Scuola Superiore della Magistratura Struttura Didattica Territoriale presso la Corte d Appello di Brescia. Università degli Studi di Brescia

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1 Scuola Superiore della Magistratura Struttura Didattica Territoriale presso la Corte d Appello di Brescia Università degli Studi di Brescia in collaborazione con Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di Brescia Fondazione Forense LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA IN ITALIA TRA NORME ED ETICA 17 maggio 2013, ore Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Giurisprudenza - Aula Magna INTRODUZIONE LAVORI Prof. Sergio Pecorelli, Magnifico Rettore Università degli Studi di Brescia INTERVENTI Prof. Luigi Cioffi (ginecologo, direttore clinico e scientifico Centro Fertilitas MRDS Salerno, docente dell Università degli Studi Federico II di Napoli) Le tecniche di fecondazione in vitro, tra norme e scienza Dott. Giuseppe Nicastro (magistrato, assistente di studio presso la Corte Costituzionale) La normativa in materia di procreazione medicalmente assistita riscritta dai giudici Prof. Maurizio Mori (professore ordinario di bioetica Università di Torino, Presidente della Consulta di Bioetica Onlus ) Dei nuovi orizzonti morali aperti dalla fecondazione assistita Prof. Simona Cacace (ricercatore di diritto privato comparato - professore aggregato di biodiritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell Università degli Studi di Brescia) Identità e statuto dell embrione umano: soggetto/oggetto di diritto? Dott.ssa Emma Avezzù (procuratore capo presso il Tribunale per i Minorenni di Brescia) Il punto di vista del magistrato minorile; casistica del Tribunale per i Minorenni COORDINAMENTO LAVORI Prof. Saverio Regasto (ordinario di diritto pubblico comparato, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza)

2 Scuola Superiore della Magistratura Struttura Didattica Territoriale presso la Corte d Appello di Brescia Università degli Studi di Brescia In collaborazione con Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di Brescia Fondazione Forense LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA IN ITALIA TRA NORME ED ETICA 17 maggio 2013, ore 14,30 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di giurisprudenza Aula Magna Intervento di Giuseppe NICASTRO (assistente di studio presso la Corte costituzionale) LA NORMATIVA SULLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA "RISCRITTA DAI GIUDICI SOMMARIO: 1. Premessa: pag. 1; 2. La diagnosi preimpianto sull embrione: pag. 1; 3. L accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: pag. 7; 4. I limiti alle scelte mediche in ordine alla creazione, all impianto e alla crioconservazione degli embrioni: pag. 13; 5. Il divieto della fecondazione eterologa: pag. 15; Conclusioni: pag Premessa La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) da ora in poi: «la legge» prima disciplina, almeno a livello legislativo, delle pratiche di procreazione medicalmente assistita (di séguito: PMA), dopo essere scampata a quattro referendum abrogativi di numerose sue disposizioni a causa della mancata partecipazione della maggioranza degli aventi diritto alla relativa votazione 1, è stata successivamente oggetto di una serie di pronunce giurisprudenziali che hanno inciso (o potrebbero in futuro incidere) a fondo sulla sua portata normativa. In questa sede, verranno presi in esame quattro aspetti della disciplina della legge sui quali i predetti interventi giurisprudenziali hanno spiegato o potrebbero, in futuro, spiegare effetti particolarmente significativi. Essi sono: 1) la possibilità di eseguire diagnosi preimpianto sull embrione; 2) i limiti all accesso alla PMA, con particolare riguardo alla preclusione della stessa per le coppie non sterili né infertili; 3) i limiti imposti alle scelte mediche in 1 Le quattro richieste di referendum erano state dichiarate ammissibili dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 46, 47, 48 e 49 del Successivamente allo svolgimento delle operazioni di voto, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha reso noto, con il comunicato del 15 luglio 2005 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica 15 luglio 2005, n. 163, che alla votazione referendaria non aveva partecipato la maggioranza degli aventi diritto. 1

3 ordine alla creazione, all impianto e alla crioconservazione degli embrioni; 4) il divieto della fecondazione eterologa. 2. La diagnosi preimpianto sull embrione Un primo problema che si è posto in sede applicativa è costituito dalla possibilità o no, per le coppie alle quali la legge n. 40 del 2004 consente di accedere alle tecniche di PMA, di chiedere la cosiddetta diagnosi preimpianto sugli embrioni. Per tale deve intendersi un accertamento possibile nell àmbito di un programma riproduttivo di fecondazione in vitro, cioè operato su embrioni prodotti in vitro che, tramite il prelevamento di una o più cellule dell embrione prima del suo impianto nell utero (il che comporta un certo margine di rischio di suo danneggiamento e di pregiudizio per il suo ulteriore sviluppo) permette di accertare, mediante l analisi genetica dei materiali del nucleo delle cellule prelevate, se lo stesso embrione sia portatore di (gravi) malattie genetiche. Ciò con lo scopo perseguito, generalmente, da richiedenti portatori sani di dette malattie di selezionare gli embrioni sani e non impiantare nell utero (e crioconservare o sopprimere) quelli malati. Tale diagnosi era ritenuta lecita, e comunemente praticata, sino all entrata in vigore della legge n. 40 del La questione della sua liceità divenne invece controversa, anche in dottrina, proprio in séguito all approvazione della legge n. 40 del La lettera della legge n. 40 del 2004 consente infatti in mancanza di una disposizione che faccia espresso riferimento alla diagnosi preimpianto entrambe le soluzioni interpretative. Tale equivocità scaturisce da alcune disposizioni del capo VI della legge, dedicato alle «Misure di tutela dell embrione», in particolare, dagli artt. 13 (rubricato: Sperimentazione sugli embrioni umani ) e 14 (rubricato: Limiti all applicazione delle tecniche sugli embrioni ). In particolare, l art. 13: vieta, al comma 1, «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano»; consente, tuttavia, al comma 2, «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano», subordinandola, però, alla «condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell embrione stesso» (si tenga conto che non esistono, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, strumenti di cura dell embrione affetto da malattie genetiche); al comma 3, lettera b), infine, vieta ancora, «comunque, [ ] ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni». L art. 14, d altro canto: vieta, al comma 1, «la crioconservazione e la soppressione di embrioni»; stabilisce, al comma 2, che le tecniche di produzione degli embrioni «non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto»; consente, tuttavia, al comma 3, la crioconservazione degli embrioni qualora il trasferimento degli stessi nell utero «non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione», fermo restando che 2

