Burial. Dawson. lanegan. mark. the other story

Dimensione: px
Iniziare la visualizzazioe della pagina:

Download "Burial. Dawson. lanegan. mark. the other story"

Transcript

1 digital magazine marzo 2012 n. 89 above the tree & the e-side A classic education George fitzgerald Beat do it parte IV dead can dance drink to me Pop Skrillex author Errors Kimya Dawson mark lanegan Burial the other story

2 marzo N.89 p. 4 Turn On Pop. 1280, Errors, George Fitzgerald, Drink To Me, Skrillex p. 12 Tune-In Above The Tree & The E-Side, A Classic Education, Author, Beat do it parte IV p. 28 Drop Out Kimya Dawson, Mark Lanegan, Burial Recensioni p. 52 Gimme some inches» 108 Re-Boot» 110 ReviewMirror» 112 Campi magnetici» 122 Classic album» 123 Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco, Alberto Lepri Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco Staff: Nino Ciglio, Carlo Affatigato, Marco Boscolo, Viola Barbieri, Fabrizio Gelmini, Antonio Laudazi, Simone Caronno, Diego Ballani, Antonio Cuccu, Giulia Antelli, Federico Pevere Copertina: Burial Guida spirituale: Adriano Trauber ( ) SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare

3 Pop Turn-On. Errors Turn-On. Death And The City From post-rock to glo Jim Thompson, Pussy Galore e il cyberpunk? Grazie ai Pop finiscono nell istantanea dei recessi più oscuri della No New York all alba dei 10s Con il terzo disco la band di Glasgow si divincola dall ombra dei Mogwai per un soleggiato mondo glo-fi Sin dal moniker, ispirato ad un romanzo di Jim Thompson, i Pop emanano il fascino torbido di certa avanguardia letterata. Sono autori di un Frankenstein rumorista assemblato con frattaglie di Pussy Galore e Suicide, e un album che nel titolo cita Joseph Conrad. Una domenica mattina - ricorda Ivan Lip - io Chris stavamo facendo colazione. Gli ho chiesto come stava e lui mi ha risposto L orrore.... Solo dopo abbiamo notato che si adattava all album. Hangover a parte, come definire quel campionario di feedback sanguinosi, neo tribalismi industriali ed efferatezze assortite che hanno tolto agli A Place To Bury Strangers il primato di loudest band in New York? Roba per stomaci forti, un primitivismo di ritorno che fornisce una chiave di lettura alla realtà suburbana della Grande Mela. Lavoro quotidianamente con poveri e disabili - spiegava Lip, ai tempi del primo singolo Bedbugs - e uno dei problemi maggiori, quando si vive accatastati in palazzi fatiscenti come questi, è quella di fronteggiare le infestazioni. Era il 2009 e su queste premesse la band fondava la sua poetica del degrado. Il sound di Bedbugs (cimici) pagava pegno al post harcore macilento dei Flipper, ma negli ultimi due anni la situazione è cambiata. A Lip e Chris Bug (che si spartiscono chitarre e synth), si sono uniti il batterista Zach Ziemann e il bassista Pascal Ludet. E stato un periodo difficile - ammette Bug - Eravamo in uno stato mentale malsano, dovuto ai continui cambi di formazione e questo ha inevitabilmente contribuito al clima generale dell album. Atmosfere, quelle di The Horror, che in quanto a negatività, non temono confronti. Brani come Bodies In Dunes sembrano fatti apposta per spostare un pò più in alto l asticella della tollerabilità. L ispirazione arriva dalla storia di un serial killer che si stava svolgendo mentre registravamo, poi però la canzone ha preso una strada sua che riflette lo stato d animo in cui ci trovavamo. Protagonista è sempre l alienazione della metropoli, ma qui siamo lontani dal glamour intellettuale del Lower East Side dei tardi 70s. L interpretazione che ne fanno i Pop è un mix di sensibilità post lynchana e cyberpunk paranoico mutuato dai Chrome, grazie a cui i scandagliano le pieghe di un tessuto urbano necrotizzato, eroso dalla povertà e da una tecnologia priva di confini etici. The Horror, ancor più del precedente The Grid, è metafora di tutto questo. La differenza è che mentre lo registravamo eravamo molto più miserabili, il che ha dato all album la sua precisa identità. Diego Ballani Un quartetto di Glasgow che passa dalle atmosfere postrock dei Mogwai (il disco d esordio del 2008 It s Not Something But It Is Like Whatever) al glo-fi di moda in questi ultimi tempi, tagliato con sonorità cosmiche e arrangiamenti animalcollectiveschi. Questo in sintesi il percorso degli Errors, un passaggio di consegne sonico effettuato inconsciamente, guidato più dagli ascolti, ci dicono in un intervista via . L eredità geografica di Glasgow è una coordinata buona per i giornalisti, ma i ragazzi non la percepiscono come parte fondamentale del loro sound, il loro approccio alla composizione di canzoni è influenzato più da un sentire scozzzese: in Holus-Bolus le chitarre suonano come cornamuse e il titolo di The Knock è preso da una collina scozzese. Gli input del nuovo lavoro Have Some Faith In Magic si assestano su binari pop, il cambio di rotta evidenzia un approccio aperto agli ascolti, una voglia di non essere imbrigliati in costrizioni da scenesters ammiccanti. Le ultime cose che sono passate sul piatto della sala prove sono infatti eterogenee: ultimamente abbiamo ascoltato Music From Saharan Cellphones, una compilation di un tipo americano che se n è andato nell ovest Sahara e ha comprato vecchi cellulari di seconda mano e ha selezionato un best of delle migliori suonerie e non si esclude la possibilità di accostarsi ad esperienze da dancefloor: Brassica remixerà a breve la traccia Pleasure Palaces. L altro ingrediente è ovviamente l ambient, tra le maggiori influenze si citano Atlas Sound, Cloudland Canyon, David Borden e Pure X. Il disco, interamente autoprodotto e autoregistrato dai quattro ragazzi, aggiunge anche delle vocals che ammiccano alla wave tagliata con strumenti vintage, cose buone per gli amanti degli Air, ovviamente condite con un savoir faire che non può prescindere dalla retrofilia per gli anni 80 e per le lande del ricordo esplorate con dovizia di particolari dai soliti Washed Out, Memory Tapes e Toro Y Moi. La cosa che colpisce è come i ragazzi siano riusciti a creare una raccolta che sta in piedi da sola, che non stanca e seppur intrisa di innumerevoli già-detti, sia un ottimo compromesso tra pop, electro, kraut e indie. Con un EP in arrivo ed un tour che probabilmente passerà anche per l Italia, è facile convertirsi alla fede per il magico. Se vi truccate un po di più e puntate su una campagna di marketing musicale mistico-camp, potrest trasformarvi nei prossimi MGMT. Uomo avvisato... Marco Braggion 4 5

4 Skrillex Add a drop to my pointless life Il principe del dubstep, le orde di fan, lo svilimento del genere, le polemiche a distanza, le collaborazioni eccellenti, il mainstream: guida pratica e scanzonata al fenomeno Skrillex Turn-On. Facile incazzarsi in questi casi. Perché l hanno ribattezzato the prince of dubstep, e uno che il dubstep lo ha frequentato dall inizio giustamente si indigna (come ha fatto esplicitamente James Blake, definendo tempo fa questo tipo di musica un gioco a chi piscia più lontano, di cui il dubstep non ha assolutamente bisogno ). Per lo stormo di ragazzini che lo venerano da fan, dunque a occhi chiusi, affetti da una visione assolutistica e riduttiva della musica (clamoroso il caso scoppiato su Facebook a dicembre, quando la condivisione da parte di Skrillex di un brano di Aphex Twin ha ricevuto una sfilza di commenti di disappunto dei fan, che chiedevano insistentemente ok, but where is the drop?, dov è il crollo?, il riff filth che spacca il brano, senza il quale evidentemente nessun pezzo ha ragion d essere). Perché a sentire in giro sembra sia arrivato il messia dubstep per le masse, e vien voglia di tirar fuori le sacre bibbie di Distance, Skream, Burial & co., delineare vertici e purezza del genere, mettergli accanto la plastica riciclata di una Scary Monsters And Nice Sprites o una Ruffneck, il massimo di cui Skrillex è stato capace, e fargli il pelo una volta per tutte. Ma sarebbe un discorso fine a sé stesso, che non toccherebbe minimamente né Skrillex né la sua gente. A maggior ragione che lui non ha mai affermato di essere il principe di alcunché e quello del dubstep è solo un espediente di immagine comodo da cavalcare, perfetto perché tutti possano parlare di lui, ma non un ambito di ricerca sonica intenzionale. E se a provarlo non bastassero i precedenti di Skrillex nel gruppo punk/metal From First To Last, basta scorrere le tracce dagli inizi a oggi: l eponima My Name Is Skrillex, WEEKENDS!!!, Kill Everybody, trattasi semplicemente di ardkore mainstream per gli anni X dalla bassissima qualità di produzione, dove tutto si muove intorno alla puntuale, ripetuta scarica filth che manda in palla la folla. Che poi, tra un drop e l altro, ci vada di mezzo l electro-house di Boys Noize o l halfstep bristoliano, conta poco. È un semplice, spietato meccanismo di causa-effetto. Skrillex lancia il drop e il pubblico impazzisce. Io ti do ciò che tu vuoi e tu mi riempi di soldi (o di clic) e mi rendi un idolo. E questa non è una critica, è semplicemente il modo in cui funziona col pubblico mainstream, volenti o nolenti. Basta prenderne atto e poi trarne le dovute conseguenze: stando così le cose, a cosa vuoi che serva la fantasia, l ispirazione? E allora via con la ripetizione sistematica dello stesso schema, Fucking Die, Rock n Roll, Scatta, da due anni praticamente sempre la stessa traccia e sempre le stesse strutture di semplice contorno al filth distorto. L importante è raggiungere il target. Vogliamo tirare in ballo dubstep, trance, house, metal? Vogliamo curare la produzione di Get Up dei Korn (dove son riusciti nell impresa impossibile di tirare fuori una canzone esattamente identica a entrambe le discografie)? Vogliamo inscenare un assurdo ponte generazionale e collaborare in Breakn A Sweat coi membri residui nientemeno che dei Doors (che ci han fatto la figura dei nonni trascinati dai nipoti a un cinema porno)? Chissenefrega, basta che c è il drop. Il suo è solo un prodotto da vendere, mica una teoria artistica. Una formula da ripetere con lo stampino e far funzionare il più a lungo possibile. Al punto da diventare inevitabilmente una gabbia, e infatti nell ultimo Bangarang EP si assiste ad una prima, parziale messa in discussione del solito teorema strofafilth refrain-strofa e vengono fuori brani alternativi come Right On Time (speed house in ricordo rave) e Summit (progressive trance revival in piena regola). La sostanza però non cambia, l obiettivo resta sempre eccitare il grande pubblico, che per sua natura non ha pretese intellettuali ma è guidato da reazioni istintive. E non è nemmeno opportuno tirare in ballo la solita storia della demonizzazione del mainstream, perché è una questione ormai largamente superata: la storia insegna, QUALSIASI artista o genere dovrà prima o poi confrontarsi con la sfida pop, nel senso più ampio del termine. Lo stesso dubstep, si sa, è abbondantemente in questa fase, dal 2010 di Mount Kimbie, Roska, Magnetic Man e Skream al 2011 di Katy B e Joker, e se vogliamo dirla tutta anche lo stesso Blake, che di Skrillex è l antagonista sotto ogni punto di vista, la sfida pop l ha bell e vinta col suo album omonimo (cos è il cantautorato soul, se non l apertura delle ricerche post-dubstep al pubblico neofita?). Storie differenti, ognuna diversa dall altra e tutte diverse da Skrillex. Ma di fronte a uno come lui, gira e rigira la questione è sempre la stessa: qui non stiam più parlando di musica. Qui stiam parlando di commercio, che è una dimensione completamente diversa, tutto un altro campo di gioco, in cui le chiacchiere sull arte stanno a zero e a parlare sono le cifre, anzi gli zeri. Tu puoi anche accanirti contro di lui perché (secondo il tuo punto di vista, condivisibile certo ma non assoluto) sta svuotando un genere che ha sempre scommesso tutto su un sentire introspettivo e un senso di appartenenza ad un élite lontana dalla massa. Puoi vomitargli addosso tutto il tuo disprezzo. Lui ti guarda in faccia, dietro quelle lenti da finto-nerd-sfigato-emo che però, classifiche alla mano, te l ha già messa in culo cento volte, e ti risponde: mbé? Vuoi che non sappia che quel che faccio è merda? Ma hai visto lì fuori che coda ai miei concerti? E tu non puoi che star zitto, perché lui è riuscito in quella che oggi, nel mondo del dio denaro e della guerra di marketing, è la sfida più difficile di tutte, ossia far musica senza troppa fatica e macinare fan a dismisura. E non dite che a farlo così non ci vuole niente, perché non ci sono tanti Skrillex in giro. Non col suo giro di vendite e di fan. Volendo, lo si può odiare con tutte le forze. Con la consapevolezza, però, che quell odio fa parte dello stesso suo gioco, che la cattiveria del mondo malvagio è manna dal cielo per ogni emo che si rispetti e non fa che rafforzare la loro fede e automaticamente i loro idoli. Oppure, se ne può semplicemente ridimensionare la portata e prenderlo per quel che è: un fenomeno generazionale, che come tale passerà presto e verrà dimenticato rapidamente. Come Jared Leto, Marilyn Manson, i Tokio Hotel. O i piercing, il bunjee jumping, l ipod. Tutti casi da osservare, al massimo spunti per riflessioni sociologiche, ma niente a cui val la pena di far la guerra. Perché qualsiasi siano le nostre tribolazioni, loro, coi loro numeri, vincono sempre. E poi, diciamocelo francamente: davvero pensavate che il dodicenne incazzato, in cerca di identità e mezzi per autoaffermarsi... uscisse matto per Burial? Carlo Affatigato 6 7

5 George FitzGerald In Da Club #8 Incontro con George FitzGerald al suo debutto live italiano. E finalmente un producer che non usa giri di parole e parla di stili, evoluzioni e intenzioni di scrittura. House + 2-step? Si può fare. Turn-On. Ha debuttato live in Italia a Febbraio, precisamente all Astoria di Torino per le serate SRSLY. di cui vi avevamo già accennato, ed è stata l occasione migliore per quattro chiacchiere con uno dei producers più promettenti del momento: su George FitzGerald abbiamo i riflettori puntati già dall anno scorso, quando ha tirato fuori una serie di EP di notevole livello, con cui si inseriva abilmente nel discorso evolutivo UK step proponendone una sua personale visione, fatta di background 2-step garage e morbidezza house. Questo è l anno del debutto su album (ce lo ha confermato), e sarà oltremodo interessante constatare come verrà fuori quel suo sound caratteristico in grado di coniugare propensione al club e gentilezza d ascolto con una naturalezza che su un ventenne ha un che d eccezionale. Avete presente le classiche risposte dei producer, che a qualsiasi tentativo di approfondimento intellettuale del loro ruolo tendono a rifiutare un confronto su generi ed evoluzioni riducendo tutto alle solite frasi fatte? Date una lettura alle risposte di George e vi stupirete dell esatto contrario: il ragazzo mostra grande coscienza e prende sul serio la figura del producer, ragionando sul proprio stile con cognizione di causa, parlando a chiare lettere di influenze, intenzioni ed evoluzioni stilistiche. Giovane ma pronto al salto di qualità. Sentite che professionalità. È un gran bel momento per te: nel 2011 hai conquistato i riflettori con una serie di interessanti EP, un podcast per RA e i svariati dj-set. È difficile per un giovane come te gestire le aspettative del pubblico? La consideri una sfida? Ad essere sincero, faccio di tutto per non pensare alle aspettative del pubblico. Anche se è difficile ignorarle completamente. Penso che se te ne preoccupi troppo finisci per andar dietro a ciò che vuole il pubblico invece che mostrar loro volti sempre nuovi di te. È una sfida, ma soprattutto è il divertimento di fare il producer... Il tuo stile è difficile da inquadrare: sembra che tu guardi sia alle evoluzioni dubstep che alle espressioni più classiche di 2-step garage e house. Cosa è di fatto la tua musica, dal tuo punto di vista? Diciamo che è una combinazione di tutto quello che ho affrontato fino ad ora. Certi producer sono dei puristi, e preferiscono concentrarsi su uno stile o genere specifico. Io invece li mischio tutti, tutti gli stili in cui sono entrato dall inizio ad oggi, e provo ad adattarli l uno all altro. A volte funziona e altre volte no. Comunque suppongo che le mie influenze principali siano garage, house e techno. Con uno stile come il tuo, che si avvicina sia alla house che allo UK step, sei in grado di rivolgerti ad entrambi i tipi di ascoltatori. Percepisci delle differenze tra i due tipi di pubblico? Preferisci il pubblico house o quello dubstep? Amo suonare per entrambi - rende le cose più interessanti e stimolanti. La differenza più ovvia tra i due tipi di pubblico è che un pubblico house generalmente non apprezza se rendi le cose più veloci e aggressive, e soprattutto se non ragioni in 4/4. Col pubblico UK bass invece non puoi esagerare troppo verso la deep. La cosa più bella è quando il pubblico ha fiducia in te al punto da lasciarti fare entrambe le cose e farsi trasportare altrove senza rimanere strettamente entro il recinto dance - quelle sono le serate migliori. Le tue uscite del 2011 mettono in evidenza la vera forza del tuo sound: la capacità di curarsi sia della dimensione d ascolto che delle prerogative da club, trovando il giusto equilibrio. Le tue tracce sembrano sempre adatte sia al club che alle cuffie, senza necessità di essere rimaneggiate. È così? È un ruolo difficile per te produrre tracce che vadano in entrambe le direzioni? A volte è difficile trovare il giusto equilibrio, ma se una traccia non suona bene sia nelle mie cuffie che quando la lancio in un club, allora non la pubblico nemmeno. Cerco anche di evitare di strutturare le mie tracce solo per un dj mix. Tracce lunghe come le DJ intro e outro sono noiose per chi le ascolta a casa... Possiamo considerarti uno degli interpreti dell evoluzione del sound dubstep allo stesso modo di Jamie XX e Sepalcure. Negli ultimi anni il dubstep si è evoluto verso un suono più morbido e seducente, come se volesse aprirsi ad un pubblico più ampio. La tua musica è emblematica in tal senso, può esser vista come l anello di congiunzione tra lo UK step e la house. Qual è il tuo punto di vista nell evoluzione dubstep? Beh, è vero che sento su me stesso un background dubstep in termini di tecniche di produzione e modalità di approccio alle tracce. Ma forse quello che la gente ama di me oggi non non ha più niente a che fare col dubstep, è qualcosa di nuovo ma non si sa che nome dargli. Relativamente a quest ultimo punto: che ruolo hai intenzione di giocare in questa evoluzione? Come stai cercando di distinguerti dagli altri artisti step? È una domanda difficile. Certo è bello sentirsi dire che la tua musica sta in qualche modo spingendo in avanti i confini, ma non penso mai realmente a questo quando compongo, semplicemente seguo ciò che mi interessa in quel momento. Rispetto agli altri artisti UK bass, penso di distinguermi per una scrittura meno aggressiva e percussiva rispetto alla maggioranza dei producers della scena UK odierna. Forse il mio stile è un po più romantico! Preferisci lavorare a nuove tracce in studio o esibirti in un club? Questo dipende dal club! Da quali personalità dance ti senti maggiormente influenzato? Esiste qualcuno che rappresenti un modello per te? Mi sento sempre ispirato da quei producers che hanno anche successo come label manager. Quella combinazione di creatività e cura è davvero speciale e richiede un sacco di lavoro. Sono stato fortunato a lavorare vicino a tipi come Will Saul e Scuba, credo che abbiano avuto una grande influenza su di me. Sarei felice se per la mia label personale, Man Make Music, avessi la metà del successo di Aus e Hotflush. Elegante, ballabile, emozionante: ordina queste caratteristiche per priorità nella tua musica. Hmm, non sono sicuro. L emozione ha priorità, credo. Hai pianificato un album per il 2012? Come suonerà? Sì. Ci lavorerò nella seconda metà dell anno e sarà bello. Ma non posso dire niente di più ora... Carlo Affatigato 8 9

6 Drink To Me I misteri di S Abbiamo incontrato i Drink To Me alla vigilia dell uscita di S, un album che sa essere sperimentale senza rinunciare alla melodia. Turn-On. I Drink To Me sono uno di quei gruppi che, anche se non mastichi troppo l italo-music, li conosci. Sono uno di quei gruppi che farebbero redimere qualsiasi avversario del rock made in Italy. Sono quel gruppo che Rolling Stone (e non solo) definsice il migliore di tutto lo stivale. Grandi responsabilità? Responsabilità non direi, piuttosto è una grande sfida con noi stessi: cercare ogni volta di fare meglio, di fare un disco che ci piaccia più del precedente. E questa sfida la si avverte subito in S, un lavoro sincero, di grande sperimentazione e probabilmente più pop del precedente Brazil: è più pop, ma anche più variegato nel suono, più ricercato e sperimentale da un certo punto di vista. Le chitarre sono state sacrificate sull altare del sintetico perché stiamo cercando una ricchezza e freschezza timbrica che le chitarre non ci permettono di raggiungere. Uno stile di scrittura spontaneo e contemporaneo, suggellato, a volte a distanza, da ogni membro nella sua cameretta - officina, davanti ad un computer: prendiamo delle canzoni e ne estrapoliamo frammenti interessanti. Dopodichè li memorizziamo nei campionatori e andiamo a suonarli a caso in sala prove. Abbiamo inserito pattern ritmici che prendevano lo scheletro cassa+clap/rullante di alcuni pezzi di M.I.A. o del grime o del raggamuffin e ci abbiamo creato dei contro-ritmi. E nato dal caos. Lentamente abbiamo scelto le trovate interessanti e abbiamo concretizzato il tutto. Tornati in quattro, i Drink To Me accolgono alla batteria Roberto Grosso Sategna, altrimenti noto come Ten Dogs: ci siamo innamorati delle sue canzoni, poi siamo stati salvati dalle sue bacchette quando lo scorso giugno avevamo sette date fissate, di cui cinque in Scandinavia, e Francesco si è beccato la mononucleosi. Rob ha imparato in sole due prove Brazil e siamo partiti. Dal vivo è stato fenomenale. È una miniera di energia giovane!. Con approccio infaticabile e lavoro di limatura quasi alessandrino, la band piemontese nasconde dietro un alone di mistero il segreto di S, l etimologia del nome, così come il cuore del concept. Si trova da qualche parte vicino al senso di meraviglia misteriosa che il mondo può suscitare. Nei testi si passa da visioni più o meno allucinatorie ad una mistica contemplazione, dal surreale umorismo all entusiasmo di chi accetta le sfide titaniche che un mondo di per sé vuoto di significato gli pone davanti. Mi auto-cito: La morte, il buio e il male sono sommersi dal desiderio di vivere, di parlare, di mangiare, di procreare, di creare, di sbagliare, di ridere. C è una bellezza misteriosa intorno a noi. Nei boschi, nelle città. Nello sguardo delle persone, nei loro segreti. Anche nelle aspirazioni frivole e nei sogni sbagliati di tanti giovani. Nel presente. Qui ed ora. Si respira, in queste parole e in quelle del disco, l affiatamento instancabile di chi non vive il fare musica come una sterile operazione di mercificazione, ma come frutto di passioni, ascolti, emozioni: abbiamo episodicamente continuato ad accumulare improvvisazioni fino all estate In tutti quei mesi c è poi stata l esperienza in Norvegia, un matrimonio, la nascita di una nipote e altre piccole cose che hanno reso l anno speciale. Ad agosto ci siamo ritirati in una baita di un nostro amico e abbiamo trascorso cinque giorni stupendi. Abbiamo finito tutti gli arrangiamenti in un clima di grande serenità. Ci stupivamo del risultato. In tutti quei mesi abbiamo amato una grande varietà di musica tra cui The Field, The Chap, M.I.A., Konono n.1, Anika, Leonard Cohen, Fleet Foxes, Aucan, The Heliocentrics, Erykah Badu, Piero Umiliani, Satanique Samba Trio (anche solo perché hanno il nome più bello del mondo). Già dai nomi sopra citati, si capisce che i Drink To Me, in un improbabile quanto nociva ottica bipolare del panorama musicale italiano, si pongono alla stregua di quelle band più contaminate con i ritmi oltralpe, spesso anglofone e comunque più esportabili rispetto alla folta schiera di post o neo cantautori che ripropongono con i mezzi contemporanei quanto la tradizione più classica ha prodotto. Pur respingendo (lo ripetiamo) questi schematismi, viene naturale chiedersi da dove prendano spunto entrambi gli approcci: sicuramente dal modo di intendere il ruolo della musica. Pur apprezzando molti cantautori recenti, non ne condividiamo spesso la concezione del sound. Battisti è in assoluto il nostro cantautore italiano preferito perché ha sempre sperimentato sul suono. Lui sapeva che se sei un musicista ti occupi principalmente di ritmo, di armonia, di melodia, ma anche del suono di un rullante, dell effetto sulla chitarra, della ricerca di strumenti nuovi, e via dicendo. I testi sono importanti, ma non sono tutto. Ciò che la maggior parte dei cantautori fa è proprio l opposto di Battisti. Infatti lui criticava De Andrè. In fondo rivendicava la dignità della musica sulle parole. Per questo non dividerei i musicisti tra chi canta in italiano e chi in inglese. Piuttosto in chi si cura della musica e in chi si accontenta di sottofondi standard. Quindi, ci collocheremmo accanto a Battisti piuttosto che ad una qualsiasi band che canta in inglese e crea un sound assolutamente anonimo. È infatti sul cantato e sui versi che si gioca la partita definitiva. C è chi pensa che il cantato in italiano sia la morte di certi generi e non ha del tutto torto; se la parola prende il sopravvento, a volte ci si accontenta di quello e di un sottofondo potente/soffice/ritmato (a seconda dell esigenza) senza grandi pretese. E gli stessi Drink To Me cercano di censurare eccessi di tristezza, dolcezza o di toni polemici. Anche quando vogliamo far passare un messaggio di denuncia ci piace farlo in modo suggestivo e ironico, piuttosto che tirare fuori slogan troppo diretti. Detto fatto. Ecco che dal cappello di S, la canzone più riuscita (Future Days) porta nel chorus uno splendido slogan, bello e diretto che contraddice con amore quanto detto prima: no revolution was ever made with love : come non detto! Il testo di Future Days è una polemica che vuole difendere le generazioni attuali, generalmente accusate di un vuoto di ideali e di prospettive, imbottite di cazzate dalla testa ai piedi. Mi piace pensare che sotto all apparente vuoto, sotto alla mancanza di amore (come simbolo degli anni Sessanta), sotto alla frivolezza possa sedimentarsi un energia esplosiva insospettabile. Questa generazione di rimbambiti forse sta facendo del suo meglio, nelle condizioni storiche attuali. L individuo non ha mai totale libertà, come molti pretendono. Insegnare agli adolescenti me lo fa capire ancora meglio. Non pretendo da loro che la pensino come me e che abbiano una certa coscienza critica del mondo. Cerco di aiutarli a pensare con la loro testa. Ma non li posso condannare o indottrinare. Se c è qualche band in grado di rappresentare l etica unhipster in modo coerente e disinteressato, ancora non lo sappiamo. Ma di certo i Drink To Me non ci sono troppo lontani. È naturale che la musica viva di un sentire comune, che raggruppa, tanti agglomerati come atomi e li nomina a piacimento. Questo non si può evitare. Il tutto sta nella volontà di intendere questa logica e affrontarla con serenità, magari con l aiuto di un etichetta, che di nome fa proprio Unhip. A questi livelli quasi nessuno s illude più di viver di musica. Quindi non ci si sente costretti a suonare o produrre dischi per sbarcare il lunario. Se lo fai bastano due condizioni: rientrare nei costi ed essere convinto che quella musica è fantastica. Sia noi che Unhip (ed anche Anemic Dracula, che produrrà il vinile) ci accontentiamo di questo. Se poi dovessimo avere un successo enorme sarà festa. Ma nessuno ci conta più di tanto. Unhip è un po all antica, sotto certi punti di vista: distribuzione, promozione, ecc. Ma è anche vero che di questi tempi è ammirabile un investimento di energia così. Molti preferiscono dirsi che è tutto inutile e affidarsi esclusivamente al viral per le band che si producono. Questa è la via più moderna e aggiornata, ma anche molto più comoda di quella scelta da Unhip. Diciamo che ci lusinga un affetto così, e sta creando un bel clima tra noi! Inoltre Mattia (Boscolo, ndr) e Giovanni (Gandolfi, owner della label, ndr) si sono ingegnati e hanno lanciato l idea di un abbonamento alla loro etichetta (Become an Unhipster). Bravi loro. Nino Ciglio 10 11

7 Tune-In. Above The Tree & The E-Side Psicogeografie selvagge a colpi di blues ritmico Above The Tree si espande ed ingloba un appendice che ha un nome, the E-Side, e un suono, ritmico-percussivo, per disegnare nuove traiettorie psichiche. Testo: Stefano Pifferi Dalle Marche non arrivano solo suoni figli di un marcio rock n roll imbastardito col noise come abbiamo avuto modo di illustrare un paio di anni fa. Da quella terra di confine, fiera e arcigna nel suo essere provinciale e di conseguenza genuina e ruspante, sono venuti anche raffinati guitar-hero alle prese con impro e blues deforme. Mattia Coletti, proprio ora in uscita col comeback The Land ed una fama ormai internazionale, ad esempio. O come Marco Bernacchia a.k.a. Above The Tree. Colonna portante della scena marchigiana con progetti misconosciuti ma seminali per far germogliare il rumore rock da quelle parti, come Gallina o M.A.Z.C.A, si è ritagliato un suo spazio con una personale forma isolazionista di avant-blues. Io nonostante i miei viaggi continui vivo nelle Marche, a Senigallia, almeno per il momento, visto che data la situazione politica in cui ci stiamo cacciando sarò sicuramente costretto ad emigrare e dopo anni di resistenza e lotta contro l oscuramento dei cervelli italici dovrò alzare bandiera bianca, fare la mia solita valigia prendere la mia creatività ed andarla a regalare altrove, dato che qui si rischia di uscirne pazzi! La musica di Above The Tree è fedele alla tradizione, ma anche in grado di rielaborarla, ripensarla e rinvigorirla, offrendone una visione altra, minimale e quasi disidratata, contaminata con l avanguardia chitarristica bianca. Una musica da espletarsi in una sorta di solipsismo autistico - alla domanda soli è meglio non posso che risponderti che soli è l unica strada percorribile - che diviene quasi l unica via possibile per allargare eccentricamente la questione e affrontare le vicissitudini, le problematiche, le questioni esistenziali poste in essere dall attualità. A livello individuale, prima; su quello collettivo, poi. Noi da una parte, che vorremmo solo esistere, esprimerci, poter contribuire con la nostra espressione ad un cambiamento sociale ed economico sostenibile e loro pronti ora 12 13

8 ad annullarci e presto a spararci addosso pur di mantenere con gli artigli i loro vecchi luoghi comuni. Wild intende descrivere appunto questa situazione, i selvaggi oggi come al tempo degli indiani d America. Più selvaggi i Sioux o i nordisti mossi dai cacciatori d oro? Chi è più selvaggio in un mondo selvaggio? Chi vive a contatto con la terra e con i piedi a terra oppure chi mosso da ambizioni rapaci non si accorge di annientare la terra stessa su cui vive? È in questo interstizio che si pone Wild, nel tentativo di descrivere l ambiguità che esiste nel momento in cui lo stato primordiale dell essere umano (quello dato dalla sopravvivenza animale, quel particolare atteggiamento di sopravvivenza che non guarda in faccia a nessuno) si sviluppa in una dimensione astratta come è la situazione attuale in cui lo scenario di questa massacro primitivo è quello dell economia. Non un concept album, sia chiaro, ma una riflessione sul presente, sul progresso, sulla condizione civile della contemporaneità. Quella di Above The Tree è una storia classica dei giorni nostri. Un progetto nato da un idea in solo, da quella necessità fisica di rinchiudersi in se stessi che mai come in questi anni ha segnato la bedroom-music tutta. Poi, una piccola fama conquistata sul campo e accresciuta da una costante resa live - sono più di 600 i concerti in giro per l Europa - che è momento ideale in cui entrare in catartica comunione con l ascoltatore, ma anche per introiettare suggestioni e input, influssi e conoscenze. Allargare eccentricamente la propria visuale per elaborare cioè una idea artistica che esuli da quella meramente musicale. Ora, dopo un paio di album di avant-blues ipnotico e trancey ben accolti (Blue Revenge e Minimal Love) e qualche pezzo piccolo (la tape Live at Cà Blasè), è giunta l ora della rinascita. La sigla si presenta infatti munita di una appendice che risponde a un nome, il conterraneo Matteo Sideri celato dietro la sigla E-Side, e a un suono, quello elettronico-percussivo che innerva e arricchisce le composizioni di Wild. Non che la proposta fosse povera dal punto di vista strumentale, ma il tappeto ritmico aggiunge una dimensione di alterità in certi passaggi piuttosto straniante. La povertà è uno stato prima che reale, psicologico e molto soggettivo. Chiaramente dopo cinque anni di vita di Above The Tree e circa 650 concerti in tutta Europa le emozioni e l amore che si prova per il proprio lavoro cambia. Sicuramente quello che prova un ascoltatore che pone il disco nel lettore e si vive i suoi 40 minuti di sospensione è assai diverso da quello che provo io dopo migliaia di km fatti, centinaia di soundcheck, treni, aerei presi e persi, notti alla guida per raggiungere la sala concerti in tempo il giorno dopo nella nazione adiacente. Milioni di input, ricordi, volti amici mi legano a questa esperienza, però chiaramente nella sovraesposizione e nella sovrasollecitazione si genera una sorta di apatia. La povertà si genera quando si ha un po il vuoto dentro, e a questo punto si sente la necessità di una nuova ricerca, una nuova avventura una nuova montagna da scalare, Above The Tree in solo rimane sempre lì al suo posto, continuerà ad esistere autonomamente, però Above The Tree & The E-Side, grazie anche all amore regalatomi da Locomotive Records, mi sta dando nuove ricchezze interiori, nuovi spazi di ricerca, ho ora davanti un nuovo foglio bianco e nuove matite e colori con i quali attaccarlo È interessante notare come, nelle intenzioni del suo deus ex machina, Wild più che il terzo disco di Above The Tree sia il primo di Above The Tree & E-Side, sigla che dell originale mantiene molte delle caratteristiche filosofico-musicali più evidenti, tentando però di spostare il discorso su latitudini sonore diverse. Dentro di me non ci sono state molte variazioni tra questo disco e i precedenti, li ho vissuti più che altro come un unico flusso. La mia esperienza solista, concerto dopo concerto ha sentito la necessità di sfociare in questo nuovo mondo. Ascoltando però in maniera analitica Wild capisco che nello spettatore potrebbe sfuggire tutto ciò che significa comporre un disco, che non è solo fare un disco ma è fare un disco all interno della propria esperienza di vita, che è contaminata da momenti, ascolti fatti, fasi ed esigenze nuove. Data l impossibilità di comprendere il dietro le quinte abbiamo deciso di suddividere questa esperienza, tanto che da ora in poi esisterà sempre un Above The Tree che prende la sua valigia e se ne va partendo per lunghi tour solitari, ma parallelamente Above The Tree & E-Side avrà il suo percorso fatto di nuove contaminazioni (che paradossalmente poi contamineranno a loro volta l Above The Tree solista in un loop infinito di scambi).in questa svolta, in questo sdoppiamento di personalità musicali in forme simili, quasi gemellari, un posto di rilievo lo occupa mr. E-Side, Matteo Sideri. Spirito affine e traino verso questi nuovi paesaggi sonori, non divide con Bernacchia solo le origini: Matteo è anche lui come me marchigiano di Senigallia, da poco presidente di un associazione culturale (la casa della Grancetta), luogo dove, oltre ad altre attività, era anche possibile registrare. Quindi abbiamo deciso di sfruttare lo spazio per le registrazioni e per arrangiare i pezzi con le parti di elettronica che ci sentivamo, il disco è stato pensato da me sia come brani che come scelta stilistica, e insieme a Matteo e all etichetta abbiamo lavorato sul nuovo suono. Pur divaricandosi in due progetti (quasi) distinti, l ingresso di Sideri e la conseguente svolta non rappresentano però un punto e a capo nell economia di Wild. È innegabile che le strutture si siano complicate e vengano rese in maniera più corposa e potenziata rispetto al passato, ma gli elementi cardine del suono di Above The Tree - folk, avanguardia, blues del delta - ci sono ancora tutti. Vengono però uniti e stratificati su una serie di influenze e nuovi ascolti (Grazie all aiuto di Matteo siamo riusciti ad avvicinarci anche a generi come trance, minimal techno, musica africana, musiche rituali dei nativi americani) che ne radicalizzano la portata e sfrangiano le possibilità, sia nella attuazione concettuale in studio che nella manifestazione live. Momento, quest ultimo, inscindibile dalla realizzazione discografica eppure dotato di un sua catartica peculiarità: Come sempre però potrebbe essere la mia scelta stilistica/estetica in fase di registrazione a trarre in inganno, come era già accaduto in Minimal Love, io tendo sempre a dividere la fase live da quella di registrazione. Ho una tendenza a rendere artificiale un prodotto che in chiave live si caratterizza per la spontaneità evidenziando come queste due fasi siano due esperienze molto differenti. In studio ho un approccio molto analitico, mi piace rappresentare in qualche modo la finzione che è insita nel supporto, un disco non è la realtà, ma è la rappresentazione della realtà trasformata in frequenze, forme d onda e immagazzinate su un supporto fisico. Chiaramente in fase di registrazione e di stampa di un disco si perdono quasi tutti gli elementi visivi della band o solista che li hanno prodotti, la propria identità intrappolata in quel supporto non è che parziale, lasciata solo in parte tramite le grafiche, che a volte però riescono addirittura a modificare in maniera erronea il senso percettivo del senso del disco stesso. In questo processo il suono si prende il 90% delle attenzioni, in fase live invece il corpo, le luci e tutto il resto aiutano e aggiungono all esperienza sonora un esperienza visiva e la somma di questi fattori genera una esperienza unica. Credo che un giudizio definitivo su questo disco debba essere dato solo dopo aver assistito ad entrambe le fasi, quella dell ascolto del disco e quella della visione live della performance così da capire con quale processo creativo esse sono mosse In continuo movimento, dunque, Above The Tree. In evoluzione perenne. Mai fermo sulle stesse posizioni, mai stabile nemmeno in un luogo. L esperienza live, motore inarrestabile dell evoluzione del sound e delle dinamiche interne al progetto, assume connotazioni altre quando a venir toccate sono latitudini inconsuete, come l Ucraina. Dopotutto, a venir disseminate in Wild - ma a ben vedere anche lungo la discografia pregressa - sono psicogeografie possibili, erranze e vagabondaggi psichici, slanci verso luoghi fisici che si trasfigurano in stati della mente pronti a divenire materiale per nuovi lavori, nuove produzioni. In un circuito virtuoso che ritorna sempre al punto di partenza. Pur se trasfigurato. Il viaggio è da sempre stato fondamentale, è da sempre fonte di nuovi spunti e punti di vista su ciò che sto facendo. In particolare credo che il futuro di questo progetto sia proprio quello di realizzare dei concept album e cioè di andare a viver in una nazione per almeno un anno e da lì con la collaborazione di musicisti del posto, registrare un nuovo disco. Mi interessa davvero riuscire a contaminare la mia musica del folklore del luogo e facendo questo vorrei in una volta per tutte riuscire a ad unire arte e vita

9 Tune-In. BEAT dot IT Parte IV La compila realizzata anche grazie a SA che cerca di mappare i fermenti più nuovi tra i producer italiani anni 00s è il pretesto perfetto per approfondirne storie, contesti e protagonisti... Testo: Gabriele Marino Christian Kappah Pevere Sociologismi a margine. Produttori: precari, grafici, onnivori I sociologismi in musica sono sempre un rischio, ma, anche in onore a una delle primigenie componenti di SA (fino al 2009 questo sito ospitava una sezione dedicata a lavori, anche accademici, di taglio appunto sociologico), ci siamo divertiti a incrociare alcuni dati ricorrenti nel nostro in deep (e specialmente nelle 38 interviste che abbiamo raccolto tra artisti, label manager e addetti ai lavori a vario titolo) sulla scena di produttori hip hop strumentali italiani. Ecco: chi sono i nostri producer? Sono produttori certamente a tempo indeterminato (passion junkies), ma sono comunque produttori precari. Quasi nessuno di loro (salvo incrociare l attività di produttore con quella di dj e speaker radiofonico) campa della propria arte. E questo era anche abbastanza scontato. Più interessante notare come praticamente quasi tutti abbiano a che fare, forse per deformazione generazionale (siamo sulla media dei 30 anni: mettete insieme prime competenze informatiche, smanettonismo nerd, immaginario videogame eccetera), con la grafica e/o col web: tantissimi grafici puri e pubblicitari, web-designer, tecnici informatici, web-master, visual&video editor, broadcaster. Un fotografo, un paio di tecnici del suono. C è forse sotto una qualche omologia che lavora in profondo tra funzionamento tecnico (e persino estetica di fondo) tra programmi con cui si produce la musica oggi e mondo della creazione e delle manipolazione grafica: beh, gli editor musicali più diffusi sono praticamente tutti degli editor visuali che richiedono di mettere in campo, se non proprio le stesse identiche competenze e sensibilità, competenze e sensibilità in qualche modo sovrapponibili. A questo prêt-à-porter-ismo tecnico-estetico si oppongono fieramente, ma tutto sommato in sordina, le scelte di artiginato manuale di gente come (sempre loro) Digi o Uxo: che tutto usano per produrre la loro musica tranne il laptop. E come formazioni, gusti, influenze musicali? Come sintetizzava bene il motto della Finest Ego che abbiamo riportato, il melting pot sonoro del boom discografico, specialmente dopo gli anni Sessanta, e - oggi - del download istantaneo, ubiquo e onnipotente, hanno forgiato una generazione di producer capace - grazie a dio - di ripensare le proprie radici street, fino agli albori Sangue Misto, alla luce del free visionario di Sun Ra, della techno (visionaria) di Aphex Twin, dei micro-cosmi glitch e della nuova-fusion di Flying Lotus. So much ado about Perché tutto questo sbattimento nell approfondire questa scena? Perché ci siamo accorti che esisteva un sotto

10 bosco lussureggiante così vicino a noi eppure allo stesso tempo così lontano che nascondeva forze, artisti e opere anche di grande valore e capaci di collocarsi senza complessi di inferiorità in un contesto internazionale. Ce lo hanno fatto capire per primissimi i Planet Soap del remixorama da stato dell arte di After Silkworm e continuano a confermarcelo tantissime collab italo-estere, a vario titolo e in varia forma. Qualcosa si è mosso, e tra balzi in avanti e fisiologici inciampi, speriamo anche grazie al nostro piccolo contributo di dissodamento del terreno, sono venute e stanno venendo fuori cose come il disco di Digi G Alessio sulla LuckyBeard di Phra dei Crookers (ecco: questo disco, visto il label-target, potrebbe davvero essere il disco che squarcia il velo della scena, da botto per il grande pubblico ), lo split da intenditori Digi+Uxo (per la belga Plynt Records; ci concedete peraltro di vantarci di essere stati noi a mettere in contatto Cristiano e Marco ormai quasi due anni fa?), la compila di materiali italiani curata da Andrea Mi per Finest Ego (in lavorazione). Ne sono successe e ne stanno succedendo delle belle. E altre ancora ne verranno - ancora più belle, scommettiamo - quando l attuale buzz attorno a questa scena in ebollizione e autodefinizione si stabilizzerà, tracciando un solco oltre il quale, sia a livello di artisti che di pubblico, resteranno solo quelli che vorranno e dovranno restare nel tempo. Come ha ben sintetizzato Carmine De Maria/RobotKaard (produttore napoletano della cerchia AvantHopperz con cui abbiamo avuto scambi anche burrascosi e che pecca spesso degli stessi peccati che nomina), di bravi ce ne sono molti, ma sono in pochissimi a poter andare oltre l allineamento al suono-moda internazionale e vantare una carriera infiammata da uno stile personale, subito riconoscibile, maturo e allo stesso tempo in evoluzione. L immediato domani, dopo il tentativo di mappatura che qui abbiamo abbozzato, sarà forse meno difficile da seguire, valutare, capire? Speriamo. Restano aperte moltissime questioni cruciali, dalle e alle quali siamo un po tutti imbrigliati, e che non a caso sono a un tempo questioni poetiche, creative, e questioni critiche. Una su tutte, la più banale e per questo forse la più radicale: ha ancora senso pretendere che il formato sul quale misurare il valore di un artista sia l album (a questa domanda, in qualche modo, sembra voler dare risposta la nuovissima rubrica SA (un)known Pleasures)? E ancora: ha ancora senso distinguere in base alle diverse nazionalità? E tra free download, digitale, fisico e a pagamento? fondo (e al fondo) attesissima sezione elenco telefonico. Forse evitabile, eppure in qualche modo necessaria, e - speriamo - non del tutto inutile. NB: i link rimandano ai siti (Soundcloud, Facebook, Bandcamp) degli artisti. Dubstep & dintorni: nella Firenze degli OverKnights, è importante la presenza di Numa Crew ( com/arge-numa-crew), collettivo di 7 elementi tra dj, produttori ed MC, orientato a un dubstep con solide basi nel ragga. Altrettanto importante e anzi, ancora più interessante ai fini del nostro discorso wonky-steps, il milanese Aaron Aquadrop Airaghi ( com/aquadrop), figura - di culto, soprattutto all estero, dove è molto più noto che in Italia - perfetta di raccordo tra dubstep e wonky come grandi direttrici della koiné electronica contemporanea. Gli altri (di Beat.it): Matt B / Bass Science (Matteo Baggiani, di stanza a Tokyo, dj, produttore, organizzatore e label master di Made In Glitch, etichetta nata nel 2007, molto sbilanciata su suoni electro e con in catalogo gente come Demokracy, Grillo e Mochipet), MoR-Master Of Ribongia (Antonio Rosselli), Fitness Bitch (Michele Lafiandra), Max Newton / Dj 2phast, Bain Mass, HelloMyNameIsRa (Raimondo Taibi, siciliano di stanza a Londra), Titus Tamai / A N.I.Q. Joint (Nicola Semprini), Costa (Raffaele Costantino), Kappah (Christian Pevere). Ne voglio ancora / Da approfondire: Populous (Andrea Mangia, accasato Morr Music), Gianluca Tayone, 3 Is a Crowd (trio milanese hiphop/dance oriented), Smania Uagliuns (Enzo Lofrano/The Agronomist e Gennaro Suanno, duo electrofunk superverace), WildCiraz (Agostino Ciraldi), Koki, Frankie Broccoli / Munis, Spin-off (Paolo Cuomo), thegodfatherexperience (Antonello L Abbate), Aid Copelj / AEED, Igloo / Lewi s (Luigi Savio), A Red Cat In The Doghouse (Aldo De Sanctis), Herrera (Federico Lazzarini), Paolo Jwise, Marco Groove Ferrario, Francesco Thoro Iuliano, Blessy (Marco Gorgone aka Buddy; già rapper del duo palermitano Stokka&Buddy; Stokka adesso produce a nome CookieSnap, recentemente sue tracce su LuckyBeard), Dromoscope (gruppo di sperimentazione elettronica, ma beat-oriented, costola del collettivo Improvvisatore Involontario), Grovekingsley (Carlo Pusceddu; autore di un ambient-hop atmosferico e molto intenso). Thanks to: i colleghi di area electronica di SA (Edoardo, Marco, Carlo) e tutti i producer e gli addetti ai lavori che hanno risposto alla chiamata. Tutti i mesi il magazine in pdf Tutti i giorni news, concerti, recensioni, contest, approfondimenti Gli altri Eccoci arrivati alla tanto denegata, bistrattata e quindi in seguici anche su 18 19

11 Tune-In. Author Chill-step kings Spunti e critiche per delineare un possibile futuro dubstep. Ruckspin degli Author a colloquio con SA Testo: Marco Braggion Tra le ultime produzioni del 2011 di dubstep il disco d esordio di Author (il duo formato da Jack Sparrow e Ruckspin) ci ha colpito positivamente per la capacità di coniugare il suono chill-out e le derive dubstep orientate al jazz e alla world music. Un debutto che riflette la pluriennale carriera e collaborazione del duo, alieno dalla movida londinese e più vicino alle atmosfere slo-mo di Bristol, sintonizzate sull etichetta Tectonic, patria del buon vecchio drago Pinch. Abbiamo sentito via Ruckspin, che ci ha concesso un interessante intervista, piena di spunti e critiche su cui riflettere per delineare un possibile futuro del dubstep. In esclusiva per SENTI- REASCOLTARE. I suoni del disco si ispirano a fonti diverse; ho sentito molto l influenza degli anni Novanta inglesi, come il suono chill delle etichette Ninja Tune e Mo Wax. Sei d accordo? Prendiamo molto dall estetica di produzione degli anni Novanta, in gran parte perché sia io che Sparrow abbiamo quasi trent anni e quindi siamo stati influenzati dalla musica che girava quando eravamo teen. Quei pezzi sono tuttora competitivi con le produzioni contemporanee, e spesso sono anche più interessanti. Ci sono comunque pezzi nuovi fuori dal tempo, a dispetto dell aumento di musica usa e getta. Ci sono anche molte influenze chill-out continentali, come quelle che hanno proposto qualche tempo fa Kruder & Dorfmeister a Vienna. Avete re-inventato il dubstep con un sapore chill-step? Tenterò di rispondere a questa domanda in modo pacato, dato che mi sta ribollendo il sangue nelle vene. Il disco di Author è stato creato come un vero e proprio album, non come una compilation di singoli per il dancefloor, come molte uscite di oggi. Viviamo in un periodo in cui l album sta lentamente perdendo la battaglia contro una cultura consumistica che favorisce i singoli, acquistabili spesso come tracce mp3 separate. Tempo fa la gente comprava l album intero, inteso come un esperienza da provare, lo ascoltava dall inizio alla fine. La musica che abbiamo scritto è per quelli che ascoltano ancora i dischi così - seduti per un ora con una buona tazza di the. L album dà inoltre all artista lo spazio per rendere la produzione e la creatività più flessibili, senza preoccuparsi di cose del tipo è abbastanza accattivante questo hook? o andrà bene per il dancefloor?. La progressione nell album - l estetica di produzione anni 90 come la chiami tu - e il fatto che abbiamo registrato dal vivo gli strumenti e i musicisti sono i motivi per cui siamo stati paragonati a K&D, ma la somiglianza finisce lì. Non siamo interessati a re-inventare o ri-definire il dubstep in qualcosa del tipo cafe-del-mar o bedtime-step hippy. Il dubstep si è già 20 21

12 modificato, è una bestia diversa da quello che era all inizio. Quello che facciamo è ignorare del tutto il cosiddetto dubstep moderno, convenzionale o mainstream. Quello che ci interessa è il fare musica su un livello che possa piacere solo ai ravers che sudano! L etimologia del termine dubstep descrive una fusione musicale che prende in sè la musica dub, come il Drum n Bass. Le origini del dubstep stanno nel suono giamaicano (o ancor prima nella storia della musica nera del 20mo secolo, nel blues e nel jazz), per passare poi al breakbeat old-school, al garage e ai rave jungle degli anni Novanta. E costruito per i soundsystem - e con questo intendo i veri soundsystem, non per qualche cassa di bassa qualità che trovi nei bar. Non ci piace definire il dub come musica chill-out, anche se molti lo fanno. Se ha un beat, allora puoi ballarci sopra. Non ci piace usare usare preset e drop o suoni di synth artificiali in sequenza uno dopo l altro. Spero che la nostra musica possa essere fruita e ballata ovunque. Anche a noi piace ballare il dub. Prova a sentire il soundsystem degli Iration Steppas al Subdub: difficilmente lo definiresti come chill out! Il vostro disco è godibilissimo e in un certo senso mainstream, probabilmente per atmosfere rallentate e soul-jazz. Pensate che il dubstep sia il nuovo pop degli anni 2010? Non pensiamo che ci siano tracce pop nel disco, ma sicuramente la produzione è nello standard della musica commerciale (è proprio per questo che facciamo musica). Dopo un po di tempo qualsiasi genere musicale entra nelle classifiche mainstream. Questo non significa che morirà o che diventerà completamente commerciale: basta che guardi al d n b, che ha avuto apici commerciali ed è ancora seguito da un folto pubblico underground. La vostra collaborazione (vedi anche l album di Jack Sparrow) non è recente. Come vi siete incontrati? Lavoravamo entrambi come produttori a Leeds, e ci siamo messi a produrre due tracce dopo un suggerimento di Simon (il promoter del festival Outlook, dell Exodus, Subdub, etc. un guru musicale e una leggenda metropolitana di Leeds). La prima traccia è stata Blessings che è uscita su Pushing Red, l altra è stata Dread, che è finita sul disco di Jack. Mi dispiace ma non ho molti aneddoti da raccontarti, a parte il fatto che sette anni fa sono andato a un party a casa di Jack senza sapere chi fosse (viveva con Rusko al tempo); l anno seguente lui è venuto a un party a casa mia senza conoscermi (in quell occasione suonava guardacaso sempre Rusko). Siete da Leeds e stampate i dischi a Bristol (per la Tectonic). Pensate ci sia una differenza tra il vostro dubstep e quello di Londra? Mi sembra che il vostro suono sia più jazz/soul. Non siamo sicuri di essere d accordo con la categorizzazione del suono attraverso il luogo di provenienza del produttore. Una delle ragioni per cui il nostro album è jazzy rispetto ad altre uscite dubstep è perché è da molto che scriviamo e suoniamo musica e ci piace esplorare le possibilità musicali della produzione di musica dance. Non ha niente ha che vedere con la provenienza o con la posizione geografica degli studi - ha più a che vedere con le nostre influenze e collaboratori. Oggi con la rete puoi prendere influenze da chiunque e da qualsiasi posto, e non sei per niente costretto ad usare le stesse tecniche o suoni che usano le persone che ti vivono vicino! Quali sono gli artisti che seguite di più ultimamente? Mi piace molto un produttore che si chiama Aeolho - i suoi mix e le sue tracce sono grandi, ma visto che fa cose che non suonano come niente al mondo sta tentando disperatamente di trovare un contratto. Ci piace anche quello che il nostro amico Planas sta facendo per il suo album - un po di dubstep, hiphop e altre cose. Mi piace collezionare d n b e amo le cose deep di June Miller e naturalmente Calibre, ma ho ancora un anima teenager che mi fa comprare pacchi di Current Value, Raiden, Limewax, Noisia, Black Sun Empire, Phace, Misanthrop, etc. Sono da sempre un fan di The Bug, da prima che entrasse a far parte del mondo dubstep. I miei amici Octane e DLR stanno facendo cose buone nel d n b, sono produttori molto talentuosi e tecnici. Ho mixato di recente un EP per una band che si chiama People in Jars e le cose che fanno sono nuove e interessanti - non sono mai stato tanto dentro ai gruppi con chitarre, ma loro suonano come un mix tra Radiohead e Pink Floyd con testi politici. Siamo troppo impegnati per seguire davvero qualcuno ma produttori come Ipman, Side Projekt, Killawatt, Ford, Cauto TMSV e Riskotheque ci mandano sempre una montagna di buona musica. Anche la mia ragazza fa delle belle tracce! Ora che il 2011 è finito cosa avete ascoltato di più l anno scorso? C è stata molta attenzione sul disco di Pinch e Shackleton. Vi è piaciuto? Ad essere onesto non seguo molto le mode musicali. Ho sempre apprezzato Pinch da quando ho comprato la mia prima traccia dubstep - Pinch & P Dutty War Dub. Ho sentito l album che ha fatto con Shackleton e ho pensato che fosse una buona raccolta percussiva - non mi aspettavo nulla di più da dei veterani. Se vuoi sapere cosa ho ascoltato di più l anno scorso è stato probabilmente il disco della Submotion Orchestra (Finest Hour) solo perché ci ho messo una vita a produrlo e ho fatto pure due tour come ingegnere della band! Nell album avete due featuring. Ed Thomas e Ben Glass. Come li avete incontrati? Perché avete scelto proprio loro? In realtà abbiamo tre featurers nell album ma Simon Beddoe (della Submotion Orchestra) ha suonato la tromba su qualche traccia, così abbiamo preferito non mettere il feat nei titoli ed inserirlo solo nelle note dell album. Ben Glass fa parte del gruppo dub Dubkasm e ha suonato dei takes bestiali con il sassofono e la melodica nella traccia Green & Blue. Il contatto l ha stabilito Jack, sebbene abbia avuto il piacere di incontrarlo dopo una gig all Outlook Festival l anno scorso. Ed Thomas suona le tastiere per la band reggae/ska Gentlemans s Dub Club, ma quando abbiamo sentito le sue vocals su una delle tacce dell album dei Planas, abbiamo capito che dovevamo coinvolgerlo - l uomo sputa soul a pacchi. Produce hiphop anche con il moniker di Seemore e ha fatto un bel remix per Submotion. Lo scorso novembre siete stati al Fabric. Avete suonato il disco dal vivo? Lo suonerete con una band in futuro? C è sempre un bel giro al Fabric. Eravamo sul palco con il leggendario Adrian Sherwood, è stato un onore suonare quella sera. Al momento il nostro show live coinvolge un set elettronico solo con controllers ed effetti, ma stiamo lavorando a sviluppi futuri... Ho letto che Ruckspin ha un progetto live come Submotion Orchestra. Questo album segue quel progetto? Scrivo, produco e insonorizzo per la Submotion Orchestra come per Author. Il trombettista della Submotion come ti ho già detto ha suonato nell album. Poresti trovarci delle somiglianze. Siamo creativi e ci piace essere coinvolti in nuovi progetti musicali. Non è così strano per noi lavorare a progetti diversi contemporaneamente (vedi anche People in Jars, produzioni soliste e remix, eventi e collaborazioni con altri produttori). Qualche traccia è influenzata anche dalla world music (penso a Dashiki). Qualche altra è più proiettata verso la cultura clubbistica e i suoni futuristici. Con una palette sonora di questo tipo, quale pensate sia il futuro della musica dubstep/uk bass? Pensate che evolverà in un ambiente sonoro più aperto, cioé con più connessioni con altri generi o esperienze? Quando sono venuto a contatto con il dubstep era molto diverso da come è oggi. E nato come una reazione al garage mainstream e populista, ma 10 anni dopo è diventato ironicamente (a causa di un processo massmediatico) il nuovo trend pop e mainstream. Tutto si muove ciclicamente, quindi sono sicuro che ci sarà una reazione uguale e contraria contro il dubstep proprio allo stesso modo in cui è cominciato. L altra cosa interessante è che appena il dubstep è nato, il d n b ha utilizzato lo stesso tipo di estetica di produzione che ora satura la gran parte del dubstep. C è anche un grosso spostamento verso la house e la techno degli artisti più credibili sulla scena dubstep, che in sè non è una cosa brutta - anch io supporto i produttori che sperimentano con tempi differenti. C è una rinascita di nuovi produttori che stanno tornando indietro al minimal dubstep, come risposta al suono compressed-in-your-face che ha dettato legge per tanto tempo. Quello che sarà interessante sarà capire come riusciranno ad attirare l attenzione per ristabilizzare il genere dentro al discorso dub (non al pop) senza derive chill-out, bedtime-step, dungeon, 90s o altro... Questo disco è molto onesto. Non riesco a trovare una definizione migliore. Sembra che abbiate lavorato sulle tracce senza pressione, quasi come in Giamaica. E strano perché l atmosfera in Inghilterra non è così soleggiata e rilassata. Siete in uno stato di grazia o cosa? Io e Jack abbiamo gusti musicali molto simili e lavoriamo bene in studio insieme. Grazie a Pinch e al suo supporto abbiamo lavorato in modo rilassato; ci abbiamo messo parecchio tempo per finirlo. Abbiamo riunito idee e tracce incomplete e ci abbiamo lavorato durante l estate mangiando dolcetti e cioccolata e bevendo quantità incredibili di the. Pinch ha avuto un approccio molto discreto e ci ha lasciato fare quello che volevamo; ha supportato molto le nostre decisioni. Ha dato fiducia al nostro giudizio e sono contento che non abbiamo fatto qualcosa per nessun altro oltre che per noi stessi. Ci abbiamo messo molto ma siamo molto soddisfatti del risultato! Quali sono i vostri progetti futuri? Suonerete in Italia? Continueremo a sviluppare Author con lavori e concerti - speriamo con un uscita per il mercato giapponese nel futuro prossimo. Stiamo lavorando a nuove tracce che usciranno a breve. Come ti ho già detto, siamo creativi, quindi senza dubbio succederà qualcosa di nuovo, come i nostri lavori solisti, remix, etc. Abbiamo suonato da soli in Italia già un po di volte, e ogni volta siamo stati accolti molto positivamente dal pubblico. Speriamo di riuscire a portare il progetto Author e anche qualche DJ set! 22 23

