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2 Parrocchia di San Giovanni di Querciola... Ecco vi annuncio una grande gioia anni della Casa della Carità ( )

3 Casa della Carità San Giovanni Querciola Dedicata al 3 Mistero Gaudioso: La Natività Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l angelo una moltitudine dell esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama. (Lc 2, 11-14) La nascita di Gesù, a Betlemme (Casa del Pane) in un estrema povertà. Gli uomini non hanno posto: ma non è solo per questo che Gesù nasce povero: è anche per scelta sua personale perchè exinanivit semetipsum, cioè scelta di privarsi di tutto oltre che di annientarsi per indurci a credere solo nella Grazia divina e non nei mezzi umani e naturali: che non disdegnerà, ma che ne userà con supremo distacco. E segno di santificazione e di grande illuminazione per Maria, Giuseppe, i pastori e i Magi. (Un Rosario per ogni giorno) In copertina la vecchia Casa della Carità con il teatrino e il bar parrocchiale (1947) 3

4 Grazie per questi 60 anni

5 Volentieri accolgo l invito a scrivere una lettera a mo di prefazione al libro che è stato pensato per il 60 della Casa della Carità di San Giovanni di Querciola, preparandomi così anch io alla festosa celebrazione del 12 agosto prossimo. Fare memoria dell apertura della Casa di San Giovanni, la prima dopo l Ospizio di Fontanaluccia, significa rievocare, come qualcuno ha scritto, il primo faticoso ma sicuro passo per le vie del mondo delle Case della Carità, fiorite, com è noto, fin nelle nostre missioni. Quell avventuriero della carità che fu don Mario Prandi avrebbe potuto allargare l Ospizio della propria parrocchia e farne un grande centro, come ne sono sorti in altre parti d Italia. Invece don Mario, già un anno dopo le prime Suore, in una lettera filiale al mio predecessore, il vescovo Edoardo Brettoni, sognava un attuazione simile all Ospizio in molte altre parrocchie. Fare memoria della Casa di San Giovanni, vuol dire ricordare quella figura di santo parroco, don Giovanni Reverberi, che la sera del 24 novembre 1947, davanti a Sr. Gemma e a Sr. Giuseppina, accompagnate per l avvio da Sr. Maria, nella semplicità e nella gioia vide compiersi il suo desiderio di avere una casa come quella di don Mario nella propria parrocchia, potendo mettere a disposizione solo i locali adibiti nel medesimo tempo ad asilo dell infanzia. Con le Suore che qui hanno messo su casa con i più poveri, con don Reverberi e tutti i benefattori, vorrei ricordare inoltre per nome don Zeffirino Rossi, deceduto nel febbraio 2006, vostro parroco per diverso tempo e che avrebbe festeggiato anch egli il 60 della sua Prima Messa qui a San Giovanni; l ormai novantenne don Mario Predieri, partito da questa Casa per la missione del Madagascar, dove nel 1991 vi è ritornato come prete. Vorrei concludere con un saluto pieno di riconoscenza e di incoraggiamento verso le Suore, gli Ausiliari, gli amici e i carissimi Ospiti della Casa, p. Marco e la parrocchia, così come assicuro la mia paterna benedizione a tutta la famiglia delle Case. L intercessione della Vergine, qui chiamata Madonna dei Poveri, ci accompagni nel cammino che ci attende. Adriano Caprioli Reggio Emilia, 16 luglio 2007, festa della B. V. del Carmelo 7

6 Casa della Carità: Eucarestia Piena - Vera Eucarestia Il dono che Dio ha fatto alla nostra comunità di S. Giovanni di Q. nel pensare, desiderare e nel dar vita alla Casa della Carità, è un dono che si rinnova e cresce nel corso dei tempi. In questo corso ci sono momenti particolari nei quali il grande dono si fa fermento potente così da creare un fervore eloquente che fa appunto comprendere che nulla è storia sorpassata, nulla è vecchio, nulla è abbandonato. La celebrazione del 60 è uno di questi momenti particolari nel quale eventi e persone manifestano quanto la Casa della Carità sia, per noi e per il mondo di oggi, un grande dono, come essa sia la presenza di Dio in mezzo agli uomini, il Suo Lavoro per il loro bene. La Casa è un annuncio che provoca e si fa accogliere da molti. Essa testimonia al mondo che la persona umana più nobile e più vera è quella capace di carità. Altrimenti, come dice qualcuno, è un essere umano che fa rumore e basta, e questo dà fastidio. Come non vedere l esempio di chi, pur anziano, pur con fatica, continua a darsi, a far della Casa della Carità momento della propria vita, della propria giornata, angolo della propria casa. Come non ascoltare da molti il rammarico di non poter dare quanto vorrebbero del loro tempo e delle loro energie perché obbligati ad altri servizi ed impegni. Come non notare le giovani leve che, pur con timidezza ed imbarazzo, si accostano alla Casa e si lasciano prendere e trasformare dalla Carità. E per loro il momento clou del loro essere persone positive, buone, vere. Un altro aspetto che manifesta chiaramente l attualità della Casa della Carità è come ad essa affluiscono le povertà moderne, del nostro tempo. Sono le povertà dei fenomeni migratori, della crisi del contesto familiare, del nuovo assetto sociale che molto spesso condanna alla solitudine. Dio che sente e ascolta il grido dei suoi figli ha reso la Casa della Carità intervento completo che libera, che salva, che cambia le condizioni invivibili. Sì, l opera di Dio nella Casa della Carità manifesta questa completezza : come Dio rende la nostra carità operante nel soprannaturale, nel trascendente. Infatti la Casa a queste povertà che bussano alla sua porta non offre solo un tetto, il cibo, il calore della famiglia, ma unisce la propria croce a quella del Cristo perché queste povertà siano sradicate da dove nascono: nel cuore cattivo. In questi ultimi anni la Casa è diventata in modo sempre crescente altare dove si offre il Sacrificio. Sacrificio pieno. Al servizio, all umiliazione, all handicap si è aggiunta la malattia sia negli ospiti che nelle suore e nei volontari. Questo 60 mette in risalto come la Casa, grazie a Dio e ai suoi figli, dà quello che il mondo non può dare. C è più facilità a reperire il necessario quotidiano. La società ha trovato molte soluzioni per sopperire alle varie povertà ma, la Casa della Carità è ancora unica nel suo valore ed importanza perché è completamento al Sacrificio che salva, libera, cambia l umanità. Questo tempo del 60 ci ha messo davanti agli occhi in modo molto forte questo ruolo della Casa : essa è l Altare, è il nostro celebrare nel modo più completo i Misteri della Salvezza, è un gridare col proprio corpo e con la propria fede: offerto per voi versato per voi e per tutti. E il ruolo che la rende fermento nel mondo e nell universo. E base e sostegno dell opera missionaria che le stesse C.d.C. fanno propria in seno alla Chiesa. Sono passati sessant anni di grazia, aiuto, bene per tanti, per tutti. Dio ci aiuti a custodire e a rendere sempre attivo nella Salvezza il dono della Casa della Carità. padre Marco Canovi 8 9