4 detta crioconservazione è prevista «fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile»; prevede infine, al comma 5, che i soggetti ammessi alle tecniche di PMA siano informati, «su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell utero». In questa cornice non priva, come visto, di ambiguità della legge n. 40 del 2004, sono intervenute le Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, adottate dal Ministro della salute (all epoca, Girolamo Sirchia), con decreto del 21 luglio 2004, ai sensi dell art. 7, comma 1, della legge n. 40 (secondo cui: «Il Ministro della salute, avvalendosi dell Istituto superiore di sanità, e previo parere del Consiglio superiore di sanità, definisce, con proprio decreto [ ], linee guida contenenti l indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita»). Tale atto, per quanto qui interessa, nella parte intitolata «Misure di tutela dell embrione Sperimentazione sugli embrioni umani (articolo 13, Legge n. 40/2004)», dopo avere proibito «ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica», stabiliva che «Ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell articolo 14, comma 5, [della legge n. 40 del 2004] dovrà essere di tipo osservazionale». Siffatta limitazione delle indagini preimpianto consentite a quelle «di tipo osservazionale», sembrava quindi porre un divieto di effettuare sull embrione quelle analisi, di tipo, invece, invasivo, necessarie al fine di diagnosticare le malattie genetiche di cui esso poteva essere portatore. Le prime applicazioni giurisprudenziali si orientarono nel senso di negare la possibilità della diagnosi preimpianto. Va rammentata, in particolare, l ordinanza del Tribunale di Catania del 3 maggio , adottata prima ancora delle Linee guida e divenuta notissima, con la quale il giudice etneo Lima rigettò la richiesta di un provvedimento di urgenza, avanzata da una coppia di coniugi entrambi portatori sani di beta-talassemia, che ordinasse al medico al quale si erano rivolti il quale, in base alla legge n. 40 del 2004, da poco entrata in vigore, aveva opposto un rifiuto alle loro richieste, in precedenza ritenute accoglibili di procedere alla diagnosi genetica preimpianto, di crioconservare gli embrioni risultati affetti da malattie genetiche e di proseguire il protocollo di PMA finalizzato a impiantare gli embrioni risultati invece sani o portatori sani. Secondo il Tribunale di Catania, quanto richiesto dai ricorrenti era espressamente vietato, sotto comminatoria di sanzione penale (art. 14, comma 6, della legge n. 40 del 2004), dai commi 1 e 3 dello stesso art. 14 che, come visto, rispettivamente, vietano la crioconservazione degli embrioni (comma 1), consentendola soltanto nel caso di impossibilità del trasferimento nell utero per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione, salva la necessità del trasferimento non appena possibile (comma 2) i quali, sempre ad avviso del giudice catanese, andavano interpretati, in considerazione del fatto che la legge era stata approvata da poche 2 In Foro it., 2004, I, 3498, con nota di G. CASABURI. 3

5 settimane, attribuendo «il [ ] più grande rilievo» all intenzione del legislatore quale risultava dai lavori parlamentari. Tale interpretazione avrebbe trovato conferma anche nell art. 4 della stessa legge n. 40 del 2004, il quale esclude che coppie fertili portatrici di malattie genetiche possano fare ricorso alle tecniche di PMA per selezionare gli embrioni da trasferire nell utero. Lo stesso giudice catanese aveva poi ritenuto manifestamente non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell art. 14 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consente la diagnosi preimpianto, sollevate dai ricorrenti in riferimento agli artt. 2, 3 con riguardo, tra l altro, all irragionevolezza del fatto di attribuire rilievo alla salute della donna dopo l impianto dell embrione malato, quando è consentito l aborto cosiddetto terapeutico (la legge n. 40 lascia infatti fermo, all art. 14, comma 1, quanto previsto dalla legge n. 194 del 1978 sull interruzione volontaria della gravidanza) e non anche prima di tale impianto e 32 della Costituzione. Nello stesso senso si era inizialmente espressa anche la giurisprudenza amministrativa, affermando che le Linee guida, nel proibire ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica e nel limitare le indagini sullo stato di salute degli embrioni creati in vitro a quelle di tipo «osservazionale», non contrastavano con la legge n. 40 del 2004 (TAR Lazio, sez. III, 9 maggio 2005, n ; in senso analogo, TAR Lazio, sez. III, 23 maggio 2005, n ). Del problema viene presto investita la Corte costituzionale. Lo fa il Tribunale di Cagliari che, con un ordinanza del 16 luglio (emessa dal giudice Satta), ritiene rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., le questioni di legittimità dell art. 13 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui fa divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull embrione ai fini dell accertamento di eventuali patologie» e trasmette, perciò, gli atti alla Consulta. Le questioni sono però dichiarate manifestamente inammissibili dalla Corte costituzionale con l ordinanza n. 369 del Con tale decisione, la Corte rimproverò al rimettente di essere 3 In Foro amm. TAR, 2005, 5, In Guida al dir., 2005, 26, In Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 613. Nel procedimento principale, una coppia di coniugi, entrambi portatori sani di beta-talassemia, che era stata ammessa alla procedura di PMA, aveva chiesto al primario dell Ospedale regionale per le microcitemie la diagnosi preimpianto sull embrione già formato, rifiutandone l impianto sino a che tale diagnosi non fosse stata effettuata (l embrione era stato, perciò, sottoposto a crioconservazione). A fronte del rifiuto del medico opposto sulla base dell art. 13 della legge n. 40 del 2004 i coniugi aveva chiesto, in via cautelare, che fosse dichiarato il loro diritto a ottenere la diagnosi e adottato un decreto che ordinasse al medico di procedervi. Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata avrebbe violato il diritto alla salute sia della donna sia dello stesso embrione in quanto «probabilmente condannato a subire, nel tempo, danni biologici ( ) [laddove] il rischio di inutilizzabilità a causa della diagnosi preimpianto si aggirerebbe statisticamente attorno all uno per cento» nonché l art. 3 Cost., in ragione dell ingiustificato diverso trattamento riservato ai genitori nel corso della gravidanza e nel corso del procedimento di PMA, atteso che ai primi è consentita la diagnosi prenatale. 6 Corte cost., ordinanza n. 369 del 2006, in Giur. cost.,, con note di C. CASINI e M. CASINI, Un significativo consolidamento della legge n. 40 del 2004, A. CELOTTO, La Corte costituzionale «decide di non decidere» sulla procreazione medicalmente assistita, C. TRIPODINA, Decisioni giurisprudenziali e decisioni politiche 4

6 incorso in una contraddizione, consistente nell avere denunciato la specifica disposizione dell art. 13 della legge n. 40 del 2004 nella parte relativa a una norma il divieto, appunto, della diagnosi preimpianto sull embrione che, secondo quanto affermato nella stessa ordinanza di rimessione, era desumibile anche da altri articoli della stessa legge n. 40 del che non erano stati impugnati, oltre che dall interpretazione di quell intero testo legislativo. La pronuncia fu oggetto di critiche anche aspre di parte della dottrina, che affermò apertamente che la Corte aveva «deciso di non decidere» 8. Essa può, in effetti, essere assunta a dimostrazione della difficoltà per le Corti costituzionali di intervenire come ormai sempre più spesso accade nelle odierne società pluralistiche e multiculturali su problematiche dalle forti implicazioni etiche e religiose che i decisori politici non sono riusciti a comporre nella sede parlamentare. La svolta che il giudice delle leggi non aveva potuto o voluto imprimere, viene, invece, dai giudici comuni, ordinari e amministrativi. La prima pronuncia da menzionare è stata emessa dallo stesso tribunale, quello di Cagliari (pur se a firma di un diverso giudice persona fisica), che aveva sollevato le questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale (Tribunale di Cagliari, 24 settembre 2007, giudice unico Cabitza 9 ). Il giudice isolano perviene ad ammettere la diagnosi preimpianto sulla scorta di una serie di argomentazioni. Egli sottolinea anzitutto la mancanza particolarmente significativa tenuto conto dell ispirazione complessivamente assai restrittiva della legge di un esplicito divieto generalizzato di diagnosi preimpianto. In secondo luogo, sul piano della lettera della legge, il Tribunale di Cagliari afferma che l art. 13 della legge n. 40 del 2004 e, in particolare, il comma 2 di tale articolo il quale, vietando, come visto, la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano che non sia finalizzata allo tutela della salute e allo sviluppo dello stesso, potrebbe opporsi all ammissibilità della diagnosi preimpianto, considerato che, allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile curare l embrione affetto da malattie genetiche disciplinano (come è fatto palese anche dalla stessa rubrica dell articolo) l attività di nell interpretazione del diritto alla vita (riflessioni a margine dell ordinanza della Corte costituzionale n. 369 del 2006), M. D AMICO, Il giudice costituzionale e l alibi del processo. 7 Il rimettente aveva affermato, in particolare, che il divieto della diagnosi preimpianto è «comunemente desunto anche dalla interpretazione della legge alla luce dei suoi criteri ispiratori» e «dalla disciplina complessiva della procedura di procreazione medicalmente assistita disegnata dalla legge» (in particolare, dalla disciplina della «revocabilità del consenso solo fino alla fecondazione dell ovulo», dal «divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello necessario per un unico impianto, obbligatorio quindi per tutti gli embrioni», dal «divieto di crioconservazione e di soppressione di embrioni»), nonché dall art. 14, comma 3, il quale, «precisando che la crioconservazione può essere mantenuta fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile, fa evidente riferimento ad ostacoli patologici all impianto di natura meramente transitoria» (e non già permanente). 8 In tali termini, A. CELOTTO, La Corte costituzionale «decide di non decidere» sulla procreazione medicalmente assistita, citato alla nota 5, nonché A. MORELLI, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all illegittimità consequenziale e selezione discrezionale dei casi (nota a margine dell ord. 369 del 2006), in 9 In Corriere giuridico, 2008, 3, 383, con nota di G. FERRANDO, Il Tribunale di Cagliari dice sì alle diagnosi preimpianto. 5