13 Tune-In. A Classic Education Percorsi fuori sincrono A pochi mesi dal debutto Call It Blazing, l incontro con la band di Jonathan Clancy, immersi nei paesaggi sonori di un polveroso indie-dream-psych-pop-rock Sixties Testo: Giulia Antelli Dal 15 febbraio sono negli Usa per un tour di oltre cinquanta date in due mesi con Cloud Nothings e Ganglians. Noi, gli A Classic Education, li abbiamo incontrati qualche settimana fa al Karemaski di Arezzo, agli sgoccioli di un tour 2011 che ha portato la band in giro praticamente ovunque, dall Italia alla Spagna, dalla Germania alla Francia, fino alla Gran Bretagna. Per chi ancora non la conoscesse, la storia del gruppo è quella di ogni band nata dopo l avvento del web. Prima l esperienza decennale con i Settlefish, da cui sono partiti nel 1998 il frontman italo-canadese (ma residente da sempre a Bologna) Clancy, il bassista Paul Pieretto e il batterista Federico Oppi: tre album in studio e un EP, tutti pubblicati in Italia dalla Unhip Records di Giovanni Gandolfi e all estero dalla Deep Elm fondata da John Szuch, la stessa di The Appleseed Cast, Brandtson e Planes Mistaken For Stars; poi, l incontro con Giulia Mazza e Luca Mazzieri, con la conseguente nascita, nel 2007, degli A Classic Education: solito tam tam via internet e social networks, due EP più che discreti - First e Hey There Stranger rispettivamente 2008 e e finalmente, lo scorso ottobre, il debutto coi fiocchi di Call It Blazing tramite l etichetta californiana Lefse. Nel mentre, la benedizione di vari magazine di settore (SA incluso), una lunga gavetta live iniziata del 2007 nei club di Bologna (città natale del gruppo) e arrivata fino al South By South West in Texas e al Primavera Sound di Barcellona. Dopo i tour internazionali condivisi con Arcade Fire, British Sea Power e Okkervil River (solo per ricordarne alcuni), eccoci qui al locale aretino: la tappa di stasera sembra quasi un ritorno alle origini, a quelle atmosfere distese e suburbane così diverse dai grandi festival europei e internazionali a cui i cinque hanno partecipato. Li incontriamo prima del concerto. Cominciamo dalla vostra storia: in tre anni due EP e un sette pollici [Best Regards, nel 2009], a ottobre il debut Call It Blazing. Avete una lunga attività alle spalle, che sembra, in un certo senso, centellinata. Qual è stata dunque l evoluzione del gruppo? Jonathan: È passato tantissimo tempo prima di arrivare alle registrazioni di Call It Blazing ed effettivamente è stato strano. Anche noi ci siamo accorti di questo percorso inusuale, soprattutto dopo l uscita dell album. Solitamente le band fanno un pezzo, esce sul web e poi nel giro di due mesi se ne comincia a parlare e si arriva quasi subito alla release di un LP. Anche noi siamo partiti con questa idea, però un po per tutte le date che abbiamo fatto, un po perché avevamo bisogno di trovare la nostra dimensione, alla fine ci abbiamo messo più tempo. Non saprei spiegarti il perché, però credo che l aver fatto due EP di cinque, sei brani ci sia servito per trovare il nostro sound e per conoscerci meglio l uno con l altro. In questo senso, Hey There Stranger ha rappresentato una svolta, perché ci ha indicato la via da seguire. E non è un caso 24 25

14 che tre brani siano stati poi ri-registrati per il disco: alla fine rappresentano le fondamenta di ciò che siamo ora. Ecco, a proposito di conoscenza reciproca, tu, Federico e Paul [Pieretto, basso] provenite da un altra band, i Settlefish, mentre Giulia e Luca [Mazzieri, chitarra] si sono uniti a voi in seguito. Immagino vi siate dovuti amalgamare tra di voi Jonathan: Esatto. Gli A Classic Education non sono nati in contrapposizione ai nostri gruppi precedenti, ma con l idea di fare qualcosa di diverso: abbiamo cominciato suonando soprattutto in acustico, venivamo da una serie di band abbastanza rumorose, perciò in sala prove volevamo provare cose nuove. Poi piano piano siamo tornati ad essere un gruppo rumoroso, con nessuna differenza rispetto a prima (risate).federico: C è stata la necessità di darsi un po di tempo per capire meglio quale direzione volevamo prendere ed è stato forse questo l elemento che ha richiesto più lavoro: abbiamo voluto consolidare quello che rappresenta l essere un gruppo e lo stare in sala di registrazione. Principalmente, volevamo farci sentire e capire quale sarebbe stato il risultato dal vivo. Perciò credo che all inizio il tempo in studio sia un po mancato. La nostra identità come band si è creata nella seconda fase, quella live. Le canzoni dell album, quindi, sono nate anche dal vivo? Jonathan: Io credo di sì, perché abbiamo suonato le canzoni che sarebbero finite su Call It Blazing davvero ovunque e questo ha influito molto al momento di entrare in studio. È anche vero che molti di questi brani sono stati scritti giusto qualche settimana prima di registrare, perciò volevamo concludere il prima possibile, anche se dal vivo eravamo già abbastanza rodati (risate). L album è stato registrato in presa diretta, semplicemente, con la sola voce e gli strumenti. Non ci sono voluti grandi ritocchi perché comunque siamo partiti da una base live molto forte. So che per il concept di Call It Blazing non vi siete ispirati a un gruppo o a una musica specifica ma a The Bikeriders, un libro fotografico in bianco e nero di Danny Lion dedicato, appunto, ai riders statunitensi. Com è nata questa scelta? Jonathan: Innanzitutto noi siamo un gruppo che ha sempre bisogno di un immaginario per far viaggiare la testa e in questo caso si è trattato di un libro di fotografia che documenta una gang di motociclisti degli anni 60 [i Chicago Outlaw Motorcycle Club]. La scrittura dei testi, dato che la musica c era già, è partita da queste foto: è vedendo i personaggi raffigurati sul libro che sono state poi immaginate delle storie. Anche se, alla fine, il nostro processo di scrittura è abbastanza classico: di solito, arrivo io con una bozza e poi la canzone la arrangiamo tutti assieme. Difficilmente partiamo da una forma già compiuta. Poi, la cosa positiva della composizione all interno di un gruppo, è il fatto di potersi concentrare anche sui piccoli dettagli, sui particolari.federico: Infatti in questo senso Call It Blazing si discosta molto da esperienze del passato, dove c era un modo diverso di comporre. Questo forse spiega perché c è voluto più di tempo per arrivare al disco finito. Quali sono le vostre influenze personali? Non sto parlando necessariamente dei riferimenti confluiti nell album, penso invece ad un discorso che riguarda più il fatto di essere non solo musicisti, ma anche ascoltatori. Federico: Per me è difficile dare una risposta. Potrei dire tutto e niente. Personalmente, da cinque anni a questa parte, sono molto più orientato verso ascolti che appartengono per lo più al background della musica americana contemporanea: penso ai Grizzly Bear, o agli Animal Collective. In un certo senso, faccio fatica a rispondere perché tra di noi ci scambiamo tantissime idee sulla musica e quindi non so darti una sola risposta su ciò che negli ultimi anni ci ha influenzato di più. Jonathan: Come succede per molte altre band e come è capitato anche a noi nei nostri progetti precedenti, accade spesso che, in sala di registrazione, ti ritrovi a dire facciamo quel pezzo alla maniera di oppure voglio che suoni come. E una cosa classica che succede in tutti i gruppi. Stranamente, però, con Call It Blazing non è successo, perché abbiamo ascoltato così tanta musica e così diversa, che non abbiamo mai pensato ad un solo tipo di sonorità. In studio, comunque, i nomi che sono venuti fuori sono stati i veri classici del rock, insieme a tante cose moderne. Avete registrato il disco insieme a Jarvis Taveniere dei Woods - già al lavoro con Vivian Girls e Real Estate - nei Rear House Studios di Brooklin, gli stessi di Woods, Ganglians e, appunto, Real Estate. Com è stato lavorare con lui? Jonathan: Ci è piaciuto molto registrare con Jarvis. Lui ha una conoscenza e un esperienza musicale enormi, anche per quel che riguarda il passato. Tutti questi elementi, poi, sono andati a confluire in quel tipo di sound sixties che volevamo ottenere con l album. Infatti si sente molto il vostro legame con la forma canzone tradizionale rock and roll, però con un respiro più ampio, più internazionale, che vi ha portato - unico gruppo italiano - ad essere menzionati su Pitchfork. Per non parlare di tutti i festival all estero a cui avete partecipato o del tour con i Cloud Nothings che partirà a marzo. Insomma, sembra che parlare degli A Classic Education unicamente come band italiana sia riduttivo. Jonathan: Beh, intanto ritrovarsi su Pitchfork, che è uno dei siti di musica che seguiamo maggiormente, ci ha fatto sentire davvero onorati, anche se è difficile capire quanto questo fatto poi si tradurrà in successo (e mi riferisco a gente che viene ai concerti, ai dischi venduti, eccetera). Comunque, quando ci siamo visti, devo dire che eravamo estasiati, quasi in lacrime (risate). E stato emozionante, davvero incredibile. Per quanto riguarda il discorso sull internazionalità, non abbiamo mai pensato ad un antitesi tra band italiane e straniere. Quello a cui abbiamo sempre pensato è che siamo riusciti a suonare con i nostri gruppi preferiti. Che fossero tutti stranieri, è stato un puro caso (risate). Inoltre, è stata anche un occasione per imparare la loro attitudine e il modo di porsi sul palco: per esempio, noi non siamo mai stati grandissimi fan degli Okkervill River però vederli dal vivo per due settimane di fila mentre danno il massimo è stato sicuramente di ispirazione.federico: Il fatto stesso di cominciare con i British Sea Power ci ha permesso di vivere un esperienza bellissima, come gruppo di supporto, in giro per gli Stati Uniti e in Europa: loro sono un gruppo che tutti noi seguiamo, da sempre. Per quanto riguarda il fattore umano, invece, si tratta sempre di qualcosa di inaspettato. Ti trovi a condividere palchi, fatiche, e non sai mai cosa aspettarti: da questo punto di vista, tutti i gruppi che abbiamo incontrato sono stati una grande sorpresa perché c è stata stima reciproca, unita a un cameratismo. Una comprensione che non immaginavamo possibile. C è una canzone di Call It Blazing a cui siete particolarmente legati? Entrambi: Forever Boy. Dal punto di vista della composizione, si è trattato un brano difficile perchè richiedeva una serie di incastri che alla fine, secondo noi, siamo riusciti a risolvere bene

15 Burial The other story Drop Out Fotografia e negativo del beniamino del dubstep, scorrendone gli indiscutibili meriti ma affrontandone anche promesse non mantenute e illusioni indotte. Senza peli sulla lingua. Testo: Carlo Affatigato È l uomo più amato del dubstep tutto, anche e soprattutto da chi il dubstep lo frequenta dall esterno. È la principale rampa d accesso del pubblico neofita per conoscere e apprezzare nel modo più facile l elettronica moderna e trovare emozione laddove si pensa possa esserci solo freddezza. Burial è qualcosa come un passaggio obbligato per chi voglia fare i conti con la musica degli anni 00. Un personaggio che ha stregato tutti, dal primo all ultimo, sia la critica che il pubblico. Proviamo ad andarci a fondo, a capire cosa ha fatto di tanto eclatante questo ragazzo, cos ha lui che gli altri non hanno. Un punto della situazione a ridosso dell uscita del suo ultimo EP, per trarre le dovute conclusioni e provare a stabilire se stiam parlando davvero di un prodigio irripetibile o c è una certa aria di esagerazione in giro. Folgorazioni Ok, diamo a Cesare quel che è di Cesare. I primi due album, Burial e Untrue, sono ineccepibili. Hanno sposato il sentir comune dubstep che a metà noughties era in pieno fermento e hanno dato a quel sound uno spessore emotivo raramente così marcato. Il ragazzo era a conoscenza delle evoluzioni UK garage, proveniva da una adolescenza di massicci ascolti 2-step (ce lo aveva rivelato in esclusiva Four Tet, che quegli ascolti li aveva vissuti proprio insieme a lui), mostrava un certo amore per la old skool jungle e la d n b e ha portato tutto questo background inconsapevolmente nelle cripte della propria interiorità, una psiche ben piantata nel tessuto 28 29

16 urbano, popolata di angeli e demoni del vivere moderno. In maniera così spontanea che sembrava quasi involontaria: Archangel è forse l esperienza più emozionante del continuum, inquieta sottopelle, malinconica per natura ma illuminata da una speranza a cui non vuole rinunciare, come spinta da un calore innato, quasi mistico. Tutto in Burial gioca sui contenuti, sulle sensazioni, sulla soggettività, in un rapporto con l ascoltatore che si cementifica all istante. Di forme, direzioni stilistiche e rami evolutivi non ci si pone nemmeno il problema. Il ragazzo non è uno scenziato, ma un romantico. Maneggia la materia dubstep lasciandosi trasportare dall istinto, senza specifiche intenzioni stilistiche. Non è la nobile ricerca accademica di maestri come Distance, Skream o Kode9. Non è l avanzamento di frontiera degli Horsepower Productions, che sperimentando con lo stesso 2step da cui parte Burial erano già arrivati ad un proto-dubstep in anticipo sui tempi, ma qualche anno prima. Lui è come una torta dal sapore squisito, fatta non dall arte di un mastro pasticcere, ma dalla passione amorevole della donna di casa. Lui non è un vero innovatore (se non nel piano dei contenuti, appunto), ma solo un valido interprete. E questo è stato per certi versi il suo punto di forza: lavorare senza prestar troppa attenzione all aspetto tecnico ha dato al suo suono la massima empatia e capacità di fruizione ad ampio spettro, col risultato che i due album sono probabilmente i full-lenght più in vista del decennio dubstep, anche per chi non è ambientato nel genere. Ecco, se proprio dobbiamo identificare il vero tratto distintivo di Burial, è proprio questo: il suo è un dubstep da ignorante. Attenzione, questa non è un interpretazione dissacrante del trombone stizzito di turno, ma una verità ammessa dallo stesso protagonista. Nella sua storica intervista rilasciata al padrino Kode9 per l uscita di Untrue afferma: Ho sempre trovato difficile scrivere canzoni. Ammiro chi è pieno padrone dei mezzi per farlo, dei programmi complicati, ma io non sono uno di loro. Non sono capace di lavorare a lungo su un programma alla ricerca del suono perfetto. So bene cosa voglio esprimere e voglio solo riprodurlo, non posso permettermi di perdermi nella tecnica. Pazzesco, se ci pensate. Mentre intorno a lui Distance lavorava al vuoto bassline più suggestivo (stava per arrivare My Demons), Skream rilasciava il disco più emblematico e turbato del filone (il jazz ricostruito nel dub, con pezzi come Midnight Request Line, Rutten o Blue Eyez che diventano veri punti di riferimento per il futuro), Kode9 proseguiva la strada del grime bianco insieme a Spaceape con Memories Of The Future, e non parliamo di Vex d, Boxcutter o Mala, tutti a cercare l evoluzione stilistica più consona, lui che fa? Arriva dal nulla, agisce quasi come un principiante e in un sol colpo sbaraglia la concorrenza con due album giudicati unanimamente tra i risultati più compiuti del momento, non solo in ambito dubstep. E non è tutto qui. Il caso Burial è stato tanto eclatante da aver dato vita a una circostanza incredibile: non è stato lui ad avvicinarsi e aderire al dubstep, ma al contrario è stato il dubstep che in un inchino reverenziale al suo successo si è plasmato su Burial. Perché a volerla dire tutta, il suo sound col dubstep dell epoca aveva tante affinità ma anche tante divergenze: il dubstep nasce nei club, come movimento underground di reazione alla piega mainstream che aveva adottato il 2-step (ce lo dicevano anche gli Author), mentre Burial parte proprio da quegli stessi ascolti riproponendone lo stesso tratteggio. Le ritmiche dubstep tipiche erano dure e appuntite, non morbide e gentili come quelle di Untrue. Quel suo inconfondibile rullante, che oggi fa scattare subito la lampadina del dubstep, non era così tanto identificativo del genere prima dell arrivo di Burial. Dopo lui, invece, è stato come se la percezione comune del fenomeno si fosse plasmata sulla figura di questo ragazzo. William Bevan, l ignorante, il pischello senza ambizioni né coscienza stilistica, a un tratto era la vera star. Promesse Dopo Untrue, in un intervista esclusiva a The Guardian di fine 2007 Burial dichiarò: Ho voluto solo fare un album triste e raggiante, nel più breve tempo possibile. L album scientifico, iper-tecnologico e ultraoscuro lo farò la prossima volta. Pare che ridesse mentre lo diceva, ma l argomento era tremendamente serio. Quello della maturità tecnica, della presa di coscienza era un passo fondamentale, perché serviva a stabilire una volta per tutte la vera statura dell artista Burial, a confermare che non si trattasse di un semplice outsider esploso per caso, certo con caratura di lusso ma che magari è semplicemente capitato nella classica coincidenza irripetibile (cosa che ci può anche stare, ma che ne avrebbe irrimediabilmente ridimensionato la portata). L album della conferma era una promessa che il personaggio DO- VEVA fare, per mantenere alte le aspettative nei suoi confronti, per non far sgonfiare l immagine che volente o nolente ora aveva dipinta addosso. Ed era una conferma che tutti stavano aspettando, per capire chi fosse davvero il Burial producer consapevole, cosa aveva da dire di nuovo e quale sarebbe stato il suo contributo per la storia. E invece niente. Dopo i due album, la figura di Burial come ricercatore del suono si è rivelata una chimera. Due anni di silenzio ininterrotto, per poi riemergere di nuovo solo come personaggio percepito, forte del clamore sollevato dal solo pronunciare il suo nome. Prima Moth, prova di intrattenimento abbastanza facile ma su cassa più quadrata, un po a voler ricordare a tutti la sua presenza e rinfrescare aspettative e possibilità. Ricordate la promessa? Beh, rieccomi, sembrava voler dire. Poi con Four Tet e Thom Yorke 30 31

17 vien fuori la tentazione (di tutt e tre) di volersi autocelebrare, di fare un po di sano marketing. A farci la figura dell artista versatile e carismatico però è soprattutto Yorke, mentre gli altri due restano gli attori secondari che accompagnano il cantante, e di Burial riconosciamo solo quel suo inequivocabile rullante, in Mirror. E poi ancora, l eppì Street Halo, che ha ricevuto anche discreti apprezzamenti ma che, detto tra noi, contiene semplicemente un brano come NYC che poco o niente ha da aggiungere a quanto già detto in passato e un paio di timidi e non troppo convinti tentativi di avvicinamento a certi meccanismi dancey, che siano quelli della microhouse hebdeniana (Stolen Dog) o della techno-dub da catalogo Basic Channel (Street Halo). Un po pochino, per uno che ha ancora da rispondere a promesse e attese di una certa rilevanza. Anche perché, nel frattempo intorno a lui succede di tutto: quello che aveva fatto in Burial e Untrue si rivela essere il prodromo di un ondata soulstep esplosa proprio col nuovo decennio, partita con la malinconia dei Darkstar, cristallizzata con James Blake e perseguita in modo più o meno laterale da Jamie Woon, SBTRKT e Machinedrum. Sulla sponda completamente opposta impazza l orgia post-dubstep, Skream inaugura il popstep e i suoi Magnetic Man sfondano la dance mainstream, frammenti di IDM speziano l incedere di Mount Kimbie e Sepalcure, il dubstep conquista le folle con Roska e Rusko e Katy B è già una star. In parallelo prosegue l ondata UK bass, con i vari Pinch, Mala, Shackleton, Silkie, Goth-Trad. Ma lui niente, non sembra stimolato da cotanto fermento. Pare non aver nulla di netto e incontrovertibile da dire in proposito. Piuttosto si rituffa dentro di sé, ramingo e solitario come l emarginato volontario in copertina su Untrue. E si ripete. Disillusione Le perplessità son più che lecite, e rischiano di illuminare l intero suo percorso sotto una luce diversa. Non è ancora chiaro se William Bevan sia davvero l autorità che gli eventi han portato a farci credere, o piuttosto la più clamorosa bolla degli ultimi tempi. Se è dotato della stessa consapevolezza e lo stesso carisma di uno Skream (che nel frattempo continua a decidere sorti e destinazioni del genere, svoltandolo a tratti come un calzino) o rimarrà solo il principiante eccellente del dubstep. È in grado di difendere i colpi inferti coi due album, o dobbiamo considerarli solo il frutto di un momento particolarmente ispirato? Certo, lui finora è stato bravissimo a lasciare ogni domanda in sospeso, con quella caratteristica immagine che lascia tutto nella sfera nel non-detto, dell incerto. Lui è quello che non fa concerti, che non rilascia interviste, che non diffonde foto (o meglio, ne diffonde una sola). Un ectoplasma della scena. Un profilo misterioso che indubbiamente affascina, ma che nello stesso tempo ti nega il diritto di tirarne fuori delle conclusioni di insieme. Magari per ora è lì che se la ride, pensando a tutti gli estimatori convinti che stia solo preparando con calma il colpo epocale mentre invece lui rimane chiuso tra le mura di casa, non sapendo ancora bene che pesci pigliare. O magari è vero il contrario, e stiam parlando di un artista che socchiude gli argini della produzione solo quando ha qualcosa di davvero personale da dire, e il silenzio rappresenta la resistenza ai meccanismi di marketing e la cura verso la qualità espressiva. Siamo nel 2012, e il ritardo accumulato a posticipare il suo colpo di coda potrebbe già esser sufficiente a rispondere ai nostri dubbi. Un artista va valutato per quel che dice, ma anche per quello che NON dice, e nel suo caso il quadro di insieme ci restituisce l immagine di un artista che non è stato ancora in grado di riconfermarsi. Eppure c è una certa speranza dura a morire, e nell ultimo Kindred si può vedere un piccolo spiraglio: sembra che adesso le affinità alle derive post- siano state finalmente assorbite e Burial sia in grado di riproporcele nel suo modo personale e malinconico. Quella cassa in quattro felpata e spinta dal riverbero potrebbe essere la nuova posa del soulstep di marca burialiana, quel vintage tastieristico in Loner potrebbe essere un nuovo grado di consapevolezza. Forse è arrivato a compimento il disegno evolutivo dell artista e il passo successivo, quello definitivo, è alle porte. Son bastate tre tracce presentabili e tutti di nuovo a pendere dalle sue labbra. Non staremo alimentando noi stessi la nostra illusione? La questione è ancora aperta. Mettendo da parte le illusioni e rimanendo ai fatti, il quadro è chiaro: mr. Bevan non ha ancora dimostrato in maniera inoppugnabile di essere all altezza del suo ruolo. E avendo esploso i suoi colpi entrambi nel giro di un breve lasso di tempo, per poi entrare in un lungo silenzio intervallato da prove comunque opinabili, sembra più una meteora di passaggio, con qualche luccicchìo in coda. Più che un autorità influente, più che un trendmaker di peso, Burial è oggi il vero grande assente del filone. Poi chissà, magari tra sei mesi esce il terzo album, vien fuori il Kid A del dubstep e saremo tutti soddisfatti e felici di rimangiarci tutto. Ma sui magari non si può costruire nessuna carriera e nessuna celebrazione. Ad oggi, stando coi piedi per terra, Burial è stato solo una luce fulminante, abbagliante per pochi attimi e poi spentasi troppo in fretta, e adesso siam noi che abbiamo ancora quella luce impressa sulla retina, i contorni morbidi e tremolanti che generano suggestione ovunque posiamo gli occhi. A lui l onere di smentire. Con fatti solidi e tangibili però, ché di illusioni ci si stanca presto

18 Drop Out Kimya Dawson The grass is always greener in my head Il settimo disco dell ex Moldy Peaches è il più maturo e riuscito. Ripercorriamo un percorso solista oramai diventato importante per analizzare la costruzione di una poetica infantile, ma profonda Testo: Marco Boscolo Il corpo porta con sè tutti i segni di una storia lunga decenni: piercing, tatuaggi, una capigliatura che non più nascosta dentro al costume da coniglietto, si dirama in tutte le direzioni dello spazio e dello spettro cromatico. Ma nonostante il successo commerciale, dovuto alla fortunata colonna sonora del film Juno del 2008 (oltre un milione di copie vendute, che fanno pensare che tutto sommato sia andata meglio a lei, piuttosto che al regista Jason Reitman), la protagonista della scena anti-folk newyorkese, prima, e della provincia tutta, poi, non concede un millimetro al sistema e fa uscire dal nulla il suo settimo disco da solista, Thunder Thighs, che appare come il più riuscito di una carriera oramai più che decennale, depositaria di una stima anche tra i colleghi musicisti (provate a contare le collaborazioni: non vi basteranno le dita di mani e piedi) che giustificano, nel suo caso più che in molti altri, l etichetta di artista di culto. Rispetto allo scarno folk/country infantile di tutta la sua produzione precedente, in questo ultimo album c è qualche ombra in più nei temi affrontati e qualche variazione in più negli arrangiamenti, complici anche le molte apparizioni (da segnalare almeno alcuni membri degli Strokes, e dei Mountain Goats), su cui spicca il rapper Aesop Rock, oramai una presenza importante nella musica della Dawson, con un disco cointestato che dovrebbe uscire entro l anno. Insomma, se nonostante l età l attitudine non è cambiata, Thunder Thighs è forse semplicemente l affinamento del mix che ha sempre caratterizzato la poetica della Dawson: lo-fi, 34 35

19 folk minimale, country farsesco, musica per bambini, filastrocche e rime assurde, letteratura per ragazzi, fumetti (sì, esatto: Jeffrey Lewis), stream of consciousness. I kiss you on the brain in the shadow of a train Per quanto riguarda la sua popolarità personale il punto di svolta, come si è già accennato, è la colonna sonora di Juno, alla quale Kimya Dawson contribuisce con cinque brani autografi, un paio di collaborazioni, ma soprattutto con Anyone Else But You dei Moldy Peaches, un brano scritto con Adam Green (l altra metà senziente della band) almeno sette anni prima. E un brano che abbiamo scritto seduti su di una panchina di un parco ed è una canzone un po autobiografica e un po un invenzione di come ci immaginavamo che avrebbe potuto essere una storia d amore, dichiarava all epoca la Dawson. Ed è una dichiarazione rivelatrice del metodo compositivo della songwriter: scrivere canzoni ovunque, direttamente componendo melodie e parole all impronta. Della serie: nemmeno me ne accorgo e tutte le strofe, la melodia, i versi, tutto è già lì bell e pronto. Il tema del film, poi, rispecchia gli interessi della Dawson: una ragazza adolescente messa in cinta dal fidanzatino delle medie che decide di portare a termine la gravidanza per dare il nascituro in adozione a una coppia borghese. La cazzata, come verrebbe da dire, è un tema tipico dell immaginario della Dawson, specialmente se a farla è un adolescente, che però ha il coraggio e la forza che molti adulti non hanno, di assumersene la responsabilità. Alla stampa, lei stessa ha dichiarato che ogni volta che rivede il film, si mette a piangere. E in quest abbinata centripeta, l adolescente che diventa adulto e l adolescente che non vuole crescere, che si consuma la cifra identificatrice della poetica dell ex Moldy Peaches: da una parte la sindrome di Peter Pan, dall altra la saggezza e l innocenza dell infanzia che hanno la forza per dire che l imperatore è nudo e che costringono a riflessioni profonde gli adulti, spesso ponendo la domanda che nessuno ha il coraggio di porre. Nella pellicola tutto ritorna perfettamente nelle azioni della protagonista interpretata da Ellen Page: il lato adolescente, di scoperta del mondo, dello sbocciare delle pulsioni erotiche, della definizione di una personalità, di una gamma infinita di possibilità che si condensano in una scelta responsabile. Aspetti che oltre a confermare l insistenza su di una sostanziale confusione, indecisione tra adultità e infanzia, metteno però la Dawson al riaprto da quella presunta superficialità appiccicatole addosso come infantilismo. All I could do Se la semplicitià di tutta la sua produzione musicale, con le rime apparentemente prive di senso, con gli arrangiamenti zuccherini e allegri di molte delle sue canzoni più riuscite, con un attaccamento al mondo dei bambini che può sembrare ingombrante, Kimya Dawson non è un artista naive e fuori dal mondo. Quell auto esilio che a metà degli anni duemila si impose, da New York a Olympia in nome della famiglia, non è la suburbia degli Arcade Fire, quella in cui ci troviamo intrappolati nostro malgrado e nonostante abbiamo provato a negarla. La provincia della Dawson è una scelta deliberata, di chi ha visto le brutture del mondo e ha scelto di allontanarsene, come fanno proprio i bambini.e un lato che emerge più che mai in alcune delle canzoni dell ultimo disco. In Driving Driving Driving canta I m so sorry and I m scared and sad and mad and unprepared / to see the stuff that s in the sea evaporate into the air / where it will gather and form clouds that travel north upon the wind / and drop their cool refreshing poison raindrops on our crops and children : con tutta l attualità del pericolo del surriscaldamento globale gettata sulle spalle delle mamme di tutto il mondo. E nella conclusiva Utopian Futures appare anche una sorta di impegno civile ( We re flailing to find the smallest fragments of our liberated lives And every tiny piece we find We pick up and glue together Collectively working for our utopian futures to collide ): c è anche nella musica della Dawson, così come nell opera di James Barrie, l inventore di Peter Pan, un luogo indecifrabile, insieme utopico e reale, che si chiama Isola che non c è. C è, quindi, un ritorno all età fanciulla (o un tentativo di non crescita) che blocca, che lascia impietriti di fronte al mondo, quasi un recupero in chiave privata dell estetica romantica di David Caspar Friedrich: per il pittore tedesco c era una impossibilità dei comprensione dei misteri dell Assoluto incarnati nella Natura, in Kimya Dawson c è l impossibilità di una completa risoluzione del dilemma di crescere, perché si vuole diventare grandi, ma non si vuole così facilmente assumersi responsabilità e accettare la brutalità del mondo, uomo compreso. The grass is always green in my head Sembra un rifiuto anche la decisione, all indomani della pubblicazione dell album omonimo, di mettere in stand by i Moldy Peaches, per lasciare spazio per coltivare le carriere personali della stessa Dawson e di Adam Green. Il primo disco è già del 2002, nemmeno un anno dopo il debutto 36 37

20 arrivato dopo anni di gavetta della band nella scena newyorkese. I m Sorry That Sometimes I m Mean è acerbo folk minimale, con una Dawson ancora molto indecisa sulla sei corde (anche se non sarà mai una musicista davvero dotata). Tutto è concentrato nel rapporto tra voce e giro di accordi, poco altro, concentrato su tematiche prevalentemente da high school. Avviene nella surreale Eleventeen, che fin dal titolo mostra il tentivo di far entrare anche gli undici anni nell adolescenza: Silver pink ponies flying over me / you may feel strange, well, you are an angel / stuck in tight pants stuck at a high school dance / stuck doing people things not knowing you have wings / you are my serenade you are my lemonade / you are my soul throw it all out the window / you are my training wheel you are my chamomile you are my friend come again some other day. Filastrocca apparentemente banale, con il marchio di fabbrica delle rime in libertà che creano associazioni da cortocircuito mentale. Già qui, almeno nella free form/field recording Sticky stuff, fa il suo debutto quello che potremmo chiamare l asilo personale della Dawson: voci ci bimbi intenti a fare un gran baccano sopra un pianoforte mentre un chiatarra acustica tenta di dare un senso, ma viene soggiogata. Queste voci, spesso riprese in diretta, saranno un costante degli album fino all attuale Thunder Thighs, dove il ruolo è preso dalla figlia Panda. Il rapporto con la Rough Trade, che ha pubblicato l esordio solista, si incrina presto, vista la natura poco monetizzabile della musica della Dawson. Nel 2004 escono due dischi dal forte sapore di autoproduzione (anche questa, caratteristica che non verrà mai più abbandonata) per la Important Records. Sono Knock-knock Who? e My Cute Fiend Sweet Princess e in realtà si tratta di materiale che la Dawson distribuiva esclusivametne ai suoi live show e che trovano collocazione a stampa solo in un secondo momento. Il discorso è lo stesso che si è fatto per l esordio di due anni prima, con una formula invariata che sembra semplicemente necessaria per mettere a fuoco la propria identità e cifra stilistica. Ma ci sono un evidente progressivo miglioramento della composizione, non più un cavallo allo stato brado. Qui si intravvede una coerenza e una forza che un solo disco non avrebbe potuto esprimere. A suo modo, Nobody s Hippie sembra una statement song: I m nobody s hippie and the best medicine / is back on track with his taco bell girlfriend. Ma siccome siamo sempre tra i versi della Dawson, la conclusione non può che essere: so please be my hippie i m nobody s hippie / we ll smoke some patchouli our lives will be trippy. Mommy and daddy your baby is grown (?) Più interessante andare a scavare dentro al secondo disco del dittico, in particolare per la triste For Katie: they caught us and brought us back to their world / that s when i decided the only place i could hide / was in the stories and dreams in the seams of my mind / i was so busy dreaming, running from demons / i didn t even hear you screaming. Se musicalmente il discorso non si discosta quasi per niente dal resto della produzione solitaria fin qui messa su disco, diverso è il discorso sui testi, in cui affiora più chiaramente che altrove il tema peterpanesco, con la mente in grado di costruire un mondo di fantasia nel quale è possibile, è augurabile, è necessario andare a rifugiarsi quando il mondo reale ti ferisce e fa sanguinare. Sono gli amici che non ci sono più, sono i cambiamenti non voluti, le cose che non si riescono a fare, le frustrazioni. In poche parole: la vita stessa. For Katie indica anche altro. Nella sua lunghezza rimanda, forse inconsapevolmente, ai talkin blues di dyalniana memoria (ma un tratto carsico di tutta la tradizione americana) e ha come contraltare il racconto in prima persona tipico del rap: il racconto autobiografico, che tra lo stream of consciousness e lo sfogo psicanalitico diviene un fiume in piena che funge da esorcismo, da nuova via di fuga e costruzione di quei mondi fantastici, quelle realtà alternative di cui si diceva. Un corto circuito tra generi e mondi che si vedrà perfettamente nei brani più lunghi di Thunder Thighs e che è suggellato dal connubio lavorativo con Aesop Rock (recuperate anche le Daytrotter Session che hanno registrato assieme lo scorso anno). Su My Cute Fiend Sweet Princess le atmosfere musicali si fanno più variegate, con un tocco bucolico/acido in Anthrax, un chitarrismo quasi violento nell opener Chemistry, la quasi ballabilità di Hadlock Padlock. Una tavolozza, che pur mantenendo al centro il binomio chitarra acustica-voce, si arricchisce: un preludio di quello che succede con un altro disco uscito nel 2004, Hidden Vegenda, che segna anche il trasloco su K Records. Si comincia con un docile country (It s been raining), dove fanno la loro comparsa dei veri e propri musicisti ad accomapagnare le semplici melodie della Dawson. Il country, sotto varie declinazioni, è una comune denominatore di tutto il disco, a cominciare dalla tiratissima e formidabile Viva La Persistance (che solo per il titolo merita un applauso e che vede anche un rarissimo solo di chitarra). Anthrax ritorna con una powerballad version e anche in un semplice ritmo di valzer come Fire, gli arrangiamenti si arrichiscono di chitarre disturbate sullo sfondo, che rendono ancora più straniante l effetto della seconda 38 39

21 voce femminile che canta una nenia in controluce. I temi della difficoltà di affrontare il mondo affiorano anche qui in versi come having been fucked is no excuse for being fucked up su My Heroes. Ma anche la difficoltà di comunicazione tra mondo adulto e il mondo altro dell infanzia o della fantasia: and my mom says to treat as you wish you were treated / and i know that she s sorry for the wrongs she repeated. I liked what she said about the giant and the lemmings Il cambio di marcia cominciato con l accasamento alla K records continua con l album del 2006, Remember That I Love You, in cui continuano ad affiorare quadretti intimi, lo-fi, country/folk ma con alcune concessioni pop che a modo tutto suo possono essere considerati quasi antemiche. Insomma, Kimya fa le prime concessioni, fuori dalle filastrocche infantili, a qualcosa di definitivamente cantabile. Succede in My Mom, ma con un continuo richiamo ai fantasmi e alle voci, che a questo punto non sono solo nella testa e nella fantasia di Kimya, ma anche nelle teste altrui: My mom s sick she s in a hospital bed / I ve got a word for all you ghosts in her head / And all you skeletons in her closet / Leave her alone. I mostri tornano anche per I like giants e i suoi campanelli, determinando un immaginario che assomiglia sempre di più a quello di Where The Wild Things Are, il libro illustrato di Maurice Sendak reso famoso da un film holywoodiano del 2009 ad opera di Spike Jonze. Nel libro, come nel film e nelle storie di Kimya, non c è confine tra fantasia e realtà, tra mondo interiore e mondo esterno: l Isola che non c è si allarga e comincia ad abbracciare il mondo. Non cambia lo spirito tra il naive, il tardo adolescenziale e l improvvisa lucidità degli innocenti, ma è come se Kimya, complice una situazione familiare sempre più importante per lei, avesse deciso di guardare al mondo con occhi leggermente diversi, quelli di chi comincia a pensare al mondo come al luogo dove si concretizzerà il futuro dei propri figli. Questa concretezza e questo affinamento tematico/compositivo si riflette anche negli arrangiamenti, più scarni rispetto a Hidden Vegenda, con un ritorno decisamente ad atmosfere più intime con chitarra e voce. Tutto però è più a fuoco, più calibrato, più accessibile. Un disco, dove forse per la prima volta, Kimya include il mondo più che guardarlo dall esterno. Il discorso matura completamente nell ultimo Thunder Thighs dello scorso anno, dove la scrittura è ancora più concreta, lasciando molto spazio a quei corto circuiti tra flussi di coscienza, rap adolescenziale e talking blues. E il caso di Walk Like Thunder, forse la canzone più cupa mai messa su disco dalla Dawson, in cui la profondità notturna delle sonorità è pari al dei testi: I have this new tattoo of which the story must be told / About the night I almost overdosed ten years ago / I woke up in the hospital with skin clammy and cold / And tubes in my urethra, down my throat, and up my nose / My friends and the doctors were all shocked I wasn t dead / That s when Katrina looked at me and this is what she said. Una confessione rock, a cuore aperto. E forse è proprio questa la cifra della Kimya Dawson, una bambina che non vuole crescere del tutto, ma che non puà contemporaneamente farne a meno, mentre la sua vita - anche senza quasi volerlo - si incanala in binari pericolosi, esorcizzati dalla voci nella testa, dalla fantasia e dallo sguardo disarmante nel mondo. A questo approdo, si aggiunga anche il valore salvifico dell essere genitore, 40 41

22 preoccupato per il futuro della prole. Panda, la figlia che canta in Mare and The Bear e I Like My Bike, è anche la protagonista delle preoccupazioni della Dawson scrittrice quando tocca temi che potremmo definire politici. E il caso di Driving driving driving, dove si fanno notare le preoccupazioni ecologiste: Because water is fluid and oil is crude / And it billows way down deep / And it sticks to grains of sand / And it floats up on the surface where the birds all try to land. Difficile non pensare all oil spill di Deepwater Horizon nel golfo del Messico o alle paure da fracking che hanno spinto il documentario Gasland alla nomination all Oscar. E ancora: Because water knows no border / It ll creep in every crevice, it ll seep in every pore / They lie about the damage, the solutions are illusions.riaffiorano anche le vecchie amicizie chimiche, che si erano fatte sentire pesantemente in tutti i dischi precedenti ( I thought back to before my coma / rehab in Tacoma, my junkie roommates / all that I knew how to do was put cigarettes / out on my self, I took pills and I drank, canta in All I Could Do), ma sono storie che ora vengono illuminate dalla diversa luce della genitorialità: see I have changed and I ll keep on changing / and maybe my songwriting will suffer / but its okay if at the end of the day / all i can do next is just be a good mother ). L essere madre e il tenere così in grande considerazione la prole, l ha portata anche a compiere fino in fondo quel viaggio di regressione fanciullesca che sta in nuce a tutta la sua musica prodotta. Succede e viene reso pubblico con un disco di sole canzoncine per bambini, Alphabutt del 2008: una sorta di lunga suite di poco più di mezzora, in cui Kimya sciorina note immediate, le quali paiono solo un tramite per la narrazione delle sue storie. Un disco che sembra costruito ad uso e consumo esclusivo di un pubblico al massimo decenne e che ha irritato molti adulti, compreso chi lo recensì su queste colonne, che non ne colse del tutto il senso dentro al percorso dawsoniano. Se Thunder Thighs, come abbiamo più volte scritto, è da considerarsi il passo più maturo della cantautrice, Alphabutt è una parentesi da questa presa di coscienza per confondersi nuovamente con gli animi sereni dell infanzia. Un infanzia, in questo caso, presa solamente dal lato giocoso, priva anche di quello sguardo lucido e profondo che abbiamo incontrato altrove. Quasi che prima della prova adulta, Kimya abbia avuto bisogno di una boccata d aria. Creek che ha esordito (e finora lì si è fermato) nel 2006 con un album ominimo: sessanta minuti dello stesso mix di folk, lo-fi, filastrocche e rime di sempre, con un atmosfera forse più infantile rispetto alla media. Fatto che non ha impedito a un paio di brani di finire nella colonna sonora di Juno. Rimarrebbe da dire solo di qualche altro contributo, ma non con materiale originale a un paio di altre colonne sonore di film indipendenti (The Guatemalan Handshake e Glue), oltre a quella di un documentario sul football in sedia a rotelle (Murderball) e sulla vita di un veterano dell Iraq (Body of War). Emerge la sensibilità, un po naive ma sincera, della Dawson di fronte al mondo, che non sceglie film qualsiasi per commentarli con le proprie canzoni. E la stessa sensibilità della sua musica, in un delicato equilibrio tra il peterpanesco e la lucida e innocente profondità dei bambini di cui abbiamo detto, che mostra come nel caso della Dawson vita e musica, persona e artista siano difficilmente separabili. With All My Friends Fin qui abbiamo lasciato da parte due vicende parallele alla carriera solista della Dawson che rivestono un ruolo non primario, ma che contribuiscono alla definizione della poetica e delle radici della stessa Dawson. The Bundles sono una sorta di agglomerato di tutta la scena anti-folk newyorkese, la stessa che ha coltivato al suo interno per anni i Moldy Peaches e gli albori solisti della stessa Dawson. La band è nata nel 2001, quando Kimya, il disegnatore di fumetti Jeffrey Lewis, il fratello Jack e Anders Griffen si ritrovavano tra uno show, un tour e un trip per divertirsi con una miscela di acuto lo-fi dal sapore folk e leggermente punk. Più rumorosi rispetto alla Dawson solista, i Bundles hanno messo su disco per la K Records nel 2010, ciò che già circolava ai live show e che si può facilmente ritrovare oggi in rete. Rispetto al percorso solista della Dawson, qui di pop ce n è davvero poco e non sempre i brani risultano così accessibili. Di sicuro c è il divertimento di chi suona e canta, quasi a testimonianza di una appartentenza tribale a quella scena tutta newyorkese che i veniva, appunto, rifiutata dai locali più blasonati del folk. L altra esperienza è quella degli Antsy Pants, duo composto con Leo Bear 42 43

23 Drop Out A otto anni da Bubblegum l ex Screaming Trees è tornato a fare un disco (quasi) da solo. Ecco il resconto della nostra non troppo breve ma intensa chiacchierata con Mr. Mark Lanegan. Testo: Alberto Lepri Mark Lanegan Elegia del blues elettronico Lo devo ammettere: quando me lo hanno proposto, ci ho anche pensato su un momento. Perché non è proprio una roba facile reagire d istinto quando qualcuno ti chiede vai tu a Milano a intervistare Mark Lanegan?. In queste situazioni il rischio di mandare tutto in vacca è alto, perché - professionalità a parte - di fronte ad un soggetto del genere non puoi che tornare ad essere il ragazzino con il poster degli Screaming Trees appeso in camera, e in fondo sai che trovartelo davanti è una specie di scherzo dell universo, ché se nel destino ci fosse una logica avrebbe dovuto fare la fine di Kurt Cobain o tanti altri della sua generazione. E perché, dopo tutto, ci sono talmente tante cose che vorresti chiedergli - e molte sai di non poterlo fare - da non riuscire nemmeno a capire da dove iniziare. Mark Lanegan ha fatto un disco solista, Blues Funeral, a otto anni di distanza da quel piccolo capolavoro che fu Bubblegum. Un nuovo lavoro con cui sembra aver deciso di cambiare (quasi) completamente strada, introducendo una marea di synth e beat elettronici che si intrecciano a chitarre acustiche, a brani elettrici e sporchi: tutto tenuto insieme dalla sua voce inconfondibile, marchio di fabbrica con cui in qualche modo, al di là dei progetti e dei cambiamenti di stile, continua a mettere in scena se stesso. Testi ruvidi che riportano a un immaginario di amori finiti, morbosi, a una religiosità tirata costantemente in ballo con quella vena che sa però di misticismo voodoo e croci tatuate addosso. Praticamente vent anni di rock americano, anzi forse tutta la storia del rock 44 45

24 d oltreoceano, in un solo uomo. Insomma, un occasione che non capita tutti i giorni. Mi preparo al meglio, ma la tensione comunque si fa sentire e - complici il divano di un amico e l immunità al freddo delle zanzare di Lambrate - passo la notte praticamente in bianco. Come se già non mi sentissi abbastanza su di giri, ad aggiungere un tono ancora più mistico alla cosa, la prima persona che vedo entrando nella hall dell Hotel Principe di Savoia di Milano quel 6 dicembre, è Antonello Venditti. Per un istante resto come stordito, e mi domando se sia una coincidenza oppure no. Forse lui se ne accorge, mi guarda con aria distrattamente interrogativa, i nostri sguardi si incrociano (o ameno credo) e torna a posare gli occhi sul suo giornale. Passo oltre, quattro chiacchiere con colleghi e addetti stampa, e mi accompagnano a un tavolo riservato nel bar del grande albergo meneghino. Quando me lo trovo davanti, la prima impressione è diversa da quella che mi aspettavo: non l espressione dura delle foto di repertorio e i vestiti scuri, ma il volto rilassato sormontato da un cappellino da baseball portato al contrario, camicia di flanella a quadri e cuffietta dell ipod arrotolata attorno al collo. Persino la stretta di mano, che avrei immaginato mi avrebbe lasciato appena un paio di falangi intatte, è più morbida del previsto. Ci scambiamo un paio di convenevoli. Arriva un cameriere, Mark ordina qualcosa da bere. Accendo il registratore. Si parte. Tanto per cominciare, una domanda abbastanza ovvia. In questi ultimi anni hai messo le mani in tantissimi progetti (con Isobel Campbell, i Soulsavers e i Gutter Twins solo per citarne un paio): perché un disco solista proprio ora, a otto anni da Bubblegum? Non c è una ragione particolare. Era passato così tanto tempo dall ultimo disco da solo, nel frattempo mi sono concentrato su tante altre cose che avevo voglia di fare, ho lavorato con tante persone e fatto diversi tour. In pratica per questo e per il prossimo anno non avevo nulla in agenda, quindi ho pensato ok, dovrei fare un album da solo. Però il disco porta comunque la dicitura Mark Lanegan Band, non solo il tuo nome. Beh, gli ultimi due (Here Comes That Weird Chill e Bubblegum) erano usciti come Mark Lanegan Band, che per me è stato un bel salto stilistico. Quindi non è possibile, credo, tornare indietro. I primi album erano molto più acustici, mentre avere una band a disposizione ha voluto dire iniziare a fare qualcosa di più simile a quello che ascolto di solito e suono in generale, più elettrico e a volte anche elettronico. Ad un certo punto mi sono anche tinto i capelli di nero, qualche anno fa, perché volevo cambiare. E questa direi che sia la risposta breve alla domanda. Un desiderio di girare pagina, quindi. Si, in un certo senso si. Ora non avrebbe avuto senso fare di nuovo un disco solamente a mio nome. Magari un giorno, se trovassi qualcosa di appropriato a cui dare quel nome, potrei tornare indietro, ma non per questo disco. E poi in qualche modo bisogna chiamarlo, no? Hai parlato dell elettronica, che effettivamente è un elemento importante in Blues Funeral, soprattutto in brani come Ode To Sad Disco. Quali sono di preciso le influenze in questo senso? Ho sempre ascoltato e amato musica che ha elementi di questo genere al suo interno. Nel 1985 ascoltavo i New Order, capisci cosa intendo? Mentre scrivevo questo disco poi ho ascoltato in maniera approfondita Harmonia, Cluster, Kraftwerk... Tutto quel filone tedesco. Sono cose che ho sempre ascoltato, ma che in questo caso ho rivisitato pesantemente. Infatti l elemento kraut è predominante. Ma se l elettronica è sempre stata fra le tue influenze, come mai proprio in questo lavoro più che in altri è diventata così evidente? Credo che in questo disco più che in altri sia entrato quello che ascoltavo nel momento in cui scrivevo le canzoni. Per gli altri album ho usato anche canzoni che venivano dal passato, che magari non erano pronte per finire su un disco e allora le infilavo nel successivo e così via. Questo invece l ho scritto completamente dall inizio alla fine: scrivevo una canzone, la registravo, e quando quella era finita ne iniziavo un altra. Finché non ne ho avute dodici e stop, ecco il disco. Quindi un metodo di lavoro molto essenziale. Effettivamente il risultato 46 47

25 è un disco molto coeso, che in qualche modo incornicia un momento. Quando hai iniziato a scrivere le canzoni? Abbiamo iniziato a gennaio 2011 e l abbiamo finito in giugno. Però registrando solo due giorni a settimana e per non più di quattro ore al giorno, quindi non più di otto ore a settimana. E poi ci sono stati dei momenti in cui ci siamo fermati, perché ero in tour io o lo erano gli altri. E stato un lavoro diluito nel tempo, per questo c è voluto molto per portarlo a termine. Con un metodo di lavoro di questo genere immagino che a tenere tutto insieme sia stato Alain Johannes, che ha registrato il disco. Perché hai scelto proprio lui? Ho scelto di lavorare con Alain perché con lui ho registrato quasi metà di Bubblegum e il processo creativo che si crea fra noi due per me è unico. Ho scritto e registrato canzoni con molte persone ma quella che ho vissuto con lui, per me, è stata l esperienza migliore. Alain semplifica veramente le cose. Il modo in cui lavoriamo assieme è libero, c è una creatività unica e lui più di chiunque altro capisce quello che voglio fare e lo mette in pratica molto velocemente. E poi è una persona fantastica con cui passare del tempo. Francamente, se potessi scegliere, probabilmente lavorerei con lui per il resto della mia vita. Anche perché se trovi una cosa che è buona perché la dovresti buttare via? Parlando sempre dei credit, Blues Funeral è un disco po meno all star di Bubblegum, ma che contiene comunque apparizioni da parte di Josh Homme, Greg Dulli e altri. Puoi fare un quadro veloce di chi suona cosa, e dove? Dunque vediamo... Greg canta su St Louis Elegy solo dei backing vocals. Ovviamente amo lavorare con lui, è un mio amico strettissimo e adoro come le nostre voci suonano assieme Trovargli un posto è stato veramente facile. Avrebbe anche potuto fare tutto il disco con me, ma lo facciamo già sotto un altro nome, quindi...! Josh suona la chitarra su Riot In My House, poi ci sono altre persone da altri progetti di cui ho fatto parte: Dave Catching degli Eagles Of Death Metal, ex Queens of The Stone Age, che suona su un paio di pezzi e ha suonato su gran parte di Bubblegum; Chris Goss, che ha prodotto gran parte di Bubblegum e ha cantato su dischi con me dal 1996, canta e suona la chitarra su Leviathan; Dick Garwood suona la chitarra su un paio di pezzi; il mio amico belga Aldo Struyf, che è stato nella mia live band sin dai tempi di Bubblegum; Dave Rosser, chitarrista dei Gutter Twins e dei Twilight Singers, suona su un paio di pezzi... Credo sia tutto. Insomma, una grande famiglia. Praticamente. Scendiamo un po più a fondo nel significato di Blues Funeral, iniziando proprio dal titolo. Cosa significa, e perché lo hai scelto? Insomma, devi chiamare il disco in qualche modo. E quando mi sono trovato davanti a questa collezione di canzoni mi sono fermato a pensare a come rappresentarla, alla tonalità che volevo dargli e a come volevo che apparisse, ho scelto quel nome. Perché pensavo calzasse. E stato veramente l unico criterio che io abbia mai usato per ogni tipo di titolo, di una canzone o di un album: perché mi sembrava che stesse bene. Non diversamente da quando scelgo un paio di scarpe o qualcosa da un menù... Perché è quello che voglio e quello che mi sembra sia meglio. E in questo è ciò che volevo. Eppure le parole blues funeral sono citate nel testo di Tiny Grain Of Truth, il brano conclusivo del disco, un po come se fosse una title track in pectore. Come mai l hai scelta per chiudere la scaletta? Ha un significato particolare? Quella canzone esisteva prima della sequenza delle canzoni, e il testo prima del titolo dell album. E un genere di canzone che ho già fatto in passato, anche se in modo leggermente diverso, e per il testo che ha, per il fatto che contiene il titolo e perché dura sette minuti ed è molto meditativa, quasi un mantra, per me è ovvio e naturale che sia il tipo di canzone con cui concludo un disco. Ci sono canzoni che sembrano conclusive e Tiny Grain of Truth è quel genere di canzone. E visto che la prima canzone è The Gravedigger s Song e il disco si chiama Blues Funeral mi sembrava la conclusione migliore. Ho notato che l album ha molti riferimenti biblici e religiosi, sia nelle parole scelte per i testi che nei titoli (elegy, funeral, leviathan). Persino il fatto che il disco abbia dodici canzoni rimanda a un elemento biblico. C è sempre un senso religioso di qualche genere nei tuoi testi, nei 48 49

