Benedetto da Norcia, (una frase che m'impressionò tantissimo) che i monaci medievali pensavano fosse necessario che il quotidiano diventasse eroico e l'eroico quotidiano 5. Ecco sono tempi così: sono tempi di eroi, nel senso di gente che eroicamente, e in modo deciso, prenda sul serio la vita, prenda sul serio il fatto di avere dei figli, prenda sul serio il fatto di essere insegnante, prenda sul serio questa terribile meravigliosa responsabilità che è l'educazione nei termini che abbiamo detto questa sera. Non fosse altro che per una ragione e che cioè mi sembra che oggi la famiglia da sola - in questo senso vi dico che non sono un ingenuo e che mi accorgo dei problemi - non vada da nessuna parte se non è sostenuta. Quando ero piccolino io (ma sarà successo anche qui immagino, visto che il Lombardo-Veneto si assomigliava un po' tutto) se andavo in giro per il paese e facevo una cavolata e il macellaio, che era appoggiato fuori dal suo negozio a fumare una sigaretta, mi vedeva fare il cretino, mi piantava un cartone che non avete idea; e non andava a chiedere il permesso alla mamma e al papà, anzi: mi guardavo bene io dall'andare a casa a dire che avevo preso un cartone dal macellaio perché ne avrei presi altri tre. La sensazione che io avevo da bambino era che gli adulti fossero alleati nell'educarmi. Io guardavo, ma mi sentivo anche guardato sempre dal prete, dalla suora dell'asilo, dal macellaio, dal fruttivendolo, dal vigile. Il paese collaborava al compito della famiglia. (Mi chiedo ancora adesso una curiosità che mi si svelerà solo in paradiso e cioè come diavolo facesse mia madre, la sera, a sapere tutto. Non c'era neanche il telefono e tu arrivavi a casa e tutte le cazzate che avevi fatto, le sapeva già. Le mamme sapevano tutto). C'era questa solidarietà; oggi non c'è più e la famiglia da sola fa più fatica. Questo è molto interessante e ho dovuto impararlo a mie spese, sulla mia pelle. Mio figlio Andrea è uno bello tosto. Per descrivervi il tipo vi racconto questo episodio: siccome mia mamma e la mamma di Grazia sono morte presto, allora facevamo recitare ai bambini la preghiera della sera: Nonna Anna, nonna Clementina aiutateci a diventare dei bravi bambini. Quando Andrea aveva tre anni, eravamo a messa e c'era fuori il baracchino delle caramelle, e lui pesta i piedi perché vuole le caramelle e io gli dico: Certo però Andrea, se tu fossi un po' più buono come sarebbe più facile anche per il papà e la mamma accontentarti!. Risposta: Papà, glielo chiedo tutte le sere alle nonne di diventare più buono, ma, secondo me, quelle due se ne fregano!. Allora, mio figlio Andrea, in seconda liceo, viene a casa alla sera tutto pensieroso e mi dice: Papà, ma tu ci stai tirando su normali? La questione è seria perché ogni tanto mi chiedo se tu e la mamma mi tirate su abile alla vita sociale. Perché, in un mondo che dice tutto il contrario di quello che mi dite voi, io ho paura di entrare. Tutto mi dice il contrario e ho paura di essere una mosca bianca, ho paura di essere inabile ai rapporti sociali. Quando un ragazzo di seconda liceo si fa una domanda così, è una domanda serissima. Mi ricordo bene che io e Grazia ci fermammo proprio quella sera a parlare perché ci siamo chiesti che cosa ci stesse chiedendo Andrea facendoci quella strana domanda. Evidentemente ci stava dicendo più o meno così: Non mi bastate voi due, non mi basta la testimonianza che mi date voi due. Mi serve che mi facciate vedere che c è un mondo intero che funziona come dite voi, altrimenti io, fuori di qui, sono morto. È stato interessante perché proprio in quel periodo avevo incontrato padre Bepi Berton 6, missionario in Sierra Leone, l ho conosciuto occasionalmente a Rimini. Era il Mi aveva raccontato che stava facendo un lavoro enorme con i bambini soldato. La guerra era finita da un anno