7 Quel Cristo che si è voluto fare Nostro Fratello Deo gratias et Mariae Quand ero ragazzo mi assillava la domanda se mai fossi arrivato al 2000; mi sembrava una data tanto lontana, avrei avuto ben 55 anni mi sembrava un numero troppo grosso! Ora ho passato i sessanta e non mi sembrano poi così tanti. Sono quindi coetaneo della Casa della Carità di S. Giovanni di Querciola e quando sento raccontare o leggo le memorie di Sr. Gemma rivivo la mia infanzia e giovinezza. E credo che Ospiti, Suore, Ausiliari e amici che hanno accompagnato questo cammino di Casa abbiano la stessa impressione: tutto è trascorso così in fretta! Eppure sono passati 60 anni! Sessant anni di grazie, di doni, di amore e di tenerezze infinite! Quanti volti, quante storie, quanti silenzi carichi di attesa. Quante lacrime asciugate, quante carezze, quante tenere parole di consolazione Quante fatiche, sofferenze, speranze... Quante gioie, risate e aneddoti gustosi è impossibile ricordare tutto. Di tutto vogliamo rendere grazie al Signore che ci ha donato la felice ventura di esserne in qualche modo parte. Non può mancare un sentito grazie alle persone che hanno reso possibile tutto questo, per la loro grande fede, per la loro generosità, la fedeltà e coerenza: don Mario, don Giovanni Reverberi, don Zeffirino Rossi, le Suore, gli Ausiliari, amici e benefattori, ma soprattutto i Signori Ospiti ragione di tutto ciò. A loro va soprattutto il nostro pensiero colmo di riconoscenza! Loro che spesso nelle nostra mentalità, o modo di celebrare certe ricorrenze, rischiamo di considerarli l oggetto dell agire delle Case della Carità, ne sono il centro e la ragion d essere della Casa stessa! Sono i nostri famigliari, sono quel Cristo che si è voluto fare nostro fratello per starci accanto e nutrirci con la sua presenza in loro. Una grande riconoscenza a quanti nel silenzio e nell ombra del nascondimento, senza porsi in mostra, hanno seguito, amato, servito e gioito in questa Casa: Il Padre celeste che vede nel segreto, certamente li ricompenserà. Don Romano Zanni Questa piccola raccolta di memorie e di testimonianze non ha grandi pretese se non quella di dire, innanzitutto, un grande grazie al Signore per le meraviglie, che attraverso la nostra Casa della Carità ha compiuto in questi 60 anni. Meraviglie che si sono manifestate quasi sempre attraverso gesti piccoli e semplicissimi, spesso nascosti, attraverso una trasformazione lenta dei nostri cuori di cui spesso non sappiamo nemmeno capire come. Scorrendo la storia della nostra Casa dagli inizi fino ad oggi, dobbiamo riconoscere vere le parole di san Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (12,9): Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Sono parole dal significato misterioso perchè non si confanno alla nostra natura, che cercherebbe piuttosto sicurezze, capacità, garanzie; facciamo fatica a fidarci della nostra e dell altrui debolezza. Ma in quante occasioni, forse, queste parole di San Paolo sono state il motore per fare scelte, per cominciare dei cammini di fede, per decidere di regalare un po di tempo ai poveri, decidere di accogliere ospiti... Pensiamo solo alla scelta di don Mario di cominciare la missione aprendo una seconda Casa, all obbedienza delle prime suore di lasciare Fontanaluccia... Ma dopo questi fatti ce ne sono stati, senz altro, tantissimi altri, conosciuti e sconosciuti, ma tutti ben stampati nel nostro cuore e nel cuore di Dio. Sì, è stato proprio così: Dio si è servito della debolezza e della povertà di tante persone e situazioni per manifestare le sue meraviglie d amore, d amicizia e di perdono. Ci sentiamo, quindi, in dovere, davanti all abbondanza dei doni di Dio di farne memoria, perchè non vadano sciupati e perchè siano quelle frecce appuntite da mettere nella faretra e tirarle fuori quando il nemico ci attacca per farci perdere la fiducia nella bontà di Dio e la speranza. Ed è anche una responsabilità che sentiamo di avere verso i più giovani e quelli che verranno dopo di noi, perchè possano anch essi contemplare le opere di Dio e possa crescere in loro il desiderio di servire nella grande messe del Signore. Deo gratias et Mariae La famiglia della Casa della Carità di San Giovanni Querciola 10 11

8 24 Novembre 1947: si parte... Dunque è nata in una pur piccolissima parrocchia la Casa della Carità don Mario Prandi 25 luglio 1983

9 IL PRIMO PASSO PER LE VIE DEL MONDO Suor Gemma Scritto tratto da Il Carretto [ ] Proprio il 12 dicembre 1946, vigilia di S. Lucia, quando suor Maria usciva dall ospedale di Modena, arrivò a Fontanaluccia don Giovanni Reverberi, con Menotti Ferrarini, accompagnavano un uomo ammalato all ospizio, si chiamava Nando Dallari. Nando non era un ammalato psichico, ma era un analfabeta e molto semplice Quando in primavera guidava lui il rosario del mattino, si metteva alla finestra apposta perché sentissero tutti. Però quando arrivava alla giaculatoria Gesù perdona le nostre colpe, preservaci lui diceva riservaci il fuoco dell inferno e noi ridevamo. Era di S. Giovanni di Querciola, non era vecchio, ma aveva una piaga in una gamba che non guariva. A casa aveva la mamma vecchia che non riusciva più a curarlo e due fratelli scapoli che lavoravano. Don Giovanni Reverberi conosceva bene Fontanaluccia, era stato parroco di Romanoro fino al Certamente lo colpì la povertà della Casa, la dedizione (vorrei dire evangelica) delle suore agli ospiti, il clima di famiglia e da quel giorno cominciò a desiderare la Casa anche nella sua parrocchia. [ ] In questo periodo don Mario era già molto occupato con la Cooperativa Edile che aveva iniziato per i muratori e operai della parrocchia, ma non tralasciava la nostra formazione. Ci faceva toccare con mano com è vera la provvidenza del Signore, come conoscerlo e amarlo di più. Cominciava anche a dire che la Casa doveva diffondersi Questo lo voleva il Signore e don Mario lo sentiva bene nel cuore. Meno lo sentivamo noi, dalle vedute più corte e meno illuminate di lui. Il pensiero di lasciare l ospizio per andare in altre parrocchie ci atterriva Le due ragazze sono arrivate all ospizio, don Giovanni Reverberi, parro- 15