7 ricerca e di sperimentazione scientifica svolta su iniziativa del sanitario o del ricercatore nell interesse dell intera collettività (esprimendo l opzione della tutela assoluta dell aspettativa di vita dell embrione rispetto all interesse al progresso scientifico), e non comprendono, perciò, nel proprio àmbito di applicazione, la diagnosi preimpianto. In tale caso, infatti, la diagnosi non viene svolta su iniziativa del sanitario o del ricercatore a fini di ricerca o di sperimentazione, ma su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di PMA ed al fine di effettuare un accertamento diagnostico finalizzato ad assicurare la soddisfazione del diritto, espressamente riconosciuto ai futuri genitori dall art. 14, comma 5, della legge n. 40 del 2005, di essere adeguatamente informati sullo stato di salute dello specifico embrione destinato all impianto nell utero. La disposizione applicabile alla fattispecie non è, quindi, l art. 13, ma l art. 14, comma 5, della legge n. 40 del 2004, che, in ossequio al principio costituzionale del consenso informato (recepito, del resto, in via generale, dagli artt. 4, comma 2, lettera b, e 6 della legge n. 40), tutela il diritto alla piena consapevolezza in ordine al trattamento sanitario costituito dall impianto nell utero dell embrione prodotto in vitro, la quale è indispensabile sia ai fini di una gravidanza pienamente consapevole sia in funzione della tutela della salute gestionale della donna (tenuto conto che la comunità scientifica è concorde nel ritenere che nel caso di embrioni portatori di gravi malattie genetiche aumentano considerevolmente sia il rischio di una prosecuzione patologica della gravidanza sia il rischio di aborto spontaneo). La tutela assicurata al concepito dalla legge n. 40 del 2004 soccomberebbe quindi, in base alla stessa legge, nel bilanciamento con l interesse alla salvaguardia della salute fisica e psichica della donna direttamente coinvolta nella procedura di PMA. Il Tribunale di Cagliari afferma infine che la soluzione interpretativa della liceità della diagnosi preimpianto si rende necessaria anche alla luce del dovere del giudice di scegliere, tra le varie interpretazioni possibili, un significato normativo compatibile con la Costituzione, con riguardo, in particolare, oltre che ai già indicati diritti della donna alla salute e a esprimere un consenso consapevole al trattamento sanitario costituito dall impianto in utero dell embrione prodotto in vitro, anche con riferimento al principio di uguaglianza, essendo detta soluzione interpretativa la sola idonea ad evitare una diversità di trattamento tra le situazioni assimilabili della gestante, che può lecitamente accedere alla diagnosi prenatale (mediante tecniche invasive quali la villocentesi e l amniocentesi) nonostante il rischio di aborto spontaneo che la caratterizza, e coloro che hanno fatto ricorso alle tecniche di PMA. In conclusione, il giudice cagliaritano ritiene che la legge n. 40 del 2004 consente la diagnosi preimpianto quando essa: a) sia stata richiesta dai soggetti indicati nell art. 14, comma 5; b) abbia ad oggetto gli embrioni destinati all impianto nel grembo materno; c) sia strumentale all accertamento di eventuali malattie dell embrione e a garantire a chi ha avuto legittimo accesso alle tecniche di PMA una adeguata informazione sugli embrioni da impiantare. La ritenuta liceità, in base alla legge n. 40 del 2004, della diagnosi preimpianto richiesta 6

8 dai soggetti indicati nell art. 14, comma 5, della stessa legge, conduce infine inevitabilmente il Tribunale di Cagliari a ritenere che le Linee guida ministeriali, laddove prevedono che «ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell art. 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale» cioè di un tipo che consente di valutare solo la compattezza e lo stato di aggregazione delle cellule costituenti l embrione, ma non di individuarne eventuali anomalie genetiche si pongono in contrasto con la legge e devono, perciò, essere disapplicate. Conclusione alla quale, peraltro, il giudice cagliaritano giunge anche in virtù del contrasto di dette Linee guida con l art. 12 della Convenzione del Consiglio d Europa sui diritti dell uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo), del 4 aprile 1997, ratificata, e rese esecutiva in Italia con la legge n. 145 del 2001, secondo cui: «Si potrà procedere a test volti a prevedere delle malattie genetiche o che permettano l identificazione del soggetto come portatore di un gene responsabile di una malattia o di rilevare una predisposizione o una suscettibilità genetica ad una malattia solo a fini medici o di ricerca medica e con riserva di un consiglio genetico adeguato» 10. A conclusioni analoghe a quelle del Tribunale di Cagliari perviene, pochi mesi dopo, anche il Tribunale di Firenze con l ordinanza del 19 dicembre 2007 (giudice Mariani) 11. L atto conclusivo della vicenda interpretativa descritta è costituito dall ordinanza del TAR per il Lazio del 21 gennaio 2008, n Con tale pronuncia, il giudice amministrativo ha annullato, con effetto, evidentemente, erga omnes, le Linee guida là dove stabiliscono che «ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell art. 13, comma 5, [recte: 14, comma 5»] dovrà essere di tipo osservazionale». Secondo il giudice amministrativo, tale previsione delle Linee guida era illegittima perché, mentre l art. 13 consente interventi diagnostici sull embrione volti alla tutela della salute e allo sviluppo dello stesso, il regolamento ministeriale li aveva inammissibilmente limitati alla sola osservazione. Differentemente dal Tribunale di Cagliari, che aveva ritenuto che la diagnosi preimpianto fosse estranea all àmbito applicativo dell art. 13 e rientrasse, invece, in quello dell art. 14 (con il quale il divieto di tale diagnosi veniva ritenuto in contrasto), il TAR per il Lazio ritiene che il divieto di diagnosi preimpianto violi, invece, l art. 13. Successivamente, la versione aggiornata delle Linee guida adottata con decreto del Ministro della salute (all epoca, Livia Turco) con decreto dell 11 aprile 2008 sostitutivo del precedente decreto del 21 luglio 2004, ha eliminato la previsione relativa alla necessità che le indagini sulla salute degli embrioni creati in vitro debbano essere di tipo osservazionale. 10 Il paragrafo 83 del Rapporto esplicativo alla Convenzione afferma, tra l altro, che l art. 12, di per sé, non prevede alcun limite al diritto di eseguire test diagnostici su un embrione per stabilire se è portatore di caratteri ereditari che comporteranno una malattia grave per il bambino che dovrà nascere. 11 In Famiglia e diritto, 2008, 7, 723, con nota di F. ASTIGGIANO, Evoluzione delle problematiche relative all analisi preimpianto dell embrione e nuove Linee guida ministeriali. 12 Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. III-quater, 21 gennaio 2008, n. 398 (Pres. Di Giuseppe, Rel. Sandulli), in Famiglia e diritto, 2008, 5, 499, con nota di A. FIGONE, Illegittimo il divieto di indagini preimpianto sull embrione? 7