e lui si stava occupando dei bambini soldato: una delle cose più terribili che abbia incontrato in vita mia. In quell occasione mi dice che sta per diventare vecchio e che avrebbe bisogno di una mano. Mi chiede di ospitare un ragazzo per un anno in modo che imparasse l'italiano e che poi lo aiutasse nel suo lavoro di missionario. Io ho detto subito di sì. Questo ragazzo viene su in Italia e per un anno rimane da noi. Nel Natale 2002 torna a casa e prima di partire ci chiede con 5 Giovanni Paolo II, Omelia nel millecinquecentesimo dalla nascita di S. Benedetto, Norcia, 23 marzo Padre Giuseppe Berton, Bepi per gli amici, nato a Marostica nel 1932, da oltre 40 anni è missionario saveriano in Sierra Leone. Ha fondato il Family Homes Movement (F.H.M.), è una ONG locale che si occupa dell'assistenza e dell'educazione dei ragazzi e bambini di strada. 9

10 molta insistenza di andare giù, ci promette di farci conoscere la sua gente, il suo paese, ci dice che è un bel posto, che c'è un albergo quattro stelle, la spiaggia e il mare (evidentemente c'ha raccontato un sacco di balle). Allora con Grazia abbiamo pensato di andare a riposare un po in Africa. Siamo arrivati giù e l'albergo doveva essere stato un albergo molti anni prima, in quel momento era un vecchio, cadente, marcio e fatiscente centro di raccolta per i bambini soldato. Fatto sta che siamo andati giù, siamo tornati a casa e siamo diventati matti nel tentativo di fare qualcosa. Così siamo tornati di nuovo in Sierra Leone e abbiamo costruito una scuola: prima le elementari, poi la secondaria e adesso è la seconda scuola più importante della sierra Leone con millequattrocento ragazzi (ci hanno aiutato in tanti amici, l AVSI 7, etc...). Quando siamo tornati su e abbiamo iniziato a darci da fare per aiutare padre Berton, il commento più benevolo dei nostri figli è stato: Ci mancavano solo i neri dell Africa. Allora cosa fai? Ti metti a parlargli dei negretti dell'africa? Sai cosa gliene frega? Allora abbiamo preso la palla al balzo e negli otto anni successivi abbiamo passato il Natale in Sierra Leone facendoci prestare i soldi, se necessario, perché costa andare giù in sei, ma io non potevo fargli discorsi sui negretti dell'africa: i miei figli avevano il diritto di vedere e mi impressionò perché è stata come la risposta della Provvidenza alla domanda di Andrea che chiedeva di fargli vedere che c'è un mondo così come dicevamo noi. Mi ricordo che Stefano, nel ritorno con l'aereo, mi disse: Papà ti ringrazierò per sempre perché mi hai fatto vedere un pezzo di paradiso all'inferno. Si riferiva alla missione di Berton. Allora quando un figlio ha visto una cosa così e ha questo giudizio non glielo porta via nessuno. Capite? Allora ti sforzi di inventare delle cose di questo tipo. Per esempio un giorno, per la prima volta, a tavola dissi ai miei figli: Tra un po' è il giorno dei santi. Voi conoscete qualche santo che lo andiamo a trovare? Se è il giorno dei santi andiamo a trovare qualche santo. A me sembrava di aver fatto una battuta un po' da pirla. Invece loro mi hanno preso sul serio. Andrea mi disse: Bella idea. Io conosco un santo. Rimasi lì un po' perplesso. E lui serissimo riprende: No, no. Io lo conosco: è un ragazzo che ho conosciuto a lavorare negli alberghi dei nostri amici di Padova, è di Riva del Garda e adesso è ammalatissimo.pensate che è morto qualche mese dopo. Così siamo andati a trovarlo ai primi di novembre ed è morto a fine mese. Siamo andati a trovarlo e quando siamo tornati, io non ero più come prima, tutta la nostra famiglia non è più stata come prima. Avevamo conosciuto una persona eccezionale, un ragazzo che ormai stava arrivando alla fine e non poteva più parlare. L Andrea gli voleva un bene... l'aveva conosciuto relativamente bene per le questioni del lavoro e poi per motivi