La Maga delle spezie

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1 Chitra Banerjee Divakaruni La Maga delle spezie Traduzione di Federica Oddera Titolo originale The Mistress of Spices Prima edizione «I coralli» 1998 By PPG Einaudi

2 Per i miei tre uomini Murthy Anand Abhay maestri nell'arte delle spezie, tutti.

3 Ringrazio le seguenti persone e organizzazioni, ciascuna delle quali ha contribuito a trasformare in realtà il sogno di questo libro. Sandra Dijkstra, la mia agente, che ha creduto in me fin dal primo racconto. Martha Levin, la mia redattrice, per la lungimiranza, l'acume e il costante incoraggiamento. Vikram Chandra, Shobha Menon Hiatt, Tom Jenks, Elaine Kim, Morton Marcus, Jim Quinn, Gerald Rosen, Roshni Rustomji-Kerns e C. J. Wallia per i preziosi consigli. L'Arts Council della Contea di Santa Clara e il concorso di narrativa C. Y. Lee per il sostegno finanziario. Il Foothill College per avermi concesso, nella forma di un anno sabbatico, il dono del tempo. I miei familiari - in special modo mia madre, Tatini Banerjee, e mia suocera, Sita Shastri Divakaruni - per le loro benedizioni. E Gurumayi Chidvilasananda, la cui grazia porta la luce nella mia vita, in ogni pagina e in ogni parola.

4 Avvertenza per i lettori. L'assunzione delle spezie descritte in questo libro va effettuata esclusivamente sotto la supervisione di una qualificata Maga delle Spezie. Le note a piè di pagina e il glossario finale sono a cura della traduttrice.

5 Tilo Io sono una Maga delle Spezie. So usare anche il resto. Minerali, metallo, terra, e sabbia, e pietra. Le gemme splendenti di luce fredda e limpida. I liquidi che ti accendono gli occhi di bagliori variopinti finché non riesci più a vedere altro. Ho imparato tutto sull'isola. Ma la mia passione sono le spezie. Ne conosco origini, significato dei colori, profumi. Posso chiamarle una per una con il nome assegnato loro quando la terra si spaccò come una scorza per offrirle al cielo. Il calore che emanano mi scorre nelle vene. Dall'amchur, la polvere di mango, allo zafferano, tutte si piegano ai miei comandi. Un sussurro, e mi svelano proprietà segrete e poteri magici. Sì, possiedono tutte un pizzico di magia, anche le spezie che quotidianamente gli americani spargono sulle pietanze senza pensarci troppo. Non ci credete? Ah. Avete dimenticato gli antichi segreti ben noti alle nonne delle vostre nonne. Eccovene uno: i semi di vaniglia ammorbiditi nel latte di capra e strofinati sui polsi proteggono dal malocchio. E un altro ancora: una dose di pepe a forma di mezzaluna ai piedi del letto tiene lontani gli incubi. Ma le spezie davvero efficaci vengono dalla terra in cui sono nata, una terra di poesia ardente, di piume d'acquamarina, di tramonti rossi come il sangue. È con queste che esercito i miei poteri. Se vi mettete in piedi al centro di questa stanza e girate pian piano su voi stessi, vedrete allineate sui miei scaffali tutte le spezie indiane mai esistite: perfino quelle perdute nella notte dei tempi. Non credo di esagerare se affermo che non esiste al mondo un posto simile a questo. La bottega è qui solo da un anno. Ma già molti la guardano e pensano che ci sia sempre stata. Capisco bene perché. Svoltate l'angolo sbilenco di Esperanza Street dove gli autobus di Oakland si fermano sibilando e la vedrete. Perfetta, là dove si trova, tra l'angusta porta sbarrata della Pensione Rosa, ancora annerita dall'incendio dell'anno scorso, e il negozietto di Lee Ying, Riparazioni Macchine per Cucire e Aspirapolvere, una spaccatura nella vetrina proprio tra la «R» e la «i». Il vetro tutto macchiato di grasso. Lettere arrotondate ridotte a un color fango secco sbiadito formano la scritta IL BAZAAR DELLE SPEZIE. Dentro, pareti costellate di ragnatele in mezzo alle quali pendono scolorite le immagini degli dèi indiani dai tristi occhi ombrosi. Secchi di metallo senza più traccia di lucentezza, colmi di atta, e riso basmati, e masoor dal. File su file di videocassette, dalle più recenti a quelle dei tempi del bianco e nero. Rotoli di stoffa dalle tinte vecchie quanto il tempo, giallo anno nuovo 1, verde prato, rosso nuziale. E in ogni angolo, esalati da chi è entrato qui, ammonticchiati tra i bioccoli di 1 Allusione alla festa di Basant Panchmi, in gennaio, quando è tradizione indossare qualcosa di giallo.