9 Può quindi concludersi che, in esito al percorso giurisprudenziale descritto, la diagnosi preimpianto sull embrione è ormai ritenuta lecita. 3. L accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita La legge n. 40 del 2004 condiziona l accesso alle tecniche di PMA alla sussistenza sia di una condizione di sterilità o di infertilità sia di alcuni altri requisiti soggettivi. Mi soffermerò qui principalmente sul primo aspetto che ha costituito l oggetto di importanti pronunce giurisprudenziali limitandomi ad accennare, per completezza, al secondo. Prendendo le mosse, quindi, dalla prima delle suddette condizioni, l art. 4, comma 1, della legge dispone che «Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico». Da tale disposizione in una con quelle dell art. 1 che definisce le «Finalità» della legge n. 40 si ricava che l accesso alle tecniche di PMA richiede una diagnosi o, comunque, una documentazione da parte del medico, di sterilità o di infertilità (non altrimenti rimuovibili) ed è quindi precluso alle coppie non infertili né sterili. Ciò pur quando i partner (uno solo o entrambi) siano portatori di malattie geneticamente trasmissibili, là dove, perciò, solo attraverso la diagnosi preimpianto e la selezione e l impianto degli embrioni sani che dette tecniche consentono (ora anche sul piano legale, a séguito del percorso che si è descritto al paragrafo 2) può essere scongiurato il rischio di procreare figli affetti da dette malattie. Al riguardo, va anzitutto sottolineato che le Linee guida aggiornate del 2008, nella parte relativa alla «Certificazione di infertilità o sterilità (ai sensi del comma 1 [dell art. 4])», hanno esteso la possibilità di ricorso alle tecniche di PMA anche alle coppie in cui l uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBC (epatite B) o HCV (epatite C) in ragione del fatto che, in tali casi, l elevato rischio di infezione per la madre o per il feto nel caso di rapporti sessuali non protetti costituisce «di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione», da fare rientrare tra i casi di infertilità maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico. Una sorta, quindi come la definiscono le Linee guida di infertilità «di fatto», che ampliava i casi di accesso alle tecniche di PMA, pur se solo al ricorrere di determinate malattie tassativamente indicate. L accesso alle tecniche di PMA restava però precluso in tutte le altre ipotesi di coppie affette da patologie trasmissibili (o portatrici sane delle stesse) per le quali la procreazione naturale presenta il grave rischio di trasmissione di dette malattie. 8

10 In proposito, nella giurisprudenza, va segnalata la pronuncia del Tribunale di Salerno del 9 gennaio , resa in via di urgenza con riguardo al caso di due coniugi, non sterili né infertili, ma entrambi portatori di una gravissima malattia geneticamente trasmissibile (l atrofia muscolare spinale di tipo 1). Il giudice campano, richiamando anche l estensione all accesso alle tecniche di PMA operata dalle nuove Linee guida, giunse a riconoscere, per la prima volta, detto accesso ai due coniugi in base ad una lettura degli artt. 1 e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004 conforme ai diritti, costituzionalmente garantiti, della donna ad avere un figlio sano e dei genitori all autodeterminazione nelle scelte procreative. È, però, la Corte europea dei diritti dell uomo ad infliggere, di recente, un forte colpo alla disciplina limitativa in esame. Adita da due cittadini italiani fertili ma portatori sani di fibrosi cistica (o mucoviscidosi) che lamentavano di non potere accedere alle tecniche di PMA e, quindi, alla diagnosi genetica preimpianto, la Corte, con la sentenza resa dalla seconda sezione il 28 agosto 2012 nel caso Costa e Pavan contro Italia (ricorso n /10) 14 divenuta definitiva dopo che il collegio di cinque giudici della Grande Camera della stessa Corte previsto dall art. 43, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ha respinto la richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal Governo italiano ai sensi del comma 1 dello stesso art. 43 ha affermato, all unanimità, che l impossibilità dei ricorrenti, in base alla legislazione italiana, di accedere alle tecniche di PMA e poi alla diagnosi preimpianto per potere mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani víola l art. 8 della CEDU che sancisce il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare ed esclude ogni ingerenza dell autorità pubblica nell esercizio di tale diritto a meno che essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Secondo i giudici di Strasburgo, la violazione dell art. 8 CEDU discende dal difetto di coerenza del sistema legislativo italiano in ragione del fatto che esso, da un lato, vieta ai ricorrenti l impianto dei soli embrioni non affetti dalla malattia di cui sono portatori sani, dall altro, li autorizza ad abortire un feto affetto da quella stessa patologia. Tale regime implica che, per tutelare il loro diritto a mettere al mondo un figlio che non soffra della patologia di cui sono portatori sani, la sola possibilità per i ricorrenti è quella di iniziare una gravidanza naturale e, poi, di procedere all interruzione medica della stessa qualora l esame prenatale dovesse rivelare che il feto è malato, con evidenti conseguenze sul diritto al rispetto della vita privata e familiare dei ricorrenti tenuto conto, da un lato, che la loro unica prospettiva di 13 Sulla quale, vedi, G. CASABURI, Procreazione medicalmente assistita: disco verde giurisprudenziale alle coppie non sterili e non infertili, in Corriere merito, 2010, 3, Su tale sentenza, possono leggersi, tra le altre, le note di C. NARDOCCI, La Corte di Strasburgo riporta a coerenza l ordinamento italiano, fra procreazione artificiale e interruzione volontaria di gravidanza. Riflessioni a margine di Costa e Pavan c. Italia, e di F. VARI, Considerazioni critiche a proposto della sentenza Costa et Pavan della II sezione della Corte EDU, entrambe in Rivista dell Associazione italiana dei costituzionalisti, 2013, 1. 9