26 riferimenti che fai. Che significato ha tutto questo per te? Non saprei. Non sono una persona religiosa. A modo mio cerco di essere una persona spirituale, questo si. Non mi piace la religione organizzata, però la religione è una cosa che mi ha sempre interessato. Amo molto il gospel, il gospel blues, sono sempre stato affascinato dalla passione di chi vi è coinvolto e quello di cui stiamo parlando credo si sia sedimentato in me con il tempo. A pensarci, è una cosa che ho sempre avuto, ma forse adesso affiora più che in passato. Tornando al passato, i tuoi primi tre album solisti erano una specie di trilogia sulle radici del blues e della musica fondamentale americana. Quel Blues nel titolo può quindi rappresentare un nuovo inizio, un aprire nuovamente quella trilogia sotto una nuova veste? Non mi sento di discordare con quello che dici, ma non... Come posso dire? Faccio questi dischi per me, consapevole che altre persone li sentiranno, e una volta che li ho fatti sta a qualcun altro giudicare. Odio dirlo, ma non li farei se altre persone non li ascoltassero. Certo forse scriverei comunque canzoni, ma non credo mi prenderei la briga di fare un disco se altri non lo potessero ascoltare. Mi farei i miei nastri, tutto qui. Per questo credo stia agli altri decidere che significato abbiano. Non sta a me. Non importa veramente cosa significano per me: ovviamente ho una mia idea, ma è anche giusto che chiunque ami la mia musica abbia la propria opinione a riguardo. Per esempio, io non sapevo cosa significasse Higway 61 Revisited, capisci cosa intendo? Ogni disco che ho amato aveva un senso di mistero senza il quale forse non lo avrei amato così tanto, qualcosa che si spiega da solo e a cui ognuno dà un significato. Specialmente in questa epoca, in cui ci sono così tante informazioni su tutti quanti - sono sicuro che potrei andare su Twitter o Facebook e scoprire tante cose anche su di te e sulla tua vita - sono molto più interessato a cose di cui non conosco tutto. Voglio dire, ascolto musica in gran parte perché voglio che mi trasporti da qualche parte, lontano dalla realtà della mia vita e credo che molti lo facciano per la stessa ragione. Quindi, in questo senso, cosa può valere quello che penso io di quello che faccio? Nulla. Insomma, per me spiegare la mia musica è un po annullarne il significato. Capisco. E più facile legarsi a qualcosa se ci si proietta sopra una parte di sé. Esatto. Scoprendo alcune cose, il mistero sparirebbe e poi quella musica non sarebbe più parte di me. La musica che amo è musica che mi racconta la mia storia, che sia vera o no. Magari è una mia storia immaginaria o è come vorrei che fosse la mia storia o mi ricorda una parte della mia storia o di qualcuno che conosco. Se dovessi dirti quello che ogni mia canzone vuol dire allora farei a me, alla mia musica e anche a te un ingiustizia. Anche se a te magari non interessa un approccio alla musica di questo genere, per qualcuno potrebbe essere importante e non vorrei intaccare la sua esperienza con un mio commento su una canzone. Credi quindi che tutta questa sovraesposizione a livello informatico e comunicativo abbia modificato il mondo della musica in peggio? Prima hai detto di fare dischi principalmente perché le persone li ascoltino, una cosa che con Internet è molto più semplice e immediata, no? Non mi faccio troppo coinvolgere dal lato del business. Sono contento e fortunato ad avere una compagnia che mi fa fare dei dischi e li promuove, anche se oggi chiunque può fare un disco e metterlo fuori. E credo che questa sia una cosa buona: tutto quello che può sfociare in qualcosa di creativo è buono, anche se magari posso non apprezzare il risultato. Per esempio tu potresti fare un quadro che potrebbe non piacermi... Guarda di questo ne sono praticamente certo, faccio veramente pena. Ah, sono sicuro che nemmeno tu apprezzeresti i miei quadri... Perché non sono assolutamente capace di dipingere! Ma capisci quello che voglio dire. Il modo in cui la musica sta cambiando credo sia buono. Tutti hanno accesso a molta musica, tutti possono fare musica, bisogna solo guardare meglio in giro per trovare cose che ti piacciono, ma ci sono anche più possibilità di trovarle. Per concludere, un paio di domande sul tour che inizierai tra poco: hai già iniziato a pensare a come poter rendere l album dal vivo? E come sarà composta la band live? Inizieremo le prove la prossima settimana. Ci saranno Aldo Struyf, il mio amico belga, e altri tre musicisti dal Belgio. Cercheremo di suonare queste canzoni, magari non proprio come suonano su disco ma in un modo che ci renda felici. E quello che cerco sempre di fare dal vivo

27 cd&lp Recensioni marzo?alos - Era (Tarzan Records, Febbraio 2012) Genere: avant Il dramma antropologico condotto dalla signorina?alos si arricchisce di questo EP in vinile rosso smagliante. Tre pezzi che introducono un nuovo livello di sensibilità espressiva per la creatura speculare della Pedretti, grazie soprattutto al contributo della multistrumentista californiana Kris Force (tra le altre cose a capo del progetto Amber Asylum), che si presta al violino e al violoncello nell antimelodramma Cammineremo sui nostri corpi e in quella title track che distilla tremori cinematici come il Morricone più astratto o un Brian Eno apocalittico. Ha buon gioco la performer vigevanese col suo consueto intarsio sciamanico da serpenta che striscia nel sottobosco ctonio (chitarra tra il distorto e il devastato, percussioni e campanelli, nevrastenie vocali e capelli da Gorgone...). Però, come dicevamo, avverti particelle di lirismo pressoché inedite, una sorta di struggimento basale, voglia di rovesciare le radici e alzare lo sguardo all orizzonte, come se nella mistura fossero cadute due gocce in più di speranza e pietas. E non è affatto male. Così come non è male la opening Panas, spettro blues e tribalismo terrigno - al violoncello stavolta un palpitante J.K. - attorno agli archetipi di noise e post-rock, finendo poi per beccheggiare non senza sorpresa tra le allucinazioni cosmiche dei primi Floyd. (7.1/10) Stefano Solventi A Place To Bury Strangers - Onwards To The Wall (Dead Oceans, Marzo 2012) Genere: feedback rock Sembrano sinceri quelli della Dead Oceans quando raccontano di come il nastro demo dell ep numero 8 dei newyorchesi sia risultato in assoluto il più rumoroso mai ascoltato alla label. Noi che gli A Place To Bury Strangers li seguiamo da un po di tempo, ci meravigliamo un po meno, visto che è proprio l assalto sonico post-j&mc/ Spacemen 3 a caratterizzare da sempre la band di Oliver Ackermann. Non a caso, uno dei più rinomati e ricercati costruttori di effetti per chitarre con la sua Death By Audio. Onwards To The Wall è l ep che inaugura il rapporto con la Dead Oceans e prepara la strada al terzo album. E per farlo utilizza l ormai solito trademark della casa, spingendo cioè sull acceleratore della reiterazione e del rosso degli amplificatori, per rinverdire il filone wall of sound meets melodie vocali annoiate che tanto abbiamo apprezzato i passato. Tra reminiscenze noisy (I Lost You), quintali di paranoia, echi dark-kraut-wave sempre squadrati e insospettabilmente gelidi (la title track impreziosita dal basso rotondo della new entry Dion Lunadon e dalle vocals riverberate di Kimya Dawson) reiterati nella seguente Nothing Will Surprise Me da cui sembrano emergere lasciti impensabili (i Dead Or Alive di You Spin Me Round annegati in maree di feedback) e aggressioni chitarristiche al limite del parossismo, l attesa per il nuovo album non può che essere troppa. (6.6/10) Stefano Pifferi AcomeandromedA - Occhio comanda colori (Piccola Bottega Popolare, Gennaio 2012) Genere: rock indie Quella degli AcomeandromedA è una proposta musicale assimilabile a un calderone indie-rock italiano ormai fortemente inflazionato e sempre più uguale a se stesso, tranne che per rare eccezioni. Nulla di nuovo, dunque, dai cinque ragazzi che compongono la band pugliese. Undici brani in programma nei quali si pecca un po di autocelebrazione, come in un iniziale A come Andromeda buona per farci scoprire l attitudine vagamente Seventies della band, oltre che alcuni dei fondamenti stilistici ripresi anche dal resto della tracklist: chitarra in distorsione, riff ripetuti all infinito, costruzione dei ritornelli basata sull alternanza di tensione e rilascio melodico. Progressioni che conoscono momenti di distensione come Pioggia, pietra e terra, anche se poi i ragazzi cercano sempre di innescare un tiro rockegiante che comunque non giova più di tanto all economia complessiva dell album. Al centro ci sono quasi esclusivamente le voci di Willy Elefante e Vito Indolfo, quest ultimo impegnato anche al flauto traverso: melodie che alla lunga fanno affiorare una certa monotonia, tranne forse negli episodi in cui la band molla gli ormeggi verso un introspezione maggiore 2 Pigeons - Retronica (La Fabbrica, Febbraio 2012) Genere: electro pop Chiara Castello e Kole Laca, soci fondatori della ragione sociale 2 Pigeons, tornano al lavoro da studio dopo aver vinto il Demo Award 2009 su Radio Rai ed aver pubblicato una fortunata opera prima che li ha portati a condividere il palco con artisti del calibro di Paolo Benvegnù, Malika Ayane e Beatrice Antolini. Il loro è un pop elettronico reminiscente degli anni 90 con un gusto particolare per le orchestrazioni da camera, citazioni Nine Inch Nails comprese. Citazioni Nine Inch Nails? Quartetti da camera? Beh si, detto così paiono due elementi opposti ma l accostamento è già capitato in passato: Homogenic della mai troppo lodata Björk, tanto per citarne uno famoso, già fondeva partiture per archi con le timbriche industrial di un Mark Bell toccato dalla mano di Dio; aggiungiamoci un gusto per il punk cabaret dei Dresden Dolls ed il gioco del duo nostrano è svelato: capaci di proporre ritornelli radiofonici (Hard Working Space), ambienti grotteschi (Ikarus), sonorità d atmosfera (Satellite) e di reinterpretare una canzone tradizionale albanese (Turtulleshe), i 2 Pigeons alla seconda opera sono un duo interessante ed in grado di muovere il pubblico con canzoni di una qualità rimarchevole. Gli arrangiamenti, a volte forse un filo derivativi e legati ai preset da tastiera, sono comunque estrosi quanto basta per dare al duo un identità propria riconducibile, certo, ad altri artisti, ma abbastanza originale da differenziare uno stile. Cosa non convince? Nulla in particolare, forse da un duo del genere mi sarei aspettato una quantità maggiore di potenziali hook radiofonici, ma c è da fare i conti con l attitudine punk dichiarata in varie occasioni. Poi ci sono regole che vanno seguite, se di musica vuoi vivere con una certa coerenza: se non ti puoi nemmeno permettere un batterista, figuriamoci buttare via una canzone. (7.2/10) Simone Caronno (vedi Skizofonia) o verso parentesi prog (Tupatuttuttutu- Booo) che contribusicono a tenere viva la scaletta fino agli ultimi passaggi. Album onesto, forse fin troppo. Nel senso che avremmo preferito sentire qualche azzardo in più capace di solleticare la curiosità di chi ascolta invece di assistere a una prova dignitosa - soprattutto per l impegno che vi è stato riversato - ma irrimediabilmente allineata a tante altre. (6/10) Roberto Paviglianiti Adriano Celentano - Facciamo finta che sia vero (ClanCelentano, Novembre 2011) Genere: celentano Celentano sono anni, forse decenni, che non è più persona ma personaggio, autocaricatura che manco Teo Teocoli: maschera di se stesso, maschera e basta, ma fortunatamente maschera-voce (e pause. Ed ecologismo naïf). Questo fa di lui potenzialmente uno dei più grandi interpreti della musica italiana. Ma la musica italiana raramente ha saputo rendere piena giustizia alle sue potenzialità più grandi, coltivandole, educandole - ad esempio - alla fatica dei grandi album. Celentano ha però raggiunto una sua tarda (tardamente acquisita) maturità artistica, con i dischi realizzati nei primi anni Duemila con Gianni Bella alle musiche e Mogol alle parole. Adriano, classico straclassico e supernazionalpopolare come pochi, decide ora di tuffarsi nella contemporaneità tutta italiana di un disco di e con Negramaro, Jovanotti e Battiato. Sì, insomma, in un eterno presente-eterno passato tutto italiano. Introdotti all ascolto da una copertina che manco Richard Benson, si viene assaliti da una forte fortissima sensazione di déjà vu. Non ti accorgevi di me ha del geniale in tal senso, lo diciamo senza ombra di sfottò, con quel suo mischiare ad arte melodismo primi anni Sessanta, celentanità, (addirittura) Vinicio Capossela, colonne sonore di Lupin III e chitarre elettrock. E un Negramaro-stile che qui calza a pennello a Celentano. Ti penso e cambia il mondo, testo di Gino Pacifico, spiega invece come basta un niente per scoprire che dietro quella facciata di déjà vu c è semplicemente l eterno ritorno dell autoplagio, e di un fare melodramma che parlando d amore parla come da un catafalco. Facciamo finta che sia vero è un matrimonio a tre, anzi a quattro, anzi a cinque: musica deandreianamente (5) flamencata e poi 52 53

28 archi e coro superpathos sospeso di Nicola Piovani (4), che veste perfettamente il testo di Battiato-Sgalambro (3 e 2), per un interpretazione celentanesca (1) obiettivamente maiuscola. Musicalmente, il tormentone Non so cosa più cosa fare è 100% Manu Chao (siamo dalle parti della riconoscibilità quando sfiora la caricatura, con quella chitarra acustica, quel coro sotto, quel ritmo martellante uniforme), mentre liricamente - testo di Adriano - è una specie di svilimento dell accumulazione ritrattistico-nonsense di Ma il cielo è sempre più blu (lo scopo è sempre raccontare-nonraccontare la contemporaneità fatta di disillusione e amarezza), fino al cazzotto della seconda metà spoken word, con Battiato che parla in spagnolo. Anna parte fa sua certa cantautoralità italiana, da qualche parte tra De Gregori (le cadenze di fine strofa) e il gucciniano raccontare piccole storie di piccoli grandi uomini, in sovrapposizione con certi modi dell ultimo Gaber. Stesso discorso di Ti penso e cambia il mondo per Fuoco nel vento (testo di Jovanotti): pathos, ma pathos cimiteriale. Jovanotti, sempre lui, prende lezioni di musica da Manu Chao e appunti dai testi-filastrocca - ancora, e sentire il modo con cui Adriano chiude certe linee - dell ultimo stanchissimo Gaber e tira fuori un manifesto del nuovo-qualunquismo musicalmente brutto, La cumbia di chi cambia, il brano peggiore del disco. Poco più di una gag nostalgica poi il cha cha cha, con gran cerimoniere Raphael Gualazzi (e un sacrificatissimo Trilok Gurtu alle percussioni), de La mezza luna. Chiude in bellezza un Adriano predicatore sbrigliato nell autografa - tutto sommato divertente (perché davvero sopra le righe; ci sono echi di Prisencolinensinainciusol) - contro-lezione di economia de Il mutuo, musicalmente un plagio abbastanza spudorato di Amandoti nella versione di Gianna Nannini. Occhio però: il messagio più profondo di questo disco è di non tirare mai più in mezzo Jovanotti. (5.6/10) Gabriele Marino Alex Winston - King Con (V2 Music, Febbraio 2012) Genere: Alt Pop l grande successo che hanno raggiunto in Inghilterra ragazzine folk-pop (Kate Nash, Laura Marling) e le nuove icone del female art-pop (Florence & The Machine su tutti) ha aperto le porte a numerose giovani cantanti - Marina Diamandis, Ellie Goulding e Clare Maguire - in grado di andarsi ad inserire perfettamente a metà strada tra pubblico mainstream e un numero sempre crescente di adolescenti stanchi delle solite e irraggiungibili popstar. Alex Winston potrebbe quindi essere vista come l ennesimo nuovo nome di questo tipo, se non fosse che è americana, tra l altro cresciuta in una città come Detroit, conosciuta per la Motown, per la techno post Chicago-house e per una scena hip hop particolarmente rigogliosa, non certo per il giovane cantautorato pop al femminile. America quindi, ma non disperate, qui l accoppiata Michelle Branch/Vanessa Carlton dello scorso decennio è solo un lontano ricordo, le coordinate musicali sono decisamente britanniche e il punto di partenza è ancora una volta lei: Miss Kate Bush. L omonimo album di debutto, prodotto da The Knocks, Bjorn Yttling e Charlie Hugall, è da considerarsi come una sorta di best of degli EP fino ad ora pubblicati: Locomotive, la bonus Sister Wife, il singolo Choice Notes e la sua AA side Medicine facevano parte di Sister Wife EP mentre Velvet Elvis e Fire Ant erano presenti all interno dell EP Velvet Elvis. Alex, che all attivo ha anche un EP di cover, è dotata di un timbro sicuramente d impatto ma che può risultare non sempre gradevole: se la maestra Bush e soprattutto Joanna Newsom sono lì a porta di mano, la Winston da canto suo ci aggiunge forti dosi di spensieratezza adolescenziale - uuh uuuhh e aah aaahh un po ovunque - che in alcuni casi rischia di essere poco digeribile per un target che non sia quello della indie-girl under 25 (Choice Notes, Last One e la folk-ish Medicine). Più che art pop - i palati più fini farebbero meglio ad aspettare il debutto di Niki & The Dove - quello contenuto in Alex Winston è brioso e a tratti frivolo alt pop che può giocarsi le sue carte sia sulle melodie orecchiabili (Locomotive, Fire Ant) punto debole dell altra newcomer Beth Jeans Houghton, sia anche su quei ritmi che hanno fatto la fortuna di KT Tunstall. (6.5/10) Riccardo Zagaglia Ani DiFranco - Which Side Are You On? (Righteous Babe, Gennaio 2012) Genere: songwriting - folk A più di tre anni dall ultima fatica in studio, dopo un periodo dedicato principalmente alla famiglia, Which Side Are You On? segna il ritorno in grande stile di Ani Di Franco. Ad eccezione della title track, resa a suo tempo celebre da Pete Seeger, l album raccoglie dodici brani originali in grado di tenere a debita distanza un certo folk revival potenzialmente stantio e fuori luogo, grazie a un approccio mutevole che, di traccia in traccia, denuncia una varietà di soluzioni invidiabile e una scrittura capace di respirare senza fatica, anche quando gli spazi di mana- Air - Le Voyage Dans La Lune (Virgin, Febbraio 2012) Genere: Cosmic OST Air: ovvero moda del revival. Come da sempre. Ora con Méliès e i viaggi lunari, già usati da altri rocker (tra gli altri Billy Corgan e i Queen), si ritorna alla colonna sonora. Un doppio sogno. Cioé di nuovo la ripetizione del vecchio (la strumentazione e i cliché compositivi), un topos che ha raggiunto buone vette nella carriera del duo francese (hanno già infatti collaborato alle colonne sonore di numerosi film della Coppola e alla sonorizazione del libro di Baricco City). Se proprio vogliamo potremmo definirla una retrofilia al cubo, l operazione sonorizza infatti un film/proto-cartone animato di inizio secolo a sua vola restaurato. Benoit e Nicolas vanno a dire qualcosa su un testo già remixato, remix del remix, operazione post-moderna e meta-musicale che nel contesto delle nostre riflessioni socio-musicali cade a fagiolo (vedi l ovvio riferimento ancora una volta a Reynolds e la Méliès-mania riportata in auge anche dalle undici candidature all oscar di Hugo Cabret di Scorsese). Il disco non si fa guardare solo dal punto di vista modaiolo, bensì anche da quello della domanda di mercato. Chi lo potrà comprare? Gente con i brufoli e con i catenoni? No. Gente che va al rave dei Crookers? Nemmeno. L unico potenziale acquirente è l over trenta che ha già vissuto l eccesso e che oggi si siede comodo sulla poltrona a guardarsi il DVD ossequiosamente originale (il torrent è roba da poveri) con la colonna sonora dei due superfighetti parigini. Come non ricordare poi che anche gli amici Daft l anno scorso si sono cimentati con la colonna sonora di un altro remake (in quel caso l ottantissimo Tron)? Non sembra proprio più necessario guardare avanti, anzi più indietro ti spingi meglio è. A quando una rivisitazione di Palestrina o della musica antica da parte di David Guetta? Previsioni a parte, il sapore di questa - come di altre - operazione è già inserito in una scena retromaniaca (vedi lo start dei Justice qualche mese fa) che nei tastieroni analogici e in un sicurissimo scheletro rock-pop ha da sempre accompagnato il viaggio del duo. C è qualcosa in più rispetto al solito suono pulito, che da quel capolavoro di Moon Safari non si rinnova più di tanto? Le ragnatele sono difficili da togliere, ma i featuring di Victoria Legrand dei Beach House (Who Am I Now?) e delle Au Revoir Simone (Seven Stars) danno un po di pepe a una colata di velluti, occhiali a montatura spessa socialista, maglioncini con le toppe, e altro paraphernalia hipster d obbligo. Guarda caso il film-con-colonna-sonora era pronto proprio per il Sundance Film Festival dello scorso Questo mood a dirla tutta non guasta, ma in un certo modo tende a oscurare il risultato sonoro. Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel sono bravi sì, tecnica allo stato puro nei trentun minuti di queste undici tracce (qualcosa di molto buono si sente nel ronzìo Seventies di Sonic Armada o nella ballad con svisate impro di Lava) ma quello che hanno già fatto non torna più. Che è come dire che il thrill dell emozione del rock sta da un altra parte. Feeling di plastica il loro. Sempre più blindati nella loro immagine virtuale che si specchia infinite volte su se stessa. (7/10) Marco Braggion vra si fanno volutamente stretti e privi di luce. Il riferimento va, in modo particolare, ai pezzi cantati in punta di voce, vedi la preziosa Albacore o l iniziale Life Boat, che risultano in buona alternanza con situazioni più consistenti e timbricamente tangibili, come Unworry. Il lavoro si muove con disinvoltura anche in territori tendenzialmente pop, vedi la bella melodia di Promiscuity, e prende spunti vitali da dove meno te l aspetti, come nelle tessiture dub di J. Sì, ci sono le ballate dal sapore classico, meglio dire consueto, ma poi quando tutto sembra messo a fuoco e incasellato con dovizia arriva il colpo basso di If Yr Not, con le sue rasoiate chitarristiche, giusto per raccogliere i cocci di un ascolto che non conosce flessioni. C è della poesia in tutto questo, c è uno schierarsi dalla parte di chi vuole costruire musica cercando allo stesso tempo di non imbrigliarsi nel businness della vita - sia dal punto di vista politico, che sociale -, ci sono un pugno di canzoni che giustificano l incipit che abbiamo scelto per far intuire immediatamente l aria che tira. (7/10) Roberto Paviglianiti 54 55

29 Appaloosa - The Worst Of Saturday Night (Black Candy, Febbraio 2012) Genere: electro psych Neanche il tempo di digerire Appaloosa Rmx Vol 1, prima portata di remix dal precedente Savana, ed eccoci ad affrontare una generosa porzione di cacciucco elettroisterico a cura dei nostri chef labronici preferiti. I soliti energumeni che impastano e imbastardiscono la ricetta senza ritegno, ferma restando la voglia di sbrigliare l estro e puntare la barra verso una visione eccitante, pazienza se l ascoltatore (o il recensore) rischia d uscirne sconcertato. Anzi. Se manca il senso di una visione forte, ingegneristicamente calcolata, poeticamente soppesata, è perché forse non ce n è bisogno. Questo disco, come sempre la musica dei quattro, è frutto evidente di zuffe da palcoscenico, di cantina messa a ferro e fuoco, aggiustando il tiro, l alzo e l angolazione degli incroci. Psichedelia, elettro-noise, post wave, kraut rock, punk funk, techno minimale: gli ingredienti schiumano, si mimetizzano, sintetizzano sapori e coordinate. Vedi i Gang Of Four sciolti nell acido krauto di Western, il patchwork avariato The Books di Mazzpower, il parossismo June Of 44 nel vortice poliziesco dei Calibro 35 (o per restare in zona de Le Gorille) di Lulì, i fotogrammi traditional folk soffritti nella mistura robotica stoner di Irish, il miraggio Bollywood tra vampe e spigoli chicagoani di Yuri, gli spasmi robotici seriali tra anfetamine blues di Beet Oven. E via ciarlando. Divertono lasciandoti sul chi vive. Lo scherzo di un dito puntato alla schiena. (6.9/10) Stefano Solventi Are You Real? - Songs Of Innocence (Face Like A Frog, Gennaio 2012) Genere: art pop-rock I veneti Are You Real? sono un quartetto capeggiato da Andrea Liuzza, vecchia conoscenza di SA (recensimmo l autoprodotto Melancholia nel 2008) il cui estro ritroviamo intatto nel qui presente Songs Of Innocence. Riconosciamo la stessa voglia di farti entrare dentro una storia che procede per svolte, sospensioni, vampe e struggimenti, obbedendo ad input stilistici eterogenei (dalla wave-punk all alt-folk, dal power pop al post-rock, dall ambient alla psichedelia...) ma come unificati dal filo narrativo tenuto teso dalla band, cui non si può certo rimproverare la mancanza di convinzione nei propri mezzi e nella missione che si sono posti. Dieci le tracce più una fantasma, la già nota Wolf, peraltro piuttosto anomala rispetto al resto del programma col suo spiegare chitarre e violino a testa bassa come dei Waterboys avariati punk. Il cuore della cosa sta però tra il noise narcotizzato di Dream Dream Dream (da qualche parte tra Big Star e Bright Eyes) e le turbolenze arty The End Of The World (come un Patrick Wolf al guinzaglio di Okkervil River e Sparklehorse), passando dalle morbide scorie Velvet di I Miss You Forever (dal finale nevrastenico à la Cobain) e dal cuore sprimacciato di Another World (una trepida via di mezzo tra Decemberists e i primi Coldplay). La pronuncia un po legnosetta - che comunque non non penalizza troppo l espressività - e i cali di ispirazione (una scrittura più intensa avrebbe condotto Humans dalle parti dei migliori Talk Talk) sono difetti tutto sommato perdonabili, mentre la capacità di imbastire trame romantiche (la toccante ma non svenevole The Last Song) e cinematiche (uan The Great Fire abitata da minimi termini apocalittici degni dei primi GY!BE) fanno capire che la stoffa è di buon livello. Aggiungete la disinvoltura con cui coinvolgono nell operazione (prendendone in prestito il titolo e sbattendolo in copertina) il caro vecchio William Blake, e si è detto più o meno tutto. Teniamoli d occhio. (7/10) Stefano Solventi Ben Frost/Daníel Bjarnason - Sólaris (Bedroom Community, Febbraio 2012) Genere: ambient neoclassica The power of Andrey Tarkovsky s Solaris is not in its futuristic sets, or in the hypnotic shots of the alien planet s weird, fluid surface, but its in the way he juxtaposes his alien, futuristic elements against the intimately familiar. This is a future not just of flashing lights and video screens, but of wood and wool and leader, of dogs and horses, books and photographs.. Leggendo le vicende che hanno portato a questo lavoro, potremmo dire che l immensa e superiore massa cosmica senziente, motore dei personaggi di Solaris, si sia spostata dalla finzione alla realtà, diventando essa stessa simulacro del film e da qui piano nobile e artefatto da onorare con questo nuovo score musicale. Ben Frost e Daniel Bjarnason, entrambi nel roster della Bedroom Community, decidono infatti di musicare ex novo il film di Tarkovsky, lavorando al tempo stesso per sottrazione e associazione di elementi. Da un lato, la malìa più harsh e industrial del primo che arretra sensibilmente sotto gli effetti del sinfonismo austero del secondo, dall altro il comprensibile rintracciamento delle immagini cinematografiche che diventano mappa stessa della musica che ispirano. Il risultato è in linea con la vocazione dei due musicisti, ovvero quello di produrre una musica più in linea con le coordinate psicologiche del film, piuttosto che con quelle sci-fi. Forse il difetto Andrew Bird - Break It Yourself (Bella Union, Marzo 2012) Genere: folk blues Tre anni fa celebrammo Noble Beast come il probabile punto di arrivo di un cantautore che già da qualche stagione stava vivendo la fase di grazia. Forse ci avevamo preso, ma non è una brutta notizia. Ce lo suggerisce il fatto che questo Break It Yourself, album numero sei per il violinista chicagoano, non tenta di alzare l asticella della calligrafia come avevano fatto sempre i predecessori - approdando ad un godibilissimo stallo tra rarefazione e intensità, tra sdilinquimento esotico e nostalgia tradizionalista - ma sembra come svariare attorno alle posizioni consolidate, permettendosi un approccio a bassa fedeltà (pare che le incisioni siano avvenute su un 8 tracce) che conferisce al sound una fragranza più rustica e assieme misteriosa. Quattordici tracce che giochicchiano con la disinvoltura di chi non ha perso la misura e il polso della cifra espressiva, un disimpegnarsi fragrante che solo a tratti tradisce mestiere (la carineria ingegnosa di Give It Away, funky esotico agrodolce, o la vaghezza caraibica di Desperation Breeds, come un gingillarsi senile di David Byrne) ma che in genere se la cava distribuendo ipnotiche intuizioni d arrangiamento e scrittura: vedi il folk marezzato gospel blues di Lazy Protector, vicino al Beck col motore al minimo, o la trepidazione aggraziata di Danse Caribe, come una brezza Paul Simon sotto il front porch, oppure e soprattutto quella Hole in the Ocean Floor che sciorina solennità cinematica tra mantici d archi e una chitarra grattugiata, nella quale percepisci trasporto folk Van Morrison e densità trascendentale Tim Buckley. Al solito, lo sguardo è puntato laggiù nello stesso orizzonte dove s intrecciano le direttrici geografiche e temporali degli M Ward o dei Sufjan Stevens, il primo palpabile tra i trastulli sintetici e i suffumigi jazz-dub di Near Death Eperience, il secondo a benedire d estro balzano il wave pop onirico (e vagamente smithsiano) di Eyeoneye. Un disco quindi che segna la transizione dall apice creativo alla maturità persistente, il cui sigillo può essere idealmente individuato in Lusitania, tutto un languore seppiato folk asperso di aromi bluesy di quelli che apparentemente gli escono dalla mano sinistra, ma la forma è impeccabile e l incedere toccante, impreziosito dalla voce di Annie Clark (meglio nota come St. Vincent). Andrew Bird si ripete, ma - come è prerogativa dei grandi cantautori - non delude. (7.2/10) Stefano Solventi maggiore sta nell eccessiva severità artsy, ma era difficile immaginare qualcosa di radicalmente diverso. Del resto, il processo creativo è stato tanto avventuroso quanto cerebrale. Dapprima, i due musicisti hanno improvvisato sulle immagini producendo un unica suite senza soluzione di continuità. Traccia poi passata alle cure del computer, dove un software ne ha corretto gli errori e le interferenze traducendola in uno score digitale, che è stato poi successivamente rielaborato dal vivo con l ausilio della Sinfonietta Cracovia. A supervisionare tutta l operazione Brian Eno in veste di art director, il quale si è occupato principalmente della selezione delle immagini per la resa live e di tutto il lavoro di grafica del disco. (6.8/10) Antonello Comunale Beth Jeans Houghton & The Hooves of Destiny - Yours Truly,Cellophane Nose (Mute, Febbraio 2012) Genere: Art Pop-Folk Inglese, ventidue anni, trucco pesante, attitudine tra il teatrale e il fashion trend setter e improbabile ultima fiamma di Anthony Kiedis (Red Hot Chili Peppers). Quello di Beth Jeans Houghton è un biglietto da visita che non passa di certo inosservato e che ha già creato parecchie aspettative attorno al suo album di debutto Yours Truly, Cellophane Nose. Prima di affrontare l esordio lungo facciamo un flashback a tre anni fa, quando Beth Jeans Houghton e la band di supporto The Hooves of Destiny diedero alle stampe Hot Toast Volume 1, un EP dal sapore prettamente bucolico, ben inquadrabile all interno della nuova scena folk inglese tutta al femminile (zona Laura Marling) e che la portò ad aprire per artisti del calibro di Devendra Banhart, Tunng, Bon Iver e Joanna Newsom, tutti nomi che hanno masticato folk, risputandolo in un modo 56 57

30 del tutto personale. Questa è l operazione che esegue anche Beth Jeans Houghton in Yours Truly, Cellophane Nose, lavoro in cui, partendo dalle proprie radici, arricchisce il suono rendendolo contemporaneamente più fruibile - avvalendosi del produttore Ben Hillier (Elbow, Blur e Depeche Mode) - e contemporaneamente meno anonimo. Il contesto si sposta subito su territori art pop nell iniziale Sweet Tooth Bird e nella St.Vincentiana Franklin Benedict, senza tradire suggestioni e strumentazioni folkish in Humble Digs o nella scampagnata Liliputt. La Mute Recors ha puntato su di lei e Beth risponde all appello muovendosi agilmente tra i saliscendi melodici imponendosi come una sorta di Florence Welch con meno concessioni a tentazioni da classifica. Ben sorretta dai The Hooves of Destiny che forniscono anche un apporto importante a livello di cori e seconde voci, Beth non può di certo vantare dell impianto e l impatto rock di una Anna Calvi, nè tantomeno i ritornelli appicicosi di Lana Del Rey o Marina & The Diamonds - e per questo nutriamo qualche dubbio su un suo breakthrough mediatico immediato - ma dimostra già ora di volere e potere puntare in alto. (6.9/10) Riccardo Zagaglia Blondes - Blondes (RVNG Intl., Febbraio 2012) Genere: House È il loro full-lenght di debutto, ma per quanto strano possa sembrare Blondes è in realtà soprattutto un disco di transizione, un istantanea dell evolversi del duo newyorkese aggiornata al momento in corso. Da quell apprezzato Touched EP del 2010, cinque tracce solide fatte di ambient house dotata e intelligente, Zach Steinman e Sam Haar ci han preso gusto e tra i sempre più frequenti dj-set e l ultimo Fact Mix, la novità di questo periodo è un netto avvicinamento al club, condotto per mano dal trittico di uscite dell anno scorso. L album uscito oggi non fa che riproporre i sei singoli pubblicati lungo il 2011, aggiungendoci due pezzi che non hanno molto di più da dire (Gold e Amber) e un disco di remix con nomi anche importanti come Andy Stott, John Roberts, Traxx o Laurel Halo. La sostanza però è quella già espressa recentemente: i due ragazzi sono ancora in grado di tirarti fuori il pezzo ambient house di lusso (come lo sono Business e Wine, mischiando l old style 90s a una certa armonia balearic), ma possono anche metterci la vivacità dance di brani come Lover e Pleasure, energia buona per il club senza disdegnare quel pizzico di esotico che fa tendenza. Non hanno nessuna particolare vena innovativa ma solo la voglia di far pezzi che funzionano. Atteggiamento più che lecito, a patto però che non sfoci in una troppo evidente assenza di urgenza espressiva, come accade in Hater e Water, due impianti classici troppo facili per far colpo, e come conferma la release troppo frettolosa di un album fondato sul riciclo, che rimanda a domani il vero banco di prova. Né più né meno che una vetrinetta, con merce anche piuttosto buona ma offuscata da un pesante odore di marketing. (5.9/10) Carlo Affatigato Blood Red Shoes - In Time To Voices (V2 Music, Marzo 2012) Genere: Indie Arrivano al terzo disco gli inglesi Blood red shoes, duo chitarra/batteria composto da Laura Mary-Carter e Steven Ansell dedito a un indie rock che pesca molto nei 90 con influenze deus e Pixies, e ovviamente qualcosa nei 2000 sul sentiero Arctic monkeys, Foals & company. In time in Voices propone un suono rotondo, ben confezionato, paragonabile - guarda caso - al recente Keep You close dei deus, pur dimostrando una maggiore varietà musicale. E un disco che cresce dopo qualche ascolto, ma il primo impatto è noia: strofe dolci, ritornelli con riffone aggressivo (In time to Voices, Lost Kids, Silence and drones), tutto molto bello ma poco stimolante. Anche i muscoli grunge di Je me perds che arrivano giusto a metà disco sembrano messi lì tanto per cambiare un po aria. Poi pian piano vengono fuori anche le canzoni. Ottimo l episodio con in braccio l acustica (Night light), buoni il garage di Slip into Blues, il singolo Cold e la rivisitazione Blur di Down in the dark. Carter e Ansell sostengono che è il loro lavoro più ambizioso, ma al terzo disco era lecito aspettarsi qualcosa in più. (6.1/10) Stefano Gaz Body Language - Social Studies (Om Records, Febbraio 2012) Genere: Pop/Soul/Disco Fondamentalmente, ogni ritorno disco ha portato e porta sempre con sé conseguenze evidenti nel circondario della musica pop. Che si parli di ultra celebrato french touch (Daft Punk, Phoenix, Tahiti 80) o che si parli del revivalismo punk funk di inizio millennio (The Rapture, Franz Ferdinand), ogni ondata di edonismo clubbistico rapisce e porta via con sé un numero considerevole di musicisti mainstream e indie. I newyorchesi Body Language, ad esempio, con l esor- Django Django - Django Django (Because, Marzo 2012) Genere: Psych-pop Vengono da Edimburgo, ma si sono accasati a Londra, scegliendo per nome di reiterare il nome di battesimo di un icona della chitarra mondiale, e pare abbiano il preciso intento di riuscire laddove non sono del tutto (per ora riusciti) i Metronomy: coniugare organico e sentitico, pop melodico, folk e ritmiche danzerecce in una proposta che accontenti tanto il mercato interno britannico, sempre alla ricerca di una band da adorare per la presa facile delle melodie, ma anche il pubblico d oltremanica, magari meno direttamente coinvolgo nell hype machine, ma attento ai rivoglimenti dell underground d Albione. I quattro devono aver passato l adolescenza sui dischi della gloriosa Beta Band (con cui c è anche un legame di parentela, dato che il leader dei Django Django, David McLean, è il fratello di quel John che vi suonava le tastiere): hanno studiato ampiamente come creare canzoni dall incedere mantrico che crescono ed esplodono in un tripudio di colori. Si veda a questo proposito la più che esplicativa Hail Bop, che fin dal gioco di parole del titolo mette in campo la fantascienza sublimata in territori psych che i quattro doveno amare. Il canto, spesso corale, si coagula talvolta (Hand of Man, Default) attorno a idee melodiche che farebbero felice Brian Wilson, mentre nell Introduction i synth e le ritmiche fanno risalire verso i Kraftwerk. Love s Dart è un pezzo che sembra scritto da dei Fleet Foxes che vengono dal futuro, mentre il sapore del passato più profondo del pop - cosa che non può mancare in una band emergente di oggi - è chiaramente riscontrabile in Life s a Beach (noi pensiamo ovviamente a quella di Brighton) in cui i Beach Boys si incontrano nel rock n roll anni Cinquanta riletto, appunto, dalla Beta Band. Non mancano atmosfere orientaleggianti (Skies Over Cairo) e una più kosmische adattata in chiave Queen tex mex (Wor). La stampa britannica è andata in sollucchero, sottolineando la forza che hanno i Django Django di portare oltremanica i tropici. Da questo lato del canale si apprezzano, al netto del push mediatico, la forza delle melodie scanzonate e la raffinata capacità di costruire crescendo che portano i nostri piedi a battare il tempo su anthem che si conficcano nella memoria. Per un debutto, non è cosa da poco. (7.5/10) Marco Boscolo dio Social Studies, tradiscono una genuina fascinazione per quel calderone sonoro che nell ultimo decennio è stato chiamato semplicisticamente nu disco. Social Studies non propone l ennesima variazione sul tema nostalgico degli Hercules & Love Affair, tantomeno lo sconfinamento verso il pop di progetti deep oriented come Azari & III. Qui si parla di pop music intesa come un vasto ed eterogeneo immaginario fatto di soul, electro, disco e quella tipica bulimia estetica che caratterizza le teste indie pop: non stupisce quindi che You can sembri una cover degli Steely Dan suonata dagli Hot Chip o che l incedere micione e soulare di Falling Out ricordi la glassa di Joey Negro sbiancata dai Phoenix (a conferma della funzionalità clubbistica della traccia segnaliamo il remix a mano di Tiger & Woods incluso nella deluxe version del disco). Il trittico indie-caleidoscopico di Social Studies, Seeds of Sight e Holiday ci porta invece in territori non lontani da Architecture in Helsinki e Peter Bjorn and John con la medesima euforia timbrica dedita al continuo trick elettronico. A rendere tutto più accattivante, ma allo stesso tempo caotico, ci pensa l alternarsi scanzonato (e a tratti ridondante) di falsetti maschili e lead vocal femminili di Grant Wheeler e Angelica Bless. We got enough ci fa tornare in pista con evidenti tentazioni defected mentre Running e Tempoture schizzano in direzioni di opposta coralità Arcade Fire, ma sempre con il dito pronto sui grilletti dei sintetizzatori. I Body Language possiedono una calibratissima produzione e un ineccepibile gusto nell arrangiamento, ma il loro obbiettivo per il 2012 deve senz altro comprendere il bilanciamento tra attitudine sing a long e piglio clubbistico. (6.5/10) Dario Moroldo 58 59

31 Drink To Me - S (Unhip Records, Marzo 2012) Genere: psych-elettro-pop Una storia fatta di passi lunghi e decisivi, quella dei torinesi Drink To Me. Nel 2010 lodavamo la pregevole mistura di Liars, afrobeat, kraut, psichedelia di un Brazil che rispetto a un esordio più interlocutorio guadagnava punti e ora il suo successore ci spinge ad avventurarci ancora più lontano. E il bagaglio non è dei più leggeri, visto e considerato che S riprende in parte le istanze del precedente lavoro (soprattutto gli onirismi à la Animal Collective) svestendole degli accorgimenti più tribal-post punk per fare posto ai sintetizzatori. Operazione a rischio banalizzazione se ci pensate, visti i tempi dominati da un estetica korgiana ormai onnipresente e quasi mai sfruttata a dovere. E invece il combo arriva a una definizione di un suono avvincente, tarato al millesimo, multisfaccettato ma coerente, a sancire così un identità perfettamente in linea con il contemporaneo: la ridondanza di M.I.A sul clapping dell iniziale Henry Miller, gli Of Montreal / The Field di una Picture Of The Sun ideale singolo, il Sufjan Stevens psichedelico di The Elevator, l electro dei nostrani Aucan in Dig A Hole With A Needle. A tutto questo si aggiunga un attitudine pop da grande band, in generale più esposta rispetto agli esordi, ma anche capace di farsi scoprire con la dovuta calma in un disco che nei suoni è un sbronza colossale e da quelli chiede di partire. Armonie vocali e linee melodiche pompate da una produzione dispersa in un caleidoscopio di timbri e colori: eppure svestitelo, questo S, e vi accorgerete che tutto funziona anche senza bisogno di additivi. E non è questo, forse, il miglior complimento che si possa fare alla terza fatica dei Drink To Me? (7.3/10) Fabrizio Zampighi Bungalow 62 - Mad, Bad, Dead (Autoprodotto, Marzo 2012) Genere: pop-folk C era una volta Paolo Forlì, cantautore marchigiano che nel 2010 compose il primo disco, Snowy Teeth Drive, in una casetta al civico 62 del campeggio della cittadina svedese di Mora. Da allora è Bungalow 62 e porta con sé un bel bagaglio di souvenir folk che nel sophomore Mad, Bad, Dead, inciso a San Benedetto del Tronto, grossomodo prosegue. Chitarra e voce si fanno protagoniste indiscusse di otto tracce dall incedere lieve, ideali accompagnamenti per fiabe che prendono le distanze dalle recenti espressioni del cantautorato italiano per abbracciare un folk tradizionale di stampo americano (The Two Marshall e Binoculars On Sunday Afternoon). Le influenze indie, alternative e new acoustic sono ridotte all essenziale, come se i Fleet Foxes decidessero di privarsi di cembali, cori e campanelli e gli Arcade Fire suonassero Keep the car running senza batteria (Monkeys And Camels). Melodie essenziali, scarne e talvolta soltanto accennate in bassa fedeltà (Visions Of J) fanno da sfondo a un cantato che rappresenta la vera trama espressiva del disco. La voce si presta sia alla modalità sottovuoto à la Mr. E. (l eco degli Eels in Browns Focus), sia ai falsetti Jonathan Donahue (vedi i Mercury Rev al netto di fronzoli psichedelici di Mad, Bad, Dead), toccando toni drammatici à la Grandaddy (Joseph s Turpentine) per poi dissolversi in sussurri e fischiettii (The Doorman). Mad, Bad, Dead è un monologo raccontato e sussurrato, terreno ed etereo al contempo, che esce dai sotterranei di casa senza far troppo rumore, insinuandosi sottopelle e attraversando le stagioni. Una raccolta di filastrocche e sfondi sonori che non punta a macerarsi né a per prendersi troppo sul serio. Un disco da ascoltare senza soluzione di continuità, in attesa della prossima puntata. (7.2/10) Viola Barbieri Burial - Kindred EP (Hyperdub Records, Febbraio 2012) Genere: Soulstep Improvvisamente il sound di Burial sembra rispondere ad un disegno più grande. Quello che nel ménage à trois con Four Tet e Thom Yorke poteva sembrare eccessiva remissività verso il carisma dei coprotagonisti e che nello Street Halo EP appariva per certi versi come timida aderenza a quanto già espresso in Untrue, in Kindred sembra diventare una consapevolezza superiore: finalmente anche Burial sembra aver assorbito le nuove affinità dell era post- e riesce ora ad esprimerle come qualcosa di personale, rielaborato ovviamente alla luce della malinconia introspettiva che da sempre caratterizza il producer di casa Hyperdub. Con questi presupposti sì, si può tornare a camminare a testa alta. L affiancamento a certe movenze dancey stavolta appare nettamente più organico, proprio perché adesso sono entrate a far parte in pieno del contesto produttivo di Sir William: Loner in questo senso è intelligente, perché quella cassa in quattro la lascia felpata, sorniona, a dare un vigore ovattato (quasi fosse non un esperienza ma il ricordo di un esperienza house) all incedere 2-step che rimane comunque l habitat naturale dell estetica burialiana, rinvigorito volentieri da inserti space e vocalizzi speziati. Stessa cosa accade in Ashtray Wasp, ma in modo ancora più deciso, coi 4/4 che saranno anche meno in vista ma sono comunque protagonisti sul resto (ascendendo perfino all altare deep nei 4 minuti finali), mentre i campioni vocali si riavvicinano al sentire post-dubstep di Jamie XX e Sepalcure. Stile tra le righe che guarda tanto alla house quanto al 2-step. Sulla carta saremmo vicinissimi a George FitzGerald, se non fosse che Burial mantiene ancora quell oscurità introversa che non è un retaggio dubstep classico, ma la vera componente emozionale propria dell artista: un mormorio di angeli e demoni interiori che torna ad essere esplicito nella titletrack, un pezzo alla maniera di Untrue, a conti fatti il brano più aderente al Burial-sound storicizzato (che rimane ancora la direttrice più influente del soulstep di ieri e di oggi). Il sound è sempre più reticente ad esser collocato dentro al continuum dubstep (nonostante sia tra gli artisti più amati di quel pubblico) e l artista continua ad andare avanti guardando sempre soltanto a sé stesso. Un autoreferenzialità imposta che a tratti può essere un limite (quando si scopre ad una certa staticità sonica) e a tratti un opportunità (carattere unico e genuino, ora anche in grado di rivelare la propria naturale evoluzione). Certo, resta il fatto che per confermare lo status di colonna del suo genere il ragazzo avrebbe dovuto tirar fuori l album già due anni fa e ormai è stato scavalcato da nuove leve e vecchie volpi. Un tempismo mancato che alla lunga rischia di minare la credibilità dell artista. Però è Kindred la prima immagine compiuta e consistente dell atteso passo avanti dopo gli album, e solo ora Burial sembra maturo per tornare a lavorare ad un nuovo full-lenght. Personaggio autorevole e trendmaker di peso o semplice outsider estemporaneo (benché di lusso)? Staremo a vedere. (6.7/10) Carlo Affatigato Cascao & Lady Maru - Gong! (Im Single Records, Gennaio 2012) Genere: electro-pigneto Se pensate che dalla Borgata Boredom escano solo garage storto, psychedelia sfatta, marciume noise e frattaglie sonore semi-impressioniste, sbagliate di grosso. Non stiamo qui a celebrare il già celebrato, ma a rendere giustizia ad una scena geograficamente delocalizzata nelle periferie assurte a quartieri neo-arty di Roma Est ma con orecchie, cuore e synthetizzatori puntati ben oltre i ruvidi confini di quartiere. Cascao & Lady Maru, ad esempio. Protagonisti della (ehm) scena locale a vario titolo - lui prevalentemente coi Nastro, lei prevalentemente col duo Trouble Vs Glue, ma in realtà attivissimi a vario titolo (producer, djs, ballerini, agitatori) - uniscono le forze e celebrano l insana unione con Gong!, album che forse più di molti altri getta luce sull essenza ultima del quartiere di casa. Un ethno-punk-electropop, autodefinizione piuttosto calzante che da M.I.A. (l esotismo vs freakedelia di Burudance) muove verso le frizioni interetniche del Pigneto, da Kid Creole sotto acido arriva alle reminiscenze Studio 84 dub per sottrazione come nella Londra (electro)post-punk (Toxic Satellite), dal mix di tropicalismo e sampietrini arriva al banghra meets p-funk cabaret-pop sperimentale e autoironico, ballabile e complesso come potevano intenderlo certe esperienze ante-litteram italiane, Gronge su tutti, (Bad Might) o a certe svisate dell undeground più in fissa col melting-pot e il dancehall (vedi alla voce Maria Minerva per fare un nome). Tirando in ballo techno e vocoder, french touch e autismo (Pink Strobe Delight), robotiche visioni post-dancehall e miscele incendiarie per mostrare come la via al mondo passi spesso per le strade del proprio quartiere, se il quartiere si chiama mondo. (7.1/10) Stefano Pifferi Chewingum - Nilo (Garrincha Dischi, Febbraio 2012) Genere: pop, groove Garrincha è una miniera inesauribile. Basti pensare che da Settembre 2011 a oggi ha pubblicato più di dieci dischi. E, parlandoci chiaro, seppure con i suoi alti e bassi, le sue discussioni e le sue critiche, nessuno di questi era gravemente insufficiente, se così si può dire. Questa volta è il turno dei Chewingum dalla poliedrica Senigallia. I tre giovani si sono già fatti notare, grazie ad un piccolo primo disco, che, come spesso accade al giorno d oggi, gli ha fruttato decine e decine di concerti lungo lo stivale. Ma questa volta le carte in tavola sono leg

32 Edda - Odio i vivi (Niegazowana, Febbraio 2012) Genere: canzone d autore Valutare il lavoro di Stefano Edda Rampoldi in maniera lineare è un impresa quasi impossibile: con il musicista milanese c è sempre bisogno di una seconda o di una terza lettura, un po come con Marco Parente. Per questo accusare Odio i vivi di essere dispersivo o magari meno coerente rispetto all esordio Semper Biot - come potrebbe sembrare a una prima impressione -, non avrebbe alcun senso. La poetica dell ex Ritmo Tribale (e del Walter Somà co-autore dei brani) è materia flessibile, non troppo distante dal concetto di improvvisazione, caratterizzata da un entropia fragile che la produzione artistica di Taketo Gohara e gli arrangiamenti di Stefano Nanni riescono in qualche maniera a fissare. Emanazione diretta della personalità fuggevole del suo autore, in un fluire di rock, canzone d autore, elementi contemporanei senza soluzione di continuità. Il mio lavoro è andare dietro alle emozioni : esattamente quello che accade in un disco in cui testo e melodia non sono il fine, bensì il mezzo con cui perseguire l idea di una musica legata al momento, naïf, nascosta chissà dove. Se ai tempi del primo episodio l obiettivo era ridurre tutto all osso stabilendo confini e regole di un linguaggio, qui lo scopo è rendere quel linguaggio più libero possibile. Seguendo gli sbalzi d umore del songwriting o magari valorizzandone l istinto pop, come accade in un iniziale Emma ritagliata su un orchestra d archi quasi sanremese. Autoharp, percussioni, ottoni, hammond, contrabbasso, flauto, marimba, chitarra elettrica, sega musicale, lamiere di ferro (tra i musicisti coinvolti, il quartetto EdoDea, Alessandro Asso Stefana, Achille Succi, Francesco Arcuri, Dario Buccino) garantiscono al materiale un doppio livello: una forma fondamentalmente accessibile dietro cui nascondere una scrittura tutt altro che convenzionale. A testimonianza i cambi di mood, le melodie articolate e gli inserti free della title track o una Topazio che sembra (nel testo, ma anche nella musica) un fluire di pensieri scoordinati. Il resto è musica altrettanto vibrante, con il raga-noise di Omino Nero, un Gionata Mirai de Il teatro degli orrori coautore di Gionata e brani più in linea con il disco precedente (Marika). Piaccia o meno, Odio i vivi è il disco più rappresentativo di Edda. Un immaginario che gioca al rialzo e guadagna colore, pur rimanendo confinato in un terra di mezzo difficilmente etichettabile. Esattamente come l artista che l ha prodotto, perché nel caso di Stefano Rampoldi più che in altri, il risultato corrisponde esattamente alla somma dei fattori. (7.3/10) Fabrizio Zampighi germente cambiate. Il nuovo lavoro si chiama Nilo ed è letteralmente un frullatore di suoni freschi come il pesce migliore e attaccati, come una gomma da masticare, ad un filo di ironia che tiene in piedi tutta la baracca. Già, perché se Atlantic City respira dancefloor da Saturday Night Fever o Jamiroquai, tutto il disco è proprio un crocicchio d influenze: dal funky sapor Centro America de Il neorealismo del lunedì, al reggae più deviato di Svastiche. E sulle rive di questo grande fiume, linfa di civiltà, fra il Soul impersonato dalla voce di Marco dei Dadamatto e il cameo di Maria Antonietta in Oregon Ghiacciai, c è spazio pure per il buon vecchio Pasolini e i suoi Comizi d Amore, pescati chissà dove e rimescolati nel calderone in I-Love. È evidente che operazioni come questa, di accumulo di liquidi musicali, a lungo andare, rischiano di appesantire l insieme, ma è come se i Chewingum ne fossero pienamente coscienti. Così, seppure il disco non mantiene il livello della prima traccia (bella e particolare è soprattutto China Metropolitana: ve lo immaginate Brusco in Cina?), ne esce fuori un onesta sperimentazione di generi e una sincera voglia di scavalcare i limiti imposti. Che poi è decisamente tanto, al giorno d oggi. (6.5/10) Nino Ciglio Chicago Is The Birthplace - Future, Gone (Autoprodotto, Gennaio 2012) Genere: electro Danilo Betti da Riccione, con il suo progetto Chicago Is The Birthplace, ripropone le estetiche loop based proprie di quella elettronica primi 90 dominata da Warp Records, ammiccando particolarmente alle prime opere di Mark Bell sotto pseudonimo LFO.Un tentativo in undici tracce che segue docilmente l inarrestabile incedere delle macchine utilizzate nella composizione, tra il ritmico rumoroso e la musique d ameublement, ricordando quel modo di fare elettronica divenuto un poco passè quando i mezzi di manipolazione del suono a precisione chirurgica sono divenuti disponibili. Per intenderci, nell esatto momento in cui Richard D. James ha effettuato il salto di qualità passando dal suo studio analogico al computer e componendo Hangable Auto Bulb. La confezione in digipack e la bella copertina caricano di aspettative ma la musica non va di pari passo: la formula viene applicata senza grosse innovazioni e traspare poca emotività, il che è un peccato poiché spesso capita di notare timbriche interessanti e loop ritmici potenzialmente energici a sorreggere architetture stanche e prive di un punto focale. Aspettiamo Danilo alla prossima prova quindi, quando riuscirà a mettere a fuoco le idee che sicuramente ha, ad utilizzare meglio i mezzi disponibili per trasmettere emotività, a trasformare l energia potenziale in cinetica. (5/10) Simone Caronno Cuticle - Mother Rhythm Earth Memory (Not Not Fun, Febbraio 2012) Genere: Hipster House Brendan O Keefe, in arte Cuticle, passa dalla100% Silk alla Not Not Fun con il suo Mother, Rhythm, Earth Memory rimanendo sempre nel solco della hipster house, genere che abbiamo già incontrato con Ital. La formula è quella della house costruita negli scantinati, dove la disco di Moroder incontra gli speaker sfondati e i jack diffettosi dell elettronica DIY dei Black Dice. Gli Imagination vengono tritati attraverso sonorità space disco in night of romance, mentre in liquid crystal il funk si perde in una colonoscopia di noise, liquidi, macchine organiche di Burroughs e blip. Cuticle è l espressione di un America sempre più innamorata della house ma ancora incapace d accettarne il glamour. Un amore nato grazie al rapido ciclo di produzione e consumo della dance, capace di dare agli orfani urbani, di un rock in fuga dalle grandi città, l illusione d essere una risorsa infinita di hype. Il risultato è una house che rifiuta il club e cerca rifugio nell immaginario dei loft abbandonati e degli oppiacei prima proprio della beat generation ed ora appartenente agli hipster di Brooklyn e Portlandia. Da ascoltare sul retro di un pickup sorseggiando una PBR. (6.6/10) Antonio Cuccu Die Antwoord - Ten$ion (Zef Records, Gennaio 2012) Genere: mesh trash Dopo avere fatto per bene i compiti, la nostra sulla creatura di Watkin Tudor Jones l abbiamo detta. Aggiorniamo solo lo schedario. Il povero Leon Botha è morto. I Die Antwoord hanno lasciato la Interscope che li voleva più generalisti. Hanno fondato la Zef Records. E sono diventati MOLTO più generalisti. Ten$ion infatti pigia a manetta sul pedale delle filastrocche Zef-rap-rave. Fidget girato appunto Zef-rap (Never Le Nkemise 1) e generalismo disco90 pumped up con trucchetti fidget (Never Le Nkemise 2), pura discoteca (I Fink U Freeky, numero tutto giostrato da Yolandi; di Yolandi Tamburini/Red Vinyle avrebbe detto che è una cosa che si aggrappa ai coglioni ), crossover con chitarra elettrica in tiro esotico-epico (Hey Sexy), cabaret alla Eminem (So What?), massimalismo disco-ravey (Baby s On Fire, tastierina con due note e via alla Tamarreide). Omaggio finale a Mike Tyson con la frase DJ Hitek will fuck you in the ass (che il pugile disse una volta ad un tizio durante una conferenza stampa) mandata in loop sotto un basicissimo 4/4 rappuso. Si salva giusto un numeretto tribal-chiptune (Fatty Boom Boom) e uno dove Watkin/Ninja rappa bene recitando - bene - il cliché del rapper pappone (U Make a Ninja Wanna Fuck). Praticamente nulla. (3/10) Gabriele Marino Digi G Alessio - Luck Bald EP (Lucky Beard, Marzo 2012) Genere: DigiFootwork Avevamo detto che sarebbe uscito l album di Digi G Alessio su LuckyBeard e che avrebbe potuto fare sfracelli visto il target della label. Il disco esce adesso, ma è più correttamente - vista anche l attention span - un EP, veloce, denso e senza fronzoli, Digi col suo solito umorismo, nei titoli e nella musica, come sempre plastico e camaleontico. Sotto vesti opportunamente crookie, Cristiano stavolta declina i suoni UK bass con grande craftmanship, tra trucchi filth e fidget terzomondisti applicati al dub (Mike Tyson, notare le sirene mantronixiane/dilliane), ragga strumentali e cantati (Fi Pi Li Official, No Questions) e travolgenti grappoli ritmici breakbeat/footwork (Juke the Ripper, Juke Casella, in salsa tribafricana, Juke Skywalker, con inciso un unto tortiglione skweee da ovazione). Crossover electronico allo stato dell arte. Digi adesso prosegue il suo percorso lontano dalla tana natale degli OverKnights, contrappasso questo, come 62 63