10 co di S. Giovanni di Querciola pure e, quel che più conta, si è innamorato della Casa!!... Ha un cuore umile, penitente ha riconosciuto la carità, ha già fatto la richiesta e sta preparando la parrocchia Don Mario continuava a dire che le Case dovevano moltiplicarsi; non ricordo bene, ma credo che già nella primavera 1947 pensasse di mandare suore a S. Giovanni di Querciola [ ] E stata proprio un obbedienza difficile quella di partire da Fontanaluccia per andare a S. Giovanni di Q. Eravamo in due a farla, ma è stato difficile per tutte e due. Quando siamo partite io ho sofferto moltissimo e credo abbiano sofferto anche le altre. Il perché di questa sofferenza era il non aver capito, io non avevo capito. Don Mario aveva già l idea che la Casa dovesse diffondersi, e diffondersi voleva dire sradicarsi da lì per andare da altre parti. Invece io dicevo: Qui stiamo molto bene, la nostra vocazione è realizzata benissimo! Siamo qui, arrivano gli ospiti, riusciamo a curarli, a tenerli, a vivere con loro, siamo felicissime così!!. E poi arrivava la provvidenza. Era stato sfatato quel brutto detto di persone autorevoli, di preti che dicevano: Ma chi ha il giudizio di portare dei poveri a Fontanaluccia? Ma chi manterrà i poveri a Fontanaluccia?. Non era morto nessuno di fame, dunque la provvidenza c era anche all ospizio. Allora io dicevo dentro di me: Facciamo una bella Casa qui, allarghiamola e stiamo qui tutte insieme. Vengano pure delle giovani, anche loro il Signore le aiuta, vengano pure, ma stiamo tutte insieme qui. Il pensiero della separazione fu per me molto penoso. Avevamo l idea del Cottolengo e così dicevo: Bene, accogliamoli tutti!! Se vengono su altri poveri, bene! E se sono senza braccia, gambe, mani, benissimo!!. Mi sembrava che a Fontanaluccia con don Mario che aveva le idee e suor Maria che aiutava in concreto a realizzare il progetto, andava benissimo. Suor Maria aveva il buon senso e noi, alla fine, avevamo il buon senso di obbedire. Con l Anna Maria Roteglia mi presentai alla preside e alla professoressa d italiano della Scuola magistrale, allora in Strada Maggiore a Bologna. Erano due suore che non davano soggezione. Suor Vincenzina era stata anche a Reggio ad insegnare. Mi ascoltarono, ma mi dissero di non dirlo a nessuno che avevo frequentato solo le scuole elementari. Pensai che mi dicessero così perché ne andava un po di mezzo il prestigio della scuola Infatti per spiegare com era il programma si rivolgevano solo all Anna Maria. Mi fecero lasciare l indirizzo, mi dissero che, appena pronto, mi avrebbero mandato il programma. Avrei dovuto svolgerlo, mi avrebbero chiamato in giugno 1948 per l esame, come previsto. Nel mese di ottobre 1947 suor Maria pensò di mandarmi a Frassinoro dove c era l asilo perché vedessi un po come funzionava. Io di asili non ne avevo mai visti. Andavo con la corriera del mattino e tornavo a Pietravolta con la corriera delle 14. Le suore dell asilo erano Francescane dell Immacolata di Palagano. Sono ancora riconoscente alle sorelle di quella piccola comunità perché mi ospitavano tanto fraternamente! Mi sono resa sempre conto di quanto fosse poco simpatico per la maestra che io stessi tutta la mattina in scuola con lei. Mi pare che consumassi anche il pranzo con le suore e poi tornassi a casa. Mentre io giravo, suor Giuseppina si preparava spiritualmente al nuovo compito, suor Maria faceva pregare le suore e gli ospiti. Suor Teresa non era contenta che noi andassimo via. Suor Pia cominciava a venire in cucina per prepararsi a mescolare la polenta in vece mia Ai primi di novembre 1947 ricevemmo una cartolina di saluto quasi accorato dall Anna Maria Roteglia: aveva discusso la tesi, era laureata e partiva subito per entrare a Verona nell Istituto delle Suore Canossiane. L Anna Maria avrebbe dedicato più volentieri la vita alla carità che all insegnamento. Don Mario disse che per S. Giovanni di Querciola saremmo partite il 24 novembre, festa a Reggio e in diocesi di S. Prospero. Saremmo partite con suor Maria che ci accompa- Fu scelta suor Giuseppina come responsabile, io l avrei accompagnata e avrei dovuto occuparmi dei bimbi perché il parroco voleva anche questo. Io avevo solo frequentato la scuola elementare però avevo letto molti libri, soprattutto le antologie di mio fratello. Avrei dovuto studiare molto per avere il diploma da maestra d asilo. Le scuole magistrali che rilasciavano quel diploma allora erano poche in Italia: Genova, Milano, Bologna, Roma. In settembre 1947 andai a Bologna a chiedere il programma. La scuola era tenuta dalle Figlie della Carità di S. Giovanna Antida. A Reggio avevano tutto il complesso dell Istituto S. Vincenzo. Arrivai a Bologna e cercai una signorina di Sassuolo, Anna Maria Roteglia che stava preparando la tesi per la laurea in lettere a Bologna. La trovai nell Istituto delle suore Canossiane in via S. Isaia. L Anna Maria Roteglia era stata con la famiglia a Pietravolta durante la guerra, conosceva bene tutto di noi. Aveva la vocazione alla vita religiosa. Il suo padre spirituale era morto per uno spostamento d aria in un bombardamento, a Bologna. Nonostante la differenza di condizione e di cultura l Anna in qualche momento pensò di venire con noi per esercitare così da vicino la carità, ma poi don Mario stesso la consigliò di seguire quello che sarebbe stato l indirizzo del padre spirituale defunto

11 gnava, suor Giuseppina, io e la Laura, una giovinetta ospite in quel momento, non ammalata, che ci avrebbe potuto aiutare in casa. Don Mario ci disse: Prima di partire baciate il muro dell ospizio. La vigilia della partenza era la domenica 23 novembre Andammo a salutare i nostri parenti. Una mia zia mi disse: Ricordatevi sempre del Signore. Alla sera, dopo cena, in teatro c era festa, le giovani di Azione Cattolica recitavano una commedia. Io non sapevo dove era S. Giovanni di Q. Conoscevo le carte geografiche dell Africa, ma non quelle della provincia di Reggio. Sapevo solo che da Marola i seminaristi, e da qui altri, erano andati in gita a San Giovanni. Quindi, in una giornata ci si andrà! - dicevo fra me. Noi eravamo addolorate per il distacco. Ricordo che al mattino, quando suonò la sveglia, sentii in me un dolore quasi fisico. Ancora così, quando andammo (senza svegliarlo) a baciare Lino: piangemmo. La corriera partiva verso le cinque da Casa Cerbiani. Partimmo, ma appena passata Pietravolta, si fermò perché c era un guasto. Intanto si vedeva ancora laggiù Fontanaluccia. Gli autisti e gli uomini che c erano manovrarono un po, noi scendemmo a spingere, finalmente si mise in moto e ripartimmo. Ma passato Frassinoro, prima di Montefiorino, si fermò ancora e questa volta non ci fu modo di farla ripartire. Noi pensammo: Il diavolo non vuole lasciarci partire!. Dovettero telefonare a Sassuolo di mandare un altra corriera. Questi contrattempi mandarono in fumo il programma che don Mario aveva fatto per noi. Suor Maria (forse lo aveva pensato lei) con la Laura sarebbe scesa nei pressi della strada che portava su a Baiso e, attraverso i boschi e il fiume Tresinaro, sarebbe arrivata a S. Giovanni di Querciola. Avrebbe potuto rendersi conto come avremmo alloggiato, ecc. ecc. Suor Giuseppina ed io invece avremmo tirato dritto e, col treno di Sassuolo, saremmo arrivate a Reggio, in tempo per assistere alla messa solenne celebrata da mons. Vescovo in San Prospero. Don Mario contava di essere anche lui alla funzione, finita la quale avrebbe trovato un attimo di tempo per presentarci a mons. Vescovo e prendere così la benedizione per la nuova Casa. Suor Giuseppina ed io dunque rimanemmo in corriera che andava, per il ritardo, molto forte e suor Giuseppina si sentì male. Quando arrivammo a Sassuolo era molto pallida e dovetti farle prendere un cognac. Il treno per Reggio era partito e un altro c era solo nel pomeriggio tardi. Così andammo a Modena e di là a Reggio. Arrivammo alle due del pomeriggio in via Fontanelli, nella casa di don Dino Torreggiani, dove c erano degli ex carcerati, degli zingari, ecc. Ci accolse la Maria Bianchi che ci fece mangiare un po di risotto. Don Mario non sapevamo dove fosse. Verso le cinque del pomeriggio andammo a Porta Castello, c era la nebbia e il tempo piovoso. Entrammo in una piccola sala di attesa tutta piena di gente. Due donne ci vennero vicine e ci chiesero se andavamo a S. Giovanni, loro abitavano lassù. Rispondemmo di sì e fummo contente del primo incontro perché erano semplici e sembravano buone come quelle di Fontanaluccia. Una era la mamma di don Zeffirino Rossi e l altra Giuseppina Vicentini di Casa Pazzi. Dopo un po che eravamo lì in mezzo a tutta quella gente, sulla porta fece capolino la testa di don Mario. Non disse niente, vide che c eravamo e mi pare che ci salutasse con la mano, poi sparì. Suor Maria aveva fatto un viaggio faticoso. Prima la lunga salita dal fondo valle a Baiso, poi da Baiso, senza vera strada, nei boschi e nei campi. Era già molto tardi e non avevano nulla da mangiare. Incontrato un gruppo di case, suor Maria chiese la carità di un po di pane almeno per la Laura. Lì, sulle colline, il tempo era bello e c era il sole. Arrivò a San Giovanni in parrocchia durante il canto del vespro: erano circa le tre del pomeriggio. Don Giovanni Reverberi la conosceva bene, era stato per diversi anni parroco di Romanoro e l aveva seguita negli anni dell adolescenza e della prima giovinezza e ora la ritrovava così, dedita al Signore e ai Poveri. Quando la corriera arrivò a S. Giovanni ci trovammo in mezzo a tanti bimbi felicissimi. Io pensai: Da qui io vado a casa a piedi, non ho paura, ci vado!!!. Non ci fu nulla di ufficiale nell incontro. I bimbi ci accompagnarono giù alla Casa dove c erano tante persone e don Giovanni con suor Maria. Nella saletta piena di gente suor Maria ci presentò a don Giovanni. Lui non disse niente di particolare, ma si capiva che era contento. Poi suor Maria chiese: Come lo chiamerà questo posto?. Don Giovanni rispose pronto, senza esitazione: Casa della Carità (* v. nota). Pian piano i bimbi, le persone e don Giovanni se ne andarono. L Anna Bonini (che diventò poi suor Alda di Sant Elia) aveva cotto per noi la minestra e preparata anche una torta, fu l ultima ad andarsene. Partiti tutti ci sedemmo a tavola e ci accorgemmo che sulle nostre teste pendeva la lampada con una bella luce, ma era a petrolio!! Per spegnere la lampada bisognava soffiarci. Fu una sorpresa un po sgradita. A Fontanaluccia, nelle nostre case, avevamo sempre avuto la luce elettrica. I letti erano pronti, c erano state le donne, le ragazze del paese a preparare. La Casa però era ancora tutta sporca perché c erano stati i muratori, avevano imbiancato ma non avevano messo niente per terra, c erano i mattoni sporcati dalla calce. Io, con un po di smarrimento, dissi: I piatti li laveremo domattina, come si fa adesso?. Suor Maria aveva visto che i lavori non erano ancora ultimati e disse: Già, domani mattina verranno subito in casa gli operai, sarà meglio che sia tutto in ordine. Io accesi una 18 19