11 genitorialità è quella legata alla possibilità che il figlio sia affetto dalla malattia in questione, dall altro, della sofferenza derivante dalla dolorosa scelta di procedere, all occorrenza, ad un aborto terapeutico. L evidenziata incoerenza del sistema legislativo italiano comporta, conclusivamente, ad avviso della Corte, che l ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare è stata sproporzionata, cioè non necessaria, in una società democratica, ai fini del conseguimento degli scopi della tutela della morale e dei diritti e delle libertà altrui che pure essa legittimamente persegue. La Corte, insomma, opera un vero e proprio giudizio di ragionevolezza, sub specie della coerenza tra le varie disposizioni dell ordinamento italiano, assumendo l incoerenza in esso riscontrata quale indice della sproporzione dell ingerenza dello Stato italiano nell esercizio del diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare e, conseguentemente, della violazione dell art. 8 CEDU. La Corte ha invece escluso una lesione del divieto di discriminazione previsto dall art. 14 della CEDU, invocato dai ricorrenti sotto il profilo della discriminazione rispetto alle coppie sterili o infertili o in cui l uomo sia affetto dal virus dell HIV o dell epatite B o C, sull assunto che pare, invero, un po frettoloso, come emerge da quanto precisato al paragrafo 2 che il divieto di accedere alla diagnosi de quo «interessa [ ] qualsiasi categoria di persone». In ordine a questa pronuncia, mi limito a quattro osservazioni. La prima concerne il fatto che, nel valutare la coerenza del nostro ordinamento, i giudici di Strasburgo paiono un poco approssimativi là dove affermano che la legislazione italiana autorizzerebbe senz altro i ricorrenti all aborto medico nel caso di un feto affetto da quella stessa malattia genetica. È noto, infatti, l art. 4 della legge n. 194 del 1978 consente l aborto cosiddetto terapeutico solo se le anomalie o le malformazioni del concepito comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica e psichica della donna 15. Ciò non sembra tuttavia, almeno ad avviso di chi scrive, inficiare, nella sostanza, il fondamento dell argomentazione della Corte, tenuto conto che non sembra dubbio che, anche interpretando correttamente la legge n. 194 del 1978, la legislazione italiana consente di ricorrere all aborto in casi in cui la diagnosi e la selezione preimpianto non sono consentite. La seconda concerne il rigetto, da parte della Corte, dell eccezione sollevata dal Governo italiano che aveva dedotto l irricevibilità del ricorso per la mancanza della condizione di ricevibilità costituita dal previo esaurimento delle vie di ricorso interne richiesta dall art. 35, comma 1, 15 A norma dell art. 4 della legge n. 194 del 1978: «Per l interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia». 10

12 CEDU, che sancisce il carattere sussidiario del sistema europeo di protezione dei diritti non avendo i ricorrenti mai adíto i tribunali italiani. La Corte ha fatto applicazione della propria giurisprudenza in base alla quale l onere di provare la disponibilità ed effettività di un mezzo di impugnazione interno spetta allo Stato convenuto ed ha ritenuto che l Italia non avesse, nella specie, adempiuto allo stesso, tenuto conto, da un canto, che l ordinanza del Tribunale di Salerno sopra citata, invocata dal Governo, era stata pronunciata da un giudice di primo grado, non era stata confermata da un organo superiore ed era «solo una decisione isolata» e, d altro canto, che non era possibile rimproverare ai ricorrenti di non avere presentato una domanda volta ad ottenere una misura che il Governo italiano affermava esplicitamente essere vietata in modo assoluto dalla legge. Parte della dottrina ha criticato questo aspetto della sentenza, ritenendo che consentire di adire direttamente la Corte europea in ragione del fatto che la domanda al giudice nazionale sarebbe stata volta ad ottenere una misura assolutamente vietata dalla legge interna equivarrebbe, da parte della Corte, a riconoscere a se stessa la competenza a giudicare direttamente in ogni caso di contrasto tra una norma interna di rango primario e la CEDU, scavalcando anche il sindacato della Corte costituzionale cui il giudice davanti al quale fosse stato presentato un ricorso interno si sarebbe potuto rivolgere e trasformandosi così, in una sorta di «super Corte costituzionale europea ad accesso diretto» 16, competente a pronunciarsi su ogni ricorso promosso dagli interessati contro le leggi degli Stati membri. La terza osservazione concerne il fatto che la Corte non ha ritenuto, nel caso di specie, a differenza di quanto avvenuto, in materia di fecondazione eterologa, nella sentenza della Grande Camera del 3 novembre 2001 resa nel caso S.H. ed altri contro Austria (ricorso n /00), di ricorrere al criterio, da essa stessa elaborato, del margine di apprezzamento di cui dispongono le autorità nazionali nell attuazione degli obblighi nascenti dalla CEDU. La Corte nega tale margine in base all argomento che, nella specie, non si tratta della fecondazione eterologa settore riconosciuto come fonte di delicati interrogativi di ordine morale ed etico sullo sfondo di una continua evoluzione medica e scientifica nonché sul quale manca una chiara e univoca tendenza tra gli Stati membri ma di quella omologa e di un questione che, stando ai dati di diritto comparato in suo possesso, riguardava, oltre all Italia, solo due Stati su trentadue presi in esame (l Austria e la Svizzera, nella quale ultima, peraltro, era all esame una modifica della legislazione diretta ad ammettere, in modo controllato, la diagnosi preimpianto). La quarta e ultima osservazione concerne gli effetti della sentenza nel nostro ordinamento. La sentenza in esame, accertato che, nel caso di specie, vi era stata una violazione dell art. 8 CEDU, ha riconosciuto ai ricorrenti una somma di ,00 per danni morali. Ciò si colloca, evidentemente, sul piano delle misure individuali, riguardanti le vittime della violazione. Sul piano 16 Così, F. VARI, Considerazioni critiche [ ], citata. 11

13 generale, si deve invece osservare che la sentenza Costa e Pavan, pur non atteggiandosi come una vera e propria sentenza pilota il dispositivo della sentenza non indica infatti delle misure generali che, secondo la Corte, dovrebbero essere adottate dall Italia in conseguenza della decisione 17 pone tuttavia senza dubbio in luce un difetto strutturale della nostra legislazione. Sotto tale generale profilo, qualora il legislatore non intervenga, in presenza di un giudizio avente ad oggetto una situazione analoga a quella dei signori Costa e Pavan, sembra percorribile la strada dell incidente di costituzionalità degli artt. 1 e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, invocando, secondo il consueto schema, il parametro dell art. 117, primo comma, Cost., in relazione all obbligo internazionale scaturente dall art. 8 della CEDU come interpretato dalla Corte europea (non rilevando, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, che l interpretazione della Corte europea sia resa con una sentenza non qualificabile come pilota). Non sembra infatti praticabile, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale di Salerno nella pronuncia sopra citata, la via di una interpretazione della normativa interna in senso conforme alla CEDU, tenuto conto che, come visto, la legge n. 40 del 2004 chiaramente limita l accesso alle tecniche di PMA ai casi di sterilità o di infertilità A proposito della prassi delle sentenze pilota, va detto che dalla sentenza della Corte europea può scaturire anche l obbligo di prevenire violazioni dello stesso genere di quella constatata, evitando che esse abbiano a ripetersi. In tali casi, la Corte può affermare la necessità che lo Stato convenuto ponga in essere le cosiddette misure generali : misure normative (modifiche di leggi o di regolamenti che la Corte ha rilevato essere, in concreto, contrari alla CEDU) o di altro genere, necessarie ad evitare il ripetersi di violazioni della CEDU simili a quella accertata; misure che non riguardano tanto, quindi, o soltanto, la situazione concreta sottoposta al giudizio della Corte, ma tutte le situazioni analoghe che abbiano in futuro a presentarsi. Il problema si pone, come è facile intuire, quando la violazione accertata dalla Corte non si deve tanto a un cattivo funzionamento occasionale dell ordinamento dello Stato convenuto, ma allo stesso modo di essere di quell ordinamento a livello legislativo, di normazione sub-legislativa, di prassi amministrative generalmente seguite o anche di prassi giudiziarie che la fattispecie individuale portata all attenzione della Corte mette in evidenza: a difetti, insomma, di carattere sistemico o strutturale di un ordinamento. In tali ipotesi, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della prassi del Comitato dei Ministri del Consiglio d Europa, gli obblighi dello Stato non possono ritenersi adempiuti sinché lo stesso non abbia adottato le misure generali necessarie. Fino a qualche anno fa l individuazione di queste misure non avveniva da parte della Corte che, anzi, quando richiesta dai ricorrenti, si rifiutava di farlo, affermando che l art. 46, par. 1, CEDU lascia gli Stati membri liberi di scegliere i mezzi da usare nel proprio ordinamento per adempiere l obbligo scaturente da tale previsione convenzionale ma nell ambito delle procedure di controllo dell esecuzione delle sentenze poste in essere dal Comitato dei Ministri (con l ausilio del Segretariato del Consiglio d Europa). A partire dalla sentenza emessa nel caso Broniowski c. Polonia, Grande Camera, ric. n /96, sentenza del 22 giugno 2004, paragrafi (emessa sotto la presidenza di Luzius Wildhaber e preceduta dalla Risoluzione n. 3 del Comitato dei Ministri del 12 maggio 2004 che esortava la Corte ad agire in tale senso), la Corte precisa ormai nelle proprie sentenze, nel dispositivo, le misure generali che, a suo avviso, devono essere adottate dallo Stato convenuto in conseguenza della sua decisione. È questa la prassi delle cosiddette sentenze pilota (pilot judgments) alle quali consegue l obbligo per lo Stato di adottare le misure di carattere generale (anche con effetto retroattivo, se necessario) indicate dalla Corte al fine di prevenire la ripetizione di illeciti analoghi e, anche, di evitare la proliferazione di ricorsi che traggano origine dalla medesima problematica. 18 L obbligo per il giudice di tentare, prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale in riferimento agli obblighi scaturenti dalla CEDU, di interpretare la norma interna in senso conforme alla Convenzione è stato affermato dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 349 del 2007 (secondo cui il giudice comune deve «interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme»). Solo qualora tale interpretazione conforme non sia possibile cioè quando il contrasto è «insanabile in via interpretativa» dal giudice comune (sentenza n. 349 del 2007), oppure anche quando esiste un diritto vivente contrario ad essa (sentenza n. 239 del 2009) il giudice comune può sollevare la questione di legittimità costituzionale. Il mancato esperimento del tentativo di interpretazione conforme, ove testualmente possibile e ove manchi un diritto vivente di segno contrario rende, quindi, la questione inammissibile (sentenza n. 239 del 2009 la quale ripete, nella 12