33 spesso accade, forse inevitabile per una personalità e una produttività tanto debordanti. Noi lo seguiamo per vedere che combina. (7.3/10) Gabriele Marino Dino Fumaretto - Sono invecchiato di colpo (Trovarobato, Febbraio 2012) Genere: songwriting Il mantovano Elia Billoni (in arte Dino Fumaretto) dà seguito all interessante La vita è breve e spesso rimane sotto - dal quale non si discosta più di tanto né in termini stilistici né espressivi - con un album edito da Trovarobato che ne ribadisce l intensità cantautorale, la voglia di esprimere concetti in maniera trasversale e la sana abitudine di tenersi lontano da ammiccamenti e scorciatoie formali. Questo è quello che si evince da Sono invecchiato di colpo, un lavoro che si sviluppa attraverso dieci episodi chiaroscurali dove una scrittura in bianco e nero, che sembra scaturire da una miriade di appunti presi a matita su pezzi di carta sparsi, la fa da padrona. Melodie esili, spesso ribadite da linee di pianoforte evocative, che segnano in maniera decisiva brani dal carattere fragile come l iniziale Cosa c è nel frigo, e che non lasciano spazio a un eventuale possibilità di immaginazione, leggi la spettrale Film dell orrore. Fumaretto ama giocare con le parole, le scolpisce fino a rendere una buona assonanza in Mente spostata, riuscendo a descrivere - con una certa disinvoltura - tematiche importanti, a volte intime, tendenzialmente autobiografiche. Un po di luce filtra attraverso i tendaggi spessi e polverosi del suo approcciare le melodie in una Il nuovo che avanza voce e pianoforte, anche se in generale il contesto rimane buio, claustrofobico, problematico. Si rintraccia anche dell umorismo sommerso in Sono invecchiato di colpo: basta lasciarsi tirare giù nelle sabbie mobili di un cantautorato torbido, e in particolare, da una conclusiva title-track - arrangiata in compagnia di Iosonouncane - che con i suoi sette minuti e mezzo ben riassume il cinismo e l odore acre dell intero lavoro. (6.7/10) Roberto Paviglianiti Dirty Three - Toward The Low Sun (Bella Union, Marzo 2012) Genere: jazz rock Toward The Low Sun, prodotto dalla band stessa assieme a Casey Rice e registrato a Melbourne presso gli Head Gap Studios, è l inaspettato ritorno dei Dirty Three a sette anni di distanza dal precedente Cinder. Chiusa la parentesi nei Grinderman, è un rinnovato Warren Ellis a presentare il disco come un episodio che non sarà caratterizzato né da atmosfere confortevoli né dal clima di rilassato rendez-vous tra amici. L album è di fatto una rinascita. Ed è sacrosanto ciò che afferma il violinista a proposito del nutrirsi a vicenda dei tre protagonisti che ora vivono ai quattro angoli della terra. Mick Turner, l unico rimasto nella natia Australia, si è costruito uno studio di registrazione, guadagnandosi altresì il rispetto dei circuiti d arte come artista visivo, e continuando a suonare con Jim White a nome Tren Brothers. Jim, che vive a New York, instancabile animale da palcoscenico, è stato a fianco di Cat Power, Bonnie Prince Billy, Nina Nastasia e non ultima PJ Harvey. Warren, naturalmente il più attivo, a parte la vita nei Bad Seeds di Nick Cave, ha curato con quest ultimo una nutrita serie di soundtrack tra cui The Assassination of Jesse James, The Proposition e The Road e non ultimo collaborato ai dischi di Marianne Faithfull e, come attore, recitato in Médée Miracle accanto a Isabelle Huppert. Ritrovarli assieme con rinnovata energia e ispirazione porta all opener Furnace Skies, un sound istintivo e in presa diretta dalle parti di una Indian Love Song anthem di quell album omonimo; poi abbiamo il trittico Rising Below, The Pier e You Greet Her Ghost, vicino per spirito e visione a ciò che abbiamo amato in Ocean Songs; infine una That Was Was che pensa a rivangare le prime veraci session dell esordio Sad & Dangerous. E un album che s apprezza per l avvicendamento tra i pieni e i vuoti, con un versante cinematico a unire artigianato e magia nella splendida Ashen Snow (con il piano protagonista assieme ad archi, spazzole e un Ellis misurato in contrappunto) e in una Moon On The Land dal gusto agreste d Irlanda. Pur nella consapevolezza di non poter chieder loro di suonare come se questa band fosse l unica cosa per cui vivere, i Dirty Three dimostrano di possedere l energia e l interplay necessario. Un buon lavoro che consente al power trio più folk del pianeta di conservare intatto il fascino dei momenti migliori. (6.7/10) Edoardo Bridda Disappears - Pre Language (Kranky, Febbraio 2012) Genere: psych post-punk Giunto al terzo album il quartetto americano raffina il suono senza mai perdere di vista l humus post krautpsych da cui proviene. Lo inasprisce e screzia, come già nel comeback Guider, di asperità post-punk metronomiche e marziali. Vi aggiunge paranoie vocali da Elfin Saddle - Devastates (Constellation Records, Marzo 2012) Genere: folk-trotter Che oggi l innovazione non stia per forza nel guardare al futuro (e talvolta nemmeno al presente), ma nel rivolgere lo sguardo al passato, musicalmente parlando, non è certo una novità. Ma un modo credibile per misurare la statura artistica di un musicista potrebbe essere valutare se l interesse per il passato è puramente nostalgico, o se si tratta di un esigenza più profonda, espressiva ed estetica. Per Emi Honda e Jordan McKenzie, ai devoti del culto più noti come Elfin Saddle, vale il secondo caso. La loro musica affonda le proprie radici in un passato lontano e primordiale, ma lì sono giunti per ricerca artistica, per riflessione umana e spinta esistenziale. Questo discorso vale a maggior ragione per la loro terza fatica sulla lunga distanza, nella quale il duo giappo-canadese ha distillato il folk magico di stampo anglosassone (su tutto, il Julian Cope sciamanico), le leggende acustiche delle foreste irlandesi e scozzesi con elementi psichedelici e cosmici teutonici (Popol Vuh, per dare una coordinata) e una leggedria vocale che ha pescato nel Giappone della Honda, contribuendo alla creazione di un suono che può apparire sincreticamente New Age, ma che al contrario conserva una forza romantica e una profondità contemporaneamente demodé e perfettamente attuale che è raro incontrare. Per una Invocation che sarebbe stata perfetta anche nell ultima compilation della serie John Barleycorn Reborn della Cold Spring troviamo una Chaos Hand che posiziona la band di Montreal nella galassia Constellation. Ovviamente è nei brani cantati da Emi (come The Changing Wind) che affiora l influenza del Sol Levante, in un clash tra oriente e occidente che già in ambito krauto e psychedelico ha segnato più di una strada. A sostenere l armamentario dei due polistrumentisti (chiatarra, percussioni di varia natura, glokenspiel, ukulele, fisarmoniche, pianoforte) troviamo lo splendido contrabbasso di Nathan Gage, che costituisce il filo su cui si intessono gli orditi melodici. Ci sarebbe ancora da dire dei temi, visto che Devastates è stato concepito come un concept sugli effetti dell uomo sulla natura (per tornare a battere il chiodo su questo complesso rapporto tra civiltà e natura, al fondo del folk magico). Ci sarebbe da dire che Emi e Jordan sono artisti che spaziano anche in altri ambiti espressivi, come nel caso del film Wurld. Ci sarebbero ancora mille altri fili che una proposta musicale così complessa, ma allo stesso tempo fruibile, meriterebbe venissero esplorati. Per il momento accontentiamoci di mettere il disco in lizza per la classifica di fine anno. (7.6/10) Marco Boscolo shoegaze imputridito su reiterati tappeti post-loop (gli echi catacombali di Minor Patterns), richiama alla mente il totem Falliano nella biascicante persona del leader Mark E. Smith (il cantato della title-track e certe evoluzioni strumentali sul corpo morto della wave) e si adagia sul già detto di sonicyouthiana memoria (Hibernation Sickness) reso però con classe e personalità. Propone numeri da paranoia-rock epici (All Gone White) o limitrofi al college-rock anni 90 (Fear Of Darkness) d immediata presa eppure non dimentica le proprie ostiche radici. L estenuante ripetizione krauta di Joa (cinque minuti che farebbero felici gli Oneida di Each One Teach One), il post-punk psicotico portato al collasso di Love Drug, una conclusiva Brother Joliene che catapulta Thurston Moore nella Germania dei primi 70 mostrano i quattro a pieno agio nel trafficare con una materia abusata ma sempre affascinante se interpretata a dovere. Brian Case (voce, chitarra), Johnathan Van Herik (chitarra), Damon Carruesco (basso) e l ormai stabile Steve Shelley alla batteria, si stanno costruendo un piccolo culto del tutto meritato in un settore in cui la concorrenza è spietata (per rimanere negli States, vedi alla voce Wooden Shjips o Moon Duo). Giunti al terzo passo si intravede la possibilità della sterzata definitiva per uscire dal cul de sac della medietà. E ciò ci fa apprezzare Pre Language ma anche guardare con curiosità al futuro. (6.8/10) Stefano Pifferi 64 65

34 Drake - Take Care (Young Money Entertainment, Novembre 2011) Genere: R&B Drake è un bulldozer: spianare strade è il ruolo che assume consapevolmente in Take Care. Spianare strade per i suoi giovani protetti e per un hip hop diverso. Un hip hop che, con le parole di Drake in Headlines, parli di ricordi e non di nemici, di quello che si è stati e si diventerà, delle proprie vittorie e delle proprie sconfitte, degli amici ritrovati e degli amori persi. Un hip hop intimo, esistenziale, sdoganato nel mainstream dalle confessioni di Kanye. Ma dove Kanye è il genio narcisista, schiacciato ed isolato dal suo talento, Drake è molto più generoso e preoccupato di delineare i modi di una nuova soggettività per un intera generazione di artisti. Con senso del dovere Drake ha affinato i suoi talenti ponendo rimedio a diversi dei problemi che affliggevano il suo debutto Thank Me Later. La produzione è più curata ed anche le sue doti vocali dimostrano un netto miglioramento, seppure lo zampino dell autotune sia ancora percepibile. Le sonortià di Drake restano comunque direttamente legate a quelle dell hip hop più mainstream. I synth scintillanti e gommosi e la sua voce nasale possono essere difficilmente digeribili da ascoltatori che provano poca simpatica per il genere. Abbandonato l hashtag flow (stile che consiste nella struttura strofa, pausa ed una parola a chiosa) il flow di Drake è ora un fiume in piena, senza un centro di gravità, che scorre da argomento in argomento senza una direzione ben precisa. Drake vomita sull ascoltatore, la sua rabbia, le sue delusioni e la la sua solitudine di bravo ragazzo diventato Re Mida. Alla fine, come succede in Marvins Room (traccia registrata nello stesso studio dove Marvin Gaye ha registrato Here, My Dear), Drake ci ringrazia per avere risposto alla sua chiamata ed averlo ascoltato, perché aveva bisogno di qualcuno su cui riversare questo peso, per poi borbottare I m sorry. (7/10) Antonio Cuccu DVA - Pretty Ugly (Hyperdub Records, Marzo 2012) Genere: r n b/club-step L album di DVA si riassume con due dati: esce su Hyperdub e c è un feat di Vikter Duplaix. E tutto un sinuoso srotolarsi di r n b-dubstep (il taglio delle scansioni ritmiche), intriso di sogni afrofuturisti (la naïveté dello strumentale The Big 5ive), che in alcuni momenti vira propriamente house (profondità deep). Se vogliamo, è tutto figlio - o se preferite, una costola - del suono di Kode9 su Black Sun (album; sentire il lavoro sulle tastiere sature) e di Love is the Drug in particolare (sentire 33rd Degree). Tappeti electro pulsanti e aerei (l ipnotica Reach the Sun) e concentrici serpentoni tastierosi (Polyphonic Dreams), tribalismi (Just Vybe, Bare Fuzz, Why U Do), r n b storto alla Sa-Ra (la title track, la giocosa Fire Fly, la confettosa Eye Know), wonky spacey (Madness, il pezzo con Duplaix) e superepica spacey (la solenne marcia funebre sotto il sole nero di Where I Belong; le note stampa parlano acconciamente di grime fanfare climax ). Disco da producer, con numeri tutti curati e coi suoni giusti; ma mancano le bombe e manca la sintesi personale forte di una formula dietro l angolo, ma tutto sommato nuova, di - per dire - uno SBTRKT. (6.9/10) Gabriele Marino El Torpe - Movin On (No.Mad, Febbraio 2012) Genere: blues 2.0 Nemmeno il tempo di godersi i giusti riconoscimenti per Shot, che Marco Albert, qui alle prese col soloproject El Torpe, se ne esce con un dischetto niente male. Tutt altra roba rispetto all avanguardia (de)frammentata dei Newtone2060, ma sempre una dimostrazione dell eclettismo del nostro. Movin On è un disco di cover, se si eccettua l unica composizione originale (la title track) che inaugura l album e ne segna irrimediabilmente le coordinate sonore, prima che ideologiche. Un blues industriale che si avvita su se stesso come nelle migliori prove di Alan Wilder aka Recoil (lo stesso mood che accendeva la Diamanda Galas alle prese con Strange Hours su Liquid) o degli Young Gods altezza T.V. Sky. Il resto del materiale si dimostra capace di rendere l ispirazione momentanea (l occasione fulminante all origine di ogni pezzo capitata in tanti luoghi diversi e in momenti storici differenti ) parte integrante di un percorso costruttivo che unisce il Muddy Waters di Rock Me Baby col tradizionale Baby Mine, Come Back Baby di Walter Davies con la Sixteen Tons di Marle Travis. Tutte con un tocco personale, sia negli stravolgimenti strumentali - una jazzata e notturna Every Night di Big Joe Williams, la resa luciferina della citata Come Back Baby, il classico di Muddy Waters trascinato nell inferno sintetico degli Young Gods - che nella resa didascalica del sentimento all origine. Musica fatta in proprio (ospiti qua e là Cristiano Calcagnile alla batteria, Gabrio Baldacci alle chitarre, Libero Mureddu) e soprattutto per sé stessi. Musica che esula, Father Murphy - Anyway Your Children Will Deny It (Aagoo Records, Marzo 2012) Genere: psichedelia Se si esclude il Six Musicians Getting Unknown del 2005, il percorso dei veneti Father Murphy è stato sempre all insegna della ricerca di un suono, più che un collezionare brani. Nel And He Told Us To Turn To The Sun rivoluzionava le istanze folk-barrettiane degli esordi con una psichedelia inquietante e a suo modo progressiva, capace di conquistare il druido Julian Cope e di arrivare persino a Simon Reynolds. Testimone ne è un blog del critico musicale inglese che cita Mattioli e Ciarletta di Blow Up, riportando la riflessione che i due fanno a proposito di un ipotetica witch house all italiana in bilico tra folk, cattolicesimo, esoterismo (nel caso dei Nostri, preso in prestito dal seminale Jacula) ma anche una certa violenza mutuata da un Italia del passato lontana dalle cartoline per turisti. Un hauntology tra Lucio Fulci ed Ennio Morricone, insomma, in cui rientrerebbero, oltre ai Father Murphy, anche Mamuthones, Heroin In Tahiti e molti altri. Anyway Your Children Will Deny It riposiziona il disco precedente, eliminando vuoti e meccanicismi troppo pronunciati in favore di una cifra stilistica sempre più omogenea e decisiva. Con i Murphy a mettere in circolo tutto quello che è accaduto loro negli ultimi tre anni: i numerosissimi concerti tra Europa e Stati Uniti di supporto a Gowns, Deerhoff, Xiu Xiu, Sic Alps e lo stesso Julian Cope, il contratto con l americana Aagoo, ma anche i cambiamenti formali apportati dall EP No Room For The Weak e da Live At The Brigadisco s Cave. Nella pratica, tutte queste esperienze confluiscono in un Greg Saunier (Deerhoof) chiamato a mixare - fondamentale nell individuare i cardini di un suono fangoso e imponente - e in una strumentazione che si arricchisce, pur non abbandonando i toni diafani tipici del gruppo di Treviso. Anche se il metro, questa volta, è soprattutto un droning apocalittico dai riferimenti disparati: i matellamenti industrial in stile Throbbing Gristle di It Is Funny It Is Restful Both Came Quickly, ma anche gli archi obliquamente wagneriani di una In Praise Of Our Doubts in cui Vittorio Demarin mescola contrabbasso, viola, violino, violoncello cavandone fuori un muro minaccioso e catacombale. Il resto è un lavoro accurato su echi e i riverberi (His Face Showed No Distortions), ambient geneticamente modificata (In The Flood With The Flood), apparenti incoerenze (le cineserie percussive simulate dall iniziale How We Ended Up With Feelings Of Guilt) in un magma che riesce a creare un esperienza d ascolto totalizzante e personale. La conferma di una scelta vincente viene dal disco in assoluto meno italiano e probabilmente più riuscito dei Father Murphy. (7.6/10) Fabrizio Zampighi cioè, da qualsiasi tendenza o moda, per accodarsi all unico trend che non sembra passare di moda da un secolo a questa parte: il blues. (7.4/10) Stefano Pifferi Elephant - Assembly (Memphis Industries, Novembre 2011) Genere: Synth Dream Pop Fa le cose passo passo il duo synth-dream-pop londinese Elephant, ossia Amelia Rivas e Christian Pinchbeck, giovani, bellocci e glamour come angeli svagati: due brani a gennaio 2011, due brani nel giugno successivo, e adesso eccoli qui con ben 4 tracce tutte insieme; un vero e proprio parto. Scherzi a parte, parsimonia e ponderatezza hanno portato, in neanche un anno, a cristallizzare coordinate stilistiche fino a oggi ancora fuori fuoco. Se infatti i singoli precedenti regalavano atmosfere di una sensualità asettica e lattiginosa, perfette per lunghi, lunghissimi preliminari in un letto di piume al centro di una stanza bianca, con Assembly,nonostante lo spazio limitato dell EP, si arriva quasi al sodo. Merito soprattutto di una maggiore attenzione al beat ritmico, in grado di dettare il passo a un amplesso decisamente più completo e appagante. Non cambino canale, tuttavia, coloro i quali cercano musica che anziché indurre a sollazzi e sfregamenti, magari concili il sonno. La titletrack è una sorta di sogno soft-dance dove Cure e Cocteau Twins si spartiscono la pista da ballo illuminati da una voce liquida, avvolgente e riverberata, in un magma wave sorretto dal groove di basso su cui si innestano 66 67

35 piccole chitarre, tastiere e synth evanescenti. Shipwrecked rallenta il passo, lasciando più spazio a tremolii e riverberi di chitarra, bilanciati con il substrato elettronico etereo che contraddistingue l intera produzione, mentre la voce si abbandona a più accennate malinconie. Hopeless riparte poi con basso incalzante e voce smaccatamente lizfrazeriana, mentre con Twilight si conclude su un mood dreamy che rievoca i Beach House più devoti, per poi citare gli ultimi Portishead in un breve e significativo passaggio. Per ora niente di nuovo sotto il cielo stellato della coolness londinese, ma il progetto è godibilissimo e promette ampi margini di maturazione. (6.9/10) Antonio Laudazi Emeli Sandé - Our Version of Events (Virgin, Febbraio 2012) Genere: soul-pop Emeli Sandè, questa è la nostra versione degli eventi. Esordisci in collaborazione con uno dei peggiori rapper inglesi di sempre, Chipmunk, poi ripeti la cosa con il ben più quotato electro-grimer Wiley nel brano Never Be Your Woman, che oltre a contenere il sample della storica Your Woman dei White Town, ti proietta all interno di un immaginario UK-black-urban-derground simil anni novanta. Nell estate 2011 arriva il momento dell esordio solista ed esci con un pezzo - Heaven - che, pur ricordando fin troppo una Unfinished Sympathy dei Massive Attack di 20 anni rivisitata in versione post- Yasmin (On My Own), risulta essere uno dei migliori biglietti da visita mainstream degli ultimi tempi: calda e trascinante melodia soul su beat pseudo d&b e morbidi tappeti bristoliani. Il successo c è, la credibilità artistica pure. Poi però attorno a te qualcuno deve aver iniziato a guardare concretamente ai grandi numeri ed iniziato a pensare che sarebbe stato troppo rischioso pubblicare un intero disco a cavallo tra soul-music ed elettronica anni 90. Ecco quindi che arriva la collaborazione con il pop-rapper Professor Green in Read All About It - in italiano cantata da Dolcenera... - e una serie di discutibili apparizioni televisive, tra cui quella all edizione italiana di X Factor in duetto con I Moderni (!!!). L album di debutto Our Version Of Events esce dopo questa serie di fortunati e sfortunati eventi e in contemporanea con l annuncio della vittoria ai Brit Awards nella categoria Critics Choice. Purtroppo i sentori dell appiattimento musicale si sono traformati in realtà all interno delle quattordici tracce del disco: escludendo Heaven - piazzata ad inizio tracklist - il lavoro si snoda su territori inconsistenti e privi di spunti d interesse. Vocalmente nulla da rimproverare, ma l impressione è che si sia voluto andare in direzione Adele - che se continua così rischia di essere l artista best-seller anche del esasperando i classicismi e smussando qualsiasi contatto con l universo elettronico. Il risultato complessivo finisce per essere una raccolta di ballad pop-soul - co-scritte da Emeli e prodotte principalmente da Naughty Boy - in zona Leona Lewis, Alicia Keys - la quale ha collaborato nel brano Hope - o la Beyoncè più abbottonata. Lo sbadiglio è dietro l angolo, soprattutto in tracce come Clown, Breaking The Law o nelle banalità melodiche di Maybe. Grande occasione sprecata. (5.6/10) Riccardo Zagaglia Eric Chenaux - Guitar & Voice (Constellation Records, Marzo 2012) Genere: avant-folk Quarto disco solista per Eric Chenaux, questa volta in senso letterale. Abbandonato il Ryan Driver collaboratore nel precedente - e riuscito - Warm Weather With Ryan Driver, il musicista canadese decide di fare tutto da sé. E imbracciata la chitarra, mette in fila nove brani sospesi in un limbo di avant-folk ricolmo di armonie strumentali e solcato dal consueto cantato etereo un po à la Iron & Wine (Put In Music). Si procede per libere associazioni in Guitar &Voice, tra un Jimi Hendrix in naftalina (Siliabh Aughty) e certe cadenze lounge-jazz à la Chet Baker (Dull Lights), interpretazioni personali di un ambient-psichedelia artigianale (se al posto delle chitarre di Simple/Frontal, Genitalia Domestique, Glitzing For Stephen Parkinson e Le Noveau Favori ci fosse stata una cornamusa, l effetto sarebbe stato grossomodo lo stesso) e parentesi acustiche (However Wildly We Dream). Assorbiti da un mood raffinatissimo e a suo modo onirico che nei brani cantati (su tutti l iniziale Amazing Backgrounds) tocca un blues-soul epidermico niente male. In un disco come questo sono le idee a fare la differenza, non solo come riesci a gestirle (Bill Frisell docet): Chenaux, oltre ad assestare qualche buon colpo, per almeno un paio passaggi è piuttosto bravo a farti credere che tutto proceda per il meglio. Poi nasce una certa stanchezza e tutto sfocia in una rassicurante abitudine. (6.6/10) Fabrizio Zampighi Grimes - Visions (4AD, Marzo 2012) Genere: Dream pop, rnb Grimes è una alt fighetta dei giorni nostri. Le piacciono Blade Runner, Il Quinto Elemento, Ghost In The Shell e tutti i film di David Lynch. Ama Mariah Carey, Michael Jackson, Marilyn Manson e la moda. Reinventa gli abiti comprati nei mercatini tagliandoli e ricucendoli e così fa con la musica attraverso sampler, drum machine, tastiere e loopstation (tecnicamente Roland Juno-G, Roland SP 404 sampler, BOSS VE-20, pedale Line 6 M9). Grimes, che di nome fa Claire Boucher, conosce meglio i social media del music biz e preferisce che sia la musica ad essere sexy. L esordio Geidi Primes (in cassetta) e soprattutto Halfaxa, tra art techno, idm e un tocco witch house, le avevano procurato non poca visiblità nei giri dell hype dell indie world internazione e ora che in ballo c è la firma per la serie A dell indie fighetto (4AD) e un album auto-definito post-internet, il minimo che ci si possa aspettare è lo stacco in personalità che troppo spesso manca in questi casi. Per sfidarsi, Claire sceglie uno dei connubi più interessanti: filtra l r n b americano e i ricordi 80s in una serie di trend trasversali all indie contemporaneo come il tastierismo cinematico di Vangelis, certa dream wave nordica di lungo corso, folktronica e qualcosa del glo fi più pop (Nite Jewel). Un mix d influenze gestito con ammaliante leggerezza ad ancorare le gassosità di Halfaxa in canzoni, ognuna con una propria identità. Caparbia e creativa, la canadese di stanza a Montreal raggiungere un nuovo equilibrio tra il lato producer e quello performativo che da sempre la caratterizzano: il primo ne esce maturato a livello tecnico il secondo l avvicina alle dive personali (la citata Carey ma anche Beyonce e Cindy Lauper) sempre secondo proprie regole (Vowels = space and time). Ci piacciono la spazialità sci-fi pre-techno dell album (la stessa che ci piacque nel film Drive - ascoltate Nightmusic), il tocco indietronico oculato (Be a Body), i filtri sulle voci che la fanno sembrare una pupa mainstream in regressione infatile da xtc (Eight) nonchè la citazioni 80s, tutte cifrate (When Doves Cry di Prince in Colour of Moonlight (Antiochus) con il feat. di Doldrums, Father Figure di George Michael nella citata Vowels). Grimes potrebbe avere nel 2012 lo stesso impatto che Tune-Yards ha avuto lo scorso anno. Speculari musicalmente ma accomunate da una genuina ricerca sonica tutta femminile, Claire e Merrill rappresentano la freschezza della generazione facebook, anzi post-internet. (7.4/10) Edoardo Bridda Frankie Rose - Interstellar (Slumberland, Febbraio 2012) Genere: dream pop Deve essere una deformazione professionale ma, da buona batterista, Frankie Rose non riesce proprio a stare con le mani in mano: negli ultimi cinque anni ha suonato con i Crystal Stilts, con le Vivian Girls e con le cuginette east-coast Dum Dum Girls. Il suo frenetico curriculum comprende anche un omonimo disco da leader a nome Frankie Rose and the Outs, uscito nel 2010 per la Memphis Industries/Slumberland Records. Sempre per la Slumberland Records esce oggi Interstellar, il primo vero album solista della newyorkese Frankie Rose. L hypeizzato singolo di lancio Know Me - che suona a metà strada tra la C86 e dei The Drums in eccesso di zuccheri - è semplicemente irresistibile nella sua spensieratezza melodica ed è esplicativo della direzione sonora intrapresa con Interstellar: via gli spigoli garage-gaze - già comunque abbastanza smussati - a favore di atmosfere più dilatate ed accessibili. Il grande salto nella musica pop. Frankie ha imparato perfettamente le lezioni del passato, ricreando paesaggi dreamy da esplorare librandosi lentamente in aria (Pair Of Wings) che convincono anche quando i giochi, avvicinandosi al sole, si fanno più lisergici (Apples For The Sun). Il resto del viaggio passa attraverso territori più soleggiati (eighties in Daylight Sky) e celestiali (Had We Had It), schivando cumuli pseudo-wave (Night Swim, Moon In Mind) prima di scendere nuovamente a terra - e forse ancora più in basso - con la conclusiva The Fall

36 Interstellar si rivela essere un veloce trip di mezz ora che alterna sapientemente paesaggi oscuri a varchi decisamente più solari, un percorso che talvolta potrà anche sembrare familiare, ma che a conti fatti risulta essere uno dei più gradevoli degli ultimi tempi. (7/10) Riccardo Zagaglia Gangrene - Vodka & Ayahuasca (Decon Records, Gennaio 2012) Genere: hip hop Gutter Water (2010; 7.4/10), il primo album a nome Gangrene di Oh No e The Alchemist, c era piaciuto un sacco, ma la rece è rimasta ferma ai box, come ogni tanto succede. Erano produzioni hip hop belle ruvide, melmose e marce, come da titolo, con Alchemist - ovviamente - più electro e Oh No - ovviamente - più Black/ funksoul. Stessa spiaggia, stesso mare e davvero poco da aggiungere, per un altro disco di alt-hip hop da bere tutto d un fiato produzione dopo produzione, come un cocktail di vodka & ayahuasca (pianta allucinogena amazzonica). L intro, l outro e una ficcante Drink Up prendono di mira un giro prog, condendo il tutto con sirene mantronixiane/dilliane. Può bastare?(7.1/10) Gabriele Marino Gea - Alle ore blu (Santeria, Marzo 2012) Genere: noise-rock All inizio degli anni Duemila l esordio dei bergamaschi Gea era stato accolto favorevolmente dal pubblico affamato di rock alternativo, soprattutto grazie al bel singolo Ancora in viaggio entrato in rotazione nelle emittenti musicali nazionali. I Gea allora si inserivano perfettamente nello scenario del rock indipendente italiano, rappresentato da gruppi già consolidati come Marlene Kuntz e da esordienti di belle speranze in bilico tra grunge e noise come i conterranei Verdena. Se queste formazioni sembrano essere uscite più o meno vive dagli anni Novanta, i Gea rimangono, anche con Alle ore blu (il quinto album, uscito a distanza di tre anni dall ultimo concept sull amore From Gea With Love), ancorati a sonorità noise e crossover. Seguendo la traiettoria One Dimensional Man/Il teatro degli orrori, il gruppo ripropone la formula chitarre pesanti e distorte (Alle ore blu) e bassi tesi e ossessivi (Mid Air Dance) alle prese con i più classici stop & go (Mirame). L impianto melodico rimane per lo più semplice, nonostante qualche vezzo chitarristico (Peep Hot) e lo sporadico ricorso ai sintetizzatori (Single Malt Nightmare). Un cantato sibilante e gutturale tra il Godano più risentito (Potato Republic) e il Pelù dei tempi di Terremoto unito a testi vittime di una babele linguistica che passa dall italiano all inglese allo spagnolo chiudono il cerchio. Il tutto contribuisce a complicare la chiave di lettura di un lavoro che, se fin dalle prime tracce sembra configurarsi come una critica verso una società italiana deteriorata ( la terra dei misteri chiari ), in ultimo finisce per ripiegare su toni introspettivi sostenuti da melodie à la Il santo niente (Lupi streghe vino pietra). Ma forse per Gea il mezzo è il messaggio, e il messaggio è la confusione, il Baillamme generale che dal 2005 non ha ancora trovato soluzione. Sonorità che rispecchiano un caos in cui l individuo continua a girare in un cerchio di litfibiana memoria, affidandosi ad un apparato liturgico che sembra officiato dai System Of A Down. Alle ore blu compare il tramonto, quello dell Occidente. (6/10) Viola Barbieri Giardini di Mirò - Good Luck (Santeria, Marzo 2012) Genere: post rock, indie Bastano veramente poche note per essere catapultati nel mondo sonoro dei Giardini di Mirò, in quell impasto dal sapore spesso acre che ne caratterizza la cifra stilistica e ne ribadisce la caratura espressiva e formale. Sì perché la loro è musica che si riconosce, è un postrock ricco di melodie, passaggi cantabili e morbide assonanze che ti porta in una casa dove i piani sonori si sovrappongono senza inutili frenesie, dove le stanze sono sempre arredate con gusto, dove non trovi né un soprammobile in più né una sedia fuori posto. Equilibrio dunque, ma anche sobrietà che sa scendere nel profondo dei significati e sa avvolgere l ascoltatore. Good Luck - che riallaccia in maniera decisa i fili del discorso espressivo di Dividing Opinions - è un augurio necessario in tempi di difficoltà e non fa eccezione in una discografia che non conosce flessioni. I brani proposti sono nati in momenti diversi, ma sanno essere omogenei perché il gruppo - dietro ai tamburi siede ora Andrea Mancin - ha metodo, idee chiare, oltre che un approccio al live efficace che poco ha a che vedere con i confini (stililstici e geografici) nazionali. Gli otto passaggi qui contenuti propongono una certa varietà di atmosfere: le aperture melodiche della title track e gli evocativi grigiori di un iniziale Memories, con la quale fa il paio una scura There is a Place dove compare la voce di Sara Lov. Quest ultima elemento aggiunto e funzionale per l economia dell intero album, a differenza degli interventi di una Angela Baraldi meno incisiva e tagliente rispetto ad altre occasioni. Maggiore profondità espressiva e coralità di intenti le si trovano in Rome e Spurios Love, brani in cui il flusso musicale si incanala in maniera corposa, mutevole e inevitabilmente coinvolgente. Con un binomio Good Luck e Time on Time da cui traspare pure della sana leggerezza. (6.9/10) Roberto Paviglianiti Girless & The Orphan/Verily So - Everyday is a D-Day (Stop Records, Febbraio 2012) Genere: Folk Una linea nemmeno troppo sottile unisce la sponda adriatica dello stivale con quella tirrenica. Due band innamorate, due band che suonano da poco un indiefolk irriverente, con strumenti e finalizzazioni diverse: i Girless & The Orphan, da Rimini, già segnalati più volte fra queste pagine, in forma smagliante e indomabili, e i Verily So, da Cecina, con all attivo un full lenght inaspettatamente chiacchierato. Uniti sotto l effige della Stop Records, le due band danno vita ad un rapporto di stima e simpatia reciproca, che si riversa nelle note di questo Ep. Tratte dai precedenti lavori, 15 Years e Dura Lex Sed Luthor, vengono riproposte incrociando gli esecutori. Così 15 Years dei Verily So, quella che era una ballata delle più delicate, quasi alla Neil Young, viene triturata e ristrutturata dall irruenza strafottente dei Girless & The Orphan; mentre Dura Lex Sed Luthor dei G&tO viene ammaliata dalla voce aggraziata di Maria Laura Specchia e diventa, strano a dirsi, persino migliore dell originale. E poi ci sono i due brani arrangiati insieme: I Guess You Knew, che è come una canzone degli Strokes, cantata da Dylan e Baez e Everyday Is Like Sunday di Morrissey, che è l inno di qualunque giovincello cresciuto in provincia. Tirrenica o adriatica che sia. Tanti paesaggi, tanti sogni di un America lontana e colonne sonore perfette per qualche road movie: sono due band intrise di folk, che portano, ognuna a suo modo, aria fresca a questo genere. (6.4/10) Nino Ciglio Giulio Casale - Dalla parte del torto (Novunque, Febbraio 2012) Genere: canzone d autore Il percorso di Giulio Casale ha il calco dell inquietudine. Da leader degli Estra prima, formazione fermatasi un passo indietro dall autocitazione, e poi come splendido interprete filologico del teatro-canzone di Giorgio Gaber e di spettacoli autografi. Ma anche come scrittore (romanzi, poesie, saggi) e cantautore (In fondo al blu del 2005) Giulio ha l approccio dell intellettuale giù dal palco e del performer di raro crisma quando vi è sopra. Il ritorno al songwriting è dunque di quelli attesi, soprattutto se alla produzione vi è una garanzia come Giovanni Ferrario (PJ Harvey e via dicendo). Dalla parte del torto, titolo che sa di resa fin dalla citazione brechtiana, è un frame iperattuale di episodi pop-rock all altezza, suonati con piglio verace (Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori alla chitarra, l Aidoru Diego Sapignoli alle pelli) e madidi di intuizioni di scrittura e arrangiamento che valgono l ascolto. Così fra sortite elettroniche, archi, fiati e inaspettate parentesi rumoristiche (una Virus A vergata live in studio) Casale dice la sua e la nostra sul frastornante The End dell Impero Occidentale. E proprio Fine, a guisa di beffardo rock n roll party, fa da primo singolo ad un lavoro sulle nevrosi e necrosi di una società in dismissione. Non mancano altrove tratti inevitabilmente gaberiani (Personaggio comune) e pure qualche passaggio a vuoto (la cover non eccelsa di Magic Shop di Battiato). Ma Casale conosce il rigore e l onestà, come quando in Apritemi disegna un ritratto di lancinante spietatezza delle comuni solitudini di massa. E le tastiere su cui la sua voce fluttua sono il mare d invisibile vuoto in cui affoghiamo tutti. (7.2/10) Luca Barachetti Handbraekes - #1 EP (Boys Noize Records, Gennaio 2012) Genere: Electromadness Ma guardali. I capoccia di due delle label più sfacciate dell elettronica nei nostri tempi, due filosofie di vita fondate sull eccesso ognuno a suo modo, insieme in un progetto comune (alla faccia della concorrenza) volto a coniugare due metà diverse dello stesso senso di sfrenatezza richiesto dai tempi. E a ben pensarci, Mr. Oizo e Boys Noize hanno ben più di un affinità nonostante provengano da punti di partenza diversi: il primo si è ormai costruito una carriera su un nu rave d avanguardia che destruttura la coerenza ritmica e spala valanghe di electro ribelle senza curarsi di alcun groove, il secondo per certi versi fa l opposto, come icona di una electro house che si guarda bene dal mettere in discussione i 4/4, rendendoli sempre funzionali a spasmi e drops divenuti marchi di fabbrica. Bastano giusto un paio di tracce a far capire quanto le due follie diverse possano star bene insieme: Callgurls 70 71

37 Heartless Bastards - Arrow (Partisan, Febbraio 2012) Genere: american indie rock Arrow è il disco nazionalpopolare degli Heartless Bastards. Suggestioni da artwork, che ci rimandano ai grandi landscapes americani, alla caccia al bufalo, ma non solo. La band di base a Austin alza l asticella delle proprie ambizioni con un lavoro alla ricerca del perfetto equilibrio tra passato e presente, tra indie rock e Crazy horse. C è stato tempo per qualche cambiamento in seno al gruppo rispetto al precedente The Mountain. Il passaggio alla Partisan records, l allargamento della line-up da tre a quattro elementi con l aggiunta di un altro chitarrista (Mark Nathan), anche se poi è sempre il talento di Erika Wennerstrom a farla da padrona. Ma è un vento di novità che ha fatto bene al gruppo, perché le dieci tracce qui contenute sono forse le più ispirate della loro carriera. E un disco di riconciliazione con il mondo: si parte con il folk soffuso ed elettrificato di Marathon che più States non si può (Staring out at the city skylights/a marathon is going down the street/and we re all racing for our own reasons/ and sometimes in the middle we all meet/on this long race home), il singolo Parted Ways ispirato da Whiskey in the Jar dei Thin lizzy, ed ancora il rock dei T. rex che aleggia in Got to have rock and roll, per un trittico che è già da repeat. Poi si espande la policromia: Only you è una ballata dolce e confortevole dominata dalla splendidi vocalizzi della Wennestrom, mentre Simple feeling e Skin and bone allacciano ponti con i più odierni Drive by truckers e Blitzen trapper. A chiudere l elegia drammatica di The arrow killed the beast, il country finto prewar di Low low low, e appunto le assonanze con Neil Young e i Crazy Horse: Late in the Night ma soprattutto il finale hangover di Down in The canyon. Un suono caldo, intimo e rock, ecco quello che ci propongono gli Heartless Bastards con Arrow. E noi non dobbiamo far altro che accoglierlo a braccia aperte. (7.4/10) Stefano Gaz sfoggia fiera tanto la destrezza dello sballo dance del Ridha berlinese (claps e cassa dura e pura, senza limiti di volume) quanto la sregolatezza convulsa dell incompreso del french rave (una sirena distorta che trapana il timpano, brividi di piacere per chi non ambisce più di tanto ai canoni classici di bellezza artistica), un gioco delle parti ripetuto in The Qat, il miagolio assurdo e malato che ti manda fuori di cervello, se a trattenerti non ci fosse la costante house coi piedi ben piantati in pista. Proprio quello che ci si aspetta dal loro incontro, genio e incoscienza uniti senza regole, qualcosa che riesce un pelino meno in Riho, matrice prevalentemente Oizo ma con quel voler comunque curare la forma che ti trattiene, e Milc, schema tipico da Boys Noize con l hard loop che resta la spinta e il limite principale della sua formula. Se non arriva qualcuno che gli dirà due parole, questi due faranno un macello. Quindi vediamo di star zitti. (7/10) Carlo Affatigato Haunted House - Blue Ghost Blues (Northern Spy Records, Gennaio 2012) Genere: blues È una tensione continua, vibrante, quella che definisce tutti i quasi 40 minuti che riempiono Blue Ghost Blues. Una lotta, impari, coi demoni che attanagliano un progetto nuovo nella forma (un lontano esordio nel millennio scorso e poi tanto silenzio) ma non nei protagonisti. A tirare le fila di Haunted House è infatti un personaggio del calibro di Loren Connors, accompagnato da un altro nome storico come Andrew Burnes dei San Agustìn alla chitarra, dalla voce della compagna Suzanne Langille e dalla batteria di Neel Murgai. Un blues sofferto, diluito, cavernoso e posseduto, sfaldato e maciullato proprio come una colonna sonora ideale della casa infestata che dona il nome all intero progetto. Che traina la psychedelia più avant-bluesy sul terreno della trasfigurazione, imputridendola con scarti di risulta, escrescenze noisy, dolorose attualizzazioni haunted fatte di vuoti mefitici e pieni chitarristici sempre in tensione. Con un Connors al solito a pienissimo agio tra riverberi e avant-chitarrismo ma con un gusto personale nel reminder del flusso ipnotico post-floydiano virato al nero. Come negli undici e passa minuti in cui viene dilatata, devastata, rivoltata la title track, lontana anni-luce dall originale del blues-man Lonnie Johnson ma capace di mantenerne tutta la sofferente forza. Tradizione e innovazione, rispetto e rottura. O come nella altrettanto acida visione di Thomas Paine, batteria metallica in lontananza figlia del Mason più inacidito e tribale, chitarre allo scontro in nome della destrutturazione avant-blues, voce ferina a far da collante, ora quieta, ora invasata come una Lunch ringiovanita. O infine, nelle atmosfere spettrali e scarnificate che pervadono l intero lavoro, fatte di vuoti più che di pieni, di assenze sempre pronte ad esplodere e che invece implodono in un universo di feedback autistici e paesaggi disossati, slanci ancestrali e tremendamente disperati. Un album di una bellezza lancinante. (7.5/10) Stefano Pifferi Heroin In Tahiti - Death Surf (Boring Machines, Gennaio 2012) Genere: dead rock Bisogna perdere gli occhi per tornare a vedere, suggerivano i Bachi Da Pietra qualche anno fa. E l adagio andrebbe bene per Death Surf, primo parto lungo per gli Heroin In Tahiti. Per comprendere a fondo la musica del duo romano made in Borgata Boredom, in apparenza per nulla innovativa e alquanto derivativa, bisogna utilizzare un espediente retorico particolare. Immaginare cioè di essere miopi e di ritrovarsi ad osservare la storia del r n r dopo aver perso gli occhiali. L intera storia del rock n roll fusa insieme e sfocata in un pastone drogatissimo e psicotropico, malato e deviato, eppure così apertamente riconoscibile che viene da pensare era così facile. Non lo è affatto, in realtà. Perché per calarsi in un immaginario come quello messo in atto dai due - sapete già chi sono, ergo, inutile ribadire nomi e cognomi, progetti e provenienze - bisogna essere un passo avanti. Prendere il rock n roll e martirizzarlo sull altare della devianza, renderlo avanguardia senza solipsismi o pippe mentali da intellettualoidi scaltri, mantenendo la carnalità del rock e la sua innata natura disturbante. Fonderlo, nel vero senso della parola, in una mistura psych&droney che è evidente al primo ascolto eppure travisata sotto le vesti del qualcosa oltre. Ciò in virtù di una visione - sì, visione, da intendersi nell accezione più romantica del termine - lucida e ludica insieme, seria e concettualmente ma in grado di prendersi beffa di sé. Lo spaghetti western spinto nell immaginario postindustriale, la soundtrack per un Leone nato sui cumuli d immondizia di Roma Est, la sfocata ipnagogia di una attualità calata in una timeline orizzontale, in cui prima e dopo perdono di senso. E a comandarsela è un eterno presente di risulta, droga, dislocazione. Spaghetti wasteland, nel vero senso del termine. (7.4/10) Stefano Pifferi Ilenia Volpe - Radical chic un cazzo (Disco Dada, Febbraio 2012) Genere: rock Se per fare rock & roll bastasse rimboccarsi le maniche e sputare qualche parola colorita su un pugno di chitarre veloci, saremmo tutti i Sex Pistols. Purtroppo non è sufficiente e chi lo fa d abitudine, come il Giorgio Canali qui chiamato a produrre, sa bene di poterselo permettere in virtù di un bagaglio di esperienze solido e di lungo corso. Diversamente, il rischio è quello di far tanto rumore per nulla, con la rivoluzione nei tatuaggi e nelle mani Radical chic un cazzo: un lavoro che, pur esemplificando un ideale di rock al femminile grezzo e ruvido, difetta di credibilità. In generale l orbita è quella di un grunge-punk di scuola Hole/L7/Nirvana prima maniera (o se volete Sleater- Kinney), anche se nei circa trenta minuti della tracklist c è pure spazio per certo rock generalista con qualche accento cantautorale: Mondo indistruttibile ha il gusto vintage dei Pitch di Bambina atomica, Crocifinzione riprende lo stile del Canali mentore, Il giorno della neve è uno strumentale in odore di post-rock, Preghiera arriva a citare un Ivano Fossati elettrificato, Prendendo un caffè con Mozart omaggia al contempo i Punkreas di Sosta e i Dead Kennedys di California Über Alles. Non bastasse questo, Radical chic un cazzo veicola suo malgrado un immaginario ricolmo di stereotipi fuori tempo massimo, pose comprese. Quello di una riot girrrl di più di trent anni che tra una grandissima puttana e un esteticamente orrenda, con La mia professoressa di italiano mette su un anthem per quindicenni sboccato anche nelle aspirazioni. La Volpe ci prova a scimmiottare l atteggiamento barricadero dell ex C.S.I. in trasferta: del resto tre profili facebook da cinquemila persone l uno e una storia artistica nata nel 2006 le danno ragione. Come pure un approccio alla parte musicale che nei pezzi più energici non ci sentiremmo di buttar via, non fosse altro che per la convinzione messa in campo e la coerente riscoperta di un chitarrismo fossilizzato e roccioso. Roba che con Il teatro degli orrori (omaggiati dalla cover di Direzioni diverse), Verdena e compagnia bella continua a raccogliere estimatori in giro per la penisola. Detto questo, 72 73

38 rappezzare parentesi infelici come Fiction o Gli incubi di un tubetto di crema arancione (vedi alla voce Manuel Agnelli) resta un compito improbo anche per qualche riff ben assestato. (5.2/10) Fabrizio Zampighi Islands - A Sleep & A Forgetting (ANTI-, Marzo 2012) Genere: Indie, art pop Preceduto da alcune anteprime uscite negli ultimi mesi, il quarto album dei canadesi Islands vede ora la luce, a distanza di tre anni dal precedente acclamato Vapours. Prodotto in proprio dal leader Nick Thorburn e dal sodale Evan Gordon, A Sleep & A Forgetting è stato registrato in pochissimo tempo, contando su immediatezza e semplicità. Già la band di Montreal con il penultimo album si era distaccata dal barocco stile Arcade Fire e Stars dei precedenti dischi, a favore di un sottile understatement, sia pur mantenendo una sua ritmicità di base. Ora il cambiamento è più netto e marcato: si tratta di undici brani all insegna della semplicità strumentale, perlopiù soul ballad, senza sovrapposizioni e stratificazioni di sorta; un forte senso della melodia rimane la loro peculiarità, accompagnati da un accentuata vena introspettiva da parte di Thorburn. Il disco è una mia personale interpretazione della soul music, specialmente nei suoi temi più dolorosi : è infatti una sua versione del classic e northern soul, arricchito di umori cantautorali che ora finalmente vengono fuori ben diretti, facendo di A Sleep & A Forgetting una ripartenza vera e propria e magari l inizio di un percorso solistico, anche se Islands rimane pur sempre una sua personale creatura. Un opera più adulta e meditata, che richiama analoghi percorsi musicali compiuti da un Elvis Costello, Bright Eyes, Marc Almond, per fare alcuni nomi, verso una raggiungibile maturità artistica e personale. Bentornato. (7.2/10) Teresa Greco Ital - Hive Mind (Planet Mu Records, Febbraio 2012) Genere: Arty house Sembra volerle provare tutte Daniel McCormick, in un impeto di sperimentazione elettronica che da un paio d anni lo ha visto sempre più lontano dai più classici binari post-punk dei Mi Ami, alle prese prima con la neopsichedelia di casa Not Not Fun come Sex Worker, e ora come Ital tra strane indagini astratte sfumate in 4/4. Hive Mind debutta oggi su Planet Mu con una struttura sfuggente, una strana house inibita tra semovenze ambient (First Wave), tastierismi vintage (Israel) e sensazioni deep (Floridian Void), un po BNJMN un po Jean-Michel Jarre, precedute dagli schizofrenici campionamenti vocali di Doesn t Matter e da un ellissi dub-techno come Privacy Settings. È un impulso personale, quello di McCormick, che vuole dichiaratamente lanciarsi in un territorio a lui estraneo. Ci si va addentrando seguendo il proprio intuito senza porsi il problema di dove lo porterà, azzardando tutta una serie di mosse proprie dell oggi (vedi la cover della hit eurodance Rhythm Of The Night come Sex Worker, ma anche i campionamenti di Lady Gaga e Whitney Houston su Doesn t Matter e il citazionismo che attinge da youtube seguendo l approccio della web generation di James Ferraro). Tutto in una veste intenzionalmente arty, un momento di studio non solo per lui ma anche per per chi lo osserva. Probabile che queste direzioni lascino perplesso chi lo seguiva dai tempi dei Black Eyes, ma anche per l audience electro è un suono non completamente formato, con le sue indubbie ambizioni intellettuali (lui la chiama hipster house ) ma ancora in cerca della propria immagine. Freak abbastanza per stuzzicare l interesse, ma attendiamo ulteriori evoluzioni. (6.4/10) Carlo Affatigato Masaki Batoh - Brain Pulse Music (Drag City, Febbraio 2012) Genere: Abstract Brain Pulse Music è un nome programmatico - e non stupirebbe veder trasformar il titolo dell ultimo album di Masaki Batoh nel prossimo moniker del giapponese. Il programma è abbastanza folle, e cruciale è il suo riposizionamento (momentaneo?) alla luce della vita e della storia. BPM (inquietante sovrapposizione d acronimi tra Brain Pulse Music e l indicatore delle frequenze percussive) significa musica fatta con una macchina che sintetizza, similmente a un effettiera, suoni generati dalle onde alfa e teta di una mente in meditazione. Non certo una novità nella storia della musica, ma un intersezione significativa con il doposisma nipponico. Secondo Masaki, infatti, i suoni generati dalla BPM machine hanno proprietà terapeutiche, sono come endorfine, anche se è curioso ascoltare Eye Tracking Test e pensare che questo sia possibile. È una delle cose sonore più aliene ascoltate negli ultimi anni. Ipnotica e straziante. Si inchioda nei timpani. Di quel programma rimangono però solo due brani. All ultimo, Masaki decide di optare per un disco fatto di litanie, di lentissimi scocchi, di materiale tradizionale con cui Masaki si inginocchia di fronte al suo paese e alla tragedia che ha passato. Ascoltando il disco viene quasi naturale confrontarlo con il capolavoro con Helena Espvall. Eppure qui c è una riflessione, la prova provata dell intensità materica della musica di Batoh, laddove in Overloaded Ark c era organizzazione di quella materia per plasmarla al divenire di un brano riconoscibile. Qui c è il campionario di un sarto che è paranoicamente legato ai propri tessuti e vuole farcene innamorare prima di costruirci addosso un vestito, sia esso di foggia orientale, giapponese, nordica, o esente da coordinate geografiche. L alternativa sempre presente nell immanenza di questa musica è l opzione astrale, il posizionamento tra i pianeti, a cui Batoh ci aveva abituato ai tempi dei Ghost. Eppure anche in Brain Pulse Music la dimensione etnografica in qualche modo prevale. Ed è anche la storia del disco, del passaggio dalla sua concezione alla sua realizzazione. La domanda è: perché, se la BPM è terapia, affidarsi alle imperscrutabili preghiere zen? Non è la terapia che Masaki cerca, ma l abbraccio di una collettività. Il percorso di Brain Pulse Music va dall individuo - e dai suoi circuiti neurali - all esterno, al dramma di una popolazione intera. La meditazione non può essere di un uomo solo. È un invito. (7.4/10) Gaspare Caliri James Levy And The Blood Red Rose - Pray To Be Free (Heavenly, Febbraio 2012) Genere: retro country-pop Lui è James Levy, ex-boyfriend di Regina Spektor ed ex leader dei Levy, semisconosciuta band pop-rock a metà tra jangle-pop anni 80 (The Smiths, House Of Love) e il post-punk revival anni zero. Lei è Allison Pierce, una delle due sorelline pop pre-first Aid Kit, The Pierces. Insieme sono i James Levy and The Blood Red Rose, progetto di base a New York prodotto da Guy Berryman, bassista dei Coldplay e di conseguenza utile spot mediatico. Nell album di debutto Pray To Be Free, i due non nascondono l amore verso alcuni nomi del lontano passato: Serge Gainsbourg (specialmente nella conclusiva Precious Age Of 13) con le sue dive Brigitte Bardot e Jane Birkin, Leonard Cohen e l immancabile Nancy Sinatra. Fortunatamente Pray To Be Free, pur essendo impregnato degli arrangiamenti e dei suoni di mezzo secolo fa, riesce ad andare oltre la pura retromania evitando abilmente l obsolescenza, in questi casi sempre in agguato. Merito forse della coralità delle due voci sovrapposte (Pray To Be Free, Sneak Into My Room) che riescono a disegnare armonie decisamente piacevoli e non necessariamente antiquate, o forse della deriva country pop - al limite dell Americana - di alcuni passaggi (Positively East Broadway, Keep My Baby). Leggero leggero, Pray To Be Free, scivola via che è un piacere facendo presa per la sua incredibile immediatezza e per la ricercatezza melodica che pervade tutte le tracce del disco. Non solo, nonostante il timbro profondo di James, raramente il lavoro prende una piega malinconica (Bums In Love, Holy Water, Painted Red), lasciando invece spazio ad un elegante romanticismo e ad una certa positività-twee in grado di aumentare ulteriormente la fruibilità del prodotto. (6.8/10) Riccardo Zagaglia Jet Set Roger - In compagnia degli umani (Kandinsky, Gennaio 2012) Genere: pop rock Sembra di vederlo cantare, un po posato ma sorridente, Jet Set Roger. Sul palco, ma pronto anche a improvvisare per strada. In definitiva, quello che ci piace di lui è in primo luogo la leggerezza con cui ci passa le storie di provincia popolar-velenosa e sì facendo si salva dall abisso ma principia a volteggiare. Il linguaggio per dirlo è un glam rock soffice, condotto da una band che monta, con una chitarra ritmica a là Lou Reed (quella di Pietro Zola), e il basso di Carlo Dall Asta, la quinta per la voce dell anglo-bresciano - vera protagonista e collante con il cantautorato indiepop nostrano. Un meta-genere, il glam, che diventa salvifico solo quando non si prende troppo seriamente, ma sempre sull orlo dell esosità. D altra parte (letteralmente) c è l equilibrio (musicale, sulla via dei Television in Ucciditi o crea, ma soprattutto tematico): è un attimo lasciarsi andare su 74 75