12 candela e mi avvicinai al lavandino. Fuori, il paese era tutto immerso nel buio. La Casa la sentivamo vuota, silenziosa e buia, ma pure quelle tenebre materiali non ci sgomentarono. Ciascuna di noi di dentro aveva la sicurezza che quel giorno qualcosa di radioso era successo La Casa di S. Giovanni era più nuova di quella di Fontanaluccia, era costruita da pochi anni in mezzo a un prato e il cortile confinava con la strada carrozzabile. Era a tre piani, le finestre erano molto più larghe di quelle dell Ospizio. Addirittura in cappella, nel salone e in camerone c erano i finestroni che davano luce, aria e sole. Le stanze erano alte, i pavimenti di mattoni, mentre all Ospizio i pavimenti erano in assi di legno. I servizi igienici in Casa erano due, abbastanza larghi. La cappella era bella ma entrava l acqua piovana. Il punto di vera povertà era la mancanza di acqua corrente e luce elettrica in Casa. D altra parte la luce e l acqua non c erano in tutto il paese, neanche dal parroco e neanche dalla famiglia più ricca. Anche in chiesa pregavamo con le candele. Per un complesso di cose quella zona della provincia di Reggio era rimasta fuori e non poteva beneficiare di queste cose così indispensabili. La Casa andava ad attingere l acqua a 300 metri di distanza, ad un pozzo comune a tutti gli altri abitanti, che serviva per gli uomini e per le bestie. In Casa c era un contenitore di due quintali in cucina e un altro nel bagno in alto. La luce elettrica arrivò nel 1958 in autunno e fu una gioia e un passo molto grande. Per undici anni avevamo vissuto con le lampade a petrolio. Povertà ce n era ma la vivevamo con gioia, anche perché poi non c erano tante esigenze. San Gaetano ci mandava la provvidenza. Lo pregavamo prima dei pasti e facevamo la sua festa precedendola con la novena. A S. Giovanni furono i bambini che facilitarono tutto. Ci portavano nelle loro case: anche se non c eravamo mai andate, era come se ci fossimo sempre state. Prima loro ci portavano le notizie, e così si veniva a conoscere che la nonna, la zia erano ammalate poi noi andavamo a trovarle. Così in pochi anni, grazie a Dio la parrocchia divenne una grande famiglia. Le mamme portavano i bimbi all asilo e poi curavano gli ospiti, era tutto uno scambio così, era molto bello: ci portavano anche i prodotti della terra che coltivavano. Non abbiamo mai sentito difficoltà a vivere la nostra vita religiosa anche in mezzo a tutti. Nessuno ha mai detto: siete fuori posto, e noi non ci siamo mai sentite fuori posto, in nessun luogo, siamo sempre state felici, senza disagio. Fu molto bello quel periodo. Si può proprio dire che anche quando non capiamo niente, il Signore previene e aggiusta quel tratto di strada che ci sembrava impraticabile. Una volta don Mario a momenti mi tirava la sveglia in testa. Eravamo tornate a Fontanaluccia per gli Esercizi e lui cominciò a lamentarsi con suor Maria: Ah, non sono mica più le mie figliole, sono cambiate!!. Allora io gli dissi in dialetto: La colpa è sua!. E lui: Perché?. Continuai: Ah, perché Panigal l era grand!!. Allora lui ha capito, ha preso la sveglia, ma poi l ha riappoggiata. Io dicevo che se ci avesse tenute qui allargando la Casa saremmo rimaste sue figlie, invece ci aveva mandate via!! Così abbiamo preso su perché diceva che cantavamo diverso Ha avuto una grande importanza andare a S. Giovanni, cioè partire da Fontanaluccia. Da quel momento la città ha avuto più contatti con la Casa della Carità perché da San Giovanni si faceva presto ad arrivarci l importanza è stata grande. Sì, la Casa della Carità aveva compiuto il primo faticoso ma sicuro passo per le vie del mondo!!! * Con molta probabilità don Mario aveva pensato, già prima del 1947, come testimoniano diversi scritti, di chiamare le sue baracche, Case della Carità 20 21

13 IL MISTERO DELLA NASCITA Suor Giuseppina Il Signore aveva già parlato al cuore di don Mario: la Casa della Carità doveva espandersi, uscire da Fontanaluccia. Ma il quando e il dove a noi erano, allora, sconosciuti. Dovevamo forse intuire qualcosa dai contatti e dalla sintonia di ideali che accomunavano don Mario a don Giovanni Reverberi. E proprio San Giovanni Querciola fu il luogo da dove iniziò la diffusione delle Case della carità. Eravamo molto dispiaciute di lasciare Fontanaluccia. Ci sentivamo senza più nessuna sicurezza, non pensavamo al domani. Don Mario, pochi giorni prima disse che saremmo partite io e suor Gemma accompagnate da suor Maria e aggiunse: Ricordatevi che la più giovane sarà quella che guiderà la più anziana. Questo disse l ultimo giorno. Io ho sentito la mia pochezza, poi ho obbedito. Siamo arrivate alla sera e abbiamo trovato un accoglienza calorosa: davanti alla Casa, con delle torce accese, c erano tanti giovani con il parroco. Noi venivamo da Fontanaluccia dove si viveva ora per ora, in povertà con i più poveri, ma la Casa di San Giovanni lo era ancora di più: non c era acqua, non c era luce. Abbiamo però trovato tanta fede vissuta; in prima persona dal parroco, don Giovanni, uomo austero che viveva nella penitenza e nella preghiera. Andavamo a Messa nella chiesa grande: si partiva al mattino, al buio, con una lampadina piccola per riuscire a vedere dove si camminava. Là trovavamo questo prete che, a lume di candela e con dei libri, tanti libri, pregava, pregava... Chissà quanto tempo era che pregava! Don Giovanni era parco di parole. Per lui parlavano le ginocchia! Poi tornavamo a casa e si incominciava. Per due mesi siamo rimaste senza ospiti, poi abbiamo incominciato a cercarli e a chiedere al prevosto se ce n erano. Sentivamo proprio la necessità di avere qualche ospite nostro; infatti, poco dopo, ne sono venuti alcuni dalla parrocchia e così facevamo famiglia con loro e con i bimbi che erano molti. Si faceva l asilo per custodirli in quanto le donne erano occupate nel lavoro alle risaie. Era suor Gemma che si occupava dell asilo e diventò, per lungo tempo, la mamma dei bambini di San Giovanni. Don Giovanni, penso, abbia voluto noi suore soprattutto per i bimbi. In Casa c era la scuola di lavoro per le ragazze: mentre imparavano a cucire, si faceva catechismo e si pregava. Il legame con i bimbi e con le ragazze ci permetteva di prendere contatti con le loro famiglie che poi venivano ad aiutarci in Casa per le diverse necessità. In Casa non c era la Cappella: ricordo che per il 1 Natale don Giovanni, con alcuni giovani, lavarono i muri di una stalla con acqua benedetta ed erbe selvatiche, per rendere il luogo sacro e lì fu portato il Santissimo