dell'università, si erano incontrati poco ma aveva un attaccamento per questo ragazzo incredibile. Lo conosceva solo Andrea, ma poi siamo diventati tutti molto amici di questa famiglia. Quel giorno lo ricorderò sempre: era paralizzato, non parlava più, poteva solo scrivere su un foglio. Quando la sua mamma, al telefono, aveva detto ad un'amica: Sono distrutta dalla fatica, è stata una settimana d'inferno perché è stato molto male, anche di notte... lui si è agitato tutto, si è fatto portare carta e penna ha scritto a sua madre, che si lamentava perché era stato una settimana d'inferno: Parla per te. Quando incontri un ragazzo così e vivi questo incontro come un gesto della famiglia che va a vedere una cosa così, la tua famiglia, quando torna a casa, non è più quella di prima. C'è poco da fare: i tuoi figli non sono più quelli di prima e tu non sei più quello di prima. Certo, capisco bene che è dura andare dietro all'africa, andare dietro ai santi, ma è un modo con cui si usa il tempo, il denaro, le ferie, è il criterio con cui si sceglie la macchina, si sceglie di fumare o non fumare, è un modo di vivere questo. In questo senso l'educazione ha la pretesa di cambiarti la vita, tanto in famiglia quanto a scuola, perché a scuola è la stessa cosa. Da questo punto di vista l educazione, come l'abbiamo descritta stasera, funziona così, ha queste caratteristiche strutturali tanto a scuola quanto in casa, anche nei rapporti tra gli uomini, perché ditemi cosa abbiamo fatto stasera se non l'educazione? L'educazione non è una roba che fanno i genitori o gli insegnanti. L'educazione è il mestiere dell'uomo, è il proprium degli uomini. Gli uomini, a differenza degli animali, si educano cioè si fanno compagnia verso il destino. Hanno dentro quella promessa di bene e di felicità e vorrebbero che si compisse e in questo si aiutano. Si chiama educazione l'aiuto che gli uomini si danno a camminare verso il destino, verso il compimento di sé. In questo senso mi permetto di dire che pur nelle differenze specifiche tra scuola, famiglia e Chiesa le cose che abbiamo detto stasera mi sembra abbiano un valore in tutti questi ambiti educativi. 7 La Fondazione AVSI è un organizzazione non governativa, ONLUS, nata nel 1972 e impegnata con oltre 100 progetti di cooperazione allo sviluppo in 38 paesi del mondo di Africa, America Latina e Caraibi, Est Europa, Medio Oriente, Asia. 10

11 Lasciatemi dire un altra cosa per spiegare lo specifico della scuola: la scuola ha il compito di educare, cioè di accompagnare al loro destino i ragazzi, cioè di testimoniare un bene possibile per sé attraverso quelle vie, quelle strade straordinarie che sono le discipline. Se mi si dovesse chiedere: ma il proprium della scuola qual è? Direi: è tutto quello che abbiamo detto questa sera, vissuto nelle discipline. L'amore per te stesso, l'amore per le cose che hai studiato ed insegni testimoniato a dei ragazzi di 11 anni è il compito dell'insegnante. Prima ho fatto leggere a Martino una lettera con cui potremmo chiudere. Mi è arrivata una ventina di giorni fa, ma mi sembra una sintesi di tutto quello che abbiamo detto stasera o perlomeno di tutto quello che io ho pensato dell'educazione. Per chiarezza, un dato: io sono insegnante di scuola statale. Nell'83, quando bussarono alla mia porta cinque papà disperati che volevano fare una scuola che aiutasse la famiglia, io ho fatto una cooperativa per fare una scuola che si chiama La Traccia, ma ho continuato a fare l'insegnante di scuola statale. Sono insegnante di scuola statale e da genitore ho costruito una scuola ho fatto una cooperativa scolastica che per 15 anni ha fatto solo le medie. Poi per una serie di vicissitudini è diventato un centro abbastanza importante in questo paesello, Calcinate, e adesso è una scuola con elementare, medie e tre licei (scientifico, artistico, linguistico). L'altra sera mi succede che arriva un tizio che ho fatto fatica perfino a riconoscere ed era un ragazzo che aveva fatto le medie alla Traccia quindici anni fa. Adesso ha 27 anni ed è avvocato. Non lo vedevo da dieci anni e mi dice: Guarda, Franco, sono venuto a trovarti perché ho proprio avuto bisogno di venire a ringraziarti e a ringraziare gli insegnanti della scuola perché, adesso che ho ormai 27 anni, e tiro un po' un bilancio di questa prima fase della mia vita, io capisco che... e mi dice una serie di cose. Io gli dico: Ascolta, scrivile perché è troppo importante per noi che facciamo scuola, che facciamo educazione, vedere che cosa può succedere. Questo qui era un disgraziato, se mi aveste chiesto prima di quindici giorni fa che ricordo avessi di lui era che ci aveva fatto tribolare non poco. Ma veramente da quello che ci ha detto e che adesso vi leggo, si deduce una cosa importantissima in educazione: che è un mestiere da seminatore e non da raccoglitore. L'educatore semina; solo Dio e la libertà sanno che cosa avverrà di questi semi. Vi leggo solo le parti essenziali, senza fare riferimenti particolari alle persone: Agli insegnanti della Traccia. Ci sono momenti dell'esistenza in cui è naturale fare un bilancio della propria vita e ad un simile giudizio è spesso necessaria un'auto-indulgenza, una capacità di volersi bene, di guardarsi con tenerezza. Un simile sguardo non lo si può imparare a tavolino, bisogna essere stati oggetto di uno sguardo compassionevole. Se mi fermo a pensare al mio passato mi vengono in mente i volti a cui ho la fortuna di poter dire grazie perché mi sento pienamente loro figlio e la coscienza della figliolanza è il termine naturale di ogni percorso educativo perché io sono figlio del maestro che mi ha trasmesso il suo sapere, figlio di genitori che mi hanno nutrito ed amato, figlio degli autori che ho studiato. Potrà sembrare strano ma sono arrivato al termine di un percorso all'età di 27 anni per capire che la mia struttura umana è stata plasmata da un'educazione ricevuta da questo sguardo amorevole su di me. Non trovo altro modo per definire i tre anni della Traccia dove ho frequentato le medie: hanno forgiato il modo di vedere, di vivere che non mi ha più abbandonato, anzi, è diventato termine di paragone per giudicare tutto quello che nella vita mi è successo. Le ore di Matematica testimoniavano un ordine della realtà che si ripercuoteva e veniva riconfermato nell'ora di Scienze, nelle gite, negli esperimenti e nelle cose. L'ordine degli appunti con cui ci veniva richiesto di stenderli alle medie, è diventato l'ordine con cui cerco ancora oggi i nessi logici degli istituti giuridici che studio, anzi: questo amore all'ordine ha fatto nascere in me il desiderio di un ordine perfino nei rapporti, nella vita, da adulto. Ma questo bisogno d'ordine non bastava. Non sarei quello che sono oggi se un giorno, durante una lezione di narrativa, l'insegnante di Italiano non mi avesse detto, commentando un passo di Pinocchio, che un pezzo di legno non è solo un pezzo di legno perché può diventare un bambino. L'ordine che apprendevo in Scienze, Matematica acquisivano profondità sovrumana. Tutta la realtà diventava improvvisamente sacra, segno di un ordine misterioso, di una positività da scoprire che un professore metteva improvvisamente nelle mie mani. Il cielo non sarebbe più stato lo stesso: avevo fatto l'esperienza della fede. Non sta parlando di Gesù, della Madonna, dei sacramenti: sta parlando di Matematica e Scienze e dice ho fatto l'esperienza della fede perché mi è stato testimoniato nelle discipline un ordine, una positività del vivere che è la fede. Pensa ancora quell'ora ecc, ecc, e poi dice in un passaggio memorabile: Quante volte nella vita da adulto non sono poi stato all'altezza della dignità che mi venne riconosciuta in quegli anni. Ma ci pensate? Da 11