39 questa strada e finire nei cliché del cabaret. Il Jet Set Roger di In compagnia degli umani è invece ironico e con ciò mai caricaturale, prevenendo l effetto rocky horror affrontando nelle lyrics il senso comune, guardandolo dal dentro e dal fuori in un colpo solo (fotografandosi per differenza dagli umani e minimizzandosi mentre pensa di sé: Che intelligente che sono!, nella title-track). Sarebbe impossibile, se non ci fosse quell equilibrio, garantire una tenuta per le rime baciate di L uomo con la lametta, e dedicarsi alla cantilena di Ti avvelenerò. E non sentiremmo quella sensazione di fiducia di fondo, nel quinto disco di Jet Set Roger, se l io narrante fosse davvero un alieno e sprezzante giudicatore. (6.8/10) Gaspare Caliri Karenina - Il futuro che ricordavo (MyPlace, Febbraio 2012) Genere: rock Pochi mesi fa hanno deciso di cambiare nome, proprio a ridosso dell esordio. Da un discutibile Triste colore rosa a Karenina: scelta oserei dire condivisibilissima. Questo per dire di un quintetto con le idee forse non ancora chiarissime però animato da badilate di entusiasmo e idee, soprattutto meritevoli d aver scelto un baricentro espressivo intrigante, individuabile tra il lirismo psych degli Scisma e la versatilità indie-pop dei Broken Social Scene, con licenza di turgori elettrosintetici Muse (Il futuro che ho dimenticato), agnizioni melodiche Marta Sui Tubi via Carmen Consoli (Il giorno più bello) e irrequietezze Afterhours (quelli delle ballate rapprese in Tutto il freddo e declinati ultrapop in Gli anni del piombo). Piace la versatilità della proposta, la sensazione che potrebbero schizzare in qualsiasi direzione, si tratti dell enfasi brit di Come Esther Greenwood (anche se non lo speriamo), le vampe progressive di Chiara lavora in politica o il folk-rock arty di Colore (che un po ricorda i Counting Crows più ambiziosi). Promettenti, ma già godibili. (6.7/10) Stefano Solventi Keith Fullerton Whitman - Generators (Mego, Gennaio 2012) Genere: elettronica È da un pezzo che per descrivere le proprie tracce Keith parla delle macchine che le hanno generate. Lo faceva già in quella Twin Guitar Rhodes Viola Drone (for La Monte Young) - che apriva il celebrato Antithesis - e non ha praticamente più smesso. O meglio, ha smesso per scrollarsi di dosso qualsiasi scrupolo di morbidezza - e qualsiasi filtro - tra sé e la macchina. Il risultato ha raggiunto vette altissime nello splendido , primo lato di uno split con Mike Shiflet. La formula era chiara. L oscillazione basta a sé stessa, non è un elemento di una sinergia che comprende field recording o strumenti a corde, deve essere assoluta protagonista. L impietoso uso del sintetizzatore lo trasformava in una padella per friggere i neuroni dell ascoltatore, che deve lasciarsi andare e sapere che il suo stato di coscienza cambierà dopo l ascolto. Generators parla lo stesso linguaggio, non arriva ai livelli di ma ci presenta circolazioni di oscillazioni, nel lato A spiccatamente legate alla lezione minimalista, che solo nella conclusione della traccia rivelano il proprio imparentamento con la cosmica a cui solo qualche anno fa il nome di Keith era legato. Entrambi i lati vengono da registrazioni live nel settembre 2010, ma in due occasioni diverse. Le due facce del vinile raccontano la stessa medaglia. Hanno la stessa durata e sottendono un evidente circolarità. La seconda si chiude citando la prima, creando un vuoto spaziotemporale, dato che la seconda fu performata un giorno prima del brano che la precede su Generators. Piccoli dettagli di tempo e luogo che non cambiano la faccenda. Keith Fullerton Whitman è un punto di riferimento indiscutibile del mondo dell acusmatica analogica. Non usa nessun compromesso. È duro e puro. E bisogna avere la scorza e la stoffa per farlo. (7.2/10) Gaspare Caliri Kim Salmon and the guys from Mudhoney - Until... (Bang!, Gennaio 2012) Genere: rock Più che un disco potremmo definire Until... un istantanea di Seattle a metà anni novanta, quando la candela del grunge irradia le sue ultime luci e un ondata migratoria di musicisti provenienti dall Australia, vuoi per scommessa, vuoi per amore (Stu Spasm dei Lubricated Goat sposa Kat Bjelland delle Babes In Toyland), si insedia in città. Capita che una delle band più rappresentative del periodo debba arrendersi alle crisi di personalità di uno dei componenti e decida di arruolare un nuovo arrivo. Siamo nel 1995 e i Mudhoney, momentaneamente orfani di Steve Turner, chiamano nelle file Kim Salmon, autentico cult hero della scena aussie rock che a partire dai suoi Scientists ha sperimentato e sezionato ogni derivazione del suono dal sapore punk blues e noise. Turner ritroverà presto la bussola, rendendo l incontro con Kim una piccola parentesi soppiantata dall album My Brother The Cow in uscita qualche mese dopo e dal nuovo progetto di Salmon con i Surrealists. Nina Kraviz - Nina Kraviz (Rekids, Febbraio 2012) Genere: Deep house La buona vecchia deep house. Quella fatta alla maniera classica, che non si preoccupa più di tanto di compiacere il mondo club e preferisce affidarsi al carisma di un cantato soulful come si deve. Una pratica sciamanica che sta diventando una rarità, tramandata di generazione in generazione, il cui maestro indiscusso è e rimane Robert Owens. Un terreno di gioco in cui serve un caratterino non da poco, dal quale il gentil sesso, con quel loro tocco vellutato che tanto bene può fare al genere, è rimasto escluso per lungo tempo. Ma la rivincita sta arrivando nei nostri giorni e dopo la passionale Steffi, la urban girl Deniz Kurtel e una irrefrenabile Maya Jane Coles fresca di dj award, arriva l album di Nina Kraviz e rischia di sbaragliare la concorrenza in un sol colpo. Il bello di Nina è che non ha la presunzione di voler per forza conquistare il palco, ma è sempre attenta a non guastare il mood deep con eccessi di protagonismo. Il suo è un soul sottopelle, geloso di sé stesso, che non si espone mai troppo se non con piccoli graffi controllati sparsi nelle tracce, a dare umanità a un suono tanto scientifico che ha un che di religioso. Dove sboccia in pieno è in Love Or Go, carattere USA inspired su una base 100% Art Department, l efficacia femminile che si svela in tutta la sua evidenza, ma in maniera più controllata succede anche in Taxi Talk o Petr, dove la firma personale è quel refrain sussurrato ma sempre presente, lo spessore che è d obbligo pretendere sempre da un brano deep. Son tocchi gentili ma che fanno la differenza. Altrove invece l umore deep impera e il brano si trasforma in un battito cardiaco intimista e seducente (Working), accompagnato al massimo dal sospiro impercettibile di una Kraviz ora femme fatale (Best Friend). Poi il mood cambia ancora e l album offre pezzi come Aus (col maestro Owens che fa sentire netta la sua influenza) o la hit personale Ghetto Kraviz, cassa in quattro irresistibile e bassline convulsa ma soprattutto una sezione vocale dalle affinità r n b, tagliente, calda e precisa come non ti aspetti da una artista siberiana. Il finale - Fire - è l unico momento in cui Nina dimentica ogni timore e col suo cantato sofferto (qui siam giusto dietro l ultima Kate Wax) diventa il centro di tutto. È lì che ti accorgi della diva sapientemente nascosta nel profondo della Kraviz, potenzialmente capace di conquistare ogni cosa ma prudente nel restare dietro le quinte a manovrare i fili, in un inchino reverenziale all altare deep. Allora non è timidezza, ma il più nobile dei sacrifici, e ti è impossibile trattenere le lodi. (7.2/10) Carlo Affatigato A testimonianza di quella breve unione ci sono ora sei brani riuniti in un lp dalla Bang Records, etichetta basca dedita esclusivamente al rock n roll di matrice australiana. Una jam session di poco più di quindici minuti, in cui le chitarre di Mark Arm e Salmon si rincorrono e legano senza mai fondersi del tutto ma stabilendo un punto di contatto nella maturità di arrangiamenti con una linea melodica che perde in durezza ma non d impatto. Se in brani come You re So Bad e I Wanna Be Everything scorrono le vene creative dei Mudhoney, la conclusiva The Goose è un lento e strisciante delirio distorto in cui è la mano di Salmon a farla da padrone. Until è il carpe diem per difetto, ha il pregio di confermarci il peso di due personaggi che dagli anni ottanta, da una parte e dall altra del Pacifico, hanno creato musica seminale per l ultima rivoluzione del rock ma uniti sono due generali che combattono con la stessa strategia: non si arriva ad una vittoria. E quello che sanno fare meglio, lo fanno dannatamente bene e mai separazione sarà più giusta, sia se a metà anni novanta avete consumato il già citato My Brother The Cow, sia se le vostre orecchie erano ipnotizzate da Hit Me With The Surrealistic Feel. (7/10) Crizia Giansalvo King s Daughters & Sons - If Then Not When (Chemikal Underground Records, Dicembre 2011) Genere: Murder ballad Album di debutto per King s Daughters & Sons - quintetto ben assortito che si muove in ambito post-folk tin

40 teggiato di nero intenso - a tre anni di distanza dalle registrazioni effettuate in presa diretta su nastro analogico da due pollici. Si tratta di otto brani dagli andamenti pacati, a tratti lentissimi, dedicati a chi ha voglia di lasciarsi seppellire dalle emozioni senza fretta, a chi ancora ha la pazienza di scavare nei significati di una musica densa, lontana dai modi a portar via che segnano quasi totalmente il resto del panorama. If Then Not When si apre con la funerea Sleeping Colony, che trova il suo motivo d esistenza in una melodia esile, capace però di farsi corteccia grazie alla costruzione dei piani sonori che prendono spunto da piccole cellule - di chitarra o di pianoforte - fino a formare nuclei importanti e di grande impatto. Come del resto avviene nei passaggi dal fascino clamoroso come The Anniversary, un brano che potrebbe figurare benissimo nel songbook del Nick Cave più scuro, o lì dove interviene la voce delicata e trasparente di Rachel Grimes a rendere il tutto emozionalmente più apprezzabile e carico di enfasi. Al microfono si alternano le voci - sempre discrete e calibrate - di Joe Manning e Michael Heineman, in un susseguirsi di tracce che conoscono momenti ballad, come Volunteer, piccoli accenni di suite, leggi la conclusiva Lorelei, giocata in punta di melodia e spazi vuoti che preannunciano precipizi improvvisi. C è anche il tempo di immaginare i mondi lontanissimi dell only instrumental A Storm Kept Them Away in un disco d altri tempi, verrebbe da dire, tanto è l impiego di emozioni e spontaneità che viene riversato in ogni singola frase, in ogni mezzo passo di un percorso sì chiaroscurale, ma illuminato da sanissima voglia di costruire itinerari di grande spessore. (7/10) Roberto Paviglianiti Kutin - Ivory (Valeot Records, Marzo 2012) Genere: ambient Il viennese di stanza Peter Kutin, oltre ad occuparsi di soundscapes in ambito artistico, compone accompagnamenti sonori per film muti. Sono nati così i sette brani di Ivory, con in testa l idea di trasmettere attraverso la musica una dimensione visuale lasciata all immaginazione di chi ascolta. Si parla ovviamente di contemporanea e in particolare di ambient, forse non originalissima nei fini ma credibile nel costruirsi un proprio spazio pescando da un bacino stilistico abbastanza diversificato. Fondato prevalentemente sui suoni della chitarra (trattati e integrati da laptop e marchingegni elettronici), Ivory vive in equilibrio tra un Murcof di Cosmos traviato da Badalamenti (Elsewhere), cinematiche Tim Hecker (World Without End) e qualche omaggio ai padri fondatori Tangerine Dream (Sombre). Non è la personalità il piatto forte del disco, quanto la capacità di uniformare il mood in un fluire liquido e spazioso, ricorrendo a variabili piccole ma decisive: i field recordings della conclusiva Lonesome Monster, il contrabbasso suonato con l archetto di After The Plague e un sentire invernale non troppo distante dall immaginario dei Sigur Rós. Tutto questo finisce per generare un suono solido, pragmatico ed elegante, oltre che un droning avvolgente e per nulla selettivo. Terzo capitolo di una parabola artistica convincente e senza grosse sbavature. (6.7/10) Fabrizio Zampighi La Sera - Sees The Light (Hardly Art, Marzo 2012) Genere: Indie pop Il percorso di una Vivian Girl verso il cantautorato era qualcosa di auspicabile ma non del tutto scontato. Eppure la maturazione artistica porterà definitivamente Katy Goodman da quelle parti. Sees The Light ce ne mostra possibili flashforward nell incipit di Love That s Gone: vena folk, gli interstizi sonori tirati a lucido e una chitarra morbida che si produce perfino in un assolo composto. La successiva e frizzante Please Be My Third Eye, con lo sferragliare di fuzz e la ritmica perentoria, riporta immediatamente la Goodman dalle parti del Vivian sound. Insomma trattasi di album di trasizione, con i pro e i contro del caso, leggi una maggiore ecletticità, ma anche un ispirazione gestita con prudenza, che rischia di sfarinarsi al primo refolo di vento. Fortuna che la qualità melodica dei brani non è mai in discussione, semmai si affranca da quel blend di surf e sunshine pop un pò stucchevole che si stava trasformando in un arma a doppio taglio. I La Sera aggiornano piuttosto le trame eteree del precedente album con una fisicità tutta nuova, si concedeno qualche divagazione con il calypso della titletrack e con il grunge allo zucchero a velo di How Far We ve Come. Quadrano infine tutte le loro anime con il paisley a tinte fosche di Drive On e finiscono per portare a casa il risultato senza mettersi troppo in discussione. (6.8/10) Diego Ballani Lambchop - Mr. M (City Slang, Febbraio 2012) Genere: folk soul Gli anni Zero dei Lambchop si sono esauriti sfruttando lo splendido abbrivio iniziale di Nixon e Is A Woman, sfronando cioè quattro album - i gemelli Aw Cmon e No You Cmon del 2004, Damaged del 2006 e Oh (Ohio) del che ne hanno reiterato con alterna brillantezza e fortuna la calligrafia, attestatasi su un alt-country marezzato white soul sempre garbato e vagamente inquieto. Diciamolo: sebbene fossero passati quattro anni di silenzio discografico, non è che smaniassimo per un loro nuovo lavoro. E qualcosa mi dice che Wagner e soci lo avessero intuito. Non a caso infatti questo nuovo Mr. M, titolo numero undici in carriera, nasce con la voglia di voltare pagina. Almeno un po. Pare infatti che Mark Nevers, dall alto delle sue ormai considerevoli esperienze quale producer e tecnico del suono (per Lou Barlow, Andrew Bird e Will Oldham tra gli altri), abbia proposto una precisa vision musicale riassumibile nella piuttosto intrigante ancorché balzana formula psycho-sinatra. Queste le premesse, a cui si aggiunge la malinconia per l ancor recente morte dell amico Vic Chesnutt. Ne è uscita quindi una raccolta di undici pezzi che se da un lato conta sul solito sostrato - quell aria un po così da chiacchericcio crepuscolare tra Randy Newman e Wilco, coi Tindersticks a versare l ennesimo drink - dall altro si fa forte dello straniante contrasto tra le partiture orchestrali, fatamorgane di tastiere e vaghi contagi sintetici. L effetto è onirico e rassicurante ad un tempo, come una vecchia fotografia photoshoppata di cui percepisci i ritocchi ma non riesci a distinguerli fino in fondo. Vedi quella 2B2 col passo blando e contrito ma pervaso d abbandono Destroyer, oppure il Jim O Rourke sotto sedativo di Mr. Met o ancora e soprattutto il folkettino incalzante di Gone Tomorrow che va a spegnersi in una coda immaginifica (che in qualche modo rammenta il Nick Drake di Bryter Layter con palpabili nuances beatlesiane). Per il resto, vale tanto il cuore quanto il mestiere: ci stuzzica il pop-soul jazzato della strumentale Gar, c incanta carezzevole e teatrale Buttons, francamente ci tediano Nice Without Mercy e Kind Of con le loro ugge acidule e un po troppo artefatte. Eccetera. I diversivi alla fine sono poco più che una patina. Alla fine tocca chiosare: i soliti Lambchop, nel bene e nel male. (6.4/10) Stefano Solventi Lapalux - When You re Gone EP (Brainfeeder, Febbraio 2012) Genere: Wonky soulstep Son bastati due eppì l anno scorso a far scattare il caso mediatico: il primo, Forest, solidamente piantato su basi beats&wonky impegnate, il secondo, Many Faces Out Of Focus, a mostrare lo spessore di un nuovo giovanissimo artista made in UK alle prese con bass music, step e personali rimaneggiamenti jazz. Col suo suono astratto e uber-intelligente (Time Spike Jamz l assaggio più indicato), Lapalux si è subito guadagnato il parallelo col James Blake pre-album, e ora che approda alla Brainfeeder sotto l ala di FlyLo e pubblica la sua terza uscita breve, il paragone offre interessanti spunti di riflessione. Bello osservare la piena sintesi dei suoi tratti caratteriali nelle tracce di When You re Gone, apprezzare la sensibilità soulstep di Construction Deconstruction mentre alterna vuoti blakeiani a un ingegno beats che non sfigura accanto a Hudson Mohawke, oppure sentire come il tratteggio arty si affianca convinto agli stimoli dell ultimo Rustie, con Yellow 90 e Gone a riprendere la stravaganza synth superaccessoriata di Glass Swords. Ma ancor più bello è pensare tutto questo come un punto di arrivo, rammentando che Lapalux un anno fa era esattamente ciò che era Blake nel 2010, e quindi vederci una seconda evoluzione possibile, ben diversa dalla discussissima tangente cantautoriale scelta dall alter ego: parte 102 Hours Of Introduction e ti par di riascoltare CMYK, se non fosse che sul più bello arriva quella tangibilità che i blake-detrattori avrebbero voluto, qui rappresentata da una solidità ritmica un po wonky un po r n b, in ogni caso armonicamente jazzy. Piglio multisfaccettato, capace di giocherelli pop su step astratti a metà tra Aquadrop e Jamie XX (Moments, Gutter Glitter) come anche di parentesi dub ambient eteree (Face Down, Eyes Shut), ed ecco servito il nuovo talento della scena UK a soli 23 anni. Vero è che Lapalux, per come lo vediamo oggi, è ancora in fase di indagine dei propri mezzi, preso ad intavolare ricerche e avanzamenti dei più dsparati per prendere coscienza dei propri lati migliori. Ma è così che si diventa grandi: fai che poi arriva l album e mette tutti d accordo? (6.9/10) Carlo Affatigato Lebanon Hanover - The World Is Getting Colder (Fabrika Records, Febbraio 2012) Genere: Cold Wave Nel già sovraffollato revival cold wave / minimal synth, la greca Fabrika Records ha saputo ritagliarsi un proprio, benché ristretto, spazio nel giro di pochissimi mesi. I più attenti ricorderanno infatti il notevole esordio dei tedeschi Die Selektion proprio per la label di Atene. Ora, a stretto giro di posta, ecco una nuova uscita dagli insindacabili toni 80 che più dark non si può. A tener viva la fiamma della decadenza sono i Lebanon Hannover, duo anglo-tedesco al full-length di debut

41 Niobe - The Cclose Calll (Tomlab DE, Dicembre 2011) Genere: eclectic-somgwriting C è e ci sarà un grandissimo vuoto dietro all esperienza Broadcast. Yvonne Cornelius sembra essersi messa in testa di iniziare a colmarlo. Rivendica negli arrangiamenti di The Cclose Calll un approccio del tutto simile all eredità di Broadcast And The Focus Group Investigate Witch Cults Of The Radio Age (You Have To Be More), fatto di amplissima variabilità di toni, umori, forme e formati, a cui si aggiunge il piglio soul, l importanza (in termini di peso specifico) della voce complessa della Nostra. Niobe ricalca le impronte di Alan Vega in più di un occasione (già dalla iniziale The Stillness) e vaga nelle stanze delle proprie canzoni, lasciandole andare e svilupparsi, senza temere la weirditudine, né l effetto sala d aspetto, dove il raggruppamento degli astanti è appunto casuale. Non esiste il vero collante se non il gusto, il tocco dell autrice, il timbro della sua sofisticazione. A dare una mano - e si sente - ci sono personaggi noti, uno su tutti Marcus Schmickler di Pluramon, in una manciata di brani, tra questi Walk Walk Walk!, krauta ma fatta di gomma, come i migliori Faust dei Novanta - e non a caso scritta e realizzata con l Institut Für Feinmotorik. Altro intervento chiave, a questo proposito, è quello di Marc Matter (del Feinmotorik) e di Christian Thomé alla batteria. Con loro Yvonne produce moderno cantautorato duro e femmineo, pieno dei tesori della tradizione tedesca, ma fondamentale per aggiornare e mettere a sistema la figura della cantantessa e autrice profonda e pure un poco dannata, a qualsiasi meridiano (da Nico a Lydia Lunch). Il concept che sta dietro ai brani - ai testi, alle atmosfere - è la fuga dalla quotidianità. Niobe è matura e sa che per scappare bisogna prima manifestarsi a se stessi. I prodotti di The CClose Calll sono coming out della personalità che non si vela più dietro ai temi dell underground, ma usa i trucchi della produzione, della scrittura, dell arrangiamento per esprimere il proprio talento. Detto altrimenti: non ci sono più scuse né barriere di protezione, e di conseguenza diminuiscono i cliché. Cresce l entropia, ma Niobe sa bene che ci sono potenti mezzi narrativi per addolcirla e inquadrarla in un inizio e una fine. As Long I Can Fly è proprio questo, arpeggio di chitarra, dolcezza alla Nick Drake, una semplicità ridotta all osso, che non sanguina ( I Can t Explain Why I Love The Plane / As Long I Can Fly I m Ok ). La Cornielius è capace anche di questo, e lo sapevamo. (7.4/10) Gaspare Caliri to. Difficile non tirare in ballo aggettivi e descrizioni già usati in precedenza per questo genere di uscite, ma quando un gruppo offre una propria declinazione di canoni così specifici, cos altro si può dire? Metronomiche batterie elettro, linee di basso pulsanti e sinuose, chitarre immerse in gelide acque di riverbero. L alternarsi di voce maschile e femminile fluidifica The World Is Getting Colder (nomen omen), un disco che se di certo non sposta di un millimetro le coordinate (ibernate, verrebbe da dire) di genere, ha dalla sua una manciata di brani degni di nota e di solida fattura. Come Die World che apre l album con il suo incedere marziale e il riff obliquo, la sincope quasi funk (ma pur sempre al servizio delle arti fredde) di Sand, e Totally Tot, vera hit da dancefloor stile dark room del lotto. Come a dire, know your product. (6.9/10) Andrea Napoli Leila - U&I (Warp Records, Gennaio 2012) Genere: Electro-rock, Dark Tredici anni. Tanto ci era voluto a Leila Arab per raccogliere tutti i pezzi del proprio sentire musicale - e non eran pochi, funk, trip-hop, post-rock, dub, electro, soul, spesso tutti nello stesso brano - e convogliarli nel tanto agognato equilibrio formale del precedente Blood, Looms & Blooms, dove la talentuosa producer di origine iraniana aveva trovato l incastro perfetto tra spinta sperimentale, armonia ritmico-melodica ed intensità introspettiva, grazie anche (soprattutto) all importante contributo emozionale di artisti come Martina Topley- Bird, Luca Santucci e Terry Hall. Tutto per poi arrivare con U&I a ricominciare da capo, tornando ad un caos individuale controllato e impaziente, preoccupato oggi di inventare più che sedurre. La ritroviamo con uno stile più aggressivo, dai contorni netti e decisi, arrabbiata al punto da lanciarsi in frenetiche scorribande electro-rock come Activate I o Boudica (quest ultima è quasi l ebm dei D.A.F.), oppure accendere la fiamma punk di Welcome To Your Life e poi schiacciare a tavoletta il pedale dei bassi con un wobble che sovrasta ogni cosa. Niente più propositi di eleganza e morbidezza, Leila oggi vuol graffiare, e significativa in tal senso è la scelta di passare dalle potenzialità soul delle voci coinvolte nell ultimo album ad un unico vocalist come Mount Sims, con forti connotazioni dark/ post-punk. Un oscurità che a tratti funziona, come tra le tenebre di Eight o nelle distorsioni di All Of This, entrambe vicine a certi Joy Division. Altrove però le smanie finiscono per frammentare il disco, e allora si incontrano rotture estetiche come la Lynchissima Colony Collapse Disorder o l urlo glitch di Interlace. E ti chiedi perché si è arrivati a questo, vista anche l abilità con cui Leila ha dimostrato in precedenza di saper fare canzoni dense d emozione (Deflect, Teases Me, Why Should I?, Daisies, Cats and Spacemen, lo scorso Blood... ne era pieno). Qualcosa è successo di sicuro dal 2008 ad oggi, e non è il caso di cercare colpe e responsabilità. Prendiamo atto piuttosto di un sound improvvisamente nervoso, aguzzo e suscettibile, che alla lunga può conquistare ma che in prima istanza respinge. E ci sforziamo di non rimpiangere il passato. (6.3/10) Carlo Affatigato Lil B - I m Gay (BasedWorld, Luglio 2011) Genere: hip hop Di Brandon McCartney alias Lil B abbiamo parlato parlando di Clams Casino, il giovane produttore americano che ascolta solo freakrapper tamarri ma che tira fuori perle che mettono assieme J Dilla, Flying Lotus e Burial. Lil B è il Based God, dove Based va inteso come positivo e solare, rilassato, e God come il self made man nell epoca del web 2.0 realtime, con centinaia di pagine dedicate, centinaia e centinaia di pezzi autoprodotti (prendendo come basi quello che gli piace su itunes) e messi online for free, fan che lo idolatrano e ne diffondo il verbo sui social e così via. B era già stato intervistato da The Wire nel 2010, adesso però il magazine gli ha addirittura dedicato una copertina (gennaio 2012), una cosa che sulle prime fa pensare a Odifreddi su Famiglia Cristiana o l Avvenire o robe simili. Quando B ha annunciato il titolo dell album, pare sia stato minacciato di morte, e da qui la specifica del sottotitolo (I m Happy). B non è gay ma è sicuramente gaio e il disco è il suo ritratto solare, di uomo e artista appagato, pacificato, ottimista. Col suo flow impastato, leggermente rauco, B va di stream of consciousness, spesso noncurante delle rime, i brani sono lunghi (anche sei minuti) e narrativi, i testi riflessivi e committed, diciamo pure conscious (termine che però a B non piace), le basi superfunzionali, tra classicismo funk/hiphop, piccoli update di nowness electronica (Unchain Me e 1 Time Remix sono firmate da Clams, ma niente a che vedere con I m God) e sample traboccanti pura soulness (I Seen the Light), con qualche puntata nel melenso puro (Gon Be Okay, che campiona musiche da un anime di Miyazaki). B è uno dei giusti, aggiorna in maniera intelligente la lezione - educazione e autodisciplina - dei Public Enemy, ma il disco musicalmente non è poi questa folgorazione. Curiosità: il primo pezzo, Trapped in Prison, campiona quella Leavin Shire di Bo Hansson che sembra essere alla base del riffettino di Pretty Little Ditty dei Red Hot campionato dai Crazy Town nel loro tormentone anno 2000 Butterfly. (6/10) Gabriele Marino Lost In The Trees - A Church That Fits Our Needs (ANTI-, Marzo 2012) Genere: folkpop orchestral Dopo un esordio che è stato osannato in lungo e in largo dalla stampa internazionale, salutato come l affacciarsi sulla scena indie folk di un songwriter complesso, adulto, che non disdegna le proprie radici classiche, Ari Picker ritorna con i suoi Lost In The Trees con l atteso sophomore. La chiesa del titolo, A Church That Fits Our Needs, è quella che il cantautore di Chapel Hill, North Carolina, ha costruito e dedicato alla memoria della madre Karen Shelton, morta suicida. Un disco, quindi, del quale non si può parlare male, perché quando metti la faccia di tua madre in copertina, dopo aver passato tutto il tempo a limare queste 12 composizioni, composte, arrangiate e cantate per intero da Picker stesso, non puoi aver distillato il dolore, sublimato la perdita in un delicato equilibrio di classica, folk, tra le viscere di Micah P. Hinson, i barbagli Bright Eyes/Conor Oberst, umori Mountain Goats. Ne escono momenti espressionisti come This Dead Bird Is Beautiful, con un coro di voci fantasmagoriche su un tappeto di violini claudicanti che si fonde con i fiati. La stessa efficace commistione che si ritrova anche in altri momenti del disco, come An Artist s Song o Red. Oppure puoi essere un bamboccione paraculo. Perché sbattere in copertina la faccia di tua madre morta è un po trash. Perché la morte di tua madre è la prima cosa di cui parli nel video promo del nuovo disco. Oltretutto, dopo che già nel 2006, prima dell esordio, mentre eri ancora un giovane studentello alla ricerca di una strada nel mondo, hai voluto e sei riuscito a partecipare a uno show televisivo (The Early Show sulla CBS) per un 80 81

42 makeover for a special mum. Risultato: la mamma si rifà il guardaroba e il trucco, e visto che lei dipinge, le organizzano anche una mostra in una grossa galleria. E per sovrappiù a te e alla tua band fanno suonare un pezzo che mandano in diretta nazionale. E allora, vuoi che a un caro ragazzo così, che ha studiato composizione classica ed è tanto tormentato, alla fine, non salti fuori un contratto per un disco? Sulla paraculaggine, decidete voi: se vi piace struggervi in un dolore di riporto, accomodatevi. Ma, contenuti extramusicali a parte, A Church That Fits Our Needs soffre proprio dell esasperata ricerca del colpo ad effetto, come nel plagio Radioheadiano di Tall Ceiling, quando tutto è teso per fare provare a chi ascolta quelle emozioni forti (non abbiamo dubbi) che la scomparsa ha scuscitato nel suo autore. Il problema è che più che farcelo rivevere quel dolore, queste canzoni ce lo descrivono e basta. (6.5/10) Marco Boscolo Low Fi - What We are is Secret (Octopus, Febbraio 2012) Genere: rock indie Deriva dall esperienza acquisita in giro per l Europa dopo l omonimo ep d esordio, datato 2010, il suono e l attitudine british che delinea in maniera netta e precisa il modo dei Low-Fi, band di origini campane che si colloca senza molti giri di parole nell area stilistica dell esportabile indie-rock italico. Molta chitarra dal suono tagliente, ritmo spesso sostenuto, beat elettronici a rendere il tutto leggermente più commestibile. Questi sono gli ingredienti base del loro What We are is Secret, che si compone di dieci tracce, registrate ai K-lab Studio con la produzione di Giuseppe Fontanella (24 Grana), che percorrono un binario molto compatto, che non prevede grandi spostamenti dai concetti voluti per questo lavoro. Alcune sfumature però ci sono. Si passa dai momenti più cupi e decadenti della conclusiva Piano Metal - a conti fatti uno dei passaggi meglio messi a fuoco, per intenzione e profondità espressiva - all intraprendente isteria di Something, ai rimandi new wave di Dead Syndrome #1, alle paranoie Molko-derivanti della title track, alle tensioni melodiche che segnano On the Scene, brano con un ritornello perfetto per un eventuale sussulto dei fan a ridosso del palco. Album nel suo insieme apprezzabile, buono per l immediato, anche se per il futuro la band dovrà cercare un carattere maggiormente personale, che si discosti in maniera decisa da certi formati ormai eccessivamente utilizzati da troppe, ma veramente troppe, realtà. (6/10) Roberto Paviglianiti Luca Gemma - Supernaturale (Adesiva discografica, Gennaio 2012) Genere: pop d autore Luca Gemma giunge al quarto lavoro esattamente come te lo aspetteresti, ovvero con tutti i crismi di un autore maturo e consapevole dei propri mezzi, che maneggia con esperienza i linguaggi del pop mantenendo un approccio saldamente genuino. Non è dunque casuale il titolo che racchiude queste nuove canzoni (scritte e registrato quasi tutte all alba), a rinnovare quella passione verso tutto quanto è roots (soul, funk, folk, rock) che già animava il precedente Folkadelic. A questo giro c è una maggiore attenzione ai ritmi, sempre piuttosto lineari ed energetici, ma il punto di forza di Gemma continuano ad essere le melodie: una dietro l altra le tracce di Supernaturale sono oggetti di artigianato che lasciano godere di tanti dettagli di suono, mai così specifici per l ex Rossomaltese. La cartella stampa per bocca dello stesso titolare parla di un incrocio fra Modugno e i Black Keys, connubio effettivamente esatto, a cui manca solo la canzone che sigilli il tutto. Del resto accadeva già nel lavoro precedente: tanti buoni, buonissimi spunti, nessuno davvero definitivo. Questioni di ispirazione (in ogni caso sempre di buon livello) ma anche di incontri non del tutto riusciti. Come nel duetto con Patrizia Laquidara per Il cielo sopra di te, da cui ci saremmo sintomaticamente aspettati qualcosa di più. (6.4/10) Luca Barachetti Luke Roberts - The Iron Gates At Throop And Newport (Thrill Jockey, Marzo 2012) Genere: Folk A neanche un anno dal Big Bells And Dime Songs che ne decretò il piacevole barcollare stoned grazie anche alle sapienti mani di un Kyle Spence degli Harvey Milk responsabile delle registrazioni, torna il folk in filigrana di Luke Roberts. I racconti circolari per batteria basso e chitarra acustica del primo disco si trasformano in The Iron Gates At Throop And Newport in nove brani più aderenti alla tradizione di Nashville (luogo dell infanzia in cui il Nostro è tornato a vivere dopo aver soggiornato per qualche tempo a Brooklyn): come a dire che dal Will Oldham dell esordio si passa idealmente a Phosphorescent, con il solito Neil Young a fare da comune denominatore. Gli arrangiamenti seguono a ruota abbandonando le ristrettezze strumentali degli inizi per abbracciare una dinamicità maggiore, tra il backing vocals di Emily Sunblad in Spree Wheels, l armonica a bocca e il pianoforte Perfume Genius - Put Your Back N2 It (Matador, Febbraio 2012) Genere: Piano pop Il viaggio in perfetta solitudine che Mike Hadreas ha deciso di intraprendere nel mondo del pop dalla sua Seattle continua dopo il più che promettente esordio Learning del E il nostro delicato interprete, con quella voce che fa inevitabilmente pensare a Antony e a Jamie Stewart (con i quali sembra condividire anche le stesse inquietudini esistenziali), sembra aver lavorato ancor di più per sottrazione, rendendo ancor più scarni i bozzetti pianistici di cui ha riempito la mezz ora di Put Your Back N.2 It. Sono Dark Parts, con quell ostinato di pianoforte a sottolineare l ossessività dell esigenza espressiva, che a volte si aprono verso atmosfere leggermente più rock (Take Me Home, con tanto di coro efebico), altre volte si richiudono in assonanze classicheggianti (Awol Marine, con quell incedere acquatico che lascia storditi per bellezza, quasi Babbo Natale si fosse trasformato in una balena). Sempre, c è un sottofondo inquieto di suoni, rumori, effetti che rendono ogni composizione nervosa, ma limpida, come se tutto fosse sempre leggermente blurred, fuori fuoco. Ma è una scelta deliberata di chi ha l orecchio teso ai dettagli e ama mescolare ambient (17, All Waters), pop (Hood), folk (Normal Song quando sembra di sentire il Sufjan Stevens di qualche anno fa), soul (Dirge) in un distillato personale e a volte fin quasi troppo sincero. Forse non sarà mai uno che smuoverà grandi masse, ma quelli che hanno cominciato ad apprezzarne la poetica fragile nel primo disco, troveranno un artista ancor più maturo in questa seconda prova. Il che ci fa solo aumentare la curiosità di sentirlo dal vivo. (7.5/10) Marco Boscolo di Lost On Leaving e il violino in stile western di I Don t Want You Anymore. La svolta non è cosa di poco conto e porta con sé aspetti positivi e negativi: tra i primi la crescita evidente di un songwriting che nasce migratorio e senza fissa dimora (un po come quello di Woody Guthrie) e, scendendo a patti con l istituzione/tradizione, esce tutto sommato vincitore; tra i secondi la perdita inevitabile di quella patina alternative e svogliatamente elettrica (pensiamo a brani di Big Bells And Dime Songs come Just Do It Blues) che, pur nella sua staticità, aveva reso il primo disco un piccolo gioiellino. (6.8/10) Fabrizio Zampighi Mapuche - L uomo nudo (Viceversa, Dicembre 2011) Genere: cantautore, pop E nell interstizio compositivo che separa il Rino Gaetano preciso e beffardo di brani come Fabbricando case e Ma se c è Dio dalle elucubrazioni minimal dissonanti del Bugatti nazionale che stanno le undici canzoni de L uomo nudo. Mapuche, Enrico Lanza, sta a cavallo tra cantautore e cantastorie, tra un non sense sfiorato e un perpetuo grido geniale di disagio, infelicità e impossibilità di adattarsi a non uno ma più sistemi. Prodotto e anche suonato da Lorenzo Urciullo (Colapesce) con l aiuto di alcuni ospiti speciali tra cui Carlo Barbagallo (chitarra in Quando ero morto) e, udite udite, Cesare Basile (all ukulele in L atto situazionista), l album unisce un idea classica di canzone d autore a una costante fatta di amare parole sull essere vivi oggi senza sentirsi mai dentro quel che come dentro è inteso. Quel che vive nascosto da una voce forse imprecisa e di certo fortunatamente troppo ruvida per piacere a tutti è una grazia tutta classicamente italiana fatta di rimandi profondamente arroccati su di un cantautorato 70s anche piuttosto dimenticato: tra una citazione del miglior Flavio Giurato (Marcia Nuziale da Il tuffatore) e netti rimandi al miglior Vasco Rossi, quello di Ma cosa vuoi che sia una canzone, emergono passaggi alla Mauro Pelosi, alla Faust O (Io a scuola non ti accompagno più) e momenti in cui Rino Gaetano sembra imporsi ancora con più forza come nella bellissima title track. Una classicissima vena malinconica dalla produzione sovente molto raffinata e pop macchiata dallo schifo del mondo: la voce, un grido di dolore. Un disco che cresce piano e svelandosi svela: avercene. (7/10) Giulia Cavaliere 82 83

43 Marc Houle - Undercover (Items and Things, Marzo 2012) Genere: Techno Dopo quanto successo, Undercover somiglia a un verdetto inoppugnabile arrivato dopo mesi di serrato dibattito giudiziario e scontro tra le parti. Perché la scelta dei tre ribelli Marc Houle, Magda e Troy Pierce di lasciare in agosto scorso la Minus del padrino Richie Hawtin per fondare una nuova etichetta personale, Item & Things, altro non è che una sfida lanciata a mr. Plastikman, soprattutto dopo certe dichiarazioni dello stesso Houle che lamentavano mancanza di autonomia e necessità di maggior libertà d espressione personale. Prima uscita ufficiale del nuovo corso, Undercover ha l ingombrante onere di dover dimostrare che il producer canadese può camminare ora sulle proprie gambe, missione resa ancora più difficile da una circostanza non banale: l ultimo album alla Minus, Drift, era un mezzo capolavoro di techno minimal densa e di grande spessore che faceva sentir netto il tocco del miglior Hawtin, e rappresenta un passato difficile da superare, oltre che un grosso punto a favore del blasonato antagonista. Le otto tracce qui presenti gettano parecchio fumo negli occhi senza chiudere di fatto la questione: perché questa non è più minimal per essere ascoltata, ma techno per essere ballata, e spostare gli argomenti su un campo d azione meno esigente rende le cose più facili. Alla fine il gioco in pista può anche funzionare, perché il carattere è deciso (in Under Cover quasi autoritario), certo pulsare notturno è stuzzicante (Blink), il basso deep furbetto fa sempre il suo effetto (Hearing) e i meccanismi del longclubbing col loro circolo vizioso di piacere->desiderio- >ripetizione->dipendenza->piacere sono ben corrisposti (con Am Am Am si va avanti all infinito). Ma i romantici della techno saranno i primi a lamentarsi di quanto tutto ciò sia riduttivo, sollevando l intrasigente critica della mancanza di contenuto (del quale è spesso stato oggetto Plastikman, peraltro), e Undercover non ha grossi argomenti con cui ribattere: tutto si gioca sui ritmi e sulle geometrie ma non c è vera inquietudine e la grande assente è l emozione. La quale non è per forza componente imprescindibile, ma dopo aver conosciuto certi gioielli di cui Houle è capace (Drift, Yonkers, Blunderstorm, giusto qualche esempio) è legittimo non accontentarsi. Si torna così al Marc Houle che punta solo all induzione dance, quello di Restore e Bay Of Figs, forse il volto più spontaneo dell artista, se è lui stesso a sentire Undercover come uno dei suoi dischi più personali e sinceri. Dobbiamo pensare che le sue prove più complete, le ultime Salamandarin e Drift, siano il risultato della stessa spinta insistente di Hawtin che poi ha causato la recente rottura? Se è così, la tensione artistica è più benefica di quanto si pensi e Marc ha un brutto nodo da sciogliere. (6.2/10) Carlo Affatigato Mark Stewart - The Politics of Envy (Future Noise, Marzo 2012) Genere: elettro(ck)clash Mark Stewart torna su album dopo quattro anni che sono oggi un eternità, annunciato da un singolo programmatico dove assieme a Kevin Martin/The Bug rifà i T-Rex e ospita Ever Libertine dei Crass e il vecchio compagno di trincea Pop Group Dan Catsis. Il disco è una parata di collaboratori e ospiti coi fiocchi: Bobby Gillespie, Lee Scratch Perry, Richard Hell, Daddy G dei Massive Attack e tanti reduci postpunk di lusso come Douglas Hart (Jesus and Mary Chain), Gina Birch (Raincoats), Tessa Pollitt (Slits) e Keith Levine (PiL), oltre al nuovo produttore bristolinao Kahn. Obiettivo: aggiornarsi restando fedeli al proprio immaginario tematico e sonoro. Su Edit, melting pot funk/electroclash stilizzato, con un suo profilo elegante, modulato, la cosa gli era riuscita piuttosto bene; qui Mark s allinea a quei vecchi leoni che nel tentativo di darsi una smaltata di nuovo finiscono per tirare fuori una roba più datata di un disco di revival puro e semplice. Espressionista, distopico, ghignante come sempre, il bristoliano indulge su un idea di crossover rock/electro e bianco/nero un po troppo ingenua, oltre che demodè (diciamo ferma tra la metà dei Novanta e i primi Duemila), facendo saltare fuori in un paio di occasioni un parallelo - illuminante - con certe cose U2, in particolare col modernismo a tutti i costi di Zooropa (la conclusiva Stereotype). Peccato, perché tra troppi tappeti rumoristico-ambientali (Method to Madness, Apocalypse Hotel; fin dati titoli, un insieme di cliché), elettro(ck)clash o semplicemente electro (Codex, Want, Baby Bourgeois; quest ultimo il punto più basso del disco) contro e strasentita, ci sono belle cose come il potente ghetto-arab di Vanity Kills (con Kenneth Anger al theremin!), il dub scassone di Gang War e il funky-disco di Gustav Says. (5.6/10) Gabriele Marino Matthew Bourne - Montauk Variations (Leaf, Febbraio 2012) Genere: contemporanea Riflessioni di pianoforte, così decide di esordire Matthew Bourne. Un album solista che vede Matthew seduto davanti ai tasti banco e neri, intento a raccontare senza cercare l effetto piacione, il colpo al cuore, la facile pre- Pop The Horror (Sacred Bones, Febbraio 2012) Genere: noise-goth-rock Dei Pop. 1280, quartetto newyorchese ispirato dal romanzo omonimo di Jim Thompson del 1964 (reso al cinema e tradotto in italiano col titolo di Colpo di spugna), avevamo notato l ep The Grid dello scorso anno sempre per Sacred Bones. Un buon concentrato di punk-wave arty virato noir ancor acerbo in alcune soluzioni e tipico di certe latitudini (vedi alla voce Lower East Side d inizi 90). Ora con qualche fondamentale aggiustamento di formazione - Zach Ziemann (batteria) e Pascal Ludet (basso) raggiungono i fondatori Chris Bug e Ivan Lip - le traiettorie sghembe della formazione trovano nuova linfa in un full-length su cui spira forte il vento del Batcave e che colpisce al cuore gli amanti delle chitarre selvagge e del rock più avventuroso. Robotiche litanie post-suicide si innervano nel tribalismo witchy dei primi Liars, deprivati di ogni lato funk (Bodies In The Dunes, ma la tendenza salta fuori spesso); chitarre taglienti d echi noisy (i primi Sonic Youth per cupezza e profondità) e no-wavey (New York, dopotutto è sempre New York) giocano a rimpiattino con elettronica vintage virata synth o cold-wave o con atmosfere che riesumano i cadaveri squisiti del goth-sound più teatrale e incisivo (i Bauhaus, tanto per fare un nome su tutti, sono più di una stella nel firmamento della band), mentre reminiscenze della dissacrante teatralità oscenamente violenta dei Birthday Party si uniscono ad una concezione bluesy come andava nell ultima stagione d oro del CBGB s prima della chiusura (da Pussy Galore ai Cows con tutto quello che c è in mezzo). Nella circense e maligna Hang Em High che fa molto Motherhead Bug, ad esempio, così come nella ossessiva Nature Boy, rivive quel demone che ha acceso molti acts spregiudicati dell ultimo trentennio. I quattro hanno studiato bene il bignami del giovane post-punk e sono pronti al salto verso la rendition persoanlizzata, mostrandosi come il più credibile lato al nero del Williamsburg sound. Arty e teatrali, ma sinceri. Col mascara sugli occhi, ma cattivi fino in fondo. Stretti in abiti all-black ma cinici e consapevoli di esser lì, pronti a rinverdire i fasti più incompromissori e veraci del post-punk. Dopotutto, la cover gioca di citazionismo creativo col 7 d esordio degli Swell Maps. Chris Bug (al secolo Chaleb March) non ha il carisma del giovane Nick Cave, né la follia di un invasato Alan Vega, tanto meno la teatralità poseuristica del caro Jon Spencer o la notturna ambiguità del caro Peter Murphy. Eppure recupera un po da ognuno e ci mette molto del suo, riuscendo a tenere la barra dritta in tutto l album. A farsi traino tanto quanto i citati padrini di un suono tagliente, a tratti furibondo, quasi sempre psicotico e umorale, riottoso e cerebrale. Dote non da poco in mezzo al marasma dopato, inacidito, perverso e scatenato che i suoi Pop mettono in atto tra devasto electro-cyberpunk (New Electronix) e catartici rilasci funerei e drogati (Beg Like A Human), iconoclastia wave-rock (Dogboy) e lancinanti danze goth bauhausiane (Crime Time). Un nuovo fiore è germinato dal fango wave della big apple. Toccherà prenderne atto. (7.4/10) Stefano Pifferi sa. Il suo pianoforte non si concede miele, anzi sembra trovare la propria vera dimensione solo quando centra successioni di dissonanze (The Mystic, Phantasie), che colgono le tensioni reciproche. Non è un lavoro sull armonia ma una ricerca distopica di un luogo fuori dai taken for granted del pianoforte, strumento difficilissimo per compiere un simile tentativo. E forse un compagno necessario per capire l entità della questione, la portata dell esperimento. Per un jazzista come Matthew Bourne, scuola inglese (Leeds College of Music), vuol dire anzitutto evitare il confronto al Concerto di Colonia di Jarrett, e semmai tentare timidamente di approssimarsi a Satie e di carpirne l insegnamento innovativo. Oppure dare allo strumento quello che la formazione jazz vuole, ma cercando le scale meno ovvie (meno tonali, meno blu) - come in Ètude Psichotique - e ricordarsi della libera improvvisazione che anima già il trio Bourne/Davis/Kane, di cui Matthew è appunto parte al piano. Oppure ancora, abbandonarsi all accompagnamento di archi e paesaggi alla Dirty Three (Senectitude). Difficile anche dare un seguito a un disco come Montauk Variations, legittimato dalla sua unicità. Eppure sappiamo che è solo il primo capitolo di una serie di pubblicazioni per Leaf. Probabilmente, una volta com

44 pletato, vedremo questo insieme di dischi come un testo unico. Di cui le variazioni di Montauk sono perfetta introduzione, a un mondo e all interiorità cinica (che si guarda da sola) del personaggio. (7/10) Gaspare Caliri Mattia Coletti - The Land (Bloody Sound Fucktory, Marzo 2012) Genere: guitar solo Disturbi elettrostatici, come di falsi contatti, sottesi all ormai caratteristico stile chitarristico del marchigiano. Si apre e si chiude così, con Pitagora e A Time Full Of Boxes, i pezzi più nervosi ed elettrici dell intero lotto, il quarto lavoro in solo di Mattia Coletti, ormai affermato musicista e produttore con un curriculum non indifferente alle spalle: Sedia, Polvere, Christa Pfangen, Damo Suzuki s Network, Leg Leg. Nel mezzo, chitarre (quasi sempre) acustiche che si specchiano in incidere bluesy, che giocano a rimpiattino col folk tradizionale (la title track e il suo lullaby acustico ed estatico) o con ossessioni malinconiche (Wind Glass) snodandosi tra reiterazioni e oscillazioni in grado di giocarsela alla pari non solo coi classici mostri sacri di riferimento ma anche con le nuove leve, come il Mark McGuire solo delle ultime produzioni. Le elegie acustiche di Greta e Ghost West, vero cuore ideologico dell album, col loro strofinio di corde sommesso dicono di un mondo pacificato, di lande aperte, di confini smisurati e comunicazione universale comprensibili a occhi chiusi e orecchie aperte. Quelle di Coletti sono cifre chitarristiche che si muovono nell oceano della ripetizione quasi sempre uguali a se stesse ma che in realtà tendono all aggregazione come se si trattasse di frattali sonori, sorta di dolci haiku di suoni come notavamo già in Pantagruele. Corda su corda in un accumulo che non è mai sovrabbondanza o mero accumulo, quanto vibrare di dolci, isolati suoni che ricompongono nel loro insieme il sentire musicale del marchigiano. Un sentire che è fatto in egual misura di melodia e sperimentazione, ricerca e tradizione, essenzialità e eleganza. Da ascoltare in solitudine e penombra, ovvio. (7.2/10) Stefano Pifferi Mi And L Au - If Beauty Is A Crime (Important Records, Gennaio 2012) Genere: folk da camera Dalla loro baita in mezzo alla neve, Mi and L au ci fanno arrivare nelle orecchie gli undici nuovi fiocchi di neve che compongono il loro terzo album. Dopo i fasti di critica dell esordio eponimo e il tour mondiale sotto l ala protettrice di Banhart e Gira, i due hanno sfornato il vero gioiello nel precedente Good Morning Jockers. Con una formula tanto fascinosa (il duo maschile/femminile dedito all alt. folk) quanto abusata, il rischio impantanamento è dietro l angolo. Rimanere uguali a se stessi forse avrebbe aiutato a confermarsi nello zoccolo duro dei fan più o meno illustri, ma avrebbe significato la paralisi artistica. Non che la formula sia chissà quanto cambiata, ma quadretti leggeri di synth krauto come la titletrack o la sincope di Limouzine mostrano come l ex modella finlandese e il musicista francese abbiano volto lo sguardo altrove rispetto ai consueti Cat Power, Vashti Bunyan, ma anche Serge Gainsbourg/Jane Birkin e Lou Reed/Nico. Oltre al consueto gelo invernale che pervade le loro composizioni minimali, c è quindi un aura di decadenza espressionista che pervade anche in episodi privi di elettronica. E il caso del ballo vaudeville andato a male di Porcupine, o dell austero opening di Territory Is An Animal. O dell esplorazione di lingue diverse dall inglese (Valdren) o di territori new-age/electro (Silk). A dire che nonostante l isolamento, la loro proposta musicale non vuole rimanere circoscritta alla chitarra davanti al fuoco della loro baita, ma ha la curiosità per sopravvivere e rinnovarsi nel tempo. Meno perfetto, ma più vivo dei precedenti. (7.2/10) Marco Boscolo Morgan - Italian Songbook vol. 2 (Sony, Febbraio 2012) Genere: pop C era una volta Marco Morgan Castoldi, uno che era passato con rara disinvoltura, almeno in questo Paese, dagli esperimenti sul pop-rock non troppo strettamente 80s, a quelli sul cantautorato italiano del passato e forse anche del futuro. Quel che rimane di una mente musicalmente brillante è un ultimo importante e bellissimo disco di inediti che risale a 5 anni fa, vale a dire all estate del 2007 cui sono seguiti due Best of e, con questo Italian Songbook Vol.2, anche due dischi di cover. Dimentichiamoci di questa forma di prolungata e agonica morte artistica, come da contratto Sony, e lasciamo dunque campo libero a quello che sono, di fatto, questi 15 brani: 13 cover e 2 trascurabili inediti. Tutto quel che succede in questo secondo volume del canzoniere italiano è un imbruttimento delirante e borderline della materia trattata, un imbruttimento essenziale, vale a dire delle proprietà originarie dei pezzi, distruzione insomma di quello che poteva essere, almeno in teoria, un gioco di sperimentazioni su una materia viva, checchè se ne dica, come quella dei classici della canzone italiana. Quel che si ascolta, invece, è un ammasso di suoni che di sperimentale hanno poco, che si divertono a sovrapporsi sghembi gli uni sugli altri, in un fiera di canti e controcanti, di piroette e giravolte in digitale che più che caleidoscopiche risultano fuorvianti, alienanti, distruttive di una forma canzone che, in ogni caso, andava di certo rispettata. Più che minimal, il canzoniere italiano, si direbbe midimal, in un trionfo di suoni midi che se nel volume precedente rispettavano le regole del piano-bar delle Moby Dick dirette in Sardegna, qua prendono un astronave per la luna. A che serve dire che i nomi snocciolati qua sono Endrigo, I Gufi, un De Simone raro e originariamente straziante e grandioso (Il gioco del cavallo a dondolo), uno dei più bei Modugno che si possano ascoltare? Nulla, probabilmente, perché delle origini resta poco. Una cosa però va detta, il Castoldi, quando fa o rifà musica, segue sempre sé stesso, se il volume uno era dunque la privazione dell originalità, della scrittura e della sobrietà espressiva, qua siamo nel campo del delirante fluttuare. Confidiamo nell avvenuto ritorno a Mescal e nel grandioso album di inediti che Morgan annuncia da tempo. Ho visto le migliori menti della mia generazione ma si spera - ancora - di no. (5.2/10) Giulia Cavaliere Morpheground - Enfuse (Autoprodotto, Dicembre 2011) Genere: beats Con Morpheground, classe 86 da Vicenza, l inizio non è stato proprio dei più lisci. Si era incazzato un sacco per l uso della parola nigga nel nostro articolone sullo stato delle cose hip hop Durante la lavorazione di Beat.it è stato poi uno dei più strenui oppositori dell uso della parola wonky per descrivere il progetto. Insomma, un vero rompipalle. Ma il suo caracollante, metallico, scurissimo Where Am I? era uno dei pezzi migliori di quella selezione, poche storie. E questo ci ha subito riconciliato con lui. Dopo i due EP Off D Wrekkid, l uomo torna con l album, sempre in free download sui suoi canali. Con Quincey Jones, Hendrix, gli Slum Village di J Dilla e il FlyLo di Los Angeles come riferimenti, Enfuse declina, nei sapori speziati dell artigianato (anche naïf, anche ruvido), il verbo Black in chiave jazzy, Seventies, psichedelica e spacey. E adesso non ti incazzare, Morph, ma tra acciaccamenti ritmici, terzomondismi e cineserie, tastiere siderali, giochetti timbrici e loop che piacerebbero tanto a Steven Ellison, fai proprio sketch wonky di classe. <a href= com/album/enfuse _cke_saved_href= >enfuse by Morpheground</a> (7.3/10) Gabriele Marino Motorpsycho/Ståle Storløkken - The Death Defying Unicorn (Stickman Records, Febbraio 2012) Genere: heavy psichedelia Affidarsi a un titolo degno dei peggiori Genesis come The Death Defying Unicorn (A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable) sa un po di autocelebrazione. Anche solo per l abitudine di associare i Motorpsycho a quanto di meglio (l ultimo Heavy Metal Fruit) e al tempo stesso di peggio (ad esempio un Little Lucid Moments del 2008) si possa concepire in fatto di ambizioni mastodontiche, elettricità prolissa e incroci di linguaggi. Il doppio CD vede inoltre in organico la Trondheim Jazz Orchestra e nasce un paio di anni fa su commissione del Molde International Jazz Festival per festeggiare il suo cinquantesimo anniversario. Con uno Ståle Storløkken già nei Supersilent, Elephant9 e Humcrush, che condivide al cinquanta per cento oneri e onori in fase di scrittura e arrangiamento. The Death Defying Unicorn macina ottime infornate di hard chitarristico (The Hollow Lands o il monolite da sedici minuti Through The Veil), scritture propriamente orchestrali (l intro di fiati di Out Of The Woods, i contappunti cinematografici in stile Ligeti / Debussy di Doldrums, gli archi minimali di Flotsam) e contaminazioni riuscite tra i due linguaggi. Con queste ultime che diventano il vero nucleo del disco, forti di una psichedelia inquieta, a tratti quasi teatrale, che non solo concilia strumentazione classica e amplificatori, ma riesce anche - ed è una buona notizia, considerato il dispiego di forze - a non rinunciare a una propria unicità e coesione (ascoltatevi i King Crimson bucolici di Into The Gyre, i toni apocalittici misti ad amonie beachboysiane di Oh Proteus - A Prayer, le narcosi in overdrive di La Lethe e i muri wagneriani di Oh Proteus - A Lament). A dire il vero, se si escludono un paio di episodi prescindibili (il progressive senza troppe pretese di Mutiny! e Into The Mystic), il resto è inaspettatamente materiale che guadagna credibilità ascolto dopo ascolto. Pur essendo, nel formato e nelle aspirazioni, più destinato ai fan del gruppo che non a chi è del tutto a digiuno dell opera di Bent Sæther, Hans Magnus Ryan e Kenneth Kapstad. (6.9/10) Fabrizio Zampighi 86 87