14 Il Santissimo non veniva mai portato fuori dalla Chiesa, perciò fu un evento! Questo fatto penso possa essere un segno dell intitolazione al Mistero della Nascita della Casa di San Giovanni. Leggendo quello che don Mario ha scritto possiamo trovare altri elementi: Le Case della Carità si sviluppano con la devozione alla Vergine Santa, dando origine a dei Rosari viventi di Case della Carità. Case intitolate a un mistero del Santo Rosario. Quello può diventare l ispiratore del clima spirituale delle Case della Carità. E il modesto omaggio alla nostra Regina. Non ricordo che si facesse, nei primi anni, memoria del mistero, però San Giovanni incarnava molto bene il mistero della povertà di Betlemme; e il fatto che la Casa di San Giovanni rappresentava l inizio, la nascita della diffusione delle Case della Carità può essere un altra spiegazione. Il mistero della Natività l abbiamo visto ripetersi con la nascita della Casa perchè, proprio come allora accorsero i pastori alla grotta, molte persone semplici e di grande fede hanno gioito per quest inizio. Un po i ricordi, un po la fede spero vi abbiano aiutato a ricostruire i primi passi di questa meravigliosa avventura

15 CONFIDARE NELLA PROVVIDENZA Don Giovanni Reverberi nei ricordi di don Mario Predieri, Servo della Chiesa scritto nel giugno del 1997 in occasione del 50 della Casa E venuto a San Giovanni nell autunno del 1935 (non ricordo né il mese, né il giorno); siamo andati a riceverlo al confine della parrocchia con Giandeto. Primo commento: era molto magro e scuro in faccia: eravamo in molti a riceverlo; ha fatto un gran discorso, è piaciuto a tutti; poi, a piedi, l abbiamo accompagnato in parrocchia. Io avevo 17 anni, non ero nell Azione Cattolica come i miei fratelli, però andavo a messa e ai vespri tutte le domeniche, ed è così che don Giovanni ha cominciato a parlarmi e mi ha convinto ad entrare nell Azione Cattolica: questo nell anno Nel 37 sono a lavorare a Bibbiano e ci vediamo poco. Nel 38 sono a casa e si rafforza sempre più la nostra amicizia. Nel 1939, l 11 febbraio, parto per il militare; stiamo in corrispondenza per lettera; le licenze erano molto rare, la prima dopo undici mesi; la corrispondenza è normale e sono io che qualche volta ritardo un po, lui, invece, risponde subito. Dal febbraio 1939 alla fine di ottobre del 1945, ben 7 anni, ci siamo visti poco per la guerra e per la prigionia. Nel novembre del 1945 si riprende il lavoro in parrocchia: sono molti i giovani dell Azione Cattolica. Don Giovanni propone ai giovani di fare una scuola serale e, durante l inverno, fa scuola tutte le sere; io pure frequento la scuola e, quasi tutte le sere, mi trattiene un po dopo la scuola e mi parla sempre di Dio e mai di cose materiali; la domenica, dopo i vespri, l accompagno per la visita ai malati e, durante una di queste passeggiate, mi chiede: Cosa fai, ti sposi?. Rispondo: Non mi sposo. E allora mi propone di farmi prete. Io non mi sento di cominciare a studiare e, allora, mi propone di entrare nei Servi della Chiesa: anche don Giovanni era un Servo della Chiesa. Verso la metà del 1946 comincia a parlare di fare una casa per i poveri, un ospizio come quello di Fontanaluccia: i poveri non devono pagare niente, tutto deve essere gratis, la Provvidenza, confidare nella Provvidenza. Poi si comincia a parlare di come si fa, dove si fa e dove si prendono i soldi: lui non ne ha. La Provvidenza ha fatto sì che uno, nella zona della Prediera, vendesse la casa colonica, con la stalla, un portico e un po di terreno. Don Giovanni riunisce tutti i capifamiglia, espone il suo programma di fare un ospizio come a Fontanaluccia e chiede un prestito senza interessi; tutti aderiscono e si mettono insieme i soldi per comperare la casa, per fare le diverse modifiche, senza raffinatezze perché poi non ci sono tante esigenze e tutto va bene. Perché si chiama Casa della Carità? Siamo stati noi giovani che abbiamo voluto questo nome, perché don Giovanni ci diceva sempre che tutto si doveva fare per carità, che i poveri non dovevano pagare, guai a parlare di soldi, tutto per amore e per carità; e se tutto si deve fare per carità, la casa si chiamerà CASA DELLA CARITÀ. Come ricordo don Giovanni? E una cosa molto difficile riuscire a dire tutto: ho lavorato con lui per vent anni, era un padre, non solo per me, ma per tutti, era un amico, si fa presto a dire amico, ma don Giovanni lo era perché voleva il tuo bene, era disposto a fare qual- siasi sacrificio per te, a dare anche la vita per te. Come padre, quando c era qualcosa in parrocchia che non funzionava, quante volte l ho sentito piangere! Aveva una fede grande in Gesù e in Maria, la mamma del bel Paradiso. Quando si andava a Reggio, prima cosa in Ghiara e poi l appuntamento era in San Giorgio e sempre in ginocchio. Una volta gli ho chiesto perché non si mettesse un po a sedere perché si stancava a stare in ginocchio e la risposta fu: Davanti al Signore non mi metterò mai a sedere!. Dio solo sa quanto ha pregato e quanta penitenza ha fatto! Ultimamente tante sere gli lavavo i piedi, le sue ginocchia erano tutta coppa! Anche adesso ci penso e invidio quella coppa! Quando è arrivata la corrente elettrica gli ho fatto l impianto in canonica: una sera mi è venuto tardi, la zia era già andata a letto e gli aveva lasciato la cena nel cassetto del tavolo. Ho fatto un atto di curiosità e ho guardato: un piatto di insalata con aceto in abbondanza e un pezzo di pane. Amava i giovani e aveva un cuore giovane. Aveva fatto il soldato a Novara e aveva conosciuto i Salesiani: da lì è nato l amore per i giovani. Quante preghiere per i suoi giovani! Quando partivano per il servizio militare era veramente un apostolo della purezza e della castità: consigliava di fare, per un mese, voto di castità. Lui ha messo in pratica i suoi voti alla lettera: non possedeva niente, vestiti sempre quelli, non gli importava nulla anche se erano sporchi e dimessi. Quante volte l ho sentito dire: Signore fammi puro e santo. Mai sentito dire una parola maliziosa, aveva un grande rispetto per tutti, specialmente per i preti e per le suore, per le suorine che sarebbero venute in parrocchia. Come ho già detto aveva un cuore giovane, amava le novità. Fin dall anno 1950 abbiamo proposto di leggere il Vangelo in italiano: è stato d accordo e molto contento di questa iniziativa presa da noi giovani. Come ha pensato alla CASA? Fin dal suo arrivo in parrocchia parlava spesso del Cottolengo di Torino, del fare del bene per aiutare i poveri, del confidare nella Provvidenza. Per me, ricordare con precisione date e nomi è un po difficile. La Casa è stata sistemata così: nella rimessa la cappella, nel fienile il camerone per gli ospiti, la cucina è rimasta com era, molto piccola, una saletta, anche questa molto piccola serviva da refettorio, il portico lo si è adattato ad asilo e, in una parte, si è aperto il bar Acli dove tutte le sere erano presenti Menotti Ferrarini, Romeo Bertolini. Posso dire che tutta la parrocchia ha contribuito per il bene della Casa: i camionisti Aureliano Munarini e Alberto Aldini a cui don Giovanni diceva sempre: Et pegha al Sngnor. Poi Aldo Predieri, sempre pronto in qualunque cosa 26 27