14 L intervento dei giudici, questa volta europei, sembra quindi avere aperto la strada ad una riscrittura della legge n. 40 anche sotto l aspetto ora considerato. Venendo ai limiti soggettivi all accesso alle tecniche di PMA, l art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce che «Fermo restando quanto stabilito dall articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». L applicazione, da parte di «chiunque a qualsiasi titolo», di tecniche di PMA in violazione delle limitazioni poste dal citato art. 5 (cioè a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi) è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da ,00 a ,00 euro (art. 12, comma 2, della legge n. 40 del 2004). Non sono, tuttavia, punibili, l uomo o la donna ai quali siano applicate, nei casi indicati, le tecniche di PMA (art. 12, comma 8, della legge n. 40 del 2004). Limitandomi, come premesso, a dei meri cenni, va osservato che tali norme si ispirano a criteri piuttosto restrittivi escludendo dall accesso alla PMA una serie di soggetti. Vengono in considerazione, anzitutto, i single, intesi come persone non coniugate né conviventi, e, in particolare, le donne single. Tale esclusione ha suscitato perplessità in parte della dottrina, sia in ragione del fatto che la legge n. 40 del 2004 non prevede particolari controlli in ordine alla stabilità della convivenza delle «coppie [ ] conviventi» alle quali garantisce l accesso alle tecniche di PMA, sia alla luce del fatto che non è certo impossibile alle donne prive di un partner stabile procreare naturalmente in conseguenza di un rapporto occasionale. Quanto a quest ultimo aspetto, è interessante osservare che l argomento che si potrebbe riassumere nella massima fecondatio naturam imitatur, quello per cui, cioè, si dovrebbe consentire di avere figli tramite le tecniche di PMA solo in condizioni analoghe a come, per natura, li possono avere le coppie fertili, talora usato a sostegno di posizioni restrittive ad esempio, contro l ammissibilità della diagnosi preimpianto sugli embrioni e della selezione degli embrioni sani, in quanto impossibili nella procreazione naturale si presta, in realtà, ad essere utilizzato, come nell esempio ora fatto, anche a sostegno di posizioni volte ad ampliare l accesso alla PMA. Per essere ammesse alla PMA, le coppie, coniugate o conviventi, devono essere, anzitutto, «di maggiorenni». La perplessità suscitata, in alcuni, anche da questo limite trova fondamento nelle circostanze che, da un lato, l art. 84 cod. civ., consente che il minore che abbia compiuto sedici anni sia ammesso al matrimonio, per gravi motivi, dal Tribunale; dall altro, l art. 250, ultimo comma, sostanza, lo schema da anni seguito dalla Corte costituzionale a proposito del dovere di interpretazione conforme alla Costituzione). 13

15 dello stesso codice, consente al minore che abbia compiuto il sedicesimo anno di età di riconoscere il figlio naturale. Le coppie medesime, inoltre, devono essere di sesso diverso con esclusione, quindi, delle coppie omosessuali e in età potenzialmente fertile. Infine, i componenti della coppia devono essere entrambi viventi. In proposito, la citata ordinanza del TAR per il Lazio 21 gennaio 2008, n. 398 (vedi il par. 2), ha chiarito che, ai sensi degli artt. 5 e 12, comma 2, della legge n. 40 del 2004, l esistenza in vita dei componenti della coppia è richiesta prima dell inizio della procedura di PMA. Tali disposizioni non si riferiscono, invece, alla diversa ipotesi in cui, avviata la procedura di PMA, il membro della coppia (in particolare, l uomo) deceda. In tale caso, troverebbero applicazione gli artt. 14, comma 1 (che vieta la soppressione degli embrioni), e 6, comma 3 (che consente la revoca della volontà di ciascuno dei richiedenti di accedere alle tecniche di PMA solo fino al momento della fecondazione dell ovulo), con la conseguenza che, per il vero, il TAR non esplicita compiutamente che l embrione formato potrebbe essere impiantato nell utero della donna vivente. 4. I limiti alle scelte mediche in ordine alla creazione, all impianto e alla crioconservazione degli embrioni La pronuncia maggiormente demolitoria in ragione sia dei suoi contenuti che dell organo che l ha adottata (e, conseguentemente, degli effetti propri delle sue pronunce) dell impianto della legge n. 40 del 2004 è costituita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 151 del Con tale sentenza, il giudice delle leggi, investito da diverse autorità giurisdizionali 19, decidendo, questa volta, di decidere, ha dichiarato l illegittimità costituzionale, anzitutto, dell art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004 secondo cui, come visto: «Le tecniche di produzione degli embrioni [ ] non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». La Corte, premesso che nella stessa legge n. 40 la tutela dell embrione non si configura come assoluta ma limitata in relazione alla necessità di bilanciarla con le esigenze della procreazione, rileva che il divieto di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario e comunque non superiore a tre (divieto che si faceva carico della questione degli embrioni cosiddetti soprannumerari) determina, per un verso, visto che non sempre tre embrioni prodotti sono in grado di dare luogo a una gravidanza le possibilità di successo variando in relazione alle caratteristiche degli stessi embrioni, alle condizioni soggettive delle donne che si 19 Si trattava del TAR per il Lazio (che aveva sollevato questione di legittimità con lo stesso provvedimento con il quale aveva annullato le Linee guida del 2004 là dove stabilivano che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro deve essere di tipo osservazionale) e del Tribunale ordinario di Firenze (con due ordinanze). 14