45 S.M.S. - Da qui a domani (Black Fading, Marzo 2012) Genere: cantautorato avant Dove sta il perno emotivo di una canzone? Nelle parole, nella melodia, nelle armonizzazioni, negli arrangiamenti? Questioni aperte da quando la musica popular è diventata adulta, e che nella fattispecie italiana ha dovuto fare i conti con l ingombrante ancorché fruttuosa onda lunga del cantautorato. Archiviate le stagioni dell impegno e del disimpegno, alle prese col subbuglio contemporaneo che non sai bene se e quanto sclerotizzato post o irretito da manie retro, t imbatti come e più di prima in dischi che scaldano a fiamma viva quell interrogativo irrisolto. Gli anni zero della sloganistica bruciante di Vasco Brondi proseguiti nell arguzia sociologico/generazionale de I Cani, i languori post-cantautorali dei Dente, la narrazione agrodolce dei Brunori SAS, per non tacere - come potremmo? - del cosiddetto reading rock, cogli Offlaga Disco Pax che rievocano in chiave neosensibilista la lezione Massimo Volume: solo alcuni nomi tra i tanti per i quali il testo è, con diverse modalità e gradazioni, una carta decisiva del mazzo espressivo. Premessa lunga ma necessaria prima di parlare di un disco che proprio da questo apparente dissidio genetico prende le mosse, ipotizzandone una qualche forma di superamento. Il fascino ermetico e straordinariamente evocativo dei testi di Monica Matticoli, il sostrato sintetico post-wave di Cristiano Santini (già nei Disciplinatha) e il canto di Miro Sassolini (dai loro cognomi l acronimo S.M.S.) formano una triangolazione che delimita spazi espressivi senza cercare una sintesi, si compenetrano evitando di fondersi, ognuno col proprio codice chiamato ad assolvere la comune missione narrativa. Perché di narrazione si tratta, un concept su attrazione e distacco, individuazione e abbandono, carne contro carne e la sua assenza. Un racconto che nasce parola. Parole che l ex-diaframma lavora per ricavarne forma melodica. Melodia che Santini - con l aiuto di Federico Bologna, musicista elettronico già in Technogood e Armoteque - ricontestualizza in musica. Compartimenti piuttosto stagni ma parecchio armonici, tanto che il risultato non tradisce freddezza intellettuale ma anzi costituisce una scaletta di canzoni in punta d emozione. La opening Sul limite, col reading iniziale della Matticoli, introduce il metodo assieme allo snodo poetico, rispetto ai quali il punto di vista inverso di Sassolini compie lo scarto espressivo ed esistenziale del caso. Poi è tutto un trapassare di languida eleganza David Sylvian e close up poetico De André (la palpitante Disvelo), brume trip-hop (A nudo) e flemma ieratica Battiato (In quiete). In Rimane addosso la veste lacerata del risveglio c è un aura pop placida e visionaria come un Brian Eno irretito Mark Hollis, mentre nella splendida Petite mort accade qualcosa di arioso ed espanso che tira in ballo persino uno Stephin Merritt. Fa bene Sassolini a lasciare nel cassetto i panni del post-punk con vampe nostalgiche Stratos: registrata la calligrafia su un canto essenziale che esalta il rapporto tra ogni minima modulazione ed i sussulti emotivi, può permettersi di frequentare con bella disinvoltura fantasmi cantautorali e teatrini blasé (vedi il Paolo Conte raggelato Japan di Dal vetro allo specchio), mantenendosi sempre credibile e in parte. In un certo senso Da qui a domani addita - diverse le premesse e distinti gli esiti - lo stesso punto critico verso cui tendevano il Ferretti di Co.Dex (evidente in Semel Heres) ed il Battisti panelliano (palpabile in Oltremodo). Proprio come in quegli illustri predecessori, l aspetto musicale non brilla per colpi di genio o intuizioni innovative, ma determina una connotazione stilistica straniante, giocando a sovrapporre strati di modernariato (perlopiù) sintetico colto nella cuspide tra Ottanta e Novanta, più per bisogno quasi snobistico di porre una distanza tra sé e l attualità-ad-ogni-costo che per saltare sul treno dell imperante retromania. Detto questo, è anche una godibile raccolta di pop alto, e qui si chiude il cerchio, qui sta la differenza tra un disco ambizioso e un gran disco. (7.3/10) Stefano Solventi Mouse On Mars - Parastrophics (Monkeytown Records, Febbraio 2012) Genere: elettro funk A distanza di sei anni da Varcharz - e dalla collaborazione con Mark E. Smith come Von Sudenfed - i Mouse On Mars tornano con un album d elettronica massimalista che riporta diritti alle produzioni più eclettiche del duo. Restringendo il campo a un funk elettronico di tastiere, ritmi ed effetti e qualche campione, eliminando cioè gli inserti acustici che tanto peso hanno avuto nella fase adulta del sound, la coppia sperimenta una sorta di album anti organico tutto spasmi e cambi d abito, un orchestra per macchine per dirla con St Werner, un prisma roteante con il quale riflettere un intera carriera: dal glitch (i Microstoria che peraltro abbiamo già ascoltato nell ovaldna resuscitati in Gearnot Cherry) all Exotica (The Beach Stop, Inmatch), dal pop di Radical Conncetor (Metrotopy, Polaroyced) fino all acid più europeista (Seaqz).Ottovolante ipercinetico ma senza un reale presupposto, Parastrophics oppone freschezza e gioventù sacrificando ironia e senso del gioco: difetti di fabbricazione che comportano costi anche molto alti (The Know You Name si risolve in un confuso pigiare di tasti missato con il pop che già aveva stancato nella prova precedente, Syncropticians è come dire Tahiti senza Iahora, il marasma di Imatch evidenzia l impossibilità di un confronto con gli Autechre). Non rinunciando al compiacimento tecnico (l utilizzo di innovativi software musicali già sviluppati nei recenti live project come Paeanumnion) e a compromessi pop lounge, queste tracce non possiedono né la forza dell impro di Varcharz (raggiunta soltanto in Chordblocker, Cinnamon Toasted) né la spinta del layering creativo delle prime prove. Un album che ti chiama come una sirena non promette niente di buono. (5/10) Edoardo Bridda My Best Fiend - In Ghostlike Fading (Warp Records, Marzo 2012) Genere: rock, pop Quintetto di Brooklyn al debutto su lunga distanza, i My Best Fiend, ma voglioso di definire un raggio d azione ben caratterizzato, riconoscibile all impronta. Nello specifico, prendono le mosse da un alt folk con spiccate attitudini psych ed effetti collaterali onirici (per non dire spacey), guardando con disinvoltura alle vicende accadute in tempi e modi diversi sulle due sponde dell oceano. Il risultato è credibile e a tratti affascinante, anche se paga pegno ad una certa monotonia figlia forse di eccessiva devozione al progetto e ai punti di riferimento. Questi ultimi, come si suol dire, saltano agli occhi: detto delle evidenti scorie Floyd ravvisabili in ODVIP, per una Jesus Christ tutta bambagia di chitarra e tepore di tastiera come dei Mojave 3 spettinati da una densa brezza Spiritualized, c è una Cracking Eggs che chiama in causa il lirismo acido scomposto dei Flaming Lips di metà 90 s e il trasporto tumultuoso dei primi Verve, laddove Higher Palms sembra adombrare rigurgiti Gun Club narcotizzati, One Velvet Day stempera tenerezza Gram Parsons e trasognato romanticismo Billy Corgan. Piace la capacità di condurre il gioco verso ambiti non facilmente pronosticabili, vedi il congegno pop quasi Delgados di I m Not Going Anywhere o quella titile track che appassisce in un palpitante solco dreamy tra fantasmi cameristici ed evanescenze shoegaze. La scrittura è fresca anche se tradisce una certa furbizia, il gusto per l effetto facile (si presti orecchio a Cool Doves). Quanto agli arrangiamenti, si disimpegnano bene tra intensità e misura, riuscendo comunque a non scadere mai nel banale proprio come - nella sua antigraziosità - la voce di Fred Coldwell. Tirate le somme si tratta dell esordio promettente di una band che col sophomore sarà chiamata a dimostrare un sacco di cose. (6.9/10) Stefano Solventi Napalm Death - Utilitarian (Century Media, Febbraio 2012) Genere: grindcore Venticinque anni e quindici album per la band più leggendaria e decisiva del metal estremo, i Napalm Death inventori del grindcore, un marchio fatto di ossa e incazzatura il cui albero genealogico è sovrapponibile per importanza e ramificazioni a quello degli Squirrel Bait nel post-rock. Inutile ripetere quindi che all inizio c era dentro gente come Justin Broadrick (poi Godflesh) e Mick Harris (poi Scorn) o la solita pappetta dell influenza anche e soprattutto oltre le cerchie metal (Zorn e i Naked City, giusto per dire), con quella loro formula nuova, che riportava brutalmente il metal alle sue radici punk, estremizzandone violenza e velocità in maniera inaudita (fino al guinnes dei primati dei due secondi implosi di You Suffer). Inutile ripetere, ma l abbiamo ripetuto. Perché va bene liquidare la storia, quando è il caso di liquidarla, ma la storia è pur sempre storia. Finito il cappelletto, oltre la storia c è la verità dell oggi, e cioè che vale per i Napalm quello che vale per tutti gli ultimi colpi di band estreme ormai storicizzate e col pedigree: l album di inediti serve a mettere nuova carne al fuoco per l ennesima tournée celebrativa e nell eterno autoriciclo della musica va a finire che chi una volta faceva avanguardia adesso si ritrova a rincorrere i propri emuli. Ecco allora Utilitarian, dignitosissimo, onestistissimo ritorno - in quest ottica, e in mezzo a ogni tipo di riesumazione alla cazzo o spudoratamente indegna - di Barney Greenway, Shane Embury, Mitch Harris e Danny Herrera, che aggiorna gli assalti punk velenosi e declamatori della band con cromature (brillantissima e po

46 tente la produzione) crossover. Fin qui, Zeitgeist metal Vade retro assoluto invece per il tanto sbandierato quanto ridicolo cameo sulla traccia numero tre, Everyday Pox, di mr. John Zorn, che squittisce giusto tre secondi, fuori tempo massimo di circa vent anni. (6.2/10) Gabriele Marino Nick Rivera - Happy Song Is A Happy Song (La BÃ l Netlabel, Gennaio 2012) Genere: folk avant All anagrafe fa Michele Sarti, radici cagliaritane, domicilio attuale Londra dove tra le altre cose ha trovato il modo di mettere una pietra sopra alle passate esperienze con Bron Y Aur e Franklin Delano per iniziare un nuovo corso, il proprio, sotto il monicker Nick Rivera. L avventura inizia con questo ep di sei tracce all insegna di un languore randagio, espanso e stoned. Con la sua versatilità - il Nostro suona di tutto, in particolare chitarre e corno francese - organizza trame di arguta insensatezza, di blando esotismo, di abbandono transistorizzato e malinconia jazzy. Ti sembra di stare nell acchiappasogni Jim O Rourke o in un quadretto scortecciato Howe Gelb (Horn Y Orgy), tra algoritmi lunari The Books e azzardi onirici Broken Social Scene (Feathers, la title track), in una freakeria floreale Canterbury (Butter In My Head) oppure tra certi tremori giocosi Seventies dove una garrula apprensione John Fahey piroetta nel paesaggio agrodolce Red House Painters (The Slow Sprinkler). L unica traccia che non abbiamo ancora citato è Renee Luise, folk amniotico screziato di anomalie sintetiche sì fascinose ma in questo caso anche un po gratuite. Unico neo di un lavoro che lascia presupporre sviluppi piuttosto interessanti. (7/10) Stefano Solventi Nobraino - Disco d oro (Martelabel, Marzo 2012) Genere: folk rock Va a finire che toccherà prenderli sul serio questi romagnoli che dietro ad ogni cazzonismo nascondono sguardi dall agrodolce intensità, col loro folk stradaiolo marezzato di spigoli wave, le scorie beat ed errebì che non disdegnano all occorrenza svicolare surf-psych. Proprio questo muoversi marpionesco tra balera e club, tra cestone dell autogrill e cameretta indie, fa dei Nobraino un ordigno insidioso, che ti fa abbassare la guardia e ti molla il gancio. Vedi il Tenco sprimacciato d estro sonico in Cani e porci, le scorie Gino Paoli sgranate Benvegnù in Film muto, il lo-fi blues tra torbido e demenziale di Bunker (l anello di congiunzione tra Elio e Capovilla?), il romanticismo sperso e strapazzato da cuginastri scellerati dei Perturbazione ne Il minotauro, e via discorrendo. Per essere davvero interessanti gli manca forse un po della mitologia patafisica Capossela, che ad esempio renderebbe meno banale la fregola balcanica de Il record del mondo, ma evidentemente il loro quid espressivo deve molto ad un certo cabarettismo sardonico che non vuole scomodare archetipi ma si affida al potenziale sconcertante del quotidiano, come ben fanno in Cesso di vivere (un Bobo Rondelli cinico e mariachi) e nella caustica Il mio vicino. (6.9/10) Stefano Solventi Scuba - Personality (Hotflush Recordings, Febbraio 2012) Genere: Classic tech-house E ancora una volta Scuba spiazza. Una prima volta con l anticipazione del singolo The Hope, che rendeva chiara una volta per tutte la volontà di scrollarsi di dosso la figura del producer dubstep, riportando l attenzione sulla spinta dance che rimane l unico vero filo conduttore costante dell artista (che sia quella dub-intelligente di A Mutual Antipathy o quella techno di Triangulation). Ma spiazza anche una seconda volta con l ascolto di Personality nella sua interezza, perché questa non è la tech-house già fatta e finita per il club che aveva sfoggiato nel recente Dj-Kicks, ma una dance più cerebrale, da poltrona, un disegno mentale studiato appositamente per il formato album, che rispolvera house e techno vecchia scuola giocando con gli spazi, con le lentezze, con quelle forme personalissime che han sempre reso Paul Rose uno dei personaggi più sfuggenti della scena. Un disco dance fatto alla maniera classica, con la testa piacevolmente immersa a quegli anni 90 e a quella esplosione dell elettronica tra le masse: gli anni degli Orbital e degli Underworld, del big beat e dell eurodance, dei rave e delle divas, quegli stessi anni che a loro volta erano in pieno citazionismo dei 70 kosmische e disco. Tutti fili che emergono uno ad uno, a formare una ragnatela fittissima e iperstimolante, e allora The Hope diventa un viaggio mentale completo, che parte electro-rock, vira big beat e termina prog, con tanto di voce black pescata dalla prima Detroit. Chemical Brothers, Orbital, Crystal Method e Underworld nella stessa caldissima stanza. Ogni traccia è un mondo a sé, undici volti diversi e compiuti dei pezzi di storia che abbiamo amato. July è il tastierone di Axel Foley su un synthpop votato al funk, Cognitive Dissonance una jungle depurata dal sudore che gioca a rimpiattino con aperture ambient e echi cosmici, NE1BUTU una lettera d amore a Strings Of Life scritta in pieno umore pop e Underbelly nasconde l omaggio implicito a Vangelis. Mentre Tulips riscopre il 2-step della synth-eleganza su vocals un po Bristol un po disco e Action va giù di stomp techno delle origini, Dsy Chn sembra svegliarsi in lande ambient-techno e fugge verso lidi house-party e Gekko, col suo turgore viscerale in 4/4 è l affondo più deciso nel dancefloor. Schegge di passato che si intrecciano da ogni parte, ma Personality è tutto meno che un disco vintage. È revisionismo dance offerto al grande pubblico, eattamente a metà strada tra il club e l ascolto. Un album che si rivolge tanto ai giovani che non hanno esperienza diretta di quel tipo di sballo, sia ai più grandicelli che coi 90 ci sono cresciuti. È lo Scuba più popular di sempre, cosciente di raggiungere così il pubblico più ampio mai coinvolto, con un disco che attira il neofita, il frequentatore abituale e anche il nerd musicomane che in quel gioco di riaffioramenti storici ci lascia il cuore. È il suo modo di consacrarsi definitivamente come artista a tutto tondo, che può autorevolmente dire la propria sui campi più svariati, ma mai seguendo binari e modalità standard, sempre trovando la via alternativa, il sentiero inesplorato. Per poi diventare il riferimento cardine di tutto ciò che ne deriva. Let s call it personality, ma è un eccesso di modestia. (7.3/10) Carlo Affatigato Noise Trade Company - Post Post Post (EK Product, Marzo 2012) Genere: electro-wave Atto terzo per il progetto retro-pop di Gianluca Becuzzi. Un cambio di formazione - esce Chiara Migliorini ed entra Elena De Angeli - e una maggiore attenzione per gli aspetti synth-wave si fanno notare senza inficiare quello che è il centro propulsivo dell intero progetto. Non esclusivamente la riproposizione retro-futurista di un suono oggi talmente abusato da far riflettere, impreziosita però dall intelligenza di un prime-mover che non vuole affatto dimostrare di esserci stato per primo, quanto attualizzare quelle disturbanti tensioni e applicarle al messaggio anti-consumistico. Sociologia del terzo millennio resa musica, e musica di gran classe nonostante il minimalismo dell approccio al genere non permetta grossi svolazzi o varietà. Ma per il requiem per gli ultimi giorni della società dei consumi si viaggia su sonorità meccaniche, ripetitive, ritmatissime e disturbanti come è giusto che sia. È però il messaggio che viene veicolato a importare più di ogni altra cosa. Una lucida e ludica, ironica e autoironica visione d insieme da chi, sì stavolta, c era e può meglio guardare l attualità. Con distanza e disinganno, ovvio, ma anche con chiarezza di intenti. Il richiamo a perle della no-wave (Size dei DNA) e dell industrial sound (una ancor più ipnotica e disumanizzata Persuasion dei Throbbing Gristle), va colto per il lascito culturale di quelli che furono epocali momenti di rottura e denuncia (artistica e pertanto sociale) della fine dei 70. Che è come dire, dell inizio degli 80 e dell affermazione della società dei consumi occidentale. Democratic Make Up, Compulsing Shopping Disorder, These Catatonic Youth (che voglia viene di formare un gruppo per chiamarlo così?), Saturday Night Dementia testimoniano che ogni cosa è già accaduta. Tutto è tre volte Post, ma che è sempre un piacere ri-ascoltarla quella cosa. Sapete cosa aspettarvi, ma non rimarrete delusi. (7.2/10) Stefano Pifferi Offlaga Disco Pax - Gioco di società (Venus, Marzo 2012) Genere: synth wave Cos altro attendersi da chi della persistenza mnemonica ha fatto una vera e propria poetica, se non riproporre se stessi? Col terzo album quindi persistono, desistenza, neosensibilismo e tutto, gli Offlaga Disco Pax. Ma saggiamente introducono accorte correzioni alla rotta, piccoli ma decisivi aggiustamenti di sapore. Più evidenti quelli sul versante sonoro, chiaramente debitore dell esperimento vintagista messo a segno col Prototipo EP di poco oltre un anno fa: suoni caldi, cardiaci, tarati sull emotività della narrazione, mossi da un dinamismo interiore che non cerca l assalto alla Robespierre ma al più definisce asciutte sincopi digitali che vagamente rimandano alla synth-wave umanizzata dei Notwist quando non a certe marezzature pseudo-soul - metteteci 90 91

47 quante virgolette volete - non lontanissime dall estetica d un Riccardo Sinigallia (vedi su tutte la disavventura contemporanea di A pagare e morire). Detto che il periodo di riferimento musicale resta ovviamente la cuspide tra 70 e 80 - quel candore livido delle linee di basso, il tripudio irrequieto dei sintetizzatori, le pulsazioni cibernetiche e le chitarre trasfigurate - sembra però palpabile una sintonizzazione col nuovo livello di apprensione dei nostri giorni, una gravità densa compensata dal ricorso a riff di tastiera sempre ingegnosi e mai ciarlieri, forse mai così azzeccati e sistematicamente utilizzati. I testi si adeguano organicamente alla situazione, Collini non cerca quasi mai l invettiva (salvo quando con poche pennellate tratteggia l ondivaga liaison tra il Belpaese e Gheddafi in Piccola storia Ultras) e si concede mémoires anche più laconiche del solito, formula che sembra invero un po esausta e che difatti non va oltre il dignitoso in Palazzo Masdoni (un manifesto poetico tardivo) e Respinti all uscio, per poi comunque azzeccare con Sequoia la quadratura tra emblematico e toccante (di cui Collini aveva già dimostrato d essere maestro, ad esempio in Venti minuti). Riferito della parabola sportiva Tulipani (sulla folle impresa del ciclista olandese Johan van der Velde, che nel 1988 scalò il Gavia innevato rischiando l assideramento), gradevole ma certo meno intensa e coinvolgente di Ventrale, occorre puntare l obiettivo su Desistenza e il singolo Parlo da solo, forse le due tracce più vicine al concetto di canzone mai realizzate dagli Offlaga, funkettini wave algidi basali, narrativamente sospesi tra il detto e l allusivo, tra l intimo e l emblematico, il reading che giocoforza a tratti diventa quasi un rapping. Se dovessimo ipotizzare una prospettiva per il trio Carretti, Fontanelli e Collini, è su questi due ultimi titoli che concentreremmo la nostra attenzione. (6.9/10) Stefano Solventi Paletti - Dominus (Foolica, Gennaio 2012) Genere: Pop cantautorale Se c è un merito da concedere al cantautorato italiano 2.0 è sicuramente quello di aver rinvigorito la tendenza ad esprimere delle visioni musicali al singolare stanando a volte talenti che all interno del meccanismo band non sarebbero mai potuti uscire allo scoperto. E il caso di Pietro Paletti, in arte Paletti che oltre ad essere polistrumentista e anima dei già apprezzati The R s (ex Records) si propone ora come canzoniere in proprio abbracciando la sfida della lingua italiana. Diciamo subito che il pregio di Dominus, EP d esordio per Foolica records, sembra essere quello di tracciare un ideale ponte tra l estetica Battistiana della Numero Uno (Graziani, Papallardo ecc) e le suggestioni sonore della nuova pastorale americana (Local Natives, Fleet Foxes, Grizzly Bear). Si parte con il brio di Adriana ed un gusto nell arrangiare che nel suo essere sopra le righe, delinea la cifra stilistica dell intero EP, mentre Tricerebrale fa pensare ad una jam tra il miglior Gazzè ed I Flaming Lips presentandosi nei testi come una parata di timida auto indulgenza maschile. Ogni esitazione esistenziale viene interrotta dalla psichedelia verbale e musicale di Geco che con la sua cavalcata spettrale segna il cambio di rotta di Dominus verso l introspezione. Raccontami di te e Alla mia età sono sicuramente i momenti più intensi del disco, ovvero, le canzoni con la C maiuscola che da subito rapiscono l ascoltatore: la prima, sognante e nostalgica, mette in pratica la lezione corale americana con le inflessioni del più classico Battisti; la seconda è prototipo di ballata senza tempo con falsetti Fornaciari, svolazzi Cocciante ed un poster della sempreverde e lennoniana Imagine sul fondo. Il talento di Paletti sta tutto nella disinvoltura con cui queste canzoni ci raccontano chi lui sia e da dove venga pur senza avere una carriera solista pluridecennale alle spalle. Se questo è solo l esordio, segnamoci fin da subito questo nome perché Dominus potrebbe essere decisamente la punta di un iceberg. (l album è liberamente scaricabile in formato digitale da Bandcamp) (7.3/10) Dario Moroldo Paul McCartney - Kisses On The Bottom (Hear Music, Febbraio 2012) Genere: jazz, pop Se sei un Beatle, hai fatto più o meno tutto. Se poi sei Paul McCartney, hai fatto anche tutto il resto. Non solo silly love songs o helter skelters, ovviamente, ma anche opera, balletto, cartoon, avant-garde, elettronica, acid house, divertissement (alzi la mano chi sa di cosa stiamo parlando quando diciamo Thrillington) e chi più ne ha, ne metta. Oddio, una cosuccia mancava, ed era mettersi a giocare con il canzoniere che gli aveva passato papà James da bambino, tutte quelle vecchie e romanticissime canzoni jazz del Tin Pan Alley, dei 78 giri degli anni 30 e 40 quel genere che aveva omaggiato tra il serio e il faceto in cose come When I m 64, Honey Pie, The Back Seat Of My Car (si ascolti la nuova My Valentine, a proposito) e You Gave Me The Answer. Detto altrimenti, Kisses On The Bottom è il patinato esercizio di un settantenne che, quando non sale su un palco Sycamore Age - Sycamore Age (Santeria, Marzo 2012) Genere: Folk-prog È una specie di magia quando un disco tende a negare la propria natura durante l ascolto, per svelarsi soltanto alla fine, come una rivelazione, nella piena contemplazione del silenzio che segue l esperienza appena vissuta. Ma se molto spesso sono complessità, ermetismo e sperimentazione ossessiva a produrre un simile effetto - non senza incappare in ostracismi comunicativi - nel caso dei Sycamore Age ci troviamo al cospetto di una ricercatezza limpida e pienamente godibile. Il progetto nasce dall incontro tra Stefano Santoni (Kiddycar) e Francesco Chimenti - giovane musicista di formazione classica nonché figlio del più noto Andrea -, per allargarsi in una formazione a sette composta da polistrumentisti in grado di districarsi tra le variegate trame cromatiche proprie di questo esordio. La matrice progressive (intesa come narrazione, sviluppo e sovrapposizione di elementi multiformi, dentro e fuori la forma canzone) rimanda a esperienze prog-rock da una parte, ed etno-folk dall altra, ma con una ricerca colta e antropologica che escludendo ogni componente heavy si arricchisce di tratteggi cameristici ed esotismi. Struggenti arpeggi di piano o delicati ricami di chitarra acustica accolgono archi, fiati, percussioni, rumorismi ed eleganti inserti elettronici (vedi le ambientazioni sorprendentemente sci-fi di How to Hunt A Giant Butterfly), descrivendo paesaggi ora umbratili e misteriosi, ora carichi di patohs e solennità. Emblematico in questo senso il dittico composto da My Bifid Sirens e Romance, dove il sofisticato arrangiamento dei fiati della prima e il crescendo pop-cameristico della seconda rendono bene l ampiezza di respiro e di orizzonti che il progetto intende mettere in campo. C è sicuramente la magia ancestrale del miglior prog anni 70 (anche italiano) nel modo di concepire la melodia, di gestire gli spazi, nelle fascinazione per i temi onirco-fantastici e simbolici, così come nei radicali cambi di atmosfera tra i vari capitoli dell opera e all interno degli stessi brani (Binding Moon). Ma è un recupero scevro da revisionismi, una lezione perfettamente assimilata, superata, e anzi proiettata un passo avanti verso i territori fertili della contaminazione. E non è probabilmente un caso se in scaletta troviamo un brano, Dark And Pretty, idealmente diviso in due parti, ma con la seconda che precede la prima di cinque tracce. Un modo ironico, forse, per dichiarare allo stesso tempo il proprio debito e la propria indipendenza verso certi stilemi. Ma a cosa somiglia, in definitiva, tutto questo? A una reminiscenza, probabilmente, abitata da risonanze antiche e contemporanee. (7.4/10) Antonio Laudazi a suonare e cantare il suo rock n roll (per lui è quello; per noi sono quelle canzoni), per ingannare il tempo si chiude in studio con i musicisti di Diana Krall e canta, con voce sottile da crooner d altri tempi, Bye Bye Blackbird. Niente di scontato, però: canzoni portate al successo da Fats Waller (I m Gonna Sit Right Down And Write Myself A Letter), novelties (Ac-Cent-Tchu-Ate The Positive, firmata da Johnny Mercer) e classici minori di Irving Berlin (Always). Scelte che, se non altro, tradiscono il solito entusiasmo che lo spingeva, in tempi non sospetti, a rovistare tra i lati b dei 45 giri di rock n roll alla ricerca delle perle nascoste (vedi alle voci Run Devil Run e Choba B CCCP); e a ogni modo, per non farsi mancare niente, ci mette anche un po di suo (la citata My Valentine, con l acustica di Eric Clapton, e la conclusiva Only Our Hearts (con l armonica di Stevie Wonder). Tutto qui, facile facile. A voler esser pignoli le interpretazioni, pur impeccabili, non vanno oltre il didascalico e l insieme, per quanto gradevole, non riesce ad essere altro che (nelle stesse parole di Sir Paul) musica da ascoltare in sottofondo quando torni dal lavoro, con un bicchiere di vino in mano. And what s wrong with that? (6.5/10) Antonio Puglia Quakers and Mormons - Funeralistic (La Valigetta, Febbraio 2012) Genere: hip-hop Secondo disco del duo bolognese (dopo Evolvotron uscito nel 2011 sempre per La Valigetta) prodotto da Rico 92 93

48 Uochi Toki - Idioti (La Tempesta Dischi, Marzo 2012) Genere: UochiTokigalore Quelli degli Uochi Toki sono dischi che piacciono ai critici musicali, poche storie, e che il grande pubblico prende soprattutto a smozziconi aneddotici su Youtube. E sì, gli Uochi sono sempre loro, la cifra è sempre quella, e ci mancherebbe, Napo con le sue slavine di parole e il suo cervellotico ansiogeno declamare, Rico con le sue basi industrial-rumoristiche. Sì, fanno sempre la stessa roba, e però che roba. Ma poi, proprio quando per un attimo (in Cuore amore errore disintegrazione) c era sembrato che questa cifra potesse diventare maniera (con prove a carico come l aver fatto scuola, si veda l ottimo Zona Mc), ecco che gli Uochi tirano fuori un disco che altro che maniera, un disco che supera la quadratura di Libro Audio, e diventa il loro lavoro più musicale (ancor più di Cuore amore...; vedi le strategiche esitazioni/ripetizioni di Napo in alcuni pezzi) eppure - pardon - sperimentale, il più meta-discorsivo, il più teatrale. E la migliore delle cavalcate linguistiche degli Uochi, più volte sul filo del virtuosismo: il racconto della Tetsuo-izzazione di Ecce Robot, l entomologia domestico-orrorifica di Al Azif, le perfide parodie rap di Perifrastica e Tigre contro tigre (con tanto di beatbox, in un delirio di inscatolamenti lessicali e narrativi), il disgusto per i degustibus di Umami e della lunghissima Sberloni, il videogame sportivo assurto a simbolo di una generazione di nerd trentenni che non cuccano manco adesso che essere nerd è fico di Tavolando il pattino con Antonio Falco, la metauochitokità da ovazione di La prima posizione della nostra classifica (con strofa e ritornello cantati con l harmonizer e un bel po di parole a caso), la horror story bergamasca di un rientro a casa di notte da amici con silenzio coatto imposto dai vicini di Venti centensimi di tappi per le orecchie. E ancora, in fine, l autorecensione (le autorecensioni) di La recensione di questo disco e il bagno ambientnoise/spoken in un brodo di linguaggio primordiale maccheronico de La lingua degli antichi. Insomma, l avete capito, questo disco è il disco della vita. Una genialità indiscussa. sicuramente la miglior musica prodotta negli ultimi -tot- anni. I miei neuroni si distaccano. Sento le gente attorno a me pensare... (7.6/10) Gabriele Marino degli Uochi Toki (che pure escono in questi giorni con un nuovo lavoro). La proposta di Maolo e Mancho - entrambi nei My Awesome Mixtape, rispettivamente alla voce e al basso - cerca di svicolarsi dai luoghi comuni dell hip-hop grazie a un meltin pot che coniughi suoni e voci presi da realtà diverse, travasando senza inibizioni campioni di world music (Almost Dead, gli arabeschi di Burial Ground), street culture in uptempo (Acceptance), d n bass (Unconsciousness), classica (le belle evoluzioni di violoncello e violino ad opera di Elena Bertolin e Giulia Bonaccorso in Expire) e pure cheap tuning (Parting and Weeping, Epitaph), il tutto condito poi di collaborazioni con nomi illustri del panorama indie italico: tra gli altri ci piace citare la voce di Enrico Roberto de Lo Stato Sociale, il basso di Chet Martino dei Ronin e del flauto traverso di Andrea Marmorini de La Quiete. Il disco, un concept sulla morte, il cannibalismo, le tragedie, le liturgie di memoria, i funerali, scandisce con tappe simili alla via crucis il passaggio dai viventi ai non viventi. L idea oscura e le atmosfere assomigliano molto a quello che anni fa ribolliva in casa Anticon o che MF Doom si dilettava a professare, sia come intelaiatura sonora che come trama vocale, a volte affine anche a certe derive hardcore. Se nei passati di gruppi storici come gli Antipop Consortium (tanto per parlare di eccellenze) c era una totale capacità di ispirarsi e di trasmettere all ascoltatore il convincimento e la passione per la poesia cantata, qui lo speech non raggiunge in tutti i pezzi il top della forma e si assesta su una buona partecipazione e intensità: la voce di Maolo nella parte iniziale o si ama o si odia, mentre nella coda, vista anche la longa manus del produttore, si mischia alla perfezione con i suoni e i beats. Complessivamente è proprio la gabbia autoimposta del concept a limitare le possibilità. Non a caso nei momenti meno cupi il disco prende il volo, in particolare nelle tracce Funeral, The Procession o Worms. (6/10) Marco Braggion RM Hubbert - Thirteen Lost And Found (Chemikal Underground Records, Febbraio 2011) Genere: Guitar Folk Qualcuno si ricorderà di RM Hubbert sotto la sigla de El Hombre Trajeado, altri lo avranno notato nel 2008 con l album First and Last, per altri ancora si tratta di un semplice sconosciuto. Per questi ultimi arriva con estrema puntualità Thirteen Lost and Found, lavoro che identifica le qualità chitarristiche, la cifra espressiva e la varietà formale di cui il nostro è capace. Il tutto in undici brani dove è ben chiaro fin dall inizale We Radioed che sarà la sua chitarra il motivo principale dell intero ascolto, uno strumentosuonato con estrema dedizione e in grado di cantare melodie derivanti da un post rock evoluto, speziato di flamenco e colorato di infinite sfumature folk. Hubbert - in maniera intelligente e funzionale per l economia della sua fatica - ha chiamato per l occasione qualche amico musicista che ne alimenta, e in taluni casi ne influenza, la caratura stilistica. Leggi tra i credits Aidan Moffat e Alex Kapranos che fanno grande un semplice bozzetto come poteva rimanere Car Song, ma anche Emma Pollock e Rafe Fitzpatrick che innalzano Half Light a un livello di songwriting raffinato e ben messo a fuoco, senza dimenticare Alasdair Roberts che rende la conclusiva The False Bridge un piccolo gioiello in chiave folk. Di grande impatto anche i passaggi solo strumentali, si ascolti Switches Part 2, dai quali emerge un intensa emotività, adatta per costruire atmosfere cariche di tensione, a volte piacevolmente scure e piovigginose. A Thirteen Lost And Foundva dato qualche ascolto di vantaggio per poterne eventualmente assaporare in maniera esaustiva significati e motivi, perché si tratta di musica che si sedimenta con estrema lentezza, dove non si rintracciano ritornelli semplicistici né scorciatoie espressive. (6.6/10) Roberto Paviglianiti Rusko - Somebody To Love (Mad Decent, Marzo 2012) Genere: Step, pop & ragga Diciamolo pure: O.M.G.! era un dischetto niente male. Trascinava il dubstep verso le folle in maniera irriverente e cazzara, si spostava lato mainstream senza prendersi sul serio eppure senza svilire in toto il carattere del genere da cui partiva. Riempiva gli spazi con tutti gli espedienti collaudati per l eccitazione delle folle (pop, dance e hip-hop ma anche jungle, wobble e reggae), ma rimaneva comunque colto, consapevole della pericolosità del passo e intenzionalmente sarcastico. Il rischio principale nel dar seguito a questi esordi è quello di lasciarsi andare al trash spinto abbandonando ogni scrupolo (è già capitato un milione di volte, l ultimo è stato Steve Aoki) e nel caso di Rusko il timore era quello di trasformarsi in un nuovo Skrillex tutto drop e convulsioni dimenticandosi dei contenuti (che tra l altro sa maneggiare bene). Chris Mercer però è uno furbo e sa come evitare clamorose debacle. Infatti Songs si guarda bene dall esagerare e ricalca in maniera abbastanza fedele i binari del disco precedente: un paio di colpi da arena come Somebody To Love e Opium, distorsione su base halfstep alla maniera Woo Boost ma meno killer, gli inevitabili rintocchi UK dance (la funky-like Pressure o la più 00s Thunder) e pop (Dirty Sex, praticamente Katy Perry) e, come prima più di prima, spazio al dub-ragga istrionico, sia quello oldie di Love No More che quello più ghetto-caciarone di Be Free. Rimane un gioco interessante rintracciare nella tracklist sprazzi di citazionismo d antan (la eurodance, gli Inner City, la dream progressive, ancora rave), ma il disco si mantiene su un aplomb posato e controllato che stenta a lasciarsi andare e diventa una mera replica del primo album, senza però i suoi colpi ad effetto e la sua frizzantezza scanzonata. Alla fine non dice nulla di netto, nulla per cui ci si possa schierare a favore o contro. Non scontenta nessuno e non conquista nessuno, fa tanto l eclettico ma non si scolla dal suo guscio sicuro e confortante. L approccio conservatore non fa per te, Chris. (5.8/10) Carlo Affatigato Saluti da Saturno - Valdazze (Godfellass, Marzo 2012) Genere: pop Avere a che fare con Saluti da Saturno significa, come non spesso accade, confrontarsi con un progetto musicale completo, vivo, profondo. Che Mirco Mariani non sia certo l ultimo dei musicisti è chiaro, fortunatamente, non solo dal diploma in contrabbasso o dalle numerose collaborazioni di altissimo livello con musicisti e autori importanti, da Marc Ribot a Vinicio Capossela passando per Stefano Bollani ed Enrico Rava o da un lavoro di produzione tra i cui nomi vediamo spiccare quello di Gabriella Ferri: dischi come il precedente, Parlare con Anna o come questo Valdazze chiariscono la statura artistica già ad un primissimo ascolto. Una trama musicale che per raccontarsi non richiede nomi di predecessori, riferimenti e citazioni, visto che parlare di lavoro caposseliano è in questo caso quasi pedante. Valdazze parla da sé, è un disco articolato, stratifi

49 Uxo/Digi G Alessio - Uxo Vs Digi (Plynt Records, Gennaio 2012) Genere: spaceybeats Quando abbiamo iniziato ad addentrarci ormai tre anni fa nel sottobosco dei produttori strumentali italiani, abbiamo subito capito che Uxo e Digi G Alessio erano due big. Il fatto è che questi due big non si conoscevano. La cosa ci sembrava un peccato mortale e, per farla breve, convinti che tutto si tiene (o si debba tenere), un giorno di fine estate 2010 ci siamo presi la briga di metterli in contatto tramite Facebook. Il resto è storia? Forse, sicuramente è ottima musica. Ecco che dopo mesi di rinvii Plynt si decide finalmente a pubblicare questo split di remix reciproci, pronto da quasi un anno (se le registrazioni risalgono alla prima metà del 2011). Dieci tracce secche in cui i due vengono fuori al meglio della forma, ma controllatissimi, senza strafare, in perfetta coerenza con le loro personalità: Digi sornione, duttile, giocoso (la streetissima Exploitation, la vibertiana Adios), Uxo - se non più serioso - sicuramente più scuramente psichedelico, tribale (The Instanbul Clan), siderale (Stages, Nascondiglio). I due produttori separati alla nascita - guardare le foto e i video su Google, please - si uniscono sotto la stella di uno spacefunk/spacedub per palati fini, confezionando un lavoro ricercato, fatto di trame sottili, che nulla concede alle mode o alle cosmesi timbriche del momento, nonostante un singolone superorecchiabile come Fresh Flesh, che poteva annunciare un lavoro anche più all purposes e groundbreaking. E invece, semplicemente, alla voce: stile. (7.4/10) Gabriele Marino cato, dalle potenti venature italian folk capaci di dosare bene l influenza cantautorale più classica a quella della tradizione popolare, romagnola in particolare, fatta di suoni radicati nelle casse delle feste di paese e nei balli da Ultimo amore. La scrittura è densa di riferimenti lievi alla vita delle piccole cose che sono correlativi oggettivi di un universo dove il cucchiaino che risuona e il caffè che profuma sono sguardi alla profondità dei sentimenti, alla violenza della dolcezza. Stupisce la varietà sonora che conduce dall apparente spensieratezza folk pop di pezzi come Valdazze o Afa alla sensualità estiva e sudamericana delle trombe di Hotel Miramare fino alla malinconia imperante di pezzi importanti come L ultimo giorno d estate e Frammenti di notte. Una varietà, quella di Saluti da Saturno che ha l enorme pregio di riuscire a non lasciare da parte la continuità e l omogeneità dell intero album. Certi che purtroppo non avrà il richiamo hype di tante uscite italiane di quest ultimo periodo possiamo anche serenamente affermare di trovarci di fronte a uno dei lavori più grandi e di valore di questo 2012 di musica italiana. (7.5/10) Giulia Cavaliere School Of Seven Bells - Ghostory (Full Time Hobby, Febbraio 2012) Genere: Pop Claudia Deheza (delle On! Air! Library!) è uscita dal gruppo, lasciando alla gemella Alejandra e Benjamin Curtis (ex-secret Machines) il compito di licenziare il terzo atto della vicenda School Of Seven Bells. I due reduci (conosciutisi insieme alla collega persa mentre suonavano da spalla agli Interpol con le rispettive band) cercano di ripescare l approccio elettropop tastieristico - con vocalità dilatate - già sperimentato in Disconnect From Desire, provando ad attualizzarlo con stratagemmi ritmici che occhieggiano agli ultimi due decenni. Il risultato è forse ancor più deludente dell album precedente, per motivi simili a quelli che già lamentavamo, a cui vanno a sommarsi piglio dispersivo e opacità di alcuni momenti. Il motore del tutto è la voce eterea di Alejandra, e l allestimento eighties predisposto da Curtis. La formula esce dai binari solo quando si testano annusate dubstep (ruffiano che manco Skrillex) in Love Play, oppure la cassa dritta e strutture al punto Arcade Fire in Lafaye. Fanno meglio quando vanno dritti verso la meta (Low Times, dove sembrano avere più in testa l obiettivo da raggiungere), cioè vivacizzare con la drum machine (White Wind) il formulario delle sette campane. Purtroppo è un eccezione, non una regola. Non solo: ciò che manca - non tanto per i richiami Cure, quanto per l approccio dei musicisti - si riassume in una parola sola: leggerezza. (5/10) Gaspare Caliri Shearwater - Animal Joy (Sub Pop, Febbraio 2012) Genere: alt-folk-rock Due anni esatti dopo il controverso The Golden Archipelago arriva un altro tentativo targato Shearwater per costruirsi una credibile epica rock antimoderna. Il trio texano dal sound meno texano che si sia mai udito deve molto del suo immaginario al leader Jonathan Meiburg, ornitologo e naturalista, le movenze da hippie radical e forse anche un po chic, la calligrafia ed il timbro sintonizzati sui Talk Talk nel guado tra apoteosi commerciale ed altroquando post-blues. In altri tempi sarebbero sembrati fuori tempo massimo e via andare, invece in questi giorni che giustificano anzi esigono il sovrapporsi di continui revival non fatichi a trovare loro una collocazione. Non credo faremmo loro torto individuandoli nella piuttosto affollata scia degli Arcade Fire, spostati magari sul versante wannabe, simile il piglio enfatico a petto pieno di tumulto (vedi la opening Animal Life o il power-wave incalzante di Immaculate - con qualcosa dei Police più adrenalinici) anche se non disdegnano di sparigliare le carte ammiccando languori Roxy Music (Dread Sovereign, Believing Makes It Easy), piglio brumoso Depeche Mode via Patrick Wolf (Breaking The Yearlings), oppure vampe rock-opera e declinazioni etno-arty Peter Gabriel (Insolence). La loro ragion d essere riescono a guadagnarsela, ma certa ampollosità di grana grossa è una tentazione cui non sanno resistere (You As You Are e Star Of the Age, con quelle melodie istrioniche da Morrissey iperadenoidale) così come le concessioni alla blandizie atmosferica quasi Alan Parson Project (Open Your Houses). La trascendenza pop anni Ottanta sembra la scenografia irrinunciabile per queste palpitanti utopie, il problema è che lo sforzo per allestire i fondali è palpabile e disturba la messinscena. Non ti coinvolge mai fino in fondo, non smetti di percepirlo come frutto di mestiere anche quando l azzeccano in pieno (vedi gli Okkervil River angelicati di Run The Banner Down). Resta quindi una proposta dalle grandi potenzialità, che all altezza del quarto album avrebbe già dovuto trovare adeguata espressione. E invece, macché. (5.9/10) Stefano Solventi Shlohmo - Vacation EP (Friends Of Friends, Febbraio 2012) Genere: Ambient dub-abstract Si riapre nuovamente su breve formato lo scrigno Shlohmo: Vacation è la prima uscita ufficiale dopo Bad Vibes, l ultimo full-lenght dell anno scorso che costituiva l avvolgente seguito su onde dub-jazz-ambient di un percorso iniziato all insegna di beats, bass music e 8bit della migliore religione wonky. La traccia d apertura è maestosa, The Way U Do, a ricordare ai followers la disinvoltura di movimento dell artista californiano, una base UK bass uber-intelligente che fa da ponte con lo Zomby d oltreoceano, vocalizzo post-dubstep marca Sepalcure, rullante sintetico di consistenza Kuedo, fioritura space venata soul e alla fine perfino una voce campionata goth quasi fosse post-witch. Tutto in cinque minuti. Un modo per ribadire la seria imprevedibilità dello Shlohmo sound. La fase eterea sembra però la direzione oggi prescelta e le due tracce successive lo affermano chiaramente: Wen Uuu vuole ripercorre i binari glo-ambient già proposti in Bad Vibes, un po l appendice ancora in vita dell ultimo Balam Acab, e Rained The Whole Time vede e rilancia su un habitat di soul organico che a tratti rievoca Burial. Tra chi lo ha amato nel periodo Shlohmoshun e chi ha avuto il colpo di fulmine nella sua nuova fase abstract una cosa è certa, il ragazzo non lascia mai indifferenti. (6.9/10) Carlo Affatigato Sleigh Bells - Reign Of Terror (Mom And Pop, Febbraio 2012) Genere: noisy pop Parte con una carica live che ricorda i RATM (True Shed Guitar), poi si incanala su un filone per giovani-che-nonhanno-vissuto-gli-ottanta, roba per chi non si ricorda chi erano Alice Cooper, gli AC/DC o il buon vecchio Ozzy. Il secondo disco degli Sleigh Bells (dopo il buon esordio con Treats) è un prodottino fatto apposta per sparare in aria strali rock, schitarrate, effettacci, cose che potrebbero emozionare i fan di Karen O o qualche emo (Road to Hell) più smaliziato che si è dato al witch rock. Il tutto è poi attualizzato con le dita medie al Super Bowl di M.I.A, le sfanculate delle nuove leve (Crush) e le inevitabili tonnellate di effetti alla voce che richiamano la mai dimenticata wave shoegazing (vedi il lentone di You Lost Me). Ancora una volta è il pop che trionfa, e lo fa con una produzione attenta, delle mosse usa e getta da party (Comeback Kid) che richiamano a man bassa il comeback dei Foo Fighters ma anche con lyrics più articolate scritte per la prima volta a quattro mani

50 Gli Sleigh come contraltare dei non meno commerciali Kills? Perché no, Derek e Alexis, crescono quel tanto che basta per evitare la caricatura istantanea. Tutto il resto è hype: spottati in streaming sul sito del New York Times, live di presentazione dell album alla Bowery di New York e disco sull etichetta di Neon Indian. Il gioco non è ancora finito. (7/10) Marco Braggion Slumberwood - Anguane (Tannen, Febbraio 2012) Genere: retro avant psych Se i Raccoo-oo-oon prima di levarsi dalle scene avessero trovato il tempo di fare un viaggetto in Italia e fare amicizia con i Jennifer Gentle, probabilmente da questo improbabile incontro sarebbe saltato fuori qualcosa di simile al qui presente Anguane, secondo disco per gli Slumberwood, quintetto padovano dedito ad una personalissima rivisitazione a tinte fosche della psichedelia. Risalta innanzitutto l ottimo lavoro sia in termini di composizione che di pura ricerca e sperimentazione sonora, complice senza dubbio la presenza in veste di produttore e co-arrangiatore di - guarda caso - Marco Fasolo, come già era stato ai tempi del più che discreto esordio (Yawling Night Songs, 2010). Tra cori immersi in mari di riverbero, sghembe ballate e atmosfere oscure, saltano subito alla mente i Jennifer Gentle periodo Valende ma conditi da un approccio decisamente free form e imbastardito da mille influenze, passando dapprima a parodie dei Residents di Third Reich n Roll (Emerson Laura Palmer, assolutamente da sentire anche solo per il nome) per poi fare con disinvoltura l occhiolino ai Natural Snow Buildings in La Corsa del Lupo. Se 7th Moon on Mars ed Everything Is Smiling sembrano uscite direttamente da un incubo di Syd Barrett, la title-track con la sua tetra linea di pianoforte e la minimalista Harmonium riassumono appieno la cifra stilistica sospesa tra oniricità e stralunata inquietudine del gruppo padovano, dimostratosi in grado di dare alla luce un disco forse non immediato ma di sorprendente qualità. (7/10) Fabio Gasparini Soap&Skin - Narrow (Pias, Febbraio 2012) Genere: espressionismo indie Coordinate particolari, quelle di Anja Plaschg, nata in una sperduta fattoria dell Austria, cresciuta al mondo come pianista dalla formazione classica e diventata nota come Soad&Skin nel 2009 grazie a Lovetune For Vacuum: appena diciannovenne il suo talento donava agli ascoltatori 13 brani intimisti, nervosi, disturbati, depressi. In molti si affrettavano a parlare di una Kate Bush germanica, basando il paragone sul precoce esordio. Con la Bush, in realtà, condivide la curiosità che le amplia gli ascolti oltre il canone pop/indie, ma il suo sguardo e la sua scrittura sono oscuri, tenebrosi e assoluti come il romanticismo tedesco dei sui lieder sporcati di elettronica. Dall esordio sono passati tre anni, che hanno visto l interessamento di Fennesz e altri notabili della scena internazionale che si sono dedicati al remix di questo o quell altro brano. Narrow raccoglie inediti, ma alcuni di loro sono già stati suonati dal vivo o fatti percolare nella rete dalla stessa artista. Più un minialbum quindi (8 solamente i brani), che ha il sapore di una conferma temporanea, in attesa di un nuovo balzo nei prossimi mesi, di un talento fuori dal comune che sta diventando una specie di Antony al femminile, dove però i fantasmi arty sono stati sostituiti da quelli nerissimi che Nick Cave si portò a Berlino. Insomma: più Diamanda Galas o Evangelista che Nico, come invece qualcuno ha cercato di sostenere. Piacciono la rilettura di una hit anni Ottanta, Voyage Voyage, a dimostrazione della personalizzazione estrema che sa imprimere a tutto quello che le esce da mani e bocca, il pathos di una Vater dedicata al padre e la forza di una Boats Turn Toward The Port o Big Hand Nails Down. Colpisce la personalità già matura di brani intensi come Deathmental (con un uso interessante dell elettronica) e Wonder. In attesa di un nuovo album, è un bel sentire. (7.2/10) Marco Boscolo Sophia Knapp - Into The Waves (Drag City, Febbraio 2012) Genere: piano pop Indirizzo di Brooklyn e una certa notorietà come membro della band Lights (che ha già cambiato il nome in Cliffie Swan), Sophia Knapp ha impiegato i ritagli di tempo per incidere un lavoro che prende Feist e il suo pop che profuma di Sessanta/Settanta per bagnarlo in un pianismo cinematico. E una musica apparentemente semplice e diretta come il miglior pop deve essere, ma in realtà stratificata e densa, possibile solo nel milieu culturale dell indie newyorkese. The Right Place sfrutta anche campionature di vere e proprie onde per dare profondità a un suono morbido e caldo. La voce profonda di Billy Callahan fa da contraltare a quella sottile della Knapp in Spiderweb e in Weeping Willow, ma più che a Nancy Sinatra e Lee Hazelwood, come vorrebbe indurci a pensare la nota stampa, si sente un eco di country e tradizione: tutto, insomma, torna a casa. Il pezzo più interessante è però il singolo (già in circolazione in formato 7 ) Nothing To Lose, dove si sente più che mai il lavoro agli arrangiamenti di Jay Israelson e Eric Gorman (entrambi anche co-produttori): spazialità di suono, trattamento delle voci e tanti piccoli particolari che rendono il brano una continua sopresa. Into The Waves potrebbe passarci nelle orecchie come il solito album di piano pop, privo di sussulti e sempre alle prese con i soliti riferimenti passatisti. Non è così, ma questa caratteristica è contemporaneamente la sua forza e il suo limite (6.8/10) Marco Boscolo Spoek Mathambo - Father Creeper (Sub Pop, Marzo 2012) Genere: afro-wonky-hop Dopo Mshini Wam del 2010, arriva il secondo album per Nthato Mokgata, musicista africano di Johannesburg, già conosciuto tra le altre partecipazioni per un featuring su Kawaii di Missill. Grazie all apporto del chitarrista Nicolaas Van Reenen le sonorità di miscuglio meltin rap delle origini si infarciscono di arrangiamenti potenti e connessioni con armonie panafricane, in un ritorno che in questi ultimi anni ha trovato appoggio sia su numerose compilation sia sull hyping di artisti come Tinariwen o Mulatu Astatke (due nomi su tutti). L approccio di Spoek va incontro alle avanguardie rock massimaliste degli Animal Collective, ai breakbeat sbilenchi (che annunciano nuove vie per l anystep) di Rustie e ai rimescolamenti dell immaginario UK con le proposte post-bbreaking di Africa Hitech. La visione dell uomo prende infatti i sample da una certa retro-tronica amante dei suoni cheap (Put Some Red On It), viaggia a cavallo di sentimenti in uptempo che potrebbero pure far rizzare le antenne agli indie-funksters meno ortodossi (Let Them Talk ha qualcosa in tasca dei Red Hot Chili Peppers più illuminati, Stuck Together è essenzialmente una ballad rock-blues) e spiazza con loop solari, alieni da categorie occidentali (Dog To Bone) alternando ossessivamente momenti squadrati a divagazioni in pseudo-liturgie per novelli nomadi o santoni post-moderni (ottimo in questo senso il collegamento ai suoni di James Ferraro nella titletrack). Il sentimento di spiazzamento, la continua volontà di alternare ritmi sincopati alieni dal 4-on-the-floor del classico breakbeat (vedi in questo senso il featuring di Okmalumkoolkat in Skorokoro), lo spezzettamento e la visionarietà fanno di questo nuovo disco un punto di indagine interessante su un certo tipo di afrofuturismo che si mescola alla perfezione con le visionarietà del wonky e con un hip-hop in parte votato al pogo. Un modo intelligente quindi di mantenere attive le radici e di utilizzarle per dire qualcosa sulla tensione irrisolta fra modernità e old-schoolness. Nel lavoro di questo profeta visionario del post-apartheid coesistono quindi passato e futuro in una buona (seppur migliorabile) mistura. Da seguire. (7.1/10) Marco Braggion Standard Fare - Out Of Sight, Out Of Town (Melodic UK, Dicembre 2011) Genere: Indie Gli Standard Fare sono un giovane trio da Sheffield con un The Noyelle Beat del 2010 alle spalle e un pop spumeggiante vecchia maniera nelle corde. Nello specifico, certi Belle & Sebastian filtrati da una wave dolcemente energica ed equamente distribuita tra chitarre di ispirazione Raincoats, basso solido e batteria pulita. Voce femminile ai comandi e ad aprire le danze una The Look Of Lust che ricorda il binomio Young Marble Giants / Cranberries, mentre il resto della scaletta ancheggia divertita tra certi R.E.M. prima maniera (Kicking Puddles), reggae europeizzato (Half Sister) e lo scoppiettio tipico di formazioni come Pete & The Pirates (Bad Temper). Ad impreziosire un dischetto che farà la felicità dei brit-wavers più sintonizzati, un vintagismo di dettagli abilmente rielaborato alla bisogna, come la chitarra à la Eddie Cochran (altezza C mon Everybody) che introduce la conclusiva Crystal Palatial o una Dead Future colta a rubare la progressione armonica alla If I Had A Hammer di Pete Seeger/Peter, Paul & Mary. Il resto è un dignitoso melodico post-adolescenziale immediato e godibile. (6.6/10) Fabrizio Zampighi STRi - Canyon (Self Released, Febbraio 2012) Genere: Dream Club Una delle peculiarità dell ultimo decennio è come, constantemete, certi generi vengano a legarsi con un determinato social network. Per l emo-core fu myspace, per l electro i blog, per la brostep tumblr e, in questo caso, la chillwave sembra incapace di staccarsi da instagram. Basta il leggero fuzz che aleggia sulle note, dovuto all eccesso di riverbero e filtri, per evocare tutta la serie di tinte violette ed azzurre che affogano le foto fatte con la famosa app. Allo stesso modo bastano pochi secondi per capire i toni e i preset con cui gli STRi hanno deciso di lavorare. L idea inseguita dagli STRi, duo di giovani da Pesaro, lungo tutto Canyon è semplice: prendere le 98 99

51 sonorità della chill-wave, spogliarle delle citazioni anni 80 e della struttura pop per renderle immediatamente fruibili sul dancefloor. Gli STRi si autodefiniscono Dream Club ma oltre il nome di riferimenti all italianissima Dream Dance di vent anni fa (nata come risposta emotiva alle stragi del sabato sera) c è poco. Le parti migliori del disco sono proprio quando il duo si concentra completamente nel trasformare Washed Out in musica da club. Deraglia quando ricerca una dimensione pop, come in Summerize e Caldo, finendo per ammiccare troppo alle tendenze più superificiali dell indie-rock e post-rock nostrani. Il risultato è che Canyon, invece di rievocare l Ibiza del 95, appare come Pesaro che sogna le feste milanesi che sognano la provincia americana di Toro y Moi. Con le ultime tracce entra in gioco pure una dimensione Tropical che fa comprendere come il grande problema del disco sia il suo costante tentativo di inseguire gli stilemi del momento e come gli STRi non abbiano ancora trovato una loro personale voce in cui incanalare le energie creative. (5.3/10) Antonio Cuccu Swahili Blonde - Psycho Tropical Ballet Pink (Neurotic Yell, Marzo 2012) Genere: tropical dub-wave Col comeback di Swahili Blonde succede un po quello che evidenziavamo il mese scorso per Your Light Like White Lightning degli Extra Classic. La riesumazione in forme attuali del dub giamaicano impreziosito dall appeal di chanteuse dalle voci particolari. L ex Weave! Nicole Turley, a cui fa grossomodo capo il progetto Swahili Blonde, è infatti il centro propulsore di questa sorta di wave dagli influssi tropicali, mantenuta sempre a medie battute e sporcata dal retaggio weird&pop dell americana. Fatto cioè di asincronie e stonature piuttosto che di linearità armoniche. Disposto allo zig-zagare tra curve a gomito e scelte anti -pop piuttosto che assecondare le traiettorie, pur sbilenche, di genere. Capace di mantenere la barra dritta in direzione popular - le melodie sono orecchiabili e la testa segue spesso ciondolante le evoluzioni del quartetto - ma rimanendo ancorato a forme altre. Abile nel dosare minutaggio e stramberie per non eccedere nel parossismo da freakeria né in quello da deja-ecoutè. Il funk spigoloso di Zelda Has It, l iridescente pop malinconico di Scoundrel Days (insospettabile cover degli A-Ha), il groove dubboso di Science Is Magic, quello virato tropical di Etoile De Mer e quello dreamin di Purple Ink dicono che Psycho Tropical Ballet Pink è, in definitiva, proprio quello che promette sin dal titolo. Un balletto in punta di piedi e virato al femminile di melodie fuori di testa e sognanti paradisi tropicali, con padrini sparsi tra label come Zè records e 99 Records, punti cardinali imprescindibili come Slits e Raincoats, e tanta voglia di sperimentare strade nuove. E sì, c è ancora John Frusciante alle chitarre. (7/10) Stefano Pifferi tack at - whelm (Mox/Loz Studio, Marzo 2012) Genere: electro wave Di fronte ad uno pseudonimo del genere come fai a non ripensare alla mossa del caro Roger Nelson quando - correvano i primi Novanta - per smarcarsi dalla marcatura asfissiante delle major decise di negarsi come Prince per reinventarsi Tafkap. Nella fattispecie le motivazioni sono diverse, ovviamente, ma in fondo è sempre un rendersi irreperibili, una dichiarazione di libertà, mettendo davanti al sé artistico la calligrafia e l estro espressivi. Tack at, quindi, ovvero the artist commonly known as technogod, una storia ormai quasi ventennale all insegna dell ibridazione tra rock carburato punk e un ventaglio di istanze electro wave e dub, tra materico e sintetico insomma come già scrivemmo nella rece del predecessore Pain Trtnment, ormai tre anni fa. Il combo emiliano lustro dopo lustro ha forse visto sbiadire il mordente, la presa sul contemporaneo, però come dimostra questo Whelm sembra averci guadagnato in disincanto. Si muovono scafati e irrituali tra le linee, con irriverenza antiintellettuale, umorismo scostante e arcigna intensità, troppo fisiologicamente scomodi per covare ambizioni radiofoniche (anche se la teatralità danzereccia di una Monochrome - nel solco tra Depeche Mode e New Order - o i trastulli electro clash à la Peaches di Sokola...) ma refrattari all alternativo ad-ogni-costo. Insomma, finché azzardano ibrido ingrugnito electro funky come Everybody Needs Somebody (Else) To Love, o prefigurano un Nick Cave in fregola Notwist come Thousand Yard Stare, o si giocano una Punk s In The Bank che ammicca i Wire più trafelati in salsa drum n bass (ospite Valenteena dei punk-rocker felsinei The Valentines), si limitano ad essere intriganti. Il bello arriva quando profilano il sound su modalità plasticose ultra 80 s, che sembra quasi lo facciano apposta a sconcertarti, a smazzarti i punti d appoggio. Vedi come la turpe Callboi sciorini black sintetica e wave bianchiccia scavalcando i Rapture all indietro per sembrare un Ray Parker Jr che sogna d essere Iggy Pop, o quella Atalantis Babylon che prefigura apocalissi di spazzatura declinando Greg Dulli al german pop di Michael Cretu. Niente po-mo a giustificare lo sconveniente meticciato, semmai una sfacciata mancanza di preconcetti e timori reverenziali. Ne risulta un ascolto stranamente leggero ma destabilizzante, affabile e sovversivo. (7.1/10) Stefano Solventi Tanlines - Mixed Emotions (True Panther, Marzo 2012) Genere: Pop, dream Per farsi un idea di chi sono i Tanlines, basta guardare con chi girano (chi va con lo zoppo, impara a zoppicare, no?). L esordio di Eric Emm e Jese Cohen da Brooklyn è nato negli opening di Vampire Weekend, The xx, Julian Casablancas e Delorean. Il link che emerge di più è proprio con l ultimo act: i Delorean avevano infatti provato (parzialmente riuscendoci) a ritradurre le gioie e i dolori dei Duran Duran nell atmosfera glo. Il plagio in carbon copy per il duo nordamericano è d ordinanza, la dose di remembering sterile è infarcita di tastierine à la New Order e di tutto il più barbaro synth pop che possiamo ricordare di aver sentito dall onnipresente eredità della decade con le spalline. L operazione non si smarca dalle origini, anzi copia senza emozionare e risulta statica, quasi noiosa. Superhyppati anche da Pitchfork, pubblicati in una sussidiaria synthy della Matador, i due provano a farci esaltare con qualche video con effetti speciali che rimandano a visioni lomografiche a 360 gradi (Brothers), cercano di sfondare piazzandosi in qualche compilation prêt-à-porter Kitsuné, si fanno mixare dall ingegnere sonoro Jimmy Douglass (Timbaland, Aaliyah, Television, Missy Elliot) ma non fanno che rivangare schemi obsoleti. Probabilmente sfonderanno in passerella o su qualche free press per anonimi commuters, ma le atmosfere superpatinate di Rain Delay (che guardacaso fanno il verso ai MGMT), le chitarrine power rock di Green Grass, le percussioni à la Toto in Abby e gli altri segnali di nostalgia su cui non vale la pena soffermarsi troppo, risultano fuori tempo massimo, cristallizzati e impolverati ancor prima di uscire dal cellophane. Torniamo ad ascoltare i più innovativi Righeira. Tanlines, per ora un occasione sprecata. (5/10) Marco Braggion Tennis - Young And Old (ATP Recordings, Febbraio 2012) Genere: Retro 60s pop Ad un anno di distanza dal debutto Cape Dory, tornano gli sposini dell indie pop americano Alaina Moore e Patrick Riley, in arte Tennis. Difficile immaginare un cambio radicale in così poco tempo ed infatti il sophomore album Young And Old non si discosta molto da quanto proposto all interno del primo album: It All Feels the Same più che il titolo dell opener sembra una dichiarazione di consapevolezza della poca varietà stilistica presente nel disco, ovvero estivo indie/twee pop con chiari riferimenti - anche visivi - agli anni 60 (da Petula Clark fino a sfiorare la Motown). Rispetto a Cape Dory si nota una leggera maturazione soprattutto a livello sonoro: meno lo-fi/fuzz (Origins) e più pulizia - probabilmente merito anche della produzione di Patrick Carney dei lanciatissimi Black Keys - rischiando però di rendere il prodotto complessivamente un po blando e statico (My Better Self) e di conseguenza facilmente prestabile al ruolo di background music. Young And Old non è un lavoro malvagio ma ancora ci sentiamo di rimandare il progetto targato Alaina&Patrick: meno coesi dei Summer Camp, meno trascinanti dei Cults e meno iconici dei Best Coast, i Tennis non riescono ancora a superare quella barriera immaginaria che separa gli artisti in grado di lasciare una piccola traccia ai posteri da quelli destinati ad essere dimenticati dopo qualche anno. (6.1/10) Riccardo Zagaglia Tetras - Pareidolia (Flingco Sound, Gennaio 2012) Genere: Elettronica, jazz Jason Kahn (già batterista nei leggendari Universal Congress, ma anche in anni più recenti nei Cut, solo per citare una delle formazione in cui ha impresso proprio stile e personalità) è habitué di tutto quello che può emergere dalla liberazione del jazz, chiamatelo free jazz o in qualunque altro modo. È una specie di Re Mida che, qualsiasi cosa tocchi, assume radicalità e stratificazione impro del punto di vista. Tetras non è un suo prodotto da solista, ma testimonia l incontro, a Zurigo, con l olandese Jeroen Visser (come lui formatosi negli Ottanta, a partire dalla partecipazione nei Flank, qui all organo) e con Christian Weber (al contrabbasso), che già aveva saltuariamente intrecciato il prorpio destino musicale con quelli di Kahn. Il taglio con cui i Tetras incidono i solchi del vinile è impro, ma di una grana che ricorda esperimenti di jam session psichedeliche dei Sessanta, nell allora sottobosco rock. Ricordate le alt track infinite di Interstellar Overdrive? O il thriller Set The Controls For The Earth Of The Sun? La prima lunga traccia di Pareidolia è qualcosa che vi si avvicina molto. I fraseggi ricordano quella capacità di guardarsi mentre si perde l orientamento. Eppure, laddove la circolarità dava un inizio e una fine, qui il brano affiora e torna in una caverna, per lasciare spazio agli altri tre