16 gli si chiedeva; Davide Predieri, anche lui ha aiutato molto in principio; il fabbro Luigi Costantini, che non ha mai rifiutato un servizio. In Casa non c era né acqua, né luce. C era la scala piena di lumini a petrolio e le rotture non mancavano. Finalmente nel 1948 il Comune viene vinto dalla Dc e dai socialisti saragattiani e si è cominciato subito a fare acquedotti e strade. Uno dei primi acquedotti è stato quello di San Giovanni. Nel 1959 anche la Casa ha avuto l acqua. Per la luce abbiamo installato un piccolo gruppo elettrogeno. Poi è arrivata la stufa per il riscaldamento dell acqua: l hanno regalata un gruppo di donne di Reggio che venivano ogni tanto alla Casa: abbiamo finito di montarla alle tre di notte. Un altra iniziativa è stata presa nel 48: c era la tradizione di lasciare il latte al casello l ultimo giorno di consegna, per San Martino; noi giovani abbiamo proposto di lasciarlo, invece, alla Casa della Carità; tutti hanno aderito, così la Casa aveva il latte assicurato per un po. Come diceva don Giovanni: La Casa ha svegliato la parrocchia!. E alla gente diceva che le suorine che sarebbero venute in parrocchia avrebbero fatto tanto bene. Chi, infatti, non correva da suor Gemma per qualsiasi bisogno? Una puntura, un consiglio per uno che non stava bene o si faceva male, o per vegliare un malato grave o moribondo? Suor Gemma era la madre della parrocchia! Apertura della Casa: 24 novembre 1947 E quasi sera, ma le suore non si vedevano ancora. E quasi buio ed ecco le suore che arrivarono a piedi: suor Maria, suor Gemma e suor Giuseppina. C erano in pochi a riceverle: don Giovanni, alcuni giovani e le ragazze che avevano preparato la Casa con a capo l Anna Bonini, che poi diventerà suor Alda. La gioia più grande fu quella di don Giovanni: vedere suor Maria nella sua parrocchia. Era una sua parrocchiana quando era a Romanoro. Non so cosa abbiano provato le suore nel vedere la Casa: era buio, la Casa pure, una lucerna illuminava solo la cucina e la saletta, ma forse non era tanto peggio di quella di Fontanaluccia quando fu aperta alcuni anni prima. Cominciarono subito a prendere ospiti: la prima fu una signora anziana di San Giovanni e una ragazzetta di Reggio di nome Carla. In poco tempo la Casa è piena. La Casa va avanti come può, non certo nell abbondanza, qualche volta forse manca anche il necessario, ma la Provvidenza, che non manca, arriva sempre al momento giusto. La Casa incomincia a dar presto i primi segni di cedimento in termini di rotture e guasti: il problema più grosso era quello di difendersi dall acqua perché pioveva in casa! All inizio degli anni sessanta la Provvidenza arriva. Il dott. Marazzi propone a don Giovanni di fare la Casa nuova se si fosse trovato il terreno. Suor Gemma si mette subito in movimento e qualche volta anch io andavo con lei. Si individua il posto: è bello, i proprietari sono due, Alfonso Predieri, papà di Aldo e Francesco Ceci, papà di Ennio. Alfonso ce ne ha venduto una fetta e con Ceci si è fatta una permuta con un campo vicino a casa sua che un certo Licinio Munarini aveva lasciato in eredità alla Casa della Carità. Il dott. Marazzi mantiene la promessa e diventano, i lavori per la costruzione, una realtà, con il controllo vigile di suor Gemma. Nel 1961 la Casa nuova è finita, si fa il trasloco: a noi sembra bellissima: luce, acqua, i piani con le mattonelle, la lavanderia, il riscaldamento, belle sale e la gioia di tutti, delle suore e degli ospiti

17 CERCANDO NEL BAULE DEI RICORDI UN ANNO A S. GIOVANNI DI QUERCIOLA Don Mario Pini Come viveva don Giovanni Reverberi la presenza della Casa della Carità in parrocchia? Come ha aiutato gli altri a capire? A questi interrogativi risponde don Mario Pini, attingendo dal diario pro-manoscritto Quarant anni con don Dino. Il 30 luglio 1959, a un mese e due giorni dalla mia ordinazione sacerdotale, don Dino Torregiani mi comunicò la nomina di Vicario Cooperatore di don Giovanni Reverberi a S. Giovanni di Querciola, dove avrei dovuto trasferirmi l indomani. Una grazia del Cielo, fu il mio commento. Signore ti prego di darmi la grazia e la forza di imitare quel santo sacerdote e di poter fare colà tanto bene. Non trovo alcuna pagina nel mio diario che si riferisca al mio primo anno di ministero sacerdotale. La buona memoria delle cose del passato mi viene nelle linee essenziali. Al mio arrivo don Giovanni Reverberi, il prevosto che in quell anno imparai a conoscere bene, mi accolse così: Che bisogno c era che mi mandassero un curato!? Io l avevo detto al vescovo di tirarmi via dalla parrocchia perché ormai non ce la faccio più!. Aveva sessant anni ed era molto deperito per i digiuni, le penitenze, le veglie ed il suo continuo visitare la parrocchia a piedi per assistere gli ammalati, gli anziani e pregare durante l agonia dei moribondi che vegliava sino all ultimo respiro. Lo guardai con un bel sorriso e gli dissi: Mi hanno mandato qui e io sono venuto, facciamo l obbedienza. Ma potevano fare parroco voi che siete più santo di me, io qui sono lo scandalo, la rovina della parrocchia, sono un povero prete peccatore!. Gli risposi con una bella risata e tentai di baciargli la mano come facevo con lui da ragazzino. Con un balzo si ritrasse e nonostante i miei tentativi riuscì lui per primo a baciare la mano a me. Mi dette una cameretta di fronte alla sua al piano superiore, vi si dominava un prato che subito adocchiai per il pallone. Solo più tardi passai nella camera vicino alla sua, attigua all abside della chiesa e che aveva le finestre sulla facciata della canonica; vi era una canna fumaria e vi potei inserire una stufetta a bombola che emanava un puzzo di bruciato a mala pena sopportabile. In cucina c era sua zia Enrichetta, molto avanti di età, che mi accolse con un gran sorriso, tutta avvolta nel suo abito nero e con il capo coperto da un fazzoletto di cotone dello stesso colore. Qualcuno mi aveva portato su da Guastalla con un furgone lo scrittoio, la vetrina, una piccola libreria e due sedie. Il letto c era già in dotazione. Quei mobili mi erano stati donati dall Albertina Rovesti, l antica governante di casa Negri-Gualdi: erano lo studiolo del dott. Carlo al tempo dei suoi studi, me ne servo ancora oggi per scrivere queste memorie. Mi ave