6 polvere, i desideri. Tra tutti gli oggetti della mia bottega, la presenza più antica. Perché persino qui, in questa terra nuova che è l'america, in questa città orgogliosa di rinascere a ogni palpito del cuore, sono sempre le stesse cose a destare le nostre brame, ancora e ancora. Anch'io contribuisco a dare l'impressione che il negozio ci sia sempre stato. Anch'io sembro qui da sempre. Ecco cosa vede chi entra chinandosi sotto le foglie di mango di plastica verde appese alla porta come portafortuna: una donna curva, la pelle color sabbia vetusta, dietro un banco di vetro pieno di mithai, i dolci dell'infanzia. Usciti dalla cucina della mamma. Burfi verde smeraldo, rasgollah pallidi come un'alba, e laddu, pepite d'oro fatte di farina di lenticchie. La mia presenza qui appare del tutto naturale, com'è naturale ch'io capisca senza bisogno di parole la nostalgia delle cose lasciate nella terra natia da chi ha scelto l'america. E la vergogna della nostalgia, simile al retrogusto amarognolo dell'amlaki masticato per rinfrescare l'alito. Loro non sanno, ovviamente. Che non sono vecchia, e questo corpo-simulacro, di cui mi sono ammantata nel fuoco di Shampati 2 pronunciando i voti di maga, non è il mio. Rughe e membra nodose non mi appartengono più di quanto siano propri dell'acqua i cerchi che la increspano. E, al di là delle palpebre pesanti, non si accorgono del subitaneo bagliore degli occhi - non mi servono specchi (gli specchi sono vietati alle maghe) per farmene certa - simile a un nero fuoco. Gli occhi, l'unica cosa davvero mia. No. Anche un'altra cosa è davvero mia. Il nome. Tilo, l'abbreviazione di Tilottama, perché mi chiamo come i semi di sesamo bruciati dal sole, spezia ricca di nutrimento. Non sanno nulla di tutto questo, i miei clienti, e nemmeno conoscono i miei nomi passati. A volte mi opprime un gran peso, un lago di ghiaccio nero, quando penso che da un capo all'altro di questa terra neppure un'anima sa chi sono. Non fa niente, mi consolo subito dopo. È meglio così. «Ricordatevi, - ci disse l'antica, la Prima Madre, quando ci addestrò sull'isola. - Voi non siete importanti. Non lo è nessuna maga. È la bottega che conta. E le spezie». La bottega. Anche per chi non conosce nulla della stanza sul retro con i suoi scaffali sacri e segreti, la bottega rappresenta un viaggio nella terra delle possibilità irrealizzate. Una forma di autocompiacimento pericolosa per gente scura venuta da lontano, gente a cui i veri americani potrebbero chiedere: Perché? Ah, la forza di quel pericolo. Mi vogliono bene perché intuiscono che lo capisco. E per la stessa ragione mi odiano un poco. E poi, le mie domande. Alla signora grassoccia con i pantaloni di tessuto sintetico e la tunica dei grandi magazzini Safeway, i capelli raccolti in una crocchia ben stretta, quando si china a frugare in un mucchietto di peperoncini verdi: «Suo marito ha trovato un altro lavoro dopo aver perso il posto?» Alla giovane donna che arriva di corsa, una bimbetta a cavalcioni sul fianco, per comprare un po' di polvere di coriandolo e cumino: «Perde ancora molto sangue? 2 Personaggio della mitologia indiana. Si tratta di un avvoltoio che, bruciatosi le ali per essere volato troppo vicino al sole, le riottenne dal dio del sole Surya.