16 sottopongono alla procedura di PMA, all età delle medesime la necessità, nel caso, appunto, in cui il primo impianto non dia esito positivo, di reiterare i cicli di stimolazione ovarica, con conseguente aumento del rischio di insorgenza delle patologie a questa collegate. Per altro verso, il medesimo divieto determina, nei casi in cui siano maggiori le possibilità di attecchimento degli embrioni, un pregiudizio diverso alla salute della donna e del feto, nel caso di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria di dette gravidanze, salvo il ricorso all aborto, previsto dall art. 14, comma 4, della legge n. 40 (insomma, l impianto contestuale di tre embrioni può essere eccessivo, determinando il rischio, specie nelle donne più giovani, di gravidanze trigemine, rischiose sia per la salute della donna che per la sopravvivenza stessa dei feti). Per tali ragioni, l imposizione di una sorta di protocollo unico, senza riconoscere al medico la possibilità di considerare, sulla base delle conoscenze tecnico-scientifiche, le caratteristiche del singolo caso sottoposto alla procedura di PMA in particolare, le condizioni soggettive della donna e di scegliere di volta in volta, in base a dette caratteristiche, il numero degli embrioni da produrre e di quelli da impiantare, si pone in contrasto con l art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di uguaglianza e di quello di ragionevolezza, in quanto il legislatore ha riservato il medesimo trattamento a situazioni differenti, sia con l art. 32, Cost., per il pregiudizio alla salute della donna (e, eventualmente, del feto) che da essa deriva. La Corte richiama, al riguardo, la propria precedente giurisprudenza (in particolare, le sentenze n. 338 de 2003 e n. 282 del 2002) sui limiti posti alla discrezionalità del legislatore dalle acquisizioni scientifiche su cui si fonda la professione medica e sul principio secondo il quale, «in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Il legislatore non può, insomma volendo riprendere il titolo di una nota alla sentenza n. 151 del pretendere di farsi medico. La Corte dichiara pertanto l illegittimità costituzionale dell art. 14, comma 2, limitatamente, come visto, alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», avendo cura di precisare che, per effetto di tale intervento ablativo, rimane salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione degli embrioni non devono crearne un numero superiore a quello strettamente necessario (secondo una valutazione demandata, tuttavia, al medico, in base alle circostanze della fattispecie concreta). In conseguenza della sentenza per il vero non del tutto perspicua, insomma, vengono meno sia il divieto di produrre embrioni in numero superiore a tre che impediva al medico di crearne un numero adeguato alle condizioni della donna (fermo restando che resta l impossibilità di creare un numero di embrioni superiore a quello considerato dal medico come strettamente 20 M. MANETTI, La sentenza sulla pma, o del legislatore che volle farsi medico, in , 1. 15

17 necessario) sia l obbligo, per lo stesso medico, di un unico e contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti. È la stessa sentenza a chiarire che tali conclusioni implicano logicamente una deroga al generale divieto di crioconservazione degli embrioni posto dall art. 14, comma 1, della legge, attesa la necessità di crioconservare gli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta del medico. Le conclusioni relative all art. 14, comma 2, comportano infine, sempre secondo la Corte, una pronuncia additiva consistente nella «declaratoria di incostituzionalità del comma 3 [dell art. 14], nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna». Circa un anno dopo la sentenza n. 151 del 2009, la Corte costituzionale, nuovamente investita di questioni di legittimità costituzionale dell art. 14, commi 1, 2 e 3, le ha dichiarate inammissibili in ragione del fatto che, successivamente alle ordinanze di rimessione, era sopravvenuta la sentenza n. 151 che aveva reso dette questioni prive di oggetto (ordinanza n. 97 del 2010) Il divieto della fecondazione eterologa L art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 vieta «il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo». Il divieto è inserito in un articolo rubricato «Accesso alle tecniche». Esso, in effetti, preclude detto accesso a tutte le coppie in cui uno dei due partner (o entrambi) non sia grado di produrre gameti. L intervento giurisprudenziale ad oggi più significativo nella materia è costituito dalla sentenza emessa dalla Grande camera della Corte europea dei diritti dell uomo il 3 novembre 2011 sul caso S.H. e altri contro Austria (ricorso n /00). È da un esame di tale pronuncia che è quindi preferibile prendere le mosse ai fini di una analisi delle posizioni giurisprudenziali in ordine al divieto in considerazione e di una verifica in ordine ai possibili sviluppi futuri. Il caso esaminato dalla Corte EDU originava dal ricorso di due coppie di cittadini austriaci. Nel caso della prima coppia, la donna era completamente sterile soffriva, infatti, di agonadsmo, cioè non produceva assolutamente ovuli mentre l uomo poteva produrre sperma idoneo alla procreazione. Nel caso della seconda coppia, la donna era in grado di produrre ovuli ma era affetta da infertilità alle tube di Falloppio (che erano bloccate) mentre l uomo era sterile. Ne discendeva che solo la fecondazione in vitro con l utilizzo, per la prima coppia, di ovuli di una donatrice e, per la seconda coppia, dello sperma di un donatore poteva consentire loro di avere un figlio di cui 21 La stessa ordinanza n. 97 del 2010 ha dichiarato manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell art. 6, comma 3, della legge n 40 del

18 almeno uno dei due (il padre per la prima coppia, la madre per la seconda) sarebbe stato il genitore genetico. La legislazione austriaca, tuttavia, vietava in ogni caso la donazione di ovuli. Quanto all utilizzazione dello sperma di un donatore, essa era consentita, in casi eccezionali, solo per l inseminazione artificiale cioè per introdurre tale sperma negli organi riproduttivi della donna (cosiddetta fecondazione in vivo) mentre era vietata in tutti gli altri casi, in particolare allo scopo di effettuare una fecondazione in vitro. Secondo i ricorrenti, il divieto posto dalla legislazione austriaca di donazione di ovuli e di sperma per la fecondazione in vitro, cioè per l unica tecnica medica mediante la quale essi avrebbero potuto concepire un bambino, violava l art. 8 della CEDU che, nei termini già visti, consacra il diritto al rispetto della vita privata e familiare in combinato disposto con l art. 14 della stressa Convenzione (che reca il divieto di discriminazione). In una prima sentenza, adottata il 1 aprile 2010, una Camera della Prima sezione della Corte aveva affermato che vi era stata violazione dell art. 14 della CEDU in combinato disposto con l art. 8. Riguardo alla situazione della coppia che necessitava della donazione di ovuli, la Camera affermava che solo in circostanze eccezionali il divieto assoluto di questa tecnica può ritenersi una misura proporzionata, osservando, in proposito: in primo luogo, che le preoccupazioni manifestate dal Governo austriaco in ordine ai rischi della donazione di ovuli come, in particolare, il rischio di sfruttamento delle donne, specie quelle economicamente svantaggiate, o la selezione di bambini erano già oggetto di sufficienti tutele da parte della legge; in secondo luogo, che altre preoccupazioni manifestate dallo stesso Governo convenuto quali la creazione di relazioni atipiche in cui vi è una divisione della maternità tra madre genetica e madre biologica, potevano essere superate adottando norme appropriate. Riguardo alla situazione della coppia che necessitava, invece, della donazione di sperma per la fecondazione in vitro, la Camera osservava che tale tecnica ne combinava, in realtà, due la fecondazione in vitro con ovuli e sperma della stessa coppia e la donazione di sperma per la fecondazione in vivo che, prese singolarmente, erano consentite dalla legge austriaca, e che, perciò, il divieto della combinazione di tali due tecniche richiedeva argomenti molto persuasivi, che il Governo austriaco non era stato in grado di fornire (in particolare, molti degli argomenti avanzati dal Governo non erano specifici per la donazione di sperma per la fecondazione in vitro, mentre gli argomenti secondo i quali l inseminazione artificiale non in vitro è usata da tempo, è facile da gestire e il divieto della stessa sarebbe difficile da monitorare sarebbero recessivi rispetto ai rilevanti interessi delle persone coinvolte nella vicenda. La grande camera della Corte EDU, alla quale il caso era stato deferito ai sensi dell art. 43 CEDU, ribalta, però, la pronuncia della Camera della Prima sezione. Essa concorda con la prima sentenza sul fatto che il diritto di una coppia di concepire un bambino e di ricorrere alle tecniche di PMA per tale scopo rientra nell àmbito di applicazione dell art. 8 CEDU in quanto tale scelta è una chiara espressione della vita privata e familiare. Essa ritiene però non violato tale articolo della 17