18 va donato anche una bellissima stola che per anni ho portato con me nei miei trasferimenti. Bei ricordi di Guastalla. Sin dalla prima mattina ebbi l incarico di celebrare la messa delle sette nella Casa della Carità, dove vi erano tanti ammalati, invalidi, dai bambini agli anziani. Qui le ottime suore della Congregazione Mariana, fondata da don Mario Prandi, prestavano il loro servizio facendo da mamme e da sorelle. Suor Gemma, suor Maddalena, suor Lucia, suor Alda ed altre, con l aiuto di alcune volontarie, erano sempre presenti per ogni necessità ed animavano la liturgia con preghiere e canti. Ben presto divenni uno di loro e passavo molte ore tra la cappella e gli ospiti. Trovai subito tanta affettuosa accoglienza tra i parrocchiani, ragazzi, giovani, anziani, malati. Giravo a piedi tutte le contrade dislocate in un ampia superficie, all incirca di nove chilometri per sei, tra colline e vallate. Per aumentare l amicizia tra noi progettai un pellegrinaggio a Cremona e Caravaggio per il dieci di settembre. Don Giovanni non vi prese parte, ma ne fu felice; si realizzò in pullman in giornata, lasciando un ricordo bellissimo tra i convenuti. Pochi giorni dopo benedissi un quadro della Beata Vergine con Giovanetta, la veggente, portato in ricordo: in processione lo collocammo nella vecchia nicchia del mulino. Vari anni dopo costruirono una maestà nel cortile ed ebbi ancora io la gioia di portare da Caravaggio un gruppetto statuario e di collocarlo benedetto nella nuova sede, ancora oggi venerato. Con don Giovanni organizzammo il lavoro del nuovo anno pastorale Ebbi l incarico dell insegnamento della religione nelle scuole elementari alla Strada e a Pulpiano e di fare la dottrina agli adulti nel vespro festivo. Formai un gruppo di cantori, aiutato da Menotti Ferrarini, già servo della Chiesa, che suonava molto bene l organo: rinasceva la Corale S. Cecilia che il 22 novembre fece il suo primo servizio in parrocchia. Il buon Walter Prodi, anche lui ex servo della Chiesa, prestava il suo aiuto in sagrestia e Mario Predieri, rimasto fedele tra i Servi, era l amministratore e il sostegno del parroco. Alla domenica pomeriggio salivo in torre e suonavo una lunga sbaciuchèda, una suonata a carillon per chiamare i ragazzi all oratorio: li vedevo arrivare in fretta da varie borgate. Una volta, nello scendere le scale a pioli, fatiscenti, spezzai l appoggio e rimasi impiccato come un salame, per fortuna attaccato con ambo le mani ad un legno non ancora marcito del tutto, ma continuai impavido la mia scalata festiva. Il 4 ottobre venne una prima abbondante nevicata. Mi misi le ghette e lentamente salii la lunga erta che porta alla Casa della Carità; era la prima volta che le usavo, nella mia prima passeggiata montanina sulla neve per celebrare la messa del mattino. Il primo venerdì del mese partii dopo messa, percorsi a piedi e con le scarpe bucate parecchi chilometri nella neve per portare la Comunione ai malati. Al ritorno corsi a comperare un paio di scarponi. Per il mese successivo provvide il buon Mario Predieri d accordo con il parroco: mi portò da Reggio un Galletto 200 nuovo fiammante, una moto grigia a quattro marce con la caratteristica ruota di scorta trasversale che mi salvò in vari ruzzoloni rocamboleschi sul terreno ghiacciato. Da allora la musica cambiò e potei svolgere con una presenza più adeguata il mio servizio di giorno e di notte, mentre il parroco continuava ad andare a piedi e solo in casi urgenti montava su con me. Don Dino ci aveva più volte parlato della grande carità di don Giovanni Reverberi, soprattutto dopo il suo ingresso nei Servi della Chiesa. Nel primo corso di esercizi spirituali organizzati nella sede del Pio Istituto Artigianelli, durante le feste di inizio d anno del 1950, fummo lieti di accogliere fra di noi, con altri, anche don Giuseppe Barbieri e don Giovanni Reverberi. Non ci fu presentazione ufficiale, ma da allora si moltiplicarono le occasioni dei ritiri. Dopo cena si metteva a fianco della televisione e ascoltava il telegiornale senza mai vedere un immagine, poi si ritirava ad un tavolo e conversava con gli amici del piccolo bar parrocchiale annesso alla Casa della Carità. In breve tempo si creò una bella comunione fra noi e a tavola parlavamo a lungo di problemi pastorali locali e talvolta ci scappava la politica. Allora io facevo il prete di destra e inneggiavo a quei politici che don Giovanni biasimava per le loro scelte fino al punto di mettere il giornale sotto i piedi e calpestarlo Don Giovanni, al suo processo di beatificazione dovrò pur parlare di queste sue intemperanze!.... Signore vi ringrazio che mi avete mandato un curato che non sa niente di politica!.... Quando avevo acquistato un po di confidenza e lo vedevo molto caldo, talvolta prendevo la ramazza in mano a mo di chitarra e gli cantavo: perché per ogni riccio tu tene nu capriccio, la donna riccia non la voglio no!.... A queste scenette non poteva trattenere le risa ed anche la zia rideva di gusto. Signore abbi pietà di me che sono un povero prete!... e guardava il cielo portatemi nel vostro bel Paradiso. Ed io di rincalzo: il più tardi possibile!. Da me accettava anche questi momenti di sollievo, ma normalmente era molto serio e raccolto. La sua giornata e la sua notte erano una preghiera continua e alle quattro del mattino era già sveglio e in punta di piedi scendeva e stava delle ore in chiesa che non è mai stata riscaldata ed era sempre piena di gente nelle sacre funzioni. Le sue omelie prolungate erano molto ascoltate; sapeva forgiare le anime, chiedere penitenze e sacrifici, rimproverava le mancanze pubbliche, si commuoveva di fronte ai fatti dolorosi della vita. Offriva occasioni per le confessioni, specie nelle ufficiature per i defunti allora molto frequenti e nelle sagre parrocchiali. Nell anno che ho fatto con lui chiamò due 32 33

19 volte don Giuseppe Dossetti da Bologna a predicare e confessare. Credo che si confessasse mezzo paese, era in confessionale dall alba alla sera avanzata, ne usciva per commentare la Parola di Dio e per le brevi refezioni. Era una gioia ascoltarlo e uno zuccherino confessarsi con lui per la sua paternità e la sua capacità di introspezione. Più volte qualche prete tra i convenuti, a tavola, cercava di strappargli qualche commento politico, ma lui bellamente guidava altrove la conversazione. Don Giovanni ogni tanto andava a Bologna a confessare la sua mamma Ines, divenuta fondatrice del ramo femminile della Piccola Famiglia dell Annunziata, iniziata dal figlio per i monaci. Alla domenica pomeriggio la gente ritornava per il vespro e il catechismo degli adulti, incarico che spesso don Giovanni affidava a me, poi riprendevano i giochi e se c era la neve le pallate erano sicure. Era molto delicato con i sacerdoti del Vicariato del Querciolese e quando non c era bisogno in parrocchia mi mandava ad aiutarli per gli uffici funebri, i funerali e le sagre. Spesso andavo a San Pietro dove era parroco don Attilio Taddei, suo confessore, divenuto ben presto anche il mio padre spirituale: lui era solito percorrere a piedi andata e ritorno la strada per San Giovanni, partendo alle 4,30 da casa sua, estate e inverno. Da quell anno andavo a prenderlo e riaccompagnarlo con la moto. Talvolta per il ghiaccio ho fatto qualche ruzzolone, ma la ruota di ricambio mi ha sempre salvato le gambe. Con il coraggio dell incoscienza partivo con ogni tempo, senza ponderare la viabilità, cosa che spesso mi ha obbligato a manovre spericolate per risalire chine o a lunghi percorsi alternativi per raggirare gli ostacoli. Per Natale, oltre a un bel programma musicale liturgico, preparammo uno spettacolo di burattini che riempì il teatro parrocchiale di ragazzi e adulti. Da allora cominciammo a girare le parrocchie nelle ore serali per portare ai ragazzi e alla gente semplice la gioia della battuta allegra di Sandrone, Fagiolino, Polonia ed altri ancora, sempre pronti a risolvere i problemi col randello. Ci eravamo organizzati bene, non mancava neppure la fisarmonica per il ballo finale di quelle zucche di legno. Spesso il tutto finiva con gnocco, salame e buon lambrusco. Don Dino, che me li aveva dati, era felice che i burattini di San Rocco, bellissimi, in legno scolpito, dagli occhi di vetro, con i vestiti rimessi a nuovo dall ago e dalla pazienza di mia madre, continuassero a galvanizzare le platee degli oratori, dopo i successi estivi di Ventoso di Scandiano. Don Giovanni aveva una salute molto cagionevole; per i lunghi digiuni aveva subito una dolorosa operazione per riattivargli l intestino, mangiava come un passerotto insalata, sardine in scatola e poco pane. Io che ero sempre seduto al suo fianco riuscivo a fargli accettare qualche pezzetto di grasso bollito. Negli incontri sacerdotali vicariali, sotto la pressione dei colleghi, faceva qualche piccolo sforzo in più per nutrirsi. Un mattino, a colazione, mi disse: Scusatemi per questa notte, ho fatto di tutto per non fare rumore, ma non ci sono riuscito, vi chiedo ancora scusa. Era stato male e aveva fatto qualche urlo nei conati di vomito, ma io non lo avevo sentito, lui non aveva voluto picchiare contro il muro divisorio per non disturbarmi Inutile ogni mio rimprovero lui non meritava nessuna attenzione era un povero prete peccatore e basta! Spesso, dopo cena, col bel tempo uscivamo per recitare il santo Rosario passeggiando verso il cimitero; lui partiva solo solo per primo, io rimanevo a rispettosa distanza e lo raggiungevo davanti al camposanto. Una sera mi disse: Vedete questa soglia? Quando morirò mi dovrete seppellire qui perché tutti passando mi abbiano a calpestare i piedi. Io sono un peccatore, un criminale, la rovina della mia parrocchia, non merito altro Promettetemi che lo farete!.... Rimasi pensieroso anche se non sorpreso e gli dissi: Chi ci sarà vedrà! e abbozzai un sorriso di disapprovazione. Un altra volta eravamo a tavola e mi raccontò l episodio dell intervento prodigioso della Madonna in suo favore, quando militare di leva nella prima guerra mondiale, durante la ritirata di Caporetto, fuggendo nella notte si gettò nel Piave in piena per cercare scampo dal nemico e sperando di trovare cibo altrove, pur non sapendo nuotare. Mi sono buttato in acqua dopo aver invocato la bella Mamma del Cielo e recitando l Ave Maria mi ritrovai, non so come, all asciutto, sano e salvo sull altra sponda del fiume. Da allora ho cambiato veramente vita e passo tutti i giorni a ringraziare la bella Mamma del Cielo che mi ha salvato. Era il 18 giugno Don Giovanni era molto schivo ed evitava in tutti i modi di venire a trovarsi al centro dell attenzione: mia madre mi disse più volte che in qualche occasione, dopo averlo salutato per la strada secondo il suo solito con un bel sorriso e parole rispettose, avendogli chiesto qualche parere, si era sentita rispondere in modo brusco: Io non so niente di questo, signora, io sono un povero prete!. Spesso firmava le sue lettere con una strana sigla p.p. (povero prete) ed il fatto era noto anche a noi sacerdoti. Quando ci si ritrovava a tavola dopo qualche servizio collettivo, specialmente a Regnano, dove don Giuseppe Cacciani, l arciprete, amava scherzare e provocare qualche risata, non era raro che la sigla rimbalzasse tra i commenti ed allora per tenere allegro don Giovanni dicevamo: Don Giovanni è un prete p.p.!. Ci stava molto allo scherzo, ma nessuno riusciva a fargli mangiare più di quel poco che si proponeva. Il 1960 era l anno 25 del suo ministero in parrocchia. Una volta mi disse: L anno 34 35