7 Vuole qualcosa per fermare l'emorragia?» Li vedo sobbalzare come sotto l'effetto di una scarica elettrica, tutti, la stessa reazione ogni volta. Riderei, se non mi trattenesse la compassione. Quei volti che scattano verso di me quasi li avessi fatti girare a forza appoggiando la mano sulla curva delicata tra zigomo e mento. Sebbene naturalmente non sia così. A noi maghe non è consentito toccare chi viene da noi. Non possiamo turbare il fragile equilibrio tra dare e ricevere su cui si reggono precariamente le nostre vite. Per un attimo sostengo il loro sguardo, e l'aria intorno si fa immobile e greve. Alcuni peperoncini cadono sul pavimento sparpagliandosi come dura pioggia verde. La bambina si divincola piagnucolando tra le braccia della madre, che la stringe più forte. Quegli sguardi sfuggenti, di paura, di desiderio. Strega, dicono gli occhi. Sotto le palpebre abbassate passano visioni di storie bisbigliate intorno al fuoco nel buio della notte, nei villaggi natii. «Va bene così per oggi», dice una delle due donne, asciugandosi le mani sui pantaloni di poliestere consunti, facendo scivolare verso di me il sacchetto dei peperoncini. «Zitta bambina, piccola rani», blandisce l'altra, concentrandosi sui riccioli aggrovigliati della figlioletta finché le consegno lo scontrino. Andandosene evitano prudentemente di guardarmi. Ma torneranno più tardi. Quando sarà buio. Busseranno alla porta chiusa della bottega da cui esala il profumo dei loro desideri e chiederanno. Io le condurrò nella stanza più interna, quella senza finestre, là dove conservo le spezie più pure, raccolte sull'isola per essere usate in caso di seria necessità. Accenderò la candela che tengo pronta a questo scopo e frugherò la semioscurità striata di fuliggine alla ricerca di radici di loto e polvere di trigonella, pasta di finocchio e assafetida arrostita al sole. Dirò le formule di rito. Somministrerò quanto sarà necessario. Pregherò per fugare tristezze e sofferenze così come ci insegnò l'antica. Pronuncerò parole di avvertimento. Ecco perché lasciai l'isola dove i giorni sono fatti di zucchero fuso e cannella, dove cantano uccelli dall'ugola di diamante, dove il silenzio, quando scende, è lieve come la bruma di montagna. La lasciai per questa bottega in cui ho radunato tutto ciò che occorre per la vostra felicità. Ma prima della bottega ci fu l'isola, e prima dell'isola il villaggio che mi ha vista nascere. Quanto tempo è passato da quella stagione riarsa, dal giorno in cui la calura bruciava le risaie spaccate dal sole e mia madre si agitava sulla stuoia di partoriente implorando un po' d'acqua. Poi un tuono blu acciaio e la sagoma spezzata della saetta che schiantò il vecchio baniano sulla piazza del villaggio. La levatrice cacciò un urlo al vedermi sul volto la membrana violacea tramata di vene, e l'indovino, guardando mio padre, scosse il capo tristemente nella sera invasa dai moscerini. Mi chiamarono Nayan Tara, Stella degli Occhi, ma sul viso dei miei genitori