12 adulto non sono poi stato capace di vivere quella dignità che quei professori mi riconobbero in quegli anni quando avevo 11, 12, 13 anni. Imparavamo la grammatica e diventava il linguaggio con cui pensare ed è incredibile che nella nostra classe di bambini fossimo trattati da subito come degli uomini. Incredibile che alcuni professori investissero su di noi tutto, fino a porci senza esitazione davanti alla domanda più importante della vita dell'uomo: quella sul senso dell'esistenza in questa ricerca che è l'insegnamento. Nelle ore di Musica, Tecnica, Italiano, Scienze, Storia, Arte siamo stati accompagnati per mano e il messaggio era sempre lo stesso: valeva la pena appassionarsi allo studio perché le diverse materie erano una particola di senso, un avvicinarsi al significato delle cose. La Traccia ha gravato la mia vita del dono più grande: ha destato in me il desiderio di verità, il bisogno che la vita e la morte siano illuminati da un senso. E un'eredità incredibile, tremenda, un pesante fardello da sopportare perché un desiderio, una volta destato, diventa insopprimibile. Da quel momento in poi non ho più potuto fare il bene o il male senza sentire il contraccolpo della coscienza. Credetemi: alle volte si preferirebbe non averla mai sentita questa verità perché ha investito la mia esistenza di un senso di responsabilità di cui a volte farei volentieri a meno. La responsabilità di non negare niente di quel che la vita mi mette davanti. Ricorderò solo una circostanza: una mattina l'insegnante ci portò nell'aula dei Padri, perché allora era all interno di un seminario, davanti al feretro del custode, morto quella notte. Quel giorno non facemmo lezione. Eravamo bambini messi davanti alla vita e alla morte, ma mai abbandonati. Niente ci venne negato per un immorale senso di protezione. La Traccia non è stato il paese dei balocchi. Ricordo ancora l'inquietudine che destò in me la vista di quell'uomo: avevo 12 anni. Ora capisco che nulla ci venne risparmiato, nessuno ci ha illuso coprendoci gli occhi, ma il valore di quell'esperienza fu nel non essere lasciati soli davanti al segno tangibile del nulla perché un maestro era lì con noi. Allora quando tu, quindici anni dopo, hai un ritorno così, capisci che tutti i sacrifici, tutte le privazioni per tirar su dei figli davanti a maestri così, per offrire ai figli una possibilità così, valeva la pena e se tornassi indietro faresti cento volte di più perché una cosa così non ha prezzo. Un'ultima battuta: non sarebbe detto tutto se non dicessimo questa parola. La parola libertà. Cioè tenete presente che in educazione non c'è niente di automatico, non c'è niente di meccanico, non c'è niente di dovuto. A genitori santissimi e bravissimi potrebbero corrispondere dei figli disgraziati che danno problemi o viceversa perché la libertà è una cosa seria. Da questo punto di vista la grande ferita, il grande rischio, la grande sfida dell'educazione è un amore alla libertà così grande da accettare anche il no dei figli, il no dell'alunno, il no dell'amico perché nulla ci è dovuto. In educazione il risultato non è dovuto in automatico. È proprio un frutto che stupisce sempre perché è un frutto della libertà. Ci sono delle pagine del mio libro dove spiego queste cose con la parabola del figliol prodigo. Tenete presente questo che non ci è dovuto nulla perché la libertà resta, anzi, forse, l'educazione si potrebbe dire che è l'educazione di questa libertà. Dove porterà non sta a noi deciderlo. Grazie. Righetto: ringrazio Franco per la sua testimonianza e vi invito ad annotarvi che nel mese di marzo Nembrini verrà di nuovo a Padova e svolgerà tre lezioni sul rischio educativo. Grazie a tutti e buona serata. 12

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