20 prossimo, il 4 di ottobre, è il mio 25 di parrocato: non intendo fare festa alcuna. Quando arriverà il giorno voglio scomparire dalla circolazione, me ne andrò solo solo a San Siro in pellegrinaggio e me ne starò là in preghiera tutto il giorno. Mi preveniva per il timore che io per l occasione organizzassi qualche festa a sua insaputa. In effetti credo proprio che non se ne facesse niente, ma io ero già in servizio a Ventoso in quella ricorrenza. Dopo Natale cominciammo a preparare uno spettacolo per il carnevale: una bella commedia brillante Addio Palmira, una farsa, alcuni canti in voga di ultima estrazione accompagnati dal buon Menotti con la fisarmonica i ragazzi ed anche i meno giovani erano in fermento, durante le prove le risate salivano al cielo qualche ragazzina del coro come Gemma Bonini era impegnata negli assoli tra un atto e l altro. Don Giovanni non aveva mai visto nulla di simile e rimase molto meravigliato tanto che, bonariamente, i superiori mi avvisarono che era andato da loro a chiedere consiglio il curato ride con le ragazze!. Anche le mie uscite fuori sede lo mettevano a disagio. Appena iniziato l anno pastorale, mons. Bagnoli mi chiese di accompagnare a Roma un gruppo di adolescenti di Guastalla, perché uno di loro, Barbieri, aveva vinto il premio Roma. Don Giovanni accondiscese a malincuore quando vide che anche don Dino era d accordo. Ospiti della Domus Pacis vi restammo tre giorni, visitando Roma con i mezzi, in lungo e in largo. Potei celebrare ancora nelle grotte vaticane in un altare laterale dedicato alla Beata Vergine. Da notare che per andare a Roma avevo preso la scorciatoia di Torino, dove mia cugina Madre Gambara mi aspettava per fare un po di festa in Casa Madre. Vi rimasi due giorni e all ospedale delle Molinette andai a conoscere suor Claudia Reverberi e le portai i saluti della prozia Enrichetta e dello zio don Giovanni che me lo aveva raccomandato. Quando in febbraio morì mia madrina di battesimo, Ines Ferri Ronzoni, non potei andare al suo funerale perché capii che il buon prevosto non mi lasciava andare volentieri. Ci fu un altra uscita ai primi di maggio: don Dino mi mandò a Parigi con don Giuseppe D Aristotele al congresso internazionale di studi sugli zingari. Cinque giorni, eravamo alloggiati presso i Padri Lazzaristi di Rue des Sèvres, la loro casa generale che custodisce il corpo di San Vincenzo de Paoli, il loro fondatore, che sembrava dormire nell urna di cristallo. Fu davvero un esperienza straordinaria, interconfessionale, nella quale si fraternizzò con gioia fra laici, cappellani e pastori uniti nella evangelizzazione dei vari gruppi di nomadi oggetto non solo di studio, ma anche di tanto amore da parte di quel piccolo gregge di seguaci di Gesù, convenuto da varie parti d Europa. Il giovane sacerdote che era con me, don Giuseppe D Aristotele, apostolo dei Sinti d Abruzzo, purtroppo morì non molto tempo dopo, con grande dispiacere di don Dino e nostro. Con lui ero andato alla Rue du Bac, presso le Figlie della Carità, nella bella chiesa delle apparizioni della Madonna Miracolosa a Santa Caterina Labouré ed avevamo venerato il corpo della santa veggente, ancora intatto. Mi aveva dato un esempio di vera pietà e di grande semplicità. Il mese di maggio ha avuto un sapore particolarmente mariano. Don Giovanni, quando parlava della Madonna, si illuminava. Ogni domenica del mese mariano la santa messa parrocchiale veniva celebrata nel santuario della B.V. di San Siro, meta di grande devozione raggiunta per lo più a piedi e con la recita del santo rosario, ad alcuni chilometri dal paese per una stradina in mezzo ai boschi. Spesso don Giovanni percorreva il lungo tragitto a piedi scalzi in ringraziamento alla Madonna per aver salvato i suoi giovani, verso la fine della guerra, prelevati durante un rastrellamento fascista e ritornati tutti a casa. La Casa della Carità era la mia seconda casa. Là mi trovavo quasi tutti i giorni per la santa messa ed il rosario serale. Provavo un grande affetto per gli ospiti che ascoltavo e tenevo allegri. Vari di loro erano entrai nella corale ed erano fedelissimi alle prove. Due ragazze gareggiavano per tenermi lucente la motocicletta. La simpatica Carla con le sue battute ci teneva sempre in allegria, tanto più che in un modo o nell altro usciva sempre vittoriosa a modo suo da ogni sfida verbale. Una volta era venuto alla Casa mons. Socche e dopo i primi saluti, la Carla lo volle subito intervistare Dunque hai la barba, ma hai anche la veste insomma tu sei un uomo o una donna?.... Il vescovo all inattesa uscita cominciò a ridere di gusto insieme ai presenti. Mo chèra veh!..., concluse l intrepida fanciulla, ti voglio così bene che ti sposerei!. Fu la ciliegina sulla torta. Vi erano anche alcuni bimbi, l Alma, Giovanni, Brunetto, la Luisella, mi si erano affezionati. Una volta nel fare un po di catechesi la suora chiese: Chi ci ha creato? e la Luisella pronta: Il signor curato!. Il 25 aprile siamo andati a fare una bella gita in moto fino al santuario della Madonna del Frassino, a Peschiera del Garda. Al ritorno una bella nevicata mise a repentaglio il nostro equilibrio su due ruote: tutta la montagna era imbiancata e il freddo si faceva sentire, ma tutti e ventisette rincasammo sani e salvi. Il 30 aprile, per Santa Caterina si sposò Cilianna, una ragazza del coro; le facemmo una grande festa. All uscita non mancò la battuta di rito: Volevi sposarti in bianco?. E alludendo alla neve: Più bianco di così!. L otto di giugno si organizzò un pellegrinaggio parrocchiale in pullman alla Beata Vergine di S. Luca. Mentre salivamo la lunga scalinata, qualcuno appoggiò la valigia delle vettovaglie per riposare un istante; non fece in tempo a riprenderla perché un morto di fame con un trucco collaudato e scendendo di corsa, con un balzo la prese e se la svignò. Amara esperienza per chi, abituato nella pace dei monti ad agire con lealtà, ha dovuto sperimentare che 36 37

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