8 gravava il peso delle speranze tradite da un'altra femmina, per di più color del fango. Fasciatela in un vecchio straccio, adagiatela sul pavimento a faccia in giù. Cos'altro porterà in casa oltre ai debiti per farle la dote? Ci vollero tre giorni perché gli abitanti del villaggio riuscissero a estinguere l'incendio sulla piazza del mercato. E mia madre giacque febbricitante per tutto il tempo, le mammelle delle vacche si prosciugarono e io gridai senza tregua finché non mi placarono col latte di un'asina bianca. Forse per questo ebbi così presto il dono della parola. E quello della vista. O furono la solitudine, il bisogno rabbioso di una bambina scura di pelle abbandonata a se stessa a vagabondare nel villaggio, senza che nessuno l'avesse abbastanza a cuore da dirle: No. Ero io a sapere chi aveva rubato il bufalo a Barilai, il portatore d'acqua, e chi tra le servette andava a letto col padrone. Ero io a percepire dove si poteva trovare un tesoro sepolto sottoterra, io a capire perché la figlia del tessitore non parlava più dall'ultima luna piena. Fui io a rivelare allo zamindar come recuperare l'anello perduto. Io ad avvertire il capo del villaggio quando le inondazioni stavano per arrivare. Io, Nayan Tara, il cui nome significa anche Stella Veggente. La mia fama si diffuse lontano. Dalle città vicine e distanti, dalle metropoli al di là delle montagne la gente veniva da me perché io mutassi il suo destino con un tocco della mano. Ricevevo doni mai visti prima nel villaggio, doni così straordinari da rimanere nei discorsi di tutti per giorni e giorni. Sedevo su cuscini intessuti d'oro e mangiavo in piatti d'argento adorni di pietre preziose, meravigliandomi di quanto fosse facile abituarsi alla ricchezza, e di come ciò apparisse del tutto giusto e naturale. Curavo la figlia di un principe, predicevo la morte di un tiranno, disegnavo arabeschi sul terreno perché i venti continuassero a soffiare favorevoli per le navi dei mercanti. Uomini grandi e grossi tremavano sotto il mio sguardo e si gettavano ai miei piedi, e anche questo sembrava naturale e giusto. E così crebbi, orgogliosa e caparbia. Indossavo abiti di una mussola così impalpabile da passare attraverso la cruna di un ago. Mi pettinavo i capelli con pettini intagliati nel guscio delle grandi tartarughe delle isole Andamane. Mi contemplavo a lungo, piena di ammirazione, in specchi dalle cornici di madreperla, sebbene sapessi di non essere bella. Prendevo a schiaffi le cameriere se non si dimostravano abbastanza sollecite ai miei comandi. A tavola mi servivo dei bocconi migliori, e gettavo a terra gli avanzi per i miei fratelli e le mie sorelle. Mia madre e mio padre non osavano dar voce alla propria ira, timorosi com'erano dei miei poteri. E anche perché amavano il lusso in cui li facevo vivere. E quando leggevo questo nei loro occhi, provavo sdegno, e un senso di trionfo nero come la bile mi agitava le viscere, perché io, da ultima, adesso ero la prima. E si insinuava in me anche un altro sentimento, un dispiacere muto e profondo, ma io lo allontanavo e lo ignoravo. Io, Nayan Tara, ormai dimentica dell'altro significato del mio nome: Fiore Cresciuto nella Polvere della Strada. E ignara che mi sarei chiamata così ancora per poco.

9 E intanto i baul girovaghi cantavano le mie lodi, gli orefici incidevano le mie sembianze su medaglioni di buon augurio portati da migliaia di persone, e i mercanti diffondevano la fama dei miei poteri in ogni terra al di là dei mari domati dall'uomo. E fu così che i pirati scoprirono la mia esistenza.