19 Convenzione. A tale fine, rammenta anzitutto che una ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata o familiare víola l art. 8 CEDU a meno che, ai sensi del par. 2 di detto articolo, sia «prevista dalla legge», persegua uno degli obiettivi legittimi indicati e sia «necessaria in una società democratica» al fine di raggiungere detti obiettivi. La Grande camera non dubita minimamente del fatto che l ingerenza fosse prevista dalla legge e che perseguisse lo scopo legittimo di proteggere la salute o la morale o i diritti e le libertà altrui. Si concentra invece più diffusamente sulla necessità dell interferenza in una società democratica e sul relativo margine di discrezionalità di cui godono gli Stati contraenti. A quest ultimo riguardo, afferma che, ancorché, quando sia in gioco un importante aspetto dell esistenza o dell identità di un individuo, detto margine degli Stati sia di norma limitato, laddove, però, non esista alcun consenso tra gli Stati membri del Consiglio d Europa per quanto riguarda l importanza relativa degli interessi in gioco o il mezzo migliore per salvaguardarli, in particolare quando la causa sollevi questioni di sensibilità morale o etica, il margine degli Stati è più ampio (par. 94). A proposito dell esistenza di un tale consenso, la Corte osservava che nel 1998 (un anno prima che la Corte costituzionale austriaca si pronunciasse sul caso dei ricorrenti) la donazione di ovuli era vietata espressamente in otto Paesi 22 e quella di sperma in cinque 23, mentre al momento della decisione la donazione di sperma era vietata, oltre che in Austria (limitatamente alla fecondazione in vitro), solo in Italia, Lituania e Turchia, mentre la donazione di ovuli è vietata in tali Paesi e in Croazia, Germania, Norvegia e Svizzera. In base a tali dati, la Corte affermava che, pur se vi era un emergente consenso europeo all approvazione della donazione di gameti per la fecondazione in vitro, tale consenso non era «basato su principi consolidati stabiliti nel diritto degli Stati membri ma riflette piuttosto una fase di sviluppo all interno di un campo del diritto particolarmente dinamico» e conclusivamente sul punto che «poiché l utilizzo della fecondazione in vitro ha sollevato e continua a sollevare questioni delicate di ordine etico e morale che rientrano in un contesto di progressi rapidissimi in campo medico e scientifico, e poiché le questioni sollevate [ ] vertono su aree in cui non vi è ancora una omogeneità tra gli Stati membri, la Corte ritiene che il margine di discrezionalità di cui deve disporre lo Stato convenuto sia ampia», fermo restando che spetta alla Corte verificare, in base agli argomenti che hanno condotto a una data scelta legislativa, se sia stato stabilito un armonioso equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli di coloro che sono toccati da detta scelta. Sulla scorta di tali premesse, la Corte passa a esaminare, separatamente, la posizione delle due coppie di ricorrenti. Tale esame separato si rendeva necessario soprattutto in ragione del fatto che alcuni degli argomenti addotti dal Governo austriaco in difesa del divieto della donazione di gameti per la fecondazione in vitro potevano riguardare solo il divieto di donazione di ovuli (si 22 Austria, Germania, Irlanda, Norvegia, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Svizzera. 23 Austria, Germania, Irlanda, Norvegia e Svezia. 18

20 pensi alla prevenzione dello sfruttamento delle donne potenziali donatrici, specie se in condizioni economicamente vulnerabili, alla limitazione dei rischi per la loro salute, alla prevenzione di relazioni familiari atipiche legate alla distinzione tra maternità biologica e maternità genetica). Tuttavia, pur nella diversità dei due casi, la Corte ribadisce che in entrambi «permangono [ ] le perplessità di fondo sollevate dal Governo, vale a dire, che il divieto della donazione di gameti che prevede l intervento di terzi in un processo medico altamente tecnico era una questione controversa nella società austriaca e solleva questioni complesse di natura sociale ed etica nelle quali non esisteva ancora un consenso nella società e che doveva tenere conto della dignità umana, il benessere dei bambini così concepiti e la prevenzione delle ripercussioni negative o del potenziale abuso» e che, pertanto, detto divieto «che si fondava su tali motivi», è compatibile con l art. 8 della Convenzione. La Corte affermava ancora che il fatto che il legislatore austriaco non avesse vietato la donazione di sperma per la fecondazione in vivo tecnica da tempo accettata dalla società dimostra «l approccio attento e cauto del legislatore austriaco nel tentare di conciliare le realtà sociali con la sua posizione di principio in materia». Osservava inoltre che la legislazione austriaca non vietava di rivolgersi all estero per richiedere di accedere a tecniche di PMA non permesse in Austria e che, nel caso di un trattamento all estero con esito positivo, il codice civile austriaco «contiene norme molto chiare sulla paternità e la maternità rispettose dei desideri dei genitori». La sentenza si conclude affermando che la materia della PMA, in cui il diritto è in costante evoluzione e che è soggetta al rapido sviluppo del diritto stesso e della scienza, «richiede un esame permanente da parte degli Stati contraenti». A proposito di questa sentenza della Grande camera il cui iter motivazionale si è cercato di sintetizzare si possono formulare alcune osservazioni, prendendo lo spunto anche dalle critiche avanzate nell opinione dissenziente redatta da alcuni dei giudici del collegio 24. Una prima notazione concerne il fatto che la Grande camera, posto che vi «sono stati molti progressi nella scienza medica ai quali alcuni Stati membri hanno dato una risposta nella loro legislazione» e che «tali cambiamenti potrebbero [ ] avere delle ripercussioni sulla valutazione dei fatti operata dalla Corte», afferma, da un canto, che, tuttavia, «ciò che spetta alla Corte decidere è se tali divieti fossero giustificati al momento in cui sono stati presi in considerazione dalla Corte Costituzionale austriaca» (due dei quattro ricorrenti, le due donne, si erano infatti rivolte alla Corte costituzionale austriaca la cui decisione, intervenuta nel 1999, segnava l esaurimento delle vie di ricorso interno e, con esso, il perfezionamento dell illecito); dall altro, immediatamente dopo, e, 24 La sentenza che si commenta è stata approvata, quanto alla dedotta violazione dell art. 8 CEDU, con tredici voti favorevoli e quattro contrari. L opinione dissenziente si deve ai quattro giudici contrari alla soluzione adottata dalla maggioranza della Corte Tulkens, Hirvelä, Lazarova Trajkovska e Tsotsoria. Il giudice De Gaetano, pur avendo votato con la maggioranza, ha redatto una opinione separata. 19

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