52 La struttura è semplice da descrivere. Quattro lati del doppio LP, quattro session. I toni si scuriscono, si diradano, intensificano, giocano su densità e chiaroscuri. Perseguono con tenacia il concept dell album, da cui deriva il titolo: far emergere elementi figurativi che assomigliano a qualcosa pur essendo prodotto della materia plastica. Come recita Wikipedia: la pareidolia è l illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale. La missione del disco è far pensare che la faccia della luna non sia un prodotto del caso, ma uno sguardo vibrante verso di noi. Tutto sembra o appare (vedi i sibili da serpente-roditore carrolliano della seconda traccia), ma è il prodotto di un contrabbasso, di synth, organo e batteria. Nulla di più. (7/10) Gaspare Caliri The Cranberries - Roses (Cooking Vinyl UK, Febbraio 2012) Genere: pop rock In equilibrio tra dream-pop, melodia&tradizione e poprock, era partita con il piede giusto la carriera dei Cranberries. Dopo il debutto Everybody Else Is Doing It, e il successivo No Need to Argue, raggiunsero il successo grazie ad una manciata di singoli (Zombie su tutti) che finirono dritti tra i tormentoni dei 90s. C è stato un momento in cui Dolores O Riordan rappresentava la giusta alternativa ai principali attori del brit pop inglese e all esplosione di gruppi post-grunge e punk-pop americani, ma la crisi fu inevitabile e i problemi della cantante e l ansia da prestazione portarono a To the Faithful Departed, lavoro confusionario e riuscito solo in parte, al quale fece seguito, tre anni più tardi, il più sereno e fortunato Bury The Hatchet. Servì a ben poco il mediocre Wake Up and Smell the Coffee a salvare una band, popolare oramai solamento nell Europa continentale, specie in quell Italia che stava contemporaneamente pagando il pensionamento degli Skunk Anansie. Seguirono due poco memorabili album solisti di Dolores O Riordan e arriviamo al presente con la reuinion a undici anni di distanza dal trascurabilissimo Wake Up and Smell the Coffee e Roses, il nuovo album aperto da un singolo, Tomorrow, che nel voler essere 100% classic- Cranberries, non è neanche da buttare (e qui la mano dello Smiths-produttore Stephen Street si sente), ma è forse l approccio rock di Schizophrenic Playboy a riportarli a una certa nostalgica dignità. Le buone notizie finiscono qui: i restanti episodi scorrono soporiferi (Fire & Soul, Waiting In Walthamstow, So Good), tra vocalizzi random (Losing My Mind) e, in generale, mancanza d idee sia negli arrangiamenti sia in scrittura. Modesto pop-rock di mestiere, Roses probabilmente finirà negli scaffali o nelle playlist dei fan meno esigenti, gli stessi che acquistarono a scatola chiusa la O Riordan solista. Niente Zombie, Linger, Dreams, Ode to My Family o anche solo una nuova Promises. (5/10) Riccardo Zagaglia The Excitements - The Excitements (Penniman Records, Marzo 2011) Genere: Rhythm n blues, Soul Retromania, dicevamo. Quella dell etichetta che decide di chiamarsi con il nome all anagrafe di Little Richard e di pubblicare generi minimo quarantenni con tanto di proclami contro i suoni sintetici che infestano la musica d oggi (che è forse la cosa più retromane di tutte, visto che era quello che i tradizionalisti dicevano - già fuori tempo - negli anni 80), al punto di dare l idea che loro i dischi li pubblichino anche in cd, non anche in vinile. O quella di un gruppo che compone il suo esordio con dodici cover soul/errenbì veramente ignote (nemmeno I Want To Be Loved è quella coverizzata dagli Stones sul lato B del loro primo singolo), e che dal canzoniere di colui che da il nome all etichetta scelgono praticamente l unico lento (Never Gonna Let You Go). Inutile aggiungere che di attualizzare i pezzi alle ultime tendenze del genere non si parla neanche: il disco ne è un festival ultra energico della versione più classica (Ike & Tina, James Brown, Otis Redding, tutti gli altri; qua e là anche un pizzico di Janis - la spruzzatina di modernità ), resa però alla grande da un gruppo che viaggia come una macchina da guerra, compensando in piglio, divertimento e sapienza quello che gli manca in attualità. E ciò anche grazie alla grande voce di Koko- Jean Davis, la cantante di origine africana cresciuta negli States e ora residente a Barcellona. Già, perché etichetta e gruppo non sono USA o UK, ma catalani. Le vie infinite della retromania. (6.9/10) Giulio Pasquali The Howling Hex - Wilson Semiconductors (Drag City, Gennaio 2012) Genere: rock Sono tedio e pochezza di contenuti a caratterizzare i quattro lunghi brani di questo Wilson Semiconductors. Ci si chiede dunque dove sia voluto andare a parare quel buontempone di Neil Micheal Hagerty, si cercano sprazzi di senso, tracce di cuore e barlumi di espressività, ma nonostante gli sforzi e la buona fede la risposta non cambia: da nessuna parte. Dimentichiamoci allora del fiero, folle cazzeggio iconoclasta dei migliori Royal Trux, così come della genuina sporcizia dei Pussy Galore, e accettiamo quest opera insulsa per quella che è, lasciando che sia la musica stessa a suggerire le proprie immagini. Dalla nebbia iniziano a delinearsi strane e inquietanti figure: Neil Young ridotto in un fondo di letto dopo un incidente, Rolling Stones con l Alzeimer e la bava alla bocca, Captain Beefheart dopo una lobotomia frontale, e avanti così, lungo le reiterate masturbazioni psichedelico-nostalgico-(e aggiungiamo)demenziali per chitarra e voce, davanti a blues rurali sciolti nell acido e nel tedio di una domenica passata a fissare il vuoto lasciato dal 69. In definitiva si salva solo il primo episodio, Reception (che non a caso è anche il più breve), oltre a una manciata di immaginette divertenti sparse qua e là, come il valzerino idiota di Play This When You Feel Low, carino finché non inizia a girarti la testa. Fosse il demo tape di un perfetto sconosciuto, qualcuno probabilmente lo eleggerebbe a disco del mese, nonostante sia davvero difficile negarne la sostanza triste e irritante. Ad ogni modo, che i radicalfreak più incalliti provino pure a dimostrare il contrario. (4.5/10) Antonio Laudazi The Internet - Purple Naked Ladies (Odd Future Records, Dicembre 2011) Genere: r n b/club The Internet è il nome - che suona oggi un po come il Nearly God di Tricky nel del side project di Syd Tha Kid e Matt Martians degli Odd Future, quelli di Tyler e di Swaaag. Questo Purple Naked Ladies sulla carta - ma anche a un primo ascolto - non sbaglia un colpo, è un disco di impeccabile r n b ultracontemporaneo. Eppure non ci ha convinto. Lo riascolti una seconda volta e scivola via ancora meglio della prima, e pensi che - sì - è proprio fico. Alla fine capisci che non ti lascia quasi nulla, è un buon sottofondo, con qualche momento particolarmente efficace. Si apre con una fusion-lounge che segnala subito le coordinate di riferimento, a cavallo tra la sensibilità insinuante e umida di Badu/Sa-Ra e certe cose suonate e voluttuose delle cerchia Brainfeeder (Violet Nude Woman). C è il velluto di un r n b perfetto per i preliminari (Love Song -1), c è la bossa black (She DGAF), c è un Pharrell Williams minore (Gurl), c è la take funky che dimostra la metabolizzazione dei classici (le tastiere rubate a Stevie Wonder di Lincoln), ci sono le parolacce (Cunt), le parole cattive (Cocaine), le featurer feline e sabbiate. Insomma, come ha dimostrato - ma con tutt altra personalità - anche un The Weeknd, c è tutto quello che serve per un sottofondo black clubby, sporco, ruffianissimo. Un disco costruito per essere fascinoso, ma di un fascino fatto di cliché, per quanto aggiornati, e alla fine molto convenzionale, molto allineato. (6.3/10) Gabriele Marino The Jezabels - Prisoner (Autoprodotto, Marzo 2012) Genere: art pop Il debutto dei The Jezabels è figlio perfetto di questi tempi nel pieno della fregola retromaniaca. E la lama che affonda di un altra tacca nel bozzolo del passato. Il quartetto di Sidney non si limita infatti a riarticolare forme e modi di un determinato periodo - nella fattispecie il pop in uscita dalla wave sul finire degli 80 s - ma tenta di recuperarne anche lo sfondo poetico, l ambientazione iperromantica, quel senso di realtà sovralimentata come condizione necessaria ad una nuova mitologia rockista. I troppo giovani (beati loro) per averne memoria diretta vadano a recuperarsi sul tubo (beati loro) i clip dei vari Cock Robin, Pat Benatar, Kim Wilde, Kim Carnes e via discorrendo. Tanto per farsi un idea di quell immaginario tanto più posticcio tanto più emblematico di un epoca bisognosa di additivi per compensare la perdita dell innocenza a livello del quotidiano. Oggi non stiamo molto meglio, anzi, e infatti presumo che avrà buon gioco questo Prisoner tra i seguaci del cosiddetto mainstream alternativo. Col suo estro arty colto al crocicchio tra Kate Bush, Stevie Nicks, Sinead O Connor, gli U2 appena redenti al verbo eniano, i Waterboys della frenesia onirica: vedi quel che accade - talvolta anche con una certa sfacciataggine - in pezzi quali City Girl, Peace Of Mind o la title track. Un enfasi che senz altro riverbera quella dei compaesani Arcade Fire, anche se rispetto a Butler e soci fanno la figura del serial tv patinato rispetto ad un cult di Spike Jonze (si ascolti e si veda all uopo il singolo Endless Summer). Il cerchio si chiude laddove tutte queste premesse conducono in prossimità della grendeur poprockista Coldplay, come in Horsehead e Deep Wide Ocean. Col vantaggio non da poco, rispetto alla piuttosto imbolsita band di Chris Martin, di poter contare su una scrittura fresca e intensa, nonché sulla considerevole voce di Hayley Mary. Un tempo avrei detto: scommetto che ne sentiremo parlare parecchio. Oggi, pure. (6.3/10) Stefano Solventi

53 The Xcerts - Scatterbrain (Xtra Mile Recordings, Marzo 2012) Genere: Pop Rock Scatterbrain è per gli Xcerts il secondo lavoro sulla distanza che conta, anche se quest album ancora non chiarisce bene - e in maniera netta - le attitudini stilistiche della band, in quanto il loro è un pop-rock elettrico troppo annacquato per essere amato dai seguaci del rock autentico e non abbastanza easy per rappresentare una valida soluzione pop. Una diconomia che non giova ai tredici brani in programma (più un paio di versioni alternative), perché le prime tracce in scaletta, come Tar Ok e Scatterbrain, ma anche la più lenta Distant Memory, denunciano un piglio piacevolmente acido, dove chitarra e voce distorta lascerebbero intendere un proseguio di grande appeal emozionale, invece la track list ha in serbo per l ascoltatore di turno diversi cali di tensione. La prima in ordine sparso è la melodiosa Gum, dalla quale affiorano i primi inneschi che non convincono, in quanto poco incisivi ed eccessivamente dimenticabili, come il gancio che segna Slackerpop, a dir poco deludente e priva di idee concrete. Idee che non ci sono neanche in Young (Belene), che si perde in un qualunquismo irritante, né tanto meno nella ballata senz anima He Sinks. He Sleeps, durante la quale difficilmente si può resistere nel premere il tasto skip del lettore. Peccato, poteva essere la buona occasione per assestare un colpo più convincente, perché i ragazzi hanno nel sacco delle buone risorse, e questo lo si evince quando - in rare occasioni per la verità - decidono di abbassare i toni per cercare qualche sfumatura espressiva in più. Peccato, perché alcuni momenti lasciavano ben sperare. Sarà per la prossima. (5.8/10) Roberto Paviglianiti Tindersticks - The Something Rain (Constellation Records, Febbraio 2012) Genere: chamber pop Dopo questo terzo album, il nuovo e lucidissimo The Something Rain, in poco meno di sei anni ci si ritrova costretti a descrivere i Tindersticks cianciando non più di banali ritorni e platoniche crocefissioni, ma solo di un eleganza più sussurrata, dell universalità della notte. Il terreno di caccia della band di Nottingham è lo stesso da vent anni, eppure; eppure si rinnova nonostante la continua marchiatura di sangue e gin su quell anima trafitta (tutti ce l hanno, ci rassicurano), bisognosa di litanie jazzy e voci baritonali, sempre di immersioni, raramente di ritorni, perennemente in ricerca; una visione diacronica dell amore affaticata eppur mai doma, arrampicata sull iconografia unica che la band di Stuart Staples è capace di dar di sé: le rincorse dell amore contro il tempo, tutti i sensi. Spulciando nella seconda giovinezza dei Tindersticks (gli impervi anni zero), dall orchestralità di The Hungry Shaw, passando per la schizofrenia colorata Falling Down A Mountain, si giunge a The Something Rain, così perlaceo, così ispirato, a rappresentare la nona variazione sul tema. L iniziale Chocolate, a riprendere l amore interrotto di My Sister (contenuta in Tindersticks II), tra colori pastelli e notti perse a declamarsi al nulla, un kurtwagneriano sogno ad occhi persi rotto dalla rincorsa in stile Sophia sul finale traboccante di fiati che scavano. A seguire, la marzialità di Show Me Everything (tra venature soul e gesti vocali quasi intimidatori) e il valzerino notturno di A Night So Still, così affossato tra rivoli di flanger e ripetizioni fumose, vi riconcilierà con storie notturne dall immobilità imparziale. This Fire Of Autumn rappresenta l episodio più atipico e devastante: una rincorsa trafitta da alcolici urli soul e assettata di fondali alla Claire Denis. Non c è un attimo di tregua tra ombre ballardiane (Come Inside) e continui ammiccamenti à la Roxy Music (Slippin Shoes), come se il tutto fosse un cuore spezzato nel bel mezzo degli ovattati e pieni anni settanta e non ancora ricucito. E così, l apparente dismissione di Medicine nasconde un aura coheniana da lascarci il fiato, accompagnata poi dall anima chamber(latina) di Frozen, infinita e singhiozzante, dove la voce si sovrappone disintegrandosi e lasciando gli scarti, l essenza, just hold you, hold you. Goodbye Joe chiude il sogno, tra rintocchi premonitori e lacrime sulla moquette, senza la voce di Stuart Staples, senza paure. Rispolverate il guardaroba, accarezzate il vostro vestito migliore, come dice Stuart, we are still drinking, laughing, crying, fighting and fucking. Aura di classicità nell aria, godimento per tutto il resto. (7.7/10) Federico Pevere Tomat June (Monotreme, Marzo 2012) Genere: ambient pop Dal primo al sei giugno del 2010 il torinese Davide Tomat, già songwriter per N.A.M.B e Niagara, registra sei ore di musica per un totale di trentasei tracce, componimenti che successivamente a una prima scrematura diventano ventuno e infine undici, masterizzati l anno successivo a Berlino. Associando a posteriori eventi storici (principalmente accadimenti aereospaziali) compatibili al registrato accaduti nell intervallo di tempo delle incisioni e spaziando lungo la storia dell umanità, Tomat imprime un personale sentire a una tracklist che tocca tanto le pose dream-shoegaze che abbiamo amato recentemente in Porcelain Raft, quanto naturali krauterie, ambient pop (Lovleyplace), cinematiche, indietroniche non lontane dal Boxeur The Coeur (1984) e drone music. L intero set è volutamente pensato per l ascolto immersivo in cuffia. Il paradigma Animal Collective è quasi onnipresente ma ben assorbito. Un bel letto in cui tuffarsi fatto al 90% di voci e al 10% da un sintetizzatore monofonico (ma anche da sprazzi di chitarra). (7/10) Edoardo Bridda VeiveCura - Tutto è vanità (La Fame Dischi, Marzo 2012) Genere: art pop Davide Iacono è un pianista e autore siciliano. Si era fatto apprezzare due anni fa con l esordio Sic Volvere Parcas, interamente strumentale, che oltre a far appuntare il suo nome sul catalogo dei runners italiani gli ha fatto guadagnare la considerazione di Cesare Basile, Amor Fou, Zen Circus e Franco Battiato tra gli altri, per i quali è stato chiamato ad aprire i concerti. Col sophomore spinge sull acceleratore realizzando un ordigno pop orchestrale che prende le mosse principalmente dagli ultimi Sigur Ròs, quelli della trepidazione panica, iperbucolica e carnascialesca, introducendo un canto flautato che spennella enigmi pastello tanto per suggerire una presenza sì umana ma pur sempre onirica. Fiati, vibrafoni, clap hand e un indolenza visionaria da Verdena fauni in Di roccia, morriconismo strisciante per visionarietà resinosa in Correnti del nord, vampe vaudeville Hidden Cameras su carretti siciliani e vibrazioni jazzy in Delfini, qualcosa degli intermezzi strumentali del Battisti di Amore, non amore in L alba dentro: scene da un immaginario espanso che tenta l impresa quasi impossibile di incrociare coordinate così lontane così vicine, astrazioni nordiche e miraggi mediterranei. L impressione del già sentito non ti abbandona mai, però a dire il vero neanche il senso di pura festa auditiva. (6.8/10) Stefano Solventi Voivod - To The Death 84 (Alternative Tentacles, Novembre 2011) Genere: trash metal punk To The Death 84 riporta alla luce una demo tape del 1984, incisa dai Voivod con il solito registratore a cassette sgangherato più una manciata di microfoni e girata per anni alla stregua di un bootleg tra i fan. Siamo appena dopo l esordio War And Pain, il che significa: trash metal/punk duro e puro (non per niente il disco esce per la Alternative Tentacles di Jello Biafra) e nessuno spazio per le successive sperimentazioni progressive, che avranno il loro picco creativo con Nothingface. E il classico pugno allo stomaco dunque. La scaletta prevede brani da War And Pain e il successivo Rrroooaaarrr più una manciata di cover che rende omaggio a Venom e Mercyful Fate. Batteria che è una scheggia, riffoni violenti, assoli acuti e veloci, cantato shouted, insomma c è tutto quello che farà la fortuna del genere di lì a poco con Slayer, Metallica e Megadeth (sono del 1986 Reign In Blood, Master Of Puppets, Peace Sells... But Who Is Buying?). Ma il gruppo canadese non ebbe mai un suono così pulito e sgrezzato. Il loro approccio era raw, punk quando non noise. Ecco quindi il motivo di questa uscita, la restituzione del tassello mancante al suo posto: i Voivod al massimo della loro ruvidità, captati in una registrazione - rimasterizzata dalla band stessa - che nonostante i mezzi a disposizione mantiene una qualità più che dignitosa, permettendo piena godibilità del contenuto. Prezioso per i fan e un ottimo punto di partenza per chi vuole avventurarsi nella storia di un gruppo che saprà cambiare pelle con successo nel corso degli anni, conseguendo tutto il respect che si deve agli sparuti metamorfi delle lande metal. (7.3/10) Stefano Gaz Wiley - Evolve Or Be Extinct (Big Dada Recordings, Gennaio 2012) Genere: grime Wiley non sta fermo un momento ed eccolo di nuovo con un album, autobiografico e autoaccusatorio, dice lui, quindi - ovviamente - autoapologetico, diciamo noi, presentato come il disco su cui più si è concentrato in tutta la carriera. La solita valanga di rappato grime uptempo sulle solite basi minimali dal profilo asciutto, ma troppo spesso a un passo dalla gag, vedi gli skit o giochetti-filastrocca come Boom Blast, con tanto di trucchetti elettronici e autotune sulla voce. Molto buone le due produzioni firmate Mark Pritchard ormai in mood fisso Africa Hitech, Scar e Money Man, ma sono le due perline di un disco che sarà anche concentrato (oltre che lunghissimo) ma suona soprattutto come un cartellino che andava timbrato per Big Dada. (5.5/10) Gabriele Marino

54 Young Magic - Melt (Carpark, Gennaio 2012) Genere: post-a. collective Il glo fi si interroga continuamente sul suo possibile futuro, in bilico tra facili retro/autocitazionismi e difficili innovazioni. Le coordinate di questo dualismo vengono esplorate criticamente nell esordio del collettivo fondato dall australiano Isaac Emmanuel (che viaggia con i vagabondi Melati Malay e Michael Italia) con base guardacaso a Brooklyn: i tre sfruttano alternativamente l eredità dreamy dei vicini Animal Collective, di Brian Wilson, dello shoegazing e di Neon Indian innestandola con percussività sintetiche di Bibio-warpiana memoria. La partenza del disco con Sparkly e Slip Time va via bene, la pillola scende facilmente, in maniera indolore. Il prosieguo si incaglia invece su fondali più barocco-ambient (Night In The Ocean è l ennesimo rimando ai Cocteau Twins tagliato con tastieroni iper-riverberati) e su nostalgie di basso esplorate da tempo dalla cricca Washed Out e Toro Y Moy (Jam Karet). Qualche colpo al cuore ce lo riservano comunque: il pseudo rap con armonie nipponiche di The Dancer, il breakbeat in uptempo di Drawning Down The Moon che trasforma il quattro delle drum machines in una colata di arpeggi e muri di sorrisi o la bella cavalcata quasi-acid nei break memori del meltin pot della Anticon in You With Air. L ennesima riproposizione di stilemi superati (almeno propositivamente dall ultimo James Ferraro) non aggiunge nulla al canone consolidato del glo. Utile come passatempo per hipster melomani (sono infatti stati agguantati dall hype-issimo SXSW 2012). Alle medie una volta dicevano: più che sufficiente (grazie anche a una produzione che scalda bene il cuore), ma potrebbe fare di più. (6.6/10) Marco Braggion Zac Nelson - Domain Of Pure Speculation (Second Family Records, Gennaio 2012) Genere: experimental pop Nella caleidoscopica visione musicale di Zachary Dein Nelson, sempre più un posto di primo piano sta occupando l uso del suo vero nome. Lo testimoniava Wicked Work It Out dello scorso anno, lo conferma questo Domain Of Pure Speculation, nuovo album uscito per la (ex) net-label italiana Second Family Records in cd cartonato. Le traiettorie sono quelle del suddetto lavoro, ovvero quelle portate al mondo principalmente con Hexlove. Ma quando gioca in proprio Zac ci mette anche un gusto pop non indifferente, capace di condensare in pochi minuti, diciamo nel tradizionale formato-canzone, un caleidoscopio musicale che è tutto fuorché tradizionale: onnivoro e ondivago, personale e trita-tutto, figlio dei propri tempi eppure in grado di (ri)miscelare i tempi andati per (ri)elaborare un gusto popular riconoscibile pure nei suoi infiniti frattali. Sia esso declinato nella nenia folkish virata droning di Teach Them To Read And They Revolt, nel prog seppellito e schizoide di The Scrutinizing Gaze Of Psychology e Enter The Cage Of Time, nella psych subacquea di The Great Anguish Of Mortal Intelligence, nelle forme weird-rock e sperimentali che ammantano il tutto, il risultato non cambia. L americano è uno dei pochi, follemente lucidi personaggi degni di attenzione nel marasma post-tutto dell attualità. (7.2/10) Stefano Pifferi Cujo Lewis Teague (U.S.A., 1983) Tra le trasposizioni dai romanzi di Stephen King, questa approntata da Lewis Teague (un piccolo aficionado dello scrittore del Maine, visto che dirigerà anche L occhio del gatto) è una di quelle che cade nel mezzo. Né troppo buona, né troppo orrenda. Nonostante i diversi sforzi di sceneggiatura e l impegno degli attori domina per tutto il film una tranquilla aria di mediocrità televisiva, da cui si salva parzialmente solo l ultimo quarto d ora a base di ferocia canina. La storia è abbastanza nota e a conti fatti altro non è che il consueto meccanismo di King, cioè quello di calare un elemento malefico, nella tranquilla e sonnolenta provincia americana, facendo in qualche modo detonare anche i piccoli vizi nascosti delle famiglie in apparenza felici. Quello che proprio non funziona è la retorica che sta dietro la metafora. King passa per essere un democrat liberal, oltre che romanziere senza peli sulla lingua, ma qui l intera faccenda dell adulterio non funziona. Sa troppo di escamotage da romanzo rosa. Quello che lo scrittore aggiunge per insaporire il piatto è l elemento perturbante. Il dionisiaco che irrompe nell apollineo come teorizza egli stesso in Danse Macabre. Questo diverso elemento può assumere qualunque forma. Altrove è stato una ragazzina con capacità telecinetiche (Carrie), da un altra parte è diventato una plymouth del 58 (Christine), e ancora un albergo (Shining) e persino un cimitero per animali (Per Sematary). Qui è un San Bernardo che per inseguire un coniglio (notare l allusione all Alice di Carrol) rimane con il muso incastrato in una buca e viene punto da un pipistrello. Tanto basta per trasmettere a Cujo, questo il nome del cagnone, la rabbia. Ma non una rabbia qualsiasi, quanto piuttosto una rabbia vendicativa, del tipo peggiore: la rabbia moraleggiante. Cujo infatti fa strage di persone infime e a causa delle corna messe al marito, rischia di finire tra le sue fauci anche la graziosissima e sempre in parte Dee Wallace Stone, qui nei panni della mamma adultera, che con il figlioletto porta la macchina dal meccanico e rimane chiusa nell abitacolo per ore intere, con l auto rotta, il caldo asfissiante e senza traccia di anima viva nel raggio di km, con la paura di essere sbranati del cane infernale di cui sopra. Il film procede senza nessuna scossa, troppo piatto e sonnacchioso per quasi tutto il minutaggio e bisogna aspettare la parte finale, con il cane in preda ad una legione di demoni, per vedere un po di carne al fuoco. Da notare la sequenza sufficientemente shock dell assalto dentro l abitacolo con il cagnone che salta addosso a Dee e se la sbrana per metà sotto gli occhi allucinati del figlio. Una parentesi abbastanza veloce purtroppo, perché per il resto il meccanismo attesa in macchina - depistaggio del cane - sorpresa per la sua presenza dietro la ruota posteriore - rappresaglia dell animale, si inceppa rapidamente e in qualche modo si finisce per guardar l orologio aspettando che arrivi il marito (il cornuto) a salvare la situazione. Tra l altro non salva proprio nulla, ma evitiamo gli spoiler. Va però dato atto al film di aver mostrato uno dei più riusciti cani aggressivi del cinema. Che poi in realtà furono usati qualcosa come cinque diversi animali, più una testa meccanica e persino un attore travestito da cane. Da notare la densa bava attorno al muso che fu ottenuta mischiando uova e zucchero. Infatti i tecnici ebbero non pochi problemi perché il cucciolone se lo leccava sempre tutto perdendo l aria da cane infernale che necessitava nel film. Antonello Comunale vhs Grindhouse

55 Gimme Some Inches #25 Questo mese scandagliamo il sottobosco con Burial Hex ed Expo 70, gli esordienti War e la penultima uscita della Phonometak Series, i Dune e Il Buio. Rigorosamente in vinile... Al momento ricollocata in Perù, a Lima, la Wallace non smette di sfornare dischi e dischetti in vinile, vivendo una eterna giovinezza. Ne sono dimostrazione questo mese due bei 10. Il primo è l ennesimo volume della Phonometak Series, il numero 9 e penultimo per l esattezza, con protagonisti ponti ad incarnare l animo più avanguardistico e sperimentale dell etichetta di Mirko Spino e del Phonometak Labs del sodale Xabier Iriondo. Da un lato, un grosso calibro dell impro mondiale come Evan Parker si accompagna a Walter Prati per due sessioni catturate live, col primo a tirare le fila del suono col suo irrefrenabile sax e il violoncello (in Sonanze) e gli electronics del secondo (in The Western Front) a contrappuntarne gli zigaganti movimenti, in un flusso cerebrale mai domo. Risponde sul lato opposto un altro duo: la batteria del figlio d arte Lukas Ligeti, mobile e irrequieta, rende le musiche più indefinibili e sfuggenti, soprattutto per l interazione col sudafricano João Orecchia, le cui elettroniche destabilizzano un procedere di matrice impro-jazzistica, portato a piena e disturbante completezza nella conclusiva Fox. L altro 10 targato Wallace si muove su tutt altri orizzonti musicali. I bolognesi Dune vanno di baratro noisecore come se non esistesse un domani, rinverdendo la linea italica al genere più che i referenti europei (Breach) o americani (Neurosis). Disperazione che gronda come lacrime di sangue da ogni riga di pentagramma (il rifferama post-sludge di Il Fiume Pt.II, gli stacchi emo-violence di Supernova) e da ogni parola urlata a fior di ugola (il growl cieco di Cannibale, il distacco schifato di Allarme) più una cover di Astronomy Devine resa alla maniera ideologica dei Voivod di Nothingface: traghettare cioè la psichedelia sul terreno delle musiche estreme. Tentativo riuscito in pieno. Prima di passare alle distanze lunghe, segnalazione d obbligo per Via Dalla Realtà, 7 de Il Buio, quintetto di Thiene già noto alle cronache rock. Due pezzi - la title track dal tiro punk-autorale e un po psych-pop e una cover di Inno Generazionale Di Noi Sfigati di Andrea Caso Casali bella tirata - che si fanno apprezzare per piglio irriverente e freschezza realizzativa tanto quanto l artwork in piena linea Corpoc. Box in cartoncino ondulato serigrafato in tre colori (verde acido, blu notte, polvere luminescente), opera di Davide DoctorGonzo Zetti molto in linea con ciò che apprezziamo qui a Gimmes. Sulla lunga distanza del 12 segnaliamo le uscite targate Sound of Cobra. La label italo-berlinese mostra due gioielli di levatura internazionale, entrambi single-sided: Hovering Resonance di Expo 70 e In Psychic Defense di Burial Hex. Justin Wright mette sul piatto due lunghi movimenti cosmic-dronici as usual: la title track è sospensione pura di riverberi estatici su uno statico letto blu spazio profondo; Moon Raga invece inspessisce il suono e si fa se possibile più minacciosa, proprio come le avvisaglie di un nemico lontano e sconosciuto. Dietro Burial Hex si cela un altro solo-artist, Clay Ruby, avvezzo a pubblicare montagne di release in ogni formato, così come a muoversi tra generi di confine. In questo 12, in compagnia di Troy Schafer, sembra che l americano voglia omaggiare i maestri Coil, quelli del periodo Musick To Play In The Dark, tanto è oscura ed elegante la materia che infila nell unica traccia. Una ossessiva litania made in Coil si diluisce in un apparato post-classical per concludersi in paludose melme hauntedwave, sfruttando, guarda caso, lyrics da un antico inno all arcangelo Michele. Esoterismo a go-go. Gustose novità anche dal fronte nordico. È con fibrillazione infatti che accogliamo At War For Youth, il primo singolo dei danesi War, licenziato da pochissimi giorni da Sacred Bones. Duo di Copenhagen formato da Elias (cantante dei tanto chiaccherati Iceage) e da Loke (singer dei black-metal Sex Drome e tenutario della label locale Posh Isolation), i War aggiungono il tassello mancante al sentiero precedentemente tracciato dai sodali Lust For Youth. Elettronica fatta in casa a base di synth e massicci dosaggi di pattume sonoro. Già un paio di cassettine oscure e all attivo (una di cui split proprio con gli svedesi LFY) ed ecco Brodermordet, lato B ma vera hit del 7, come un classico house Chicago annegato nella candeggina. Il nome sta già girando sui blog giusti quindi fareste bene a prestare attenzione! Sempre dai paesi scandinavi arriva il secondo capitolo (almeno per quanto riguarda le pubblicazioni su vinile) della discografia di Street Drinkers, nome che abbiamo già avuto il piacer di sottoporvi su queste pagine. Il progetto solista di Viktor degli (ormai defunti?) Ättestupa giunge infatti al secondo 12, proprio per la label appena citata del danese Loke. Quattro i pezzi che compongono questo Dead Secrets in cui l allampanato vichingo ripulisce, scarnificandolo, il sound così dannatamente impastato in precedenza, costringendo le sue precedenti digressioni in perimetri da forma-canzone. E anche breve, se è vero che tre pezzi su quattro sfiorano appena i tre minuti di durata. Ma questo è il solo appunto che si può fare al nostro loner preferito, perché per il resto il tocco magico intriso di mestizia e disperazione è rimasto intatto, se non rafforzato. Ancora una volta dovremo attendere per un full-length vero e proprio ma per amore questo ed altro. Tornando in patria e verso più miti sonorità, ritroviamo i veneti Vermillion Sands con un nuovo 7 per la ubiqua Shit Music For Shite People, già artefice dei debutti di Capputtini i Lignu e Vernon Sélavy. Su Summer Melody, manco a dirlo, ancora due pezzi di quel garage-folk campestre e scanzonato che ce li ha fatti apprezzare nelle precedenti uscite e che gli ha procurato la meritata attenzione da parte di fan europei e americani. Il consueto packaging in carta da pacchi serigrafata dai ragazzi della label arricchisce l uscita con un tocco di personalità casereccia. Stefano Pifferi

56 Re-Boot #24 Un mese di ascolti emergenti italiani Non è ancora primavera, ma nell orticello del rock italiano emergente sboccia di tutto. Non ha mai smesso di farlo. Il nostro consueto raccolto mensile. In attesa che il nuovo decennio riporti in auge certe sonorità Nineties, ci si ritrova periodicamente a fare conti con ostinati eredi del postgrunge. Ci pensano i romani Madkin col disco d esordio Perdone la molestia (autoprodotto, 6.5/10) a prendersi il disturbo di riaccendere il sound di Seattle, quello rabbioso e senza mediazioni dei Nirvana di Incesticide (Bandwagon). Le pesanti chitarre distorte insistono sui ritmi circolari (Orange Milagres e Shihong) dei primi Smashing Pumpkins, il basso insiste ossessivo su giri ripetitivi à la Desert Sessions (Intro For Lovers In Flames) e il cantato aggressivo di Serena Pedullà, la cui attitudine vocale ed estetica richiama la Courtney Love di Live Through This, parla di solitudine giovanile e di rifiuto della cultura dominante, nella forma tipicamente individuale ed individualista degli anni duemila (Psycho Popular Shit). Il tutto sostenuto da un buon livello dal punto di vista tecnico. Inizia come un album di ambient drone, poi parte la chitarra acustica e capisci di esser di fronte ad un album brit rock, dalle parti di Travis o giù di lì, collocazione stilistica che può far impazzire o esser giudicata inutile, mentre inopinabile è la mancanza di grossi difetti in The End, The Start (Isaac Gravity Records, 7.2/10), album di debutto del duo marchigiano 2 A.M.: la produzione cristallina, l interpretazione vocale convincente e la calligrafia curata aiutano a piallare le scheggie proprie delle opere prime ed a catapultare l LP verso un pandemico alto gradimento. Si ascoltino I Cannot Cry o la più tesa PG tanto per farsene un idea. Probabilmente cadranno velocemente ed il prossimo futuro li vedrà impegnati a rimanere in equilibrio sulla cresta dell onda, ma per ora un posto là in cima se lo meritano eccome. Veneti trapiantati a Roma, i Soluzione riassumono new wave e pop in una via di mezzo tra Paolo Benvegnù (L esperienza segna), i Perturbazione (Anni settanta), ma anche certe progressioni baustelliane. Il trait d union tra L esperienza segna (Jost, 6.7/10) e l immaginario a cui il gruppo s ispira è sancito anche dalla collaborazione di Federico Fiumani, Mao e Garbo, oltre che da una mescolanza di synth pop (Intermezzo uno) e citazioni New Order (Infettami). Fa da corollario un interesse per la parola scritta che in passato ha portato la band ha collaborare con Manlio Sgalambro e col festival della letteratura di Modena. Il secondo disco del trio va oltre il citazionismo spicciolo e costruisce una declinazione plausibile di modelli estetici che comunque lasciano spazio a una certa interattività tra generi (il prog pinkfloydiano di Pensiero in movimento). Abbastanza fuori fase da mescolare un funky-soul (Freakin Monsters, Bee Hive), beat-psichedelia sotto speed (43 Sunsets), wave-disco come la suonerebbe Jamiroquai (Rollercoaster), un Barry White con quaranta chili in meno (True Romance), certi Franz Ferdinand didascalici (Hey!), folk (Santhe) e una spolverata di prog fulminante: loro sono i Thomas, sestetto di Aqui Terme col vizio del dance-floor e i pollici costantemente alzati. Mr. Thomas Travelogue Fantastic (Automatic, 6.9/10) è il loro disco d esordio e se cercate dei fricchettoni disinteressati all hype e totalmente votati alla musica, il consiglio è di non lasciarseli scappare. Jesus & Mary Chains, My Bloody Valentine e di rimando i nostrani Cosmetic: l estetica di riferimento dei bresciani Le case del futuro sa di chitarre elettriche acide e ingombranti e space-floating à la Animal Collective, uniti a un cantato evocativo poco interessato alla profondità dei significati e molto all integrità dei suoni. E infatti sono proprio quelli la parte migliore di Lucertole (Disastro, 6.7/10), assieme a una scrittura particolareggiata che sa sterzare al momento giusto (i Bluvertigo ripieni si synth di Brucia Parigi, le cineserie sintetiche di (Due) mostri sulla luna), prima di suonare troppo familiare. Nonostante le premesse siano in linea con gran parte del revival shoegaze in voga ultimamente, nelle dieci tracce di questo esordio spiccano momenti di freschezza naïf, non ultimo il Beck fuori posto de L ultima e gli sprazzi di beat di Acqua alta. Il post rock dei catanesi Aetnea, trio sperimentale impasticcato di avanguardia, dub, rumorismo e orientalismi (l esplicita John Cage, Vartan Dub, Béla Bartok, Contrappunto), si affaccia sulla tavola imbandita delle autoproduzioni come l ennesima dimostrazione di vitalità musicale del nostro meridione. Collettivo onnivoro, propongono con il loro album omonimo (autoprodotto, 6.7/10) una personale e innovativa rivisitazione analogico/digitale del lavoro cominciato dagli Ulan Bator di Polaire, portandone il testimone in territori solo in parte già esplorati, con convinzione e sicurezza. Coraggio, avanti così. Pirotecnica, polimorfa, divertente, eclettica, violini e flauti handclapping e cori, piani puntellati, orchestrazioni vivaci, aperture melodiche immaginifiche, e poi tanti colori: questa è la musica di Unhappy The Land Where Heroes Are Needed Or Lalalala, Ok (autoprodotto, 6.9/10), dei campani Il cielo di Bagdad. Otto pezzi di musica vitale, pronta a contaminazioni improvvise, che ci trascina in un universo pop barrettiano e di campestre allegria: sorprendente come lo furono i Manitoba di Up In Flames, questo collettivo, attivo dal 2005 e vincitore del premio miglior live al MEI 2009, getta il bus del Magical Mistery Tour in uno spericolato fuoristrada: e qui si vola, tenetevi forte! Punto di partenza piuttosto evidente per il sestetto L Altalena sono i Quintorigo di John De Leo, nelle atmosfere come nell incrocio dei timbri e nell uso - talvolta - della voce. E hai detto niente, si potrebbe commentare. Tant è che l omonimo album (Rumore Indipendente, 6.6/10) si avvale di un approccio frizzante e ritmato, colorato da sax e viola, nel quale si spazia tra libertà jazz e ricami malinconici, languidi notturni (Linee Nere) e giocose digressioni folk popolari (Daddo punto doc). A convincere maggiormente, all interno di un apprezzabile eterogeneità, sono proprio i momenti più derivativi: la metrica irresistibile di Forse, l ambiguità sottovoce di Meno otto minuti, le armonie ricercate e la cantabilità della ballata Sfocata. Nel complesso, nove piccoli sguardi sulle cose e testi ben scritti, con qualche momento morto di troppo e alcuni guizzi creativi che fanno davvero ben sperare per il futuro. Viola Barbieri, Fabrizio Zampighi, Fabrizio Gelmini, Antonio Laudazi, Simone Caronno

57 DecaDance Ritorna una delle sigle più amate di sempre non solo in ambito darkwave. Vita, morte e miracoli della compagine di Brendan Perry e Lisa Gerrard. Testo: Antonello Comunale R e a r v i e w M i r r o r s p e c i a l e 2012! We have started working on the album and the World Tour is taking shape...we will be announcing news in the coming weeks!. Un annuncio ad effetto su Facebook è una cosa che non ti aspetti dai redivivi Dead Can Dance. Eppure... Proclama lampo ad inizio anno sul social network e passaparola che corre all istante in tutte le direzioni con corredo di annessi e connessi, ovvero da un lato le classiche odi di gioia e dall altro le immancabili Dead Can Dance critiche di opportunismo commerciale. Nemmeno due figure così legate al demodé come regola di vita e d arte hanno potuto evitare il consueto plot di tutte le reunion di questi anni. Questa volta però, è parso subito evidente lo scarto tra il loro estetismo fuori d epoca e i mezzi contemporanei del web 2.0, con la consapevolezza, che dopo tutto, i DCD non erano mai davvero scomparsi. Vuoi per le colonne sonore hollywoodiane di Lisa Gerrard, vuoi per i dischi solisti di Brendan Perry, vuoi perché già nel 2005 erano riapparsi con tanto di tour e vuoi per un fittissimo reticolo di influenze che si è accumulato sottotraccia nel suono contemporaneo nelle più diverse direzioni, siano essere più o meno rock oriented, al punto da far diventare quello dei Dead Can Dance un suono paradigma, quasi un sinonimo utile per un intero genere, nella stessa misura svogliata con cui i Beatles stanno al pop, i Rolling Stones al rock n roll, i Nirvana al grunge, i Pink Floyd alla psichedelia. Poi non è un mistero che chi li ha sempre seguiti, considerasse Spiritchaser tutt altro che come il capitolo finale della loro discografia. Al resto ha contribuito 4AD che ha continuato a capitalizzare sul loro suono nello stile che più gli è consono, quello cioè di stampare e ristampare lo stesso catalogo, con continue versioni rimasterizzate e su supporti sempre più sofisticati, consapevole di stuzzicare il feticismo collezionistico degli audiofili. Una vicenda quella dei DCD che si è allontanata progressivamente ed in modo costante dalle caverne gotico-punk degli esordi e si è trasformata in una rilassata meditazione culturale di tipo salottiero/borghese. Ma all inizio la storia dei DCD nasceva sotto i nefasti auspici della new wave dei primi anni 80, in quel di Melbourne dove Brendan Perry si allenava nella palestra post-punk degli Scavengers, presto ribattezzati Marching Girls. Formazione dei primordi, che viene presto abbandonata in seguito alla scoperta dell elettronica, delle tastiere, dei tape loops, ovvero della strumentazione ideale all epoca per chi volesse praticare con la genesi del suono, con la ricerca delle timbriche più sperimentali. Perry si rivela infatti subito un esteta del suono più ricercato e l incontro sia affettivo che creativo con la Gerrard getta le fondamenta del progetto DCD nella cui prima formazione rientrano inizialmente anche Paul Erikson, e Simon Monroe. Questi ultimi due si dimostrano la costola più propriamente australiana, che può essere facilmente abbandonata nel momento in cui Perry e Gerrard decidono di traslocare in Inghilterra e stabilirsi a Londra alla ricerca di un ambiente più ospitale per le sonorità che andavano creando. E il 1981 e i DCD, nella classica formazione di duo, replicano l esperienza dei compatrioti Birthday Party, che una volta lasciata l Australia vengono accolti a braccia aperte da Ivo Watts-Russel della 4AD etichetta già di culto all epoca per il catalogo gotico-new wave che aveva messo insieme. Forse non del tutto a caso, ma merito di una visione assai lungimirante della scena musicale e delle qualità creative della propria label, Ivo Russell si trova per le mani due della sigle più importanti e influenti della decade, i DCD e gli scozzesi Cocteau Twins che avevano cominciato le pubblicazioni per la label con i rivoluzionari ep Lullabies e Peppermint Pig. Un demo tape che Perry e Gerrard avevo fatto recapitare al boss della label inglese viene presto arrangiato ex novo e prodotto con tutti le dovizie del caso presso i Blackwing Studios nell estate del Il risultato è il primo album omonimo che genera subito molta curiosità per la copertina e per il fascino mortuario e decadente del nome della band, una cosa che in parte gioverà alla loro carriera, in parte gli resterà attaccata come una sigla di comodo. A tal riguardo le parole di Brendan Perry, ripetute a più riprese nel corso di diverse interviste, dovevano servire a sgombrare il campo dagli equivoci, anche perché le intenzioni sembravano essere tutt altro che morbose. Il nome Dead Can Dance faceva riferimento ad una maschera rituale della Nuova Guinea (quella che appare sulla copertina del disco) e sul concetto di vita dopo la morte, che è insito nell atto creativo. La maschera sopravvivendo all artista che l ha creata, farà in modo che anche dopo la sua morte il suo spirito continuerà a vivere nelle danze cerimoniali: Volevo un nome che fosse rappresentativo del processo creativo di per sé. Se osservi l atto stesso della creatività ti accorgi che è come portare qualcosa alla vita. Pensavo che funzionasse soprattutto con le arti plastiche, per il lato inanimato degli oggetti e l uso di diversi materiali necessario per ridargli vita. Molte persone, e tra queste sicuramente i giornalisti, giudicano il libro dalla copertina e senza che si andasse molto in profondità nell analisi della musica, la band è stata relegata facilmente nell oscurità. Infatti quando il disco omonimo appare nei negozi, i DCD vengono rapidamente accomunati alla gothic wave di Bauhaus, The Cure e Siouxsie and the Banshees. Nella musica c è sicuramente molta della maniera della new wave dell epoca, ma lo scarto rispetto agli altri è già abbastanza evidente. Innanzitutto una gestione dei ritmi dalla coloritura tribale che contri

58 buisce a dettare i tempi di una musica che rifugge in maniera ossessiva l attualità. Il tempo dei DCD è una misura indeterminata che serve a simulare una serie di divagazioni dall afflato mistico, liturgico e necessariamente cerimoniale. Il paradigma in tal senso è rappresentato da brani come The Fatal Impact, Frontier e soprattutto Ocean, madrigali arcani su cui appare come un eco ultraterreno il canto ascetico della Gerrard che contribuirà non poco ad identificare non solo il suono della band, ma della 4AD e del suono inglese dell epoca, condividendo parte di questo peso con l altra ugola d oro della label, quella di Elizabeth Frazer. Rispetto a quest ultima, la Gerrard è più ieratica, quasi intimidatoria nella sua solennità. Di contro il taglio più caldo di Brendan Perry, che non senza una vena di sarcasmo qualcuno definì crooning alla Frank Sinatra o alla Charles Aznavour alimenta abilmente una dualità uomo/donna che nell economia del loro suono diventerà presto fondamentale. Subito dopo il successo del primo disco 4AD batte il ferro finché è caldo e pubblica l ep Garden Of The Arcane Delights che segna un evoluzione nella formula abbastanza grezza dell esordio. I poliritmi di Carnival Of Light contribuiscono a dare un tocco esotico ad un tribalismo già assai pronunciato, mentre In Power We Entrust The Love Advocated è un primo esempio del canzoniere classico di Brendan Perry. Nel mentre i DCD contribuiscono con due canzoni al primo disco dei This Mortal Coil It ll End In Tears, sorta di zibaldone del canone 4AD che diventa ben presto sigla di eccellenza per la visione artistica di Ivo Russell. In definitiva, una sorta di appendice al disco d esordio che prepara il terreno per il primo grande turning-point della carriera dei DCD, quel Spleen And Ideal che da li in poi contribuirà in maniera determinate all iconografia monastico-liturgica della coppia Perry-Gerrard. Traendo ispirazione dal decadentismo francese ed in particolare dai Fiori del Male di Baudelaire, dove viene trattato in un intero capitolo il concetto dello spleen esistenziale e dell anelito di ciascuno individuo verso una realtà ideale fatta di elevazione dalle umane miserie, i DCD trasformano i bozzetti tribali dell esordio in una messa nera, scandita da gong, campane, cori, organi e un intera sezione d archi, smarcandosi del tutto dalla scuola new wave e dirla tutta da qualsiasi prassi propriamente rock. Arrivano così il canto liturgico di De Profundis (Out Of The Depth Of Sorrow), con chiusura malevola di cori monastici; la marchia funebre di Ascension, che si stempera in un volteggiare metafisico e l eco della Gerrard che arriva come da distanze siderali; l esotismo venato di turgore medioevale di Circumradiant Dawn e le fanfare che fanno da contraltare al balbettio di The Cardinal Sin. Il secondo lato infila un capolavoro dietro l altro: Mesmerism, voce arcigna della Gerrard su tappeto percussivo e frase densa di synth; la marcia regale di Enigma Of the Absolute che fa il paio con la The Cardinal Sin del primo lato, il dittico Advent / Avatar dove il goticismo della messinscena si alimenta tanto al canto altero di Perry, quanto alla malìa stregonesca della Gerrard, per chiudere con Indoctrination (A design of living) che è la maniera di Brendan Perry di trasportare Peter Gabriel nel XVII secolo. Da qui in poi i Dead Can Dance diventano l emblema del gotico medioevale. Immagine che mai davvero ripudiata, seppure con qualche aggiustamento di tiro da parte dei due, contribuisce ad identificarli rapidamente come se non fosse sufficiente la già estrema particolarità del suono. Dopo tutto un modo anche molto spregiudicato di fare marketing di se stessi. Sul fronte più strettamente musicale, tanto Brendan Perry quanto Lisa Gerrard si fanno se possibile sempre più raffinati, alla ricerca di maniere sempre più particolari di coniugare il proprio verbo musicale. Si arriva così all estate del 1987 e al loro terzo disco Within The Realm Of A Dying Sun, sulla cui copertina svetta la lapide di François-Vincent Raspail, nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi. Quasi a testimoniare il pari peso che entrambi hanno all interno dei DCD, degli 8 brani presenti sul disco, i primi quattro sono firmati da Perry, gli altri da Gerrard. Gli esperimenti con l orchestra di Spleen And Ideal vengono portati alle estreme conseguenze, perché questo è un disco prettamente sinfonico e su cui la sezione d archi ha un importanza capitale. L iniziale Anywhere Out Of The World si incarica di dare le coordinate al lavoro, mostrando la geniale maestria di Perry nell arte dell arrangiamento. Da un lato un tappeto di campane e organo, dall altro un pulsante basso elettronico. Di contro Windfall è un palese excursus nella musica da camera che si stempera nella marcetta fatalista di In The Wake Of Adversity e nella sacrale messa in scena di Xavier. Il secondo lato è quasi interamente dedicato alle scenografie stregonesche della Gerrard. Dawn Of The Iconoclast è un thrilling carico di tensione, su cui la voce svetta carica di cattivi presagi. Cantara, non a caso uno dei brani più richiesti nel loro repertorio, è un traditional arrangiato totalmente ex novo, con una prova straordinaria della Gerrard impegnata in una serie mozzafiato di flessioni vocali. Summoning Of The Muse è il loro classico repertorio da medioevo, mentre la conclusiva Persephone (The Gathering Of Flowers) una delle loro evocazioni più sinistre. Cadenzato passo di marcia, la voce che stentorea sale scale sempre più alte, su fino all etereo climax finale. Un altro dei loro capolavori. E una musica che palesemente si chiama fuori dal tempo per trasportare l ascoltatore ovunque fuori da questo mondo. L immagine dei due si adegua alle coordinate della musica. Perry con capelli da paggetto scozzese e pizzetto da trovatore medievale, Gerrard con una corona di capelli stile rinascimento. E il 1988 e il duo pubblica il quarto acclamato disco The Serpent s Egg, l ultimo concepito come copia d amore e d arte. Registrato per lo più in un appartamento dell Isola dei Cani, nell East End di Londra, The Serpent s Egg è il vertice della scenografia narrativa dei DCD. Da qui in avanti, pur cambiando di volta in volta coordinate, i due non varieranno più la formula che mai come in questo caso trae linfa vitale del dualismo uomo/donna. L iniziale Host Of Seraphim è uno dei capolavori della loro produzione. Un lungo tappeto d organo serve un madrigale mistico che si rivela rapidamente un pretesto per una delle prove vocali più emozionanti della Gerrard. Una performance che non a caso finisce per essere ripresa più volte dal cinema a mo di soundtrack, e che fornirà successivamente le basi per la sua carriera solista. Tutto il disco torna un po sulle coordinate ascetiche di Spleen And Ideal, ma mettendo sul piatto una serenità mistica che è dettata dalla maturità dei due. Esperimenti come Orbis De Ignis e Chant of the Paladin servono a fare da scenografia: misticismo medioevale, speziature esotiche, venature tribali, folklore arcaico. Tolti questi e la mozzafiato prova iniziale, il disco presenta diversi vertici del loro canzoniere. Innanzitutto l austera severità di Severance, che non a caso sarà ripresa qualche anno dopo dai Bauhaus, il madrigale mesto di The Writing on My Father s Hand e i rintocchi onirici della tenebrosa In the Kingdom of the Blind. Le venature più propriamente etniche vengono portate in evidenza in Echolalia e nella strumentale Mother Tongue. La chiusa di Ullyses è come il modo di Brendan Perry di calare il sipario su una rappresentazione fatata. I due sono a questo punto diventati i best sellers della 4AD e il loro status di culto ha ormai ampiamente superato i confini europei, permettendogli di tenere un intero tour americano senza che nessuno dei loro dischi fosse facilmente reperibile. La coppia, affettivamente parlando, si sfalda definitivamente, ma questo non gli impedisce di portare a termine Aion, quinto disco registrato a Quivvy Church, la nuova residenza irlandese di Perry. Aion per molti è la quintessenza dei DCD a cominciare dall immagine della copertina che riproduce un dettaglio del pannello centrale del Giardino delle Delizie di Hyeronimus Bosch, immagine scelta appositamente da Brendan Perry stesso e che ancora una volta riecheggia il simbolismo ancestrale della copia uomo/donna e l archetipo della tentazioni terrene in contrapposizione agli afflati mistici che tendono all eterno. Lo stile è la conseguenza palese del precedente disco e con l uso di strumentazioni storiche e finanche l uso di scale e forme di scrittura e testi dell epoca, si incardina lungo un arco temporale che dal medievale arriva al rinascimentale. La ricerca filologica qui è al suo