10 Curcuma Sollevando il coperchio del contenitore accanto alla porta della bottega, se ne percepisce subito l'odore, anche se ci vuole un attimo prima che il cervello ne registri l'aroma sottile, lievemente amaro come quello della nostra pelle, e quasi altrettanto familiare. Accarezzatene la superficie con la mano, e la serica polvere gialla vi infarinerà il palmo e i polpastrelli. Polvere d'ala di farfalla. Avvicinate la mano al volto. Strofinatevi le gote, la fronte, il mento. Non abbiate timore. Per millenni prima dell'inizio della storia, le spose - e le fanciulle che aspiravano a maritarsi - hanno fatto lo stesso. Imperfezioni e rughe scompariranno, grasso e segni del tempo saranno spazzati via. Per giorni, in seguito, la pelle brillerà di un pallido bagliore dorato. Ogni spezia ha un suo giorno speciale. Quello della curcuma è la domenica, quando la luce gocciola burrosa nei barattoli di latta che se ne imbevono fino a splendere, quando si pregano i nove pianeti perché ci concedano amore e buona sorte. La curcuma, chiamata anche halud, giallo, il colore dell'alba e dello squillo delle conchiglie suonate sul far del giorno. La curcuma capace di conservare, di mantenere sano il cibo in una terra di calore soffocante e di fame. La curcuma, spezia della fortuna, spalmata sulla fronte dei neonati in segno di buon auspicio, sparsa sulle noci di cocco al momento della puja, strofinata lungo gli orli dei sari nuziali. Ma non è tutto. Ecco perché le raccolgo solo nel momento preciso in cui la notte scivola nel giorno, queste radici bulbose come scure dita contorte, ecco perché le macino soltanto quando Swati, la stella della fede, brilla incandescente a nord. Se la tengo tra le mani, la spezia mi parla. Ha una voce di crepuscolo, sembra riecheggiare l'inizio dei tempi. «Io sono la curcuma nata dall'oceano di latte quando Deva e Asura 3 ne rimescolarono le acque in cerca dei tesori dell'universo. Sono la curcuma venuta dopo il veleno e prima del nettare e perciò sto sospesa tra i due». Sì, sussurro, dondolando al ritmo delle parole. Sì. Sei la curcuma, scudo ai dolori del cuore, unguento per la morte, speranza di rinascita. Cantiamo insieme il tuo canto, come già tante volte abbiamo fatto. E perciò penso subito alla curcuma quando questa mattina entra nella bottega la moglie di Ahuja con gli occhiali scuri. La moglie di Ahuja è giovane e sembra ancor più giovane di quanto non sia. Non in modo esuberante e allegro, ma acerbo e incerto, come di chi si sia sentita ripetere più e più volte: non sei all'altezza. Viene ogni settimana dopo il giorno di paga e fa acquisti semplici e frugali: riso grossolano da pochi soldi, dal in offerta speciale, una bottiglietta di olio, a volte un 3 Dèi e spiriti supremi. Si allude qui alla zangolatura dell'oceano di latte, quando gli dèi, indeboliti da una maledizione, ne rimescolarono le acque alla ricerca del nettare della vita. Prima del nettare però emerse, tra le altre cose, un potente veleno, subito inghiottito da Shiva perché non cagionasse alcun male.