59 massimo. Saltarello riprende una vecchia danza italiana del quattordicesimo secolo, mentre The Song of the Sibyl fa riferimento ad un traditional catalano del sedicesimo secolo. Si avverte che l obiettivo questa volta è proprio la messinscena virtuale di un mondo che non c è più, cercando di riprodurre un umore, un atmosfera che non esiste. Si spiegano così il minutaggio contenuto di frammenti che stanno li a fare da corredo e colore: Mephisto, The Arrival and the Reunion, The Garden of Zephirus, Wilderness. Gli architravi su cui poggia il disco sono però l iniziale As the Bell Rings the Maypole Spins, dove si notano le cornamuse scozzesi suonate dal fratello di Brendan Perry, Robert, e le ballate dark Black Sun e Fortune Presents Gifts Not According to the Book. Aion segna una spaccatura sensibile nella loro storia. I due vivono ormai completamente separati. Se Brendan Perry si trova il suo buen ritiro su un isolotto al centro dell Irlanda, la Gerrard di contro torna in Australia dove mette su famiglia. Nel corso di tre anni, la separazione affettiva tra i due riesce a trovare una felice via di cura attraverso la musica e seppure separati da chilometri di distanza i due trovano il modo di concepire Into The Labyrinth, che viene concepito dapprima separatamente, ciascuno per il proprio lato e poi successivamente nello studio irlandese di Perry dove la Gerrard si reca per registrare le sue parti per un periodo di tre mesi dove i due si ritrovano a convivere. Ispirato alla tragedia greca del labirinto e del minotauro Into The Labyrinth è il disco più accessibile della coppia, forte di un arrangiamento lontano anni luce dell estetismo arcaico del precedente lavoro. L elettronica di Perry ha preso da un lato il sopravvento, così come le inflessioni maggiormente celtiche, ma di contro il tribalismo che viene portato in dote dalla Gerrard ha la meglio sulle fascinazioni medioevali dell altro. Si ottengono così brani come Yulunga (Spirit Dance) e soprattutto The Ubiquitous Mr. Lovegrove che è forse la loro prima vera hit da classifica, forti come sono stavolta di una distribuzione che riesce a coprire in modo adeguato anche il territorio americano grazie ad una accordo tra la 4AD e la Warner Brothers. Non mancano neanche stavolta piccoli capolavori come The Carnival is Over che è una delle ballad di Brendan Perry maggiormente stimate dal popolo dei deadheads così come carica di suggestioni è la complessa trama di Towards The Within, che segna un ulteriore scarto nella loro maniera di fondere esotismo con tribalismo. Il risultato finale è un disco abbastanza sui generis nell articolato catalogo dei due. Vuoi per la diversità degli arrangiamenti, vuoi per la ritrovata serenità con cui la coppia si è riunita sotto il cielo di Irlanda, sta di fatto che Into The Labyrinth segna un allontanamento sensibile dal lirismo mistico, a tratti quasi ossessivo, degli esordi e di dischi intensi come The Serpent s Egg. Che i tempi siano diversi lo testimonia anche il live Towards Of The Within che fotografa un esibizione dei DCD al Mayfair Theater in Santa Monica, California, tenuta nel novembre del 1993, dove la coppia fa sfoggio della propria verve live e soprattutto dove vengono suonate canzoni quasi esclusivamente inedite (solo quattro appaiono su precedenti album) mentre due verranno riprese nel disco di debutto solista di Lisa Gerrard, The Mirror Pool, pubblicato due anni dopo sempre dalla 4AD. Un lavoro che si lega integralmente all esperienza DCD, non foss altro perché molto del materiale risale ad outtakes, che coprono un periodo vasto che va dal 1988 al E possibile quindi ascoltare tutte le diverse gradazioni del suo canto, dal gotico monastico degli esordi (Les Bas, The Rite, Celon) al neoclassico rinascimentale del periodo di mezzo ( Persian Love Song, Sanvean, Venteles), senza tralasciare le sempre più pronunciate venature etnico-esotiche, arricchite per l occasione dalla sapiente mano di Pieter Bourke (Ajhon, Glorafin, Majhnavea s Music Box). Manca molta della furiosa visionarietà dei DCD, ma la mano è quella di una professionista che usa i propri mezzi al massimo delle proprie possibilità. Da li a Spiritchaser, l ultimo disco in studio dei DCD, il passo è breve. Una nuova session di registrazioni nello studio irlandese di Perry, produce nell estate del 1996, un lavoro che è se possibile un ulteriore e definitivo scarto rispetto al passato. In qualche modo si chiude il cerchio, perché come sul disco omonimo di debutto, anche qui sono di fondamentale importanza le percussioni. Il tribalismo dei DCD si incastra al centro di una decade che vede un progressivo e generale recupero delle musiche globali e di cui Spiritchaser diventa un dimenticato e nascosto precursore. Non a caso tre anni dopo, Peter Gabriel fonderà la Real World con il leitmotiv: Whatever the music, whatever the technology, great records come from great performances. L interesse etnico di Brendan Perry e Lisa Gerrard viaggia verso le più disparate latitudini, incamerando soprattutto umori africani, asiatici, indiani. Indus diventa quasi involontariamente una parodia di Within You Without You, canzone che George Harrison produsse nel suo periodo indiano, con una linea melodica così simile che la 4AD intimò alla coppia di chiedere il permesso di Harrison, citandolo parzialmente nei credits. Un episodio che in qualche modo chiarisce molto della natura ambivalente del disco. Manca molta della ricerca formale per cui un esteta come Perry era diventato famoso. Paragonato a Aion, questo è un disco che non va in profondità nelle sue escursioni, fermandosi appena un attimo prima di diventare etnica allo stato puro. I formalismi di Songs Of The Stars e Nierika sono piacevoli excursus ma manca molta della visionarietà del passato e l humus africano di The Snake and the Moon non riesce ad evitare una freddezza da cartolina. I DCD restano una coppia lungimirante anche arrivati al settimo disco in studio, ma la stanchezza appare evidente. Da li a ufficializzare la separazione artistica il passo e breve. Dopo due decadi passate sondando una reale avanguardia dei linguaggi musicali, diventando una sigla di culto e vendendo milioni di dischi, il ritiro dalle scene sembra quasi l atto finale e necessario di una storia di successo che non può e non deve essere dimenticata. Al punto che di DCD si continua a parlare moltissimo anche dopo la fine delle loro trasmissioni ufficiali. Complici le prove soliste dei due, entrambe di eccellente livello, che a più di qualcuno fanno pensare che l aver messo la parola fine alla sigla madre sia stata un occasione perduta. Due anni dopo Spiritchaser riappare Lisa Gerrard in coppia con Pieter Bourke e l album Duality. Le fascinazioni esotico-tribali di The Mirror Pool, vengono esplorate in dettaglio e il disco eccelle laddove molti degli ultimi DCD fallivano. La sapiente mano di Bourke in sede di percussioni rende fluido e scorrevole quello che in dischi come Into The Labyrinth era ancora eccessivamente meccanico. Omaggio alle tradizioni aramaico-persiana del medioevo, Duality presenta una serie di arrangiamenti geniali, dove percussioni ed effetti elettronici pur costantemente relegati in secondo piano rispetto alla voce della Gerrard, non diventano un semplice elemento di corredo, ma contribuiscono per

60 negli arrangiamenti da camera e nella maestria unica con cui mette al servizio dei brani un assortita palette di strumenti acustici. Il lavoro si orienta all interno di una serie di ballate sinistre, dal fascino austeramente gotico. Non c è effettistica macabra, a parte i corvi e i gufi che si sentono su Voyage O Bran, né tantomeno quell umore bluesy che si avverte nella maggior parte di questi lavori. Il fascino di Perry sta nella rassegnata, quasi fatalista, accettazione del nero come unica coloritura possibile per il proprio destino. Da qui l efficacia di ballate crepuscolari come Saturday Child, Sloth e della programmatica Death Will Be My Bride. L omaggio a Tim Buckley rende giustizia ai precursori e assai personale si dimostra la sua versione di I Must Have Been Blind. Un lavoro del genere poteva diventare il primo atto di un nuovo emozionante percorso all insegna del classicismo più nero, ma il secondo disco solista arrivato ben undici anni dopo, Ark, contraddice le premesse è mostra l autore ritornare sui suoi passi, per rimettersi a trafficare con elettronica e samples, tornando in parte alle coordinate di Into The Labyrinth e Spiritchaser. Un bel passo falso, dal momento che latitano particolari colpi di genio e stavolta non si avverte nessuna ricerca formale che non sia quella di prodursi nelle più banali forme pop. E siamo quindi giunti agli anni La Gerrard riceve nel 2000 il Golden Globe per la colonna sonora de Il Gladiatore, insieme con Hans Zimmer e continua una doppia carriera. Da un lato i lavori solisti come Immortal Memory (2004), The Silver Tree (2006), The Black Opal (2009), sempre in compagnia di musicisti in odore di accademia come Patrick Cassidy, Michael Edwards, Pieter Bourke, e James Orr. Dall altro una sorta di carriera parallela in ambito cinematografico con film come Fateless, A Thousand Roads, Baraka, Balibo, Tears Of Gaza, Priest. Nel 2005 il passo che molti attendevano diventa realtà e i Dead Can Dance si riuniscono per un tour europeo / americano fotografato da una serie di registrazioni live che culminano in una compilation Selections from Europe Ma è solo il primo atto del loro ritorno. Le voci che vogliono Brendan Perry e Lisa Gerrard al lavoro su nuovo materiale come DCD si fanno sempre più insistenti e lo stesso Perry non fa nulla per nascondere le trattative in atto tra i due. Nel maggio del 2011 arriva una parziale conferma: I have been talking with Lisa Gerrard this past week with regard to recording a new DCD album this coming winter. We hope to complete the album by the summer of 2012 and then embark on an extensive two month world tour in late La conferma definita arriva quindi a inizio A questo punto è soltanto una questione di mesi e il ritorno dei Dead Can Dance sarà definitivo. gran parte alla riuscita del disco. Brani come Shadow Magnet, Tempest, Forest Veil mostrano altrettanti modi di coniugare le influenze arabo-persiane con il lirismo della vocalist che non arretra di un centimetro rispetto al passato. Molti dei brani di questo disco saranno sondati dalle produzioni hollywoodiane per la loro resa da soundtrack. Non a caso l attacco di Shadow Magnet sarà ripreso da Hans Zimmer in maniera quasi letterale ne Il Gladiatore, per non parlare di The Insider al cui interno è possibile ascoltare Tempest e soprattutto Sacrifice, ripresa anche dalla pubblicità e diventata ormai una delle arie più celebri della Gerrard. A questo punto il pericolo per l artista australiana è chiaro. Quello cioè di diventare una comoda ben remunerata strumentista per la produzione filmica del nuovo millennio, appendendo al chiodo gran parte della propria ricerca artistica. Ben diverso il discorso di Brendan Perry. Ritiratosi praticamente a vita privata e da sempre personalità più schiva della controparte femminile. Riappare nel 1999 con l album The Eye Of The Hunter e si prende la sua rivincita su gran parte dei commentatori che lo vedevano ormai come la parte messa in ombra dalla voce ormai leggendaria della sua ex compagna. Disco che si colloca lungo le coordinate di un songwriting crepuscolare e nerissimo, lontano anni luce dalle ricerche musicali dei DCD, e allineato al cantautorato nero dei vari Nick Cave, Tom Waits, Tim Buckley, Scott Walker e via dicendo. Quello che rimane dell esperienza dei DCD è soprattutto

61 CAMPI MAGNETICI #12 CSI Ko de mondo (I dischi del mulo, Gennaio 1994) classic album MC5 Kick Out The Jams (Elektra, Febbraio 1969) A viverla in tempo reale, la nascita dei C.S.I. - acronimo per Consorzio Suonatori Indipendenti - sembrò una specie di boutade, persino un po forzata. Adeguare il nome a quello di una confederazione di stati sembrò il sintomo inequivocabile di una band schiava di una ragion d essere in via d estinzione. Ma era una sensazione sbagliata. Anzi: in quel cambio di nome c era molto della visione artistica di Ferretti, Zamboni e compagni, per i quali la musica è frutto della percezione critica del mondo. E dire io in questo preciso frangente storico, a questo incrocio di coordinate. Anche il nome quindi è - deve essere - una conseguenza. Che andava a suggellare lo scarto espressivo ed esistenziale. Certo, l ultimo atto dei CCCP era già una transizione in corso, un trauma consumato sul sestante impazzito del Muro appena crollato. L organico sì arricchito ma anche stravolto dall ingresso di tre transfughi Litfiba (Maroccolo, Magnelli e De Palma) nonché dal di loro tecnico del suono, il chitarrista senziente Giorgio Canali. Personalità troppo forti perché il baricentro rimanesse stabile, e infatti Epica Etica Etnica Pathos (1990) fu un epitaffio spettacolare ma discontinuo, schizofrenico e amaro. Tre anni più tardi la nuova entità sentì il bisogno di ripartire piantando radici in un non-luogo, via dall Emilia (ex) paranoica e dalle restrizioni prospettiche italiane: le incisioni avvennero a Le Prajou, un maniero sito in Finistère, Bretagna, nell estate del Fu una scelta azzeccata, così come il titolo prescelto, anch esso impegnato a giocare coi depistaggi evocativi: Ko de mondo, trascrizione creativa di Codemondo, ovvero un paesino di 1500 anime tra Cavriago e Reggio Emilia, nome derivato - pensate un po - dal latino caput mundi. C è l ironia bonaria di un nome velleitario, ma soprattutto c è la sconfitta - ko - del mondo nel momento stesso in cui ritiene di aver raggiunto l apice. Tutto questa cornucopia di premesse per un disco che ambiva raccogliere il frutto delle esperienze passate per scrivere il primo capitolo di una vicenda destinata a rimanere. E, al netto di alcuni difetti, ci riuscì. Ferretti scrisse testi che indagavano il presente sotto una luce di strana, imponderabile immanenza - Fuochi nella notte (di San Giovanni), Memorie di una testa tagliata, In viaggio, Del mondo... - trasformandosi così da vaticinatore freak-punk in coscienza ieratica e terrigna (vedi il chi è stato è stato, e chi è stato non è che apre e chiude il programma), non mancando di mettere alla berlina l immaginario distorto dell occidente (Celluloide, Home Sweet Home). Alto il peso specifico di ogni verso, cantato con la solennità monotona e risoluta dell anacoreta ascendente guru, sebbene si riservasse di puntualizzare non fare di me un idolo/ mi brucerò. Zamboni, Magnelli e Maroccolo architettarono suoni che filavano le scosse punk nelle trame art-wave (A tratti), sublimavano le tentazioni melodiche (Intimisto), azzardavano siparietti sognanti (Le Lune De Parjou, ospite alla voce Ginevra Di Marco) e tessiture funky minimali (Palpitazione tenue), mollando ogni tanto gli ormeggi elettrici a ricordare le origini scellerate (Finistére). Va detto che i risultati non sempre sono all altezza delle intenzioni, il gusto residuo per la marachella post-punk e qualche concessione arty di troppo determinano alcune scelte d arrangiamento dal retrogusto artificioso, che spandono un senso di incongruità rispetto al nuovo corso. Ma già il live In quiete, inciso nel giugno del 94 in formato unplugged, testimonierà la definitiva svolta verso una dimensione più grave, preludio al capolavoro Linea gotica del Quello dei CSI sarà un percorso disallineato e peculiare, alieno per la volontà di cogliere i moti e le vibrazioni profonde del proprio tempo, seminale per il retaggio sonico che avrebbe condotto fino alla contundente pienezza del clamoroso canto del cigno Tabula Rasa Elettrificata. Una lezione cui guarderà senz altro tutto il rock italiano ruggente dei 90 s, in particolare i Marlene Kuntz al debutto con Catartica nel 1994 per i tipi dell etichetta fondata dagli stessi C.S.I., la Consorzio Produttori Indipendenti. Di questa vicenda Ko de mondo non è che il primo, fondamentale ma imperfetto capitolo, i cui meriti vanno oltre quel pugno di pezzi assurti alla dimensione di classici: è la testimonianza di un azzardo formidabile, quello di una punk band che volle guardare negli occhi la Storia. Stefano Solventi A bunch of 16 year old punks on a meth power trip (un gruppo di sedicenni punk in trip da metanfetamine), così definiva gli MC5 Lester Bangs in una delle sue storiche recensioni per Rolling Stone. Il disco cui si riferiva il giornalista - che fa guadagnare, in una delle prime operazioni di hype musicale della storia, la copertina di RS ancor prima di uscire - è una delle pietre miliari del rock: Kick Out The Jams. Roba che scotta, uno dei live su cui si sono scritte biblioteche, su cui troppi teen si sono strappati i capelli e da cui centinaia di band hanno tentato di pescare idee, suoni, atteggiamenti e stili. L album oggi suona fresco, ma c è da dire (sempre seguendo le orme del buon vecchio Lester) che le idee già al tempo non erano poi così nuove: l eredità delle canzoni-fatte-con-due-accordi e la potenza del suono MC5 pesca infatti da nomi che alla fine degli anni Sessanta avevano già stabilito un canone: Chuck Berry, The Who, i Troggs e altri blues-rockers che avevano da poco solcato i palchi di Woodstock (il festival era terminato poco più di due mesi prima l uscita del disco). Cosa fa la forza di questo lavoro, dopo ormai più di quarant anni di onorata carriera sugli scaffali dei negozi? La sostanza è appunto lo stile. L idea - molto semplice - che vince contro il passare del tempo è appunto di puntare sul sound grezzo, sporco, il do-it-yourself che si sentiva già in gruppi vicini (gli scellerati cuginetti Stooges) e che poi sarebbe esploso ovviamente nel punk. Qui il suono si interseca con le coordinate del blues e con gli anthem della controcultura sessantottina: ne esce una cosa piena di energia, infarcita di assoli classici e nel contempo basici data la frenesia dell esordio, una scossa in presa diretta (il live è stato registrato in due sedute, il 30 e 31 Ottobre del 1968) che usa a man bassa pure il free-droning mutuato dalle esperienze di John Coltrane e Ornette Coleman, una carnevalata che svetta al top di centinaia di classifiche o best of dei critici rock. Sopravvalutato? A riascoltarlo oggi e a sapere di tutto quello che è venuto dopo (breve inciso non esaustivo: quanto hanno preso da qui i Clash, i White Stripes e i Rage Against The Machine?), il disco vale la candela. I ragazzi di Detroit non rinnovano, forse tornano pure indietro, ma è il packaging che conta e fa storia. Kick Out è quindi uno dei tanti quadri segnaposto che ci ricordano come eravamo tanto tempo fa: ascoltando questo disco vengono in mente la copertina sudata, il collage con la bandiera americana, i basettoni, l assassinio di Bobby Kennedy e di Martin Luther King, le cartoline bruciate contro il Vietnam, la mossa anarco-utopica di una certa parte del rock (poi inglobata nel capitalismo, ma qui tutto sommato ancora credibile), l anthemica intro che incita alla rivoluzione (gli MC5 nascono infatti come seguaci del collettivo di sinistra White Panthers) e tante altre piccole grandi diapositive da ciclostilare e mandare a memoria. Come Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, Dylan e pochi altri artisti, gli MC5 sono un icona underground di un periodo, un simbolo del rock più crudo, di quello che non si tira indietro (il gruppo aveva partecipato pure ai discordini di Chicago del 1967) e rappresenta gli studenti e - quando ancora esistevano - gli operai. Disco che smonta i canoni blues con uno svacco e una voglia di rivoluzione elettrificata direttamente negli amplificatori e nella voce sempre (o quasi) urlata di Rob Tyner che scuote le pareti della Grande Ballroom di Chicago e che insieme a Wayne Kramer, Fred Smith, Michael Davis (purtroppo da poco scomparso) e Dennis Thompson segna una stagione e un modo di vivere la musica come impegno e sperimentazione. Kick out the jams, motherfuckers! Marco Braggion

CORSO VENDITE LIVELLO BASE ESERCIZIO PER L ACQUISIZIONE DEI DATI

CORSO VENDITE LIVELLO BASE ESERCIZIO PER L ACQUISIZIONE DEI DATI CORSO VENDITE LIVELLO BASE ESERCIZIO PER L ACQUISIZIONE DEI DATI 1. Vai a visitare un cliente ma non lo chiudi nonostante tu gli abbia fatto una buona offerta. Che cosa fai? Ti consideri causa e guardi

Dettagli

EDUCARE ALLA SESSUALITA E ALL AFFETTIVITA

EDUCARE ALLA SESSUALITA E ALL AFFETTIVITA EDUCARE ALLA SESSUALITA E ALL AFFETTIVITA Accompagnare i nostri figli nel cammino dell amore di Rosangela Carù QUALE EDUCAZIONE IN FAMIGLIA? Adolescenti Genitori- Educatori Educazione 1. CHI E L ADOLESCENTE?

Dettagli

L importanza delle cose semplici. La natura come maestra, risorsa, stimolo Cesena, 10 Maggio 2014

L importanza delle cose semplici. La natura come maestra, risorsa, stimolo Cesena, 10 Maggio 2014 L importanza delle cose semplici. La natura come maestra, risorsa, stimolo Cesena, 10 Maggio 2014 Partendo da lontano: appunti di viaggio di Beatrice Vitali Berlino è così: c è sempre qualcuno scalzo c

Dettagli

CONSIGLI PER GIOVANI NAVIGANTI (anche già navigati).

CONSIGLI PER GIOVANI NAVIGANTI (anche già navigati). CONSIGLI PER GIOVANI NAVIGANTI (anche già navigati). HEY! SONO QUI! (Ovvero come cerco l attenzione). Farsi notare su internet può essere il tuo modo di esprimerti. Essere apprezzati dagli altri è così

Dettagli

La dura realtà del guadagno online.

La dura realtà del guadagno online. La dura realtà del guadagno online. www.come-fare-soldi-online.info guadagnare con Internet Introduzione base sul guadagno Online 1 Distribuito da: da: Alessandro Cuoghi come-fare-soldi-online.info.info

Dettagli

COME AVERE SUCCESSO SUL WEB?

COME AVERE SUCCESSO SUL WEB? Registro 3 COME AVERE SUCCESSO SUL WEB? Guida pratica per muovere con successo i primi passi nel web MISURAZIONE ED OBIETTIVI INDEX 3 7 13 Strumenti di controllo e analisi Perché faccio un sito web? Definisci

Dettagli

Scopri il piano di Dio: Pace e vita

Scopri il piano di Dio: Pace e vita Scopri il piano di : Pace e vita E intenzione di avere per noi una vita felice qui e adesso. Perché la maggior parte delle persone non conosce questa vita vera? ama la gente e ama te! Vuole che tu sperimenti

Dettagli

Giacomo Bruno RENDITE DA 32.400 AL MESE!

Giacomo Bruno RENDITE DA 32.400 AL MESE! Giacomo Bruno RENDITE DA 32.400 AL MESE! Report collegato a: FARE SOLDI ONLINE CON GOOGLE Il programma per inserire annunci pubblicitari su Google - Mini Ebook Gratuito - INVIALO GRATIS A TUTTI I TUOI

Dettagli

"#$"%&' (%&#((%! &#)'!*'"!+'$%(),!

#$%&' (%&#((%! &#)'!*'!+'$%(),! L Archivio liquido dell Identità arriva in Brasile, incontrando la comunità pugliese di San Paolo. Il cuore della città è l Edificio Italia, un altissimo palazzo che domina su l enorme estensione di questa

Dettagli

Proposta di intervento rieducativo con donne operate al seno attraverso il sistema BIODANZA

Proposta di intervento rieducativo con donne operate al seno attraverso il sistema BIODANZA Proposta di intervento rieducativo con donne operate al seno attraverso il sistema BIODANZA Tornare a «danzare la vita» dopo un intervento al seno Micaela Bianco I passaggi Coinvolgimento medici e fisioterapiste

Dettagli

Mario Basile. I Veri valori della vita

Mario Basile. I Veri valori della vita I Veri valori della vita Caro lettore, l intento di questo breve articolo non è quello di portare un insegnamento, ma semplicemente di far riflettere su qualcosa che noi tutti ben sappiamo ma che spesso

Dettagli

liste di liste di controllo per il manager liste di controllo per il manager liste di controllo per i

liste di liste di controllo per il manager liste di controllo per il manager liste di controllo per i liste di controllo per il manager r il manager liste di controllo per il manager di contr liste di liste di controllo per il manager i controllo trollo per il man liste di il man liste di controllo per

Dettagli

La felicità per me è un sinonimo del divertimento quindi io non ho un obiettivo vero e proprio. Spero in futuro di averlo.

La felicità per me è un sinonimo del divertimento quindi io non ho un obiettivo vero e proprio. Spero in futuro di averlo. Riflessioni sulla felicità.. Non so se sto raggiungendo la felicità, di certo stanno accadendo cose che mi rendono molto più felice degli anni passati. Per me la felicità consiste nel stare bene con se

Dettagli

1. Ascolta la canzone e metti in ordine le immagini:

1. Ascolta la canzone e metti in ordine le immagini: Pag. 1 1. Ascolta la canzone e metti in ordine le immagini: Pag. 2 Adesso guarda il video della canzone e verifica le tue risposte. 2. Prova a rispondere alle domande adesso: Dove si sono incontrati? Perché

Dettagli

Da dove nasce l idea dei video

Da dove nasce l idea dei video Da dove nasce l idea dei video Per anni abbiamo incontrato i potenziali clienti presso le loro sedi, come la tradizione commerciale vuole. L incontro nasce con una telefonata che il consulente fa a chi

Dettagli

In questa lezione abbiamo ricevuto in studio il Dott. Augusto Bellon, Dirigente Scolastico presso il Consolato Generale d Italia a São Paulo.

In questa lezione abbiamo ricevuto in studio il Dott. Augusto Bellon, Dirigente Scolastico presso il Consolato Generale d Italia a São Paulo. In questa lezione abbiamo ricevuto in studio il Dott. Augusto Bellon, Dirigente Scolastico presso il Consolato Generale d Italia a São Paulo. Vi consiglio di seguire l intervista senza le didascalie 1

Dettagli

Amore in Paradiso. Capitolo I

Amore in Paradiso. Capitolo I 4 Amore in Paradiso Capitolo I Paradiso. Ufficio dei desideri. Tanti angeli vanno e vengono nella stanza. Arriva un fax. Lo ha mandato qualcuno dalla Terra, un uomo. Quando gli uomini vogliono qualcosa,

Dettagli

Mentore. Rende ordinario quello che per gli altri è straordinario

Mentore. Rende ordinario quello che per gli altri è straordinario Mentore Rende ordinario quello che per gli altri è straordinario Vision Creare un futuro migliore per le Nuove Generazioni Come? Mission Rendere quante più persone possibili Libere Finanziariamente Con

Dettagli

Alessandro Ricci Psicologo Psicoterapeuta Università Salesiana di Roma

Alessandro Ricci Psicologo Psicoterapeuta Università Salesiana di Roma Alessandro Ricci Psicologo Psicoterapeuta Università Salesiana di Roma LA COPPIA NON PUO FARE A MENO DI RICONOSCERE E ACCETTARE CHE L ALTRO E UN TU E COME TALE RAPPRESENTA NON UN OGGETTO DA MANIPOLARE

Dettagli

GIANLUIGI BALLARANI. I 10 Errori di Chi Non Riesce a Rendere Negli Esami Come Vorrebbe

GIANLUIGI BALLARANI. I 10 Errori di Chi Non Riesce a Rendere Negli Esami Come Vorrebbe GIANLUIGI BALLARANI I 10 Errori di Chi Non Riesce a Rendere Negli Esami Come Vorrebbe Individuarli e correggerli 1 di 6 Autore di Esami No Problem 1 Titolo I 10 Errori di Chi Non Riesce a Rendere Negli

Dettagli

!"#$%&%'()*#$"*'' I 3 Pilastri del Biker Vincente

!#$%&%'()*#$*'' I 3 Pilastri del Biker Vincente !"#$%&%'()*#$"*'' I 3 Pilastri del Biker Vincente Il Terzo Pilastro del Biker Vincente La Mountain Bike e la Vita Ciao e ben ritrovato! Abbiamo visto nelle ultime due lezioni, come i dettagli siano fondamentali

Dettagli

LE STRATEGIE DI COPING

LE STRATEGIE DI COPING Il concetto di coping, che può essere tradotto con fronteggiamento, gestione attiva, risposta efficace, capacità di risolvere i problemi, indica l insieme di strategie mentali e comportamentali che sono

Dettagli

La nuova adozione a distanza della Scuola. Secondaria di Primo Grado di Merone.

La nuova adozione a distanza della Scuola. Secondaria di Primo Grado di Merone. La nuova adozione a distanza della Scuola Secondaria di Primo Grado di Merone. Riflessione sull Associazione S.O.S. INDIA CHIAMA L' India è un' enorme nazione, suddivisa in tante regioni (circa 22) ed

Dettagli

LOCUZIONI AL MONDO. Il mistero di ogni persona (22/4/2013 24/4/2013) Testi tradotti dai messaggi originali pubblicati sul sito Locutions to the World

LOCUZIONI AL MONDO. Il mistero di ogni persona (22/4/2013 24/4/2013) Testi tradotti dai messaggi originali pubblicati sul sito Locutions to the World LOCUZIONI AL MONDO Il mistero di ogni persona (22/4/2013 24/4/2013) Testi tradotti dai messaggi originali pubblicati sul sito Locutions to the World 2 Sommario 1. La decisione della SS. Trinità al tuo

Dettagli

Seminario della psicoterapeuta Gloria Rossi

Seminario della psicoterapeuta Gloria Rossi Gruppo di Foggia Clinica, Formazione, Cultura psicoanalitica Seminario della psicoterapeuta Gloria Rossi Ascoltarsi è un arte dimenticata, che tutti siamo in grado di ricordare. Il corpo ci parla attraverso

Dettagli

CONSIGLI PER POTENZIARE L APPRENDIMENTO DELLA LINGUA

CONSIGLI PER POTENZIARE L APPRENDIMENTO DELLA LINGUA CONSIGLI PER POTENZIARE L APPRENDIMENTO DELLA LINGUA Possiamo descrivere le strategie di apprendimento di una lingua straniera come traguardi che uno studente si pone per misurare i progressi nell apprendimento

Dettagli

COME NON PERDERE TEMPO NEL NETWORK MARKETING!

COME NON PERDERE TEMPO NEL NETWORK MARKETING! COME NON PERDERE TEMPO NEL NETWORK MARKETING Grazie per aver scaricato questo EBOOK Mi chiamo Fabio Marchione e faccio network marketing dal 2012, sono innamorato e affascinato da questo sistema di business

Dettagli

Il mondo dell affettività e della sessualità. Per genitori e ragazzi

Il mondo dell affettività e della sessualità. Per genitori e ragazzi Il mondo dell affettività e della sessualità Per genitori e ragazzi Monica Crivelli IL MONDO DELL AFFETTIVITÀ E DELLA SESSUALITÀ Per genitori e ragazzi Manuale www.booksprintedizioni.it Copyright 2015

Dettagli

U.V.P. la base del Marketing U. V. P. Non cercare di essere un uomo di successo. Piuttosto diventa un uomo di valore Albert Einstein

U.V.P. la base del Marketing U. V. P. Non cercare di essere un uomo di successo. Piuttosto diventa un uomo di valore Albert Einstein U.V.P. la base del Marketing U. V. P. Non cercare di essere un uomo di successo. Piuttosto diventa un uomo di valore Albert Einstein U.V.P. la base del Marketing U. V. P. Unique Value Propositon U.V.P.

Dettagli

QUESTIONARIO DI EFFICACIA DELL INCONTRO. La valutazione dovrà essere espressa in scala da 1 (per niente) a 5 (pienamente).

QUESTIONARIO DI EFFICACIA DELL INCONTRO. La valutazione dovrà essere espressa in scala da 1 (per niente) a 5 (pienamente). QUESTIONARIO DI EFFICACIA DELL INCONTRO Gentile genitore, le sottoponiamo il presente questionario anonimo al termine dell incontro a cui ha partecipato. La valutazione da lei espressa ci aiuterà a capire

Dettagli

MANIFESTARE RISULTATI ESTRATTO

MANIFESTARE RISULTATI ESTRATTO MANIFESTARE RISULTATI ESTRATTO Abbiamo pensato di proporti un breve, pratico ed utile estratto del Corso Manifestare Risultati. È la prima volta che condividiamo parte del materiale con chi ancora non

Dettagli

Nina Cinque. Guida pratica per organizzarla perfettamente in una sola settimana! Edizioni Lefestevere

Nina Cinque. Guida pratica per organizzarla perfettamente in una sola settimana! Edizioni Lefestevere Nina Cinque Guida pratica per organizzarla perfettamente in una sola settimana! Edizioni Lefestevere TITOLO: FESTA DI COMPLEANNO PER BAMBINI: Guida pratica per organizzarla perfettamente in una sola settimana!

Dettagli

Che volontari cerchiamo? Daniela Caretto Lecce, 27-28 aprile

Che volontari cerchiamo? Daniela Caretto Lecce, 27-28 aprile Che volontari cerchiamo? Daniela Caretto Lecce, 27-28 aprile Premessa All arrivo di un nuovo volontario l intero sistema dell associazione viene in qualche modo toccato. Le relazioni si strutturano diversamente

Dettagli

PLIDA Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri Certificazione di competenza in lingua italiana

PLIDA Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri Certificazione di competenza in lingua italiana PLIDA Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri Certificazione di competenza in lingua italiana giugno 2011 PARLARE Livello MATERIALE PER L INTERVISTATORE 2 PLIDA Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri

Dettagli

LA BIBBIA. composto da 46 libri, suddivisi in Pentateuco Storici Sapienziali Profetici 5 16 7 18

LA BIBBIA. composto da 46 libri, suddivisi in Pentateuco Storici Sapienziali Profetici 5 16 7 18 GRUPPOQUINTAELEMENTARE Scheda 02 LA La Parola di Dio scritta per gli uomini di tutti i tempi Antico Testamento composto da 46 libri, suddivisi in Pentateuco Storici Sapienziali Profetici 5 16 7 18 Nuovo

Dettagli

LA FORMULA. TERZA PARTE: DOVE TROVARLI Indirizzi e recapiti per viaggiare sicuri. I QUADERNI SI ARTICOLANO IN TRE PARTI:

LA FORMULA. TERZA PARTE: DOVE TROVARLI Indirizzi e recapiti per viaggiare sicuri. I QUADERNI SI ARTICOLANO IN TRE PARTI: LA FORMULA PROFILO EDITORIALE: La collana de I Quaderni della Comunicazione nasce come una guida mensile rivolta alle Aziende per aiutarle a orientarsi nei diversi meandri della comunicazione commerciale.

Dettagli

LIBO' L'ITALIANO ALLA RADIO

LIBO' L'ITALIANO ALLA RADIO LIBO' L'ITALIANO ALLA RADIO ESERCIZI PUNTATA N. 3 LA SCUOLA CORSI DI ITALIANO PER STRANIERI A cura di Marta Alaimo Voli Società Cooperativa - 2011 DIALOGO PRINCIPALE A- Buongiorno. B- Buongiorno, sono

Dettagli

Ciao, intanto grazie per essere arrivato/a fin qui.

Ciao, intanto grazie per essere arrivato/a fin qui. 2 Ciao, intanto grazie per essere arrivato/a fin qui. Probabilmente ti stai chiedendo se posso aiutarti, la risposta è sì se: vuoi raccontare qualcosa di te o di quello che fai; vuoi dei testi che descrivano

Dettagli

Mafia, amore & polizia

Mafia, amore & polizia 20 Mafia, amore & polizia -Ah sì, ora ricordo... Lei è la signorina... -Francesca Affatato. -Sì... Sì... Francesca Affatato... Certo... Mi ricordo... Lei è italiana, non è vero? -No, mio padre è italiano.

Dettagli

CONOSCI I TUOI CLIENTI?

CONOSCI I TUOI CLIENTI? CONOSCI I TUOI CLIENTI? L innovazione nella Forza Vendita Marzo 2015 Conosci i tuoi clienti? Quali sono i tuoi migliori clienti? Hai traccia delle relazioni, incontri ed esigenze che loro hanno manifestato

Dettagli

Indice. Imparare a imparare

Indice. Imparare a imparare Indice Imparare a imparare Perché fai una cosa? 8 Attività 1 Il termometro della motivazione 8 Attività 2 Quantità o qualità? 9 Attività 3 Tante motivazioni per una sola azione 10 Organizzare il tempo

Dettagli

Attività Descrizione Materiali utilizzati

Attività Descrizione Materiali utilizzati Voglio un(a) Prato per giocare: ragazzina, colorata e accogliente Percorso di pianificazione partecipata e comunicativa per la definizione di linee guida per il nuovo Piano Strutturale del Comune di Prato

Dettagli

Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA

Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA IMPARIAMO DAGLI ERRORI Impariamo dagli errori (1/5) Impariamo dagli errori (2/5) Il più delle volte siamo portati a pensare o ci hanno fatto credere di avere poca memoria,

Dettagli

Una risposta ad una domanda difficile

Una risposta ad una domanda difficile An Answer to a Tough Question Una risposta ad una domanda difficile By Serge Kahili King Traduzione a cura di Josaya http://www.josaya.com/ Un certo numero di persone nel corso degli anni mi hanno chiesto

Dettagli

Mentore. Presentazione

Mentore. Presentazione Mentore Presentazione Chi è Mentore? Il Mio nome è Pasquale, ho 41 anni dai primi mesi del 2014 ho scoperto, che ESISTE UN MONDO DIVERSO da quello che oltre il 95% delle persone conosce. Mi sono messo

Dettagli

Costruisci il tuo mood grafico

Costruisci il tuo mood grafico Costruisci il tuo mood grafico Ciao! Magari hai un hobby creativo, oppure ti sei lanciata da poco in una nuova attività o semplicemente ti piace usare i social e vuoi crearti una tua immagine personale.

Dettagli

IDEE PER LO STUDIO DELLA MATEMATICA

IDEE PER LO STUDIO DELLA MATEMATICA IDEE PER LO STUDIO DELLA MATEMATICA A cura del 1 LA MATEMATICA: perché studiarla??? La matematica non è una disciplina fine a se stessa poichè fornisce strumenti importanti e utili in molti settori della

Dettagli

Maschere a Venezia VERO O FALSO

Maschere a Venezia VERO O FALSO 45 VERO O FALSO CAP I 1) Altiero Ranelli è il direttore de Il Gazzettino di Venezia 2) Altiero Ranelli ha trovato delle lettere su MONDO-NET 3) Colombina è la sorella di Pantalone 4) La sera di carnevale,

Dettagli

AUTOSTIMA QUESTA CHIMERA SCONOSCIUTA LUCIA TODARO, PSICOPEDAGOGISTA

AUTOSTIMA QUESTA CHIMERA SCONOSCIUTA LUCIA TODARO, PSICOPEDAGOGISTA AUTOSTIMA QUESTA CHIMERA SCONOSCIUTA Autostima = giudizio che ognuno dà del proprio valore ( dipende sia da fattori interni che esterni ) EricKson: la stima di sé deve venire da dentro, dal nocciolo di

Dettagli

Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA

Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA Memory Fitness TECNICHE DI MEMORIA IL CERVELLO E LE SUE RAPPRESENTAZIONI Il cervello e le sue rappresentazioni (1/6) Il cervello e le sue rappresentazioni (2/6) Approfondiamo ora come possiamo ulteriormente

Dettagli

I 12 principi della. Leadership Efficace in salone

I 12 principi della. Leadership Efficace in salone I 12 principi della Leadership Efficace in salone Leadership = capacita di condurre e di motivare Per condurre i tuoi dipendenti devono avere stima e fiducia di te. Tu devi essere credibile. Per motivare

Dettagli

2011 PUATraining Italia Ltd. marchio di proprietà di PUATraining Italia Ltd. www.puatraining.it - info@puatraining.it

2011 PUATraining Italia Ltd. marchio di proprietà di PUATraining Italia Ltd. www.puatraining.it - info@puatraining.it Page 1 2011 PUATraining Italia Ltd marchio di proprietà di PUATraining Italia Ltd www.puatraining.it - info@puatraining.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte dell opera può essere tradotta,

Dettagli

Non ho idea se è la prima volta che vedi un mio prodotto oppure se in passato le nostre strade si sono già incrociate, poco importa

Non ho idea se è la prima volta che vedi un mio prodotto oppure se in passato le nostre strade si sono già incrociate, poco importa Benvenuto/a o bentornato/a Non ho idea se è la prima volta che vedi un mio prodotto oppure se in passato le nostre strade si sono già incrociate, poco importa Non pensare di trovare 250 pagine da leggere,

Dettagli

Trascrizione completa della lezione Lezione 002

Trascrizione completa della lezione Lezione 002 Trascrizione completa della lezione Lezione 002 Adam: Salve, il mio nome e Adam Kirin: E io sono Kirin. Adam: e noi siano contenti che vi siete sintonizzati su ChineseLearnOnline.com dove noi speriamo

Dettagli

UN VIAGGIO TRA LA SCOPERTA DEL PROPRIO CORPO E LA RICERCA DELLA BELLEZZA: IL LABORATORIO "MA COME TI TRUCCHI?!" PER PERSONE CON DISABILITÀ.

UN VIAGGIO TRA LA SCOPERTA DEL PROPRIO CORPO E LA RICERCA DELLA BELLEZZA: IL LABORATORIO MA COME TI TRUCCHI?! PER PERSONE CON DISABILITÀ. UN VIAGGIO TRA LA SCOPERTA DEL PROPRIO CORPO E LA RICERCA DELLA BELLEZZA: IL LABORATORIO "MA COME TI TRUCCHI?!" PER PERSONE CON DISABILITÀ. Relatore: Martina Tarlazzi Make your smile up LA NASCITA DEL

Dettagli

FINALITA DELLA SCUOLA DELL INFANZIA

FINALITA DELLA SCUOLA DELL INFANZIA I.C.S. MAREDOLCE FINALITA DELLA SCUOLA DELL INFANZIA La nostra scuola dell Infanzia con la sua identità specifica sotto il profilo pedagogico e metodologico-organizzativo persegue: l acquisizione di capacità

Dettagli

Come fare una scelta?

Come fare una scelta? Come fare una scelta? Don Alberto Abreu www.pietrscartata.com COME FARE UNA SCELTA? Osare scegliere Dio ha creato l uomo libero capace di decidere. In molti occasioni, senza renderci conto, effettuiamo

Dettagli

Il potere delle domande è la base per tutto il progresso umano INDIRA GANDHI

Il potere delle domande è la base per tutto il progresso umano INDIRA GANDHI Il potere delle domande è la base per tutto il progresso umano INDIRA GANDHI Nel mio ultimo anno di studi per diventare coach ho appreso l'importanza delle domande che ci facciamo. Se non ci prendiamo

Dettagli

GRUPPI DI INCONTRO per GENITORI

GRUPPI DI INCONTRO per GENITORI Nell ambito delle attività previste dal servizio di Counseling Filosofico e di sostegno alla genitorialità organizzate dal nostro Istituto, si propone l avvio di un nuovo progetto per l organizzazione

Dettagli

La scala maggiore. In questa fase è come se sapessimo il modo giusto di aprire la bocca per parlare ma non avessimo idea delle parole da dire

La scala maggiore. In questa fase è come se sapessimo il modo giusto di aprire la bocca per parlare ma non avessimo idea delle parole da dire La scala maggiore Ora che abbiamo dato un pò di cenni teorici e impostato sia la mano destra che la sinistra è venuto il momento di capire cosa suonare con il basso ( impresa ardua direi ), cioè quando

Dettagli

I documenti di www.mistermanager.it. Gli ingredienti per l allenamento per la corsa LE RIPETUTE

I documenti di www.mistermanager.it. Gli ingredienti per l allenamento per la corsa LE RIPETUTE I documenti di www.mistermanager.it Gli ingredienti per l allenamento per la corsa LE RIPETUTE Le Ripetute sono una delle forme di allenamento che caratterizzano i corridori più evoluti, in quanto partono

Dettagli

Cosa ci può stimolare nel lavoro?

Cosa ci può stimolare nel lavoro? a Cosa ci può stimolare nel lavoro? Quello dell insegnante è un ruolo complesso, in cui entrano in gioco diverse caratteristiche della persona che lo esercita e della posizione che l insegnante occupa

Dettagli

L USO DELLA PNL IN AZIENDA: COME, QUANDO E PERCHE

L USO DELLA PNL IN AZIENDA: COME, QUANDO E PERCHE L USO DELLA PNL IN AZIENDA: COME, QUANDO E PERCHE LA SCIENZA Se si cerca programmazione neurolinguistica O PNL si hanno questi risultati ( tantissimi ) Definire la PNL, Programmazione Neuro Linguistica

Dettagli

Scuola media di Giornico. tra stimoli artistici e nozioni scentifiche. Il fotolinguaggio. Progetto sostenuto dal GLES 2

Scuola media di Giornico. tra stimoli artistici e nozioni scentifiche. Il fotolinguaggio. Progetto sostenuto dal GLES 2 Scuola media di Giornico L affettività e la sessualità, tra stimoli artistici e nozioni scentifiche. Il fotolinguaggio Progetto sostenuto dal GLES 2 Dai sensi all azione Sensi Sensazioni Emozioni Sentimenti

Dettagli

SEMPLICI INDICAZIONI PER CAPIRE MEGLIO LA REALTÀ AZIENDALE

SEMPLICI INDICAZIONI PER CAPIRE MEGLIO LA REALTÀ AZIENDALE Nome........ Classe. SEMPLICI INDICAZIONI PER CAPIRE MEGLIO LA REALTÀ AZIENDALE Perché perché Ci sono tanti buoni motivi per impegnarsi nello stage? Individua 3 buoni motivi per cui ritieni che valga la

Dettagli

Gestione del conflitto o della negoziazione

Gestione del conflitto o della negoziazione 1. Gestione del conflitto o della negoziazione Per ognuna delle 30 coppie di alternative scegli quella che è più vera per te. A volte lascio che siano gli altri a prendersi la responsabilità di risolvere

Dettagli

La Posta svizzera SecurePost SA, Oensingen

La Posta svizzera SecurePost SA, Oensingen La Posta svizzera SecurePost SA, Oensingen Il datore di lavoro Richard Mann Circa un anno e mezzo fa, nell ambito del progetto Integrazione di persone disabili presso la Posta, abbiamo assunto una nuova

Dettagli

Il funzionamento di prezzipazzi, registrazione e meccanismi

Il funzionamento di prezzipazzi, registrazione e meccanismi Prima di spiegare prezzipazzi come funziona, facciamo il punto per chi non lo conoscesse. Nell ultimo periodo si fa un gran parlare di prezzipazzi ( questo il sito ), sito che offre a prezzi veramente

Dettagli

Università per Stranieri di Siena Livello A1

Università per Stranieri di Siena Livello A1 Unità 20 Come scegliere il gestore telefonico CHIAVI In questa unità imparerai: a capire testi che danno informazioni sulla scelta del gestore telefonico parole relative alla scelta del gestore telefonico

Dettagli

IL MODELLO CICLICO BATTLEPLAN

IL MODELLO CICLICO BATTLEPLAN www.previsioniborsa.net 3 Lezione METODO CICLICO IL MODELLO CICLICO BATTLEPLAN Questo modello ciclico teorico (vedi figura sotto) ci serve per pianificare la nostra operativita e prevedere quando il mercato

Dettagli

L UOMO L ORGANIZZAZIONE

L UOMO L ORGANIZZAZIONE UNITÀ DIDATTICA 1 L UOMO E L ORGANIZZAZIONE A.A 2007 / 2008 1 PREMESSA Per poter applicare con profitto le norme ISO 9000 è necessario disporre di un bagaglio di conoscenze legate all organizzazione aziendale

Dettagli

Come capire se la tua nuova iniziativa online avrà successo

Come capire se la tua nuova iniziativa online avrà successo Come capire se la tua nuova iniziativa online avrà successo Ovvero: la regola dei 3mila Quando lanci un nuovo business (sia online che offline), uno dei fattori critici è capire se vi sia mercato per quello

Dettagli

Il SENTIMENT E LA PSICOLOGIA

Il SENTIMENT E LA PSICOLOGIA CAPITOLO 2 Il SENTIMENT E LA PSICOLOGIA 2.1.Cosa muove i mercati? Il primo passo operativo da fare nel trading è l analisi del sentiment dei mercati. Con questa espressione faccio riferimento al livello

Dettagli

Siamo un cambiamento in cammino

Siamo un cambiamento in cammino Scuola Primaria Paritaria Sacra Famiglia PROGETTO EDUCATIVO ANNUALE 2013 2014 Siamo un cambiamento in cammino Uno di fianco all altro, uno di fronte all altro Il percorso educativo di quest anno ci mette

Dettagli

TELEFONO AZZURRO. dedicato ai bambini COS E IL BULLISMO? IL BULLISMO?

TELEFONO AZZURRO. dedicato ai bambini COS E IL BULLISMO? IL BULLISMO? COS E IL BULLISMO? IL BULLISMO? 1 Ehi, ti e mai capitato di assistere o essere coinvolto in situazioni di prepotenza?... lo sai cos e il bullismo? Prova a leggere queste pagine. Ti potranno essere utili.

Dettagli

I CAMPI DI ESPERIENZA

I CAMPI DI ESPERIENZA I CAMPI DI ESPERIENZA IL SE E L ALTRO sviluppa il senso dell identità personale; riconosce ed esprime sentimenti e emozioni; conosce le tradizioni della famiglia, della comunità e della scuola, sviluppando

Dettagli

DA IPSOA LA SOLUZIONE PER COSTRUIRE E GESTIRE IL SITO DELLO STUDIO PROFESSIONALE!

DA IPSOA LA SOLUZIONE PER COSTRUIRE E GESTIRE IL SITO DELLO STUDIO PROFESSIONALE! DA IPSOA LA SOLUZIONE PER COSTRUIRE E GESTIRE IL SITO DELLO STUDIO PROFESSIONALE! 1 Web Site Story Scoprite insieme alla Dott.ssa Federica Bianchi e al Dott. Mario Rossi i vantaggi del sito internet del

Dettagli

Un pensiero per la nostra Maestra Grazie Maestra Carla!

Un pensiero per la nostra Maestra Grazie Maestra Carla! Un pensiero per la nostra Maestra Grazie Maestra Carla! Quarta Primaria - Istituto Santa Teresa di Gesù - Roma a.s. 2010/2011 Con tanto affetto... un grande grazie anche da me! :-) Serena Grazie Maestra

Dettagli

GRUPPO MY- social media solutions / Via G.Dottori 94, Perugia / PI 03078860545

GRUPPO MY- social media solutions / Via G.Dottori 94, Perugia / PI 03078860545 Capitolo 3 - Dalla strategia al piano editoriale GRUPPO MY- social media solutions / Via G.Dottori 94, Perugia / PI 03078860545 Social Toolbox ed i contenuti presenti nel seguente documento (incluso a

Dettagli

Sono solide rappresentazioni mentali e sensoriali che associamo alle nostre esperienze, e che riteniamo vere.

Sono solide rappresentazioni mentali e sensoriali che associamo alle nostre esperienze, e che riteniamo vere. LE CONVINZIONI Sono solide rappresentazioni mentali e sensoriali che associamo alle nostre esperienze, e che riteniamo vere. OLTRE L OSTACOLO / 1 LE CONVINZIONI Tipiche convinzioni legate alle principali

Dettagli

COME PARLARE DI DISLESSIA IN CLASSE.

COME PARLARE DI DISLESSIA IN CLASSE. COME PARLARE DI DISLESSIA IN CLASSE. UNA METAFORA PER SPIEGARE I DSA La psicologa americana ANIA SIWEK ha sviluppato in anni di pratica professionale un modo semplice ed efficace di spiegare i DSA ai bambini,

Dettagli

NEWSLETTER N. 26 maggio 2014

NEWSLETTER N. 26 maggio 2014 2222222222222222222222222222222222222222 2222222222222222222222222222222222222222 NEWSLETTER N. 26 maggio 2014 Un benvenuto ai nuovi lettori e ben ritrovato a chi ci segue da tempo. Buona lettura a tutti

Dettagli

Email Marketing Vincente

Email Marketing Vincente Email Marketing Vincente (le parti in nero sono disponibili nella versione completa del documento): Benvenuto in Email Marketing Vincente! L email marketing è uno strumento efficace per rendere più semplice

Dettagli

Obiettivo Principale: Aiutare gli studenti a capire cos è la programmazione

Obiettivo Principale: Aiutare gli studenti a capire cos è la programmazione 4 LEZIONE: Programmazione su Carta a Quadretti Tempo della lezione: 45-60 Minuti. Tempo di preparazione: 10 Minuti Obiettivo Principale: Aiutare gli studenti a capire cos è la programmazione SOMMARIO:

Dettagli

Scuole Classiche e moderne. La realtà Italiana.

Scuole Classiche e moderne. La realtà Italiana. CONTINUA L INTRODUZIONE ARCHITETTURA FENG SHUI Scuole Classiche e moderne. La realtà Italiana. 1. Parlando strettamente nell ambito del Feng Shui c'è anche da comprendere che esistono le Scuole classiche

Dettagli

Scegli il tuo percorso

Scegli il tuo percorso Vuoi vederci chiaro nel mondo della stampa? Hai il file grafico pronto? Hai l idea e la devi realizzare? Consegna il file Scegli il prodotto da stampare e fatti fare delle proposte grafiche dal nostro

Dettagli

CONOSCI I TUOI CLIENTI?

CONOSCI I TUOI CLIENTI? CONOSCI I TUOI CLIENTI? L innovazione nella Forza Vendita In questo numero Conosci i tuoi clienti Metodo per profilare i clienti Una analisi sulla tipologia dei clienti La Brand Reputation Conosci i tuoi

Dettagli

Un maestro giapponese ricevette la visita di un professore universitario (filosofo, ndr) che era andato da lui per interrogarlo.

Un maestro giapponese ricevette la visita di un professore universitario (filosofo, ndr) che era andato da lui per interrogarlo. Il vuoto Una tazza di tè Un maestro giapponese ricevette la visita di un professore universitario (filosofo, ndr) che era andato da lui per interrogarlo. Il maestro servì il tè. Colmò la tazza del suo

Dettagli

ANICA, TRA PASSATO E FUTURO

ANICA, TRA PASSATO E FUTURO ANICA, TRA PASSATO E FUTURO Documentario di Massimo De Pascale e Saverio di Biagio Regia di Saverio Di Biagio PREMESSA Il rischio di ogni anniversario è quello di risolversi in una celebrazione, magari

Dettagli

È una pagina web a cui chiunque può iscriversi e condividere informazioni con altre persone, di solito amici e familiari.

È una pagina web a cui chiunque può iscriversi e condividere informazioni con altre persone, di solito amici e familiari. di Pier Francesco Piccolomini Facebook l hai sentito nominare di sicuro. Quasi non si parla d altro. C è chi lo odia, chi lo ama, chi lo usa per svago, chi per lavoro. Ma esattamente, questo Facebook,

Dettagli

IO, CITTADINO DEL MONDO

IO, CITTADINO DEL MONDO Scuola dell Infanzia S.Giuseppe via Emaldi13, Lugo (RA) IO, CITTADINO DEL MONDO VIAGGIARE E UN AVVENTURA FANTASTICA A.S. 2013 / 2014 INTRODUZIONE Quest anno si parte per un viaggio di gruppo tra le culture

Dettagli

OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO PER LA SCUOLA DELL INFANZIA. Contenuti

OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO PER LA SCUOLA DELL INFANZIA. Contenuti PER LA SCUOLA DELL INFANZIA Fonte di legittimazione: Indicazioni per il curricolo 2012 IL SE E L ALTRO - Gioca in modo costruttivo e creativo con gli altri, sa argomentare, confrontarsi, sostenere le proprie

Dettagli

1. LE REGOLE EDUCAZIONE ALLA LEGALITA OBIETTIVI

1. LE REGOLE EDUCAZIONE ALLA LEGALITA OBIETTIVI EDUCAZIONE ALLA LEGALITA 1. LE REGOLE OBIETTIVI Sapere: Che la convivenza tra soggetti diversi ha bisogno di regole. Conoscere il significato della parola Regola della forte connessione tra regole e valori.

Dettagli

Vivere il Sogno. Vivere è bello, vivere bene è meglio!!! Diventa fan su Facebook: Tutte le novità da subito

Vivere il Sogno. Vivere è bello, vivere bene è meglio!!! Diventa fan su Facebook: Tutte le novità da subito Vivere il Sogno Vivere è bello, vivere bene è meglio!!! Diventa fan su Facebook: Tutte le novità da subito VIVERE IL SOGNO!!! 4 semplici passi per la TUA indipendenza finanziaria. (Indipendenza finanziaria)

Dettagli

Internet i vostri figli vi spiano! La PAROLA-CHIAVE: cacao Stralci di laboratorio multimediale

Internet i vostri figli vi spiano! La PAROLA-CHIAVE: cacao Stralci di laboratorio multimediale Internet i vostri figli vi spiano! La PAROLA-CHIAVE: cacao Stralci di laboratorio multimediale Ins: nel laboratorio del Libro avevamo detto che qui, nel laboratorio multimediale, avremmo cercato qualcosa

Dettagli

Da dove veniamo. giugno 2013, documento riservato. Orgoglio BiancoRosso

Da dove veniamo. giugno 2013, documento riservato. Orgoglio BiancoRosso Da dove veniamo Il Basket pesarese ha una Storia molto lunga e importante.una storia che ha attraversato gli anni 50, gli anni 60,gli anni 70, gli anni 80, gli anni 90 ed è arrivata fino ad oggi. Da dove

Dettagli

www.domuslandia.it Il portale dell edilizia di qualità domuslandia.it è prodotto edysma sas

www.domuslandia.it Il portale dell edilizia di qualità domuslandia.it è prodotto edysma sas domuslandia.it è prodotto edysma sas L evoluzione che ha subito in questi ultimi anni la rete internet e le sue applicazioni finalizzate alla pubblicità, visibilità delle attività che si svolgono e di

Dettagli

VIDEO LINEE GUIDA PER CREAZIONE VIDEO PROMOZIONALE

VIDEO LINEE GUIDA PER CREAZIONE VIDEO PROMOZIONALE VIDEO LINEE GUIDA PER CREAZIONE VIDEO PROMOZIONALE Davide Salti NOTE GENERALI Premetto che non sono ne un regista ne un videomaker. Per quel poco che posso fare vi propongo delle linee guida sulla definizione

Dettagli