11 po' di atta per preparare i chapati. Talora la vedo prendere in mano con espressione di esitante desiderio un barattolo di achar di mango o un pacchetto di papad. Ma li rimette invariabilmente a posto. Le offro un gulab jamun, ma lei s'imporpora con aria sofferta e scuote il capo. La moglie di Ahuja ha un nome, naturalmente. Lalita. La-li-ta, tre sillabe armoniose, perfette per la sua morbida bellezza. Vorrei chiamarla per nome, ma com'è possibile quando lei stessa pensa di non essere niente più di una moglie? Questo non me l'ha rivelato lei. Mi ha detto ben poco, in tutte le volte che è venuta, se non «Namaste», oppure «C'è uno sconto?» o ancora «Dove posso trovare...?» Ma io lo so, e so anche altre cose. Per esempio: Ahuja fa il guardiano al porto, e non disdegna un bicchierino o due. Anche tre o quattro, negli ultimi tempi. E ancora: la moglie di Ahuja, come me, possiede un dono, una capacità speciale, sebbene non la consideri tale. Se tocca una stoffa, una qualsiasi, con l'ago, la fa sbocciare in tutta la sua bellezza. Una volta la sorpresi assorta davanti alla vetrina delle stoffe, intenta a rimirare il palloo di un sari ricamato d'argento. Lo tirai fuori. «Ecco, - esclamai, drappeggiandoglielo sulla spalla. - Questo color mango le dona moltissimo». «No, no». Si tirò indietro in fretta con aria di scusa. «Stavo solo guardando il ricamo». «Ah. Lei sa cucire?» «Sì. Cucivo parecchio, una volta. E quanto mi piaceva. A Kanpur frequentavo una scuola per sarte, avevo la mia Singer e lavoravo per molte signore». Abbassò gli occhi. Nella tristezza della curva del collo vidi ciò che lei non aveva ammesso, il sogno in cui aveva osato sperare: un giorno non lontano, forse, perché no, un negozio tutto suo, Sartoria Lalita. Ma quattro anni prima un vicino benintenzionato era andato da sua madre e le aveva detto, Bahenji, sorella, c'è un ragazzo, proprio quello che fa per voi, vive all'estero, ha uno stipendio in dollari americani, e la madre aveva risposto di sì. «Perché non prova a lavorare qui in America? - le domandai. - Sono sicura che anche qui molte signore hanno bisogno di lavori di cucito. Non le piacerebbe...» Mi scoccò una lunga occhiata piena di desiderio. «Oh, sì». Poi tacque. Ecco quello che vorrebbe raccontarmi, ma come può, povera creatura, non è ammissibile, una donna non dovrebbe dire certe cose del suo uomo: tutto il giorno a casa si sente così sola, in mezzo a sabbie mobili di silenzio pronte a risucchiarla via per i polsi e le caviglie. Piange lacrime che non sa trattenere, lacrime disobbedienti quanto semi di melograno rovesciati per sbaglio, e Ahuja si mette a urlare, quando torna a casa, e le vede gli occhi gonfi. La sua donna non deve lavorare. «Non sono abbastanza uomo, abbastanza uomo, abbastanza uomo». Le parole s'infrangono insieme ai piatti spazzati via dalla tavola apparecchiata per cena. Anche oggi impacchetto le solite provviste, frugali come sempre: masoor dal, un chilo di atta, un po' di cumino. Poi, gli occhi scuri e profondi quanto un pozzo in cui si potrebbe affogare, la vedo rimirare nella vetrina un sonaglio d'argento per neonati.

12 Perché è questo che la moglie di Ahuja desidera più di ogni altra cosa. Un bambino. Di sicuro un bambino sistemerebbe tutto, perfino le notti di ansiti e grugniti, senza fine, con il peso addosso che la inchioda giù, e sulla faccia il fiato acre e bollente di un animale. La voce di lui come il palmo calloso di una mano artigliata emersa dalle tenebre. Un bambino per cancellare ogni altra cosa, la piccola bocca odorosa di latte che la cerca. Il desiderio di un bambino, più profondo di ogni altro, più della fame di ricchezza, della bramosia di un amante, più forte persino della voglia di morire. Appesantisce l'aria della bottega, viola come per l'avvicinarsi di una tempesta. Emana l'odore del tuono. Brucia. O Lalita che ancora non sei Lalita, io possiedo il balsamo per lenire le tue ardenti ferite. Ma cosa posso fare se tu non sei pronta, se non ti apri alla bufera? Cosa, se non mi chiedi nulla? Intanto ti do la curcuma. Una manciata di polvere avvolta in un vecchio foglio di giornale insieme al sussurro delle parole risanatrici, il piccolo involto infilato nel sacchetto della spesa mentre tu non guardi. Lo spago legato con un nodo a forma di trifoglio, e, dentro, curcuma più soffice del raso, dello stesso colore del livido che ti invade la gota sfuggendo dal bordo scuro degli occhiali da sole. A volte mi chiedo se la realtà esiste davvero, se c'è veramente una natura delle cose, obiettiva e intatta. O se tutto ciò che ci accade è già modificato in anticipo dalla nostra immaginazione. Se sognando qualcosa gli diamo vita. Questo genere di riflessioni mi assale soprattutto quando penso ai pirati. I pirati avevano denti di pietra levigata e scimitarre dai manici di zanne di cinghiale. Portavano alle dita anelli di ametista, di berillo, di rubino, e appesi al collo zaffiri per aver fortuna sui mari. Spalmata di olio di balena, la loro pelle splendeva scura come mogano o pallida come corteccia di betulla, perché i pirati appartengono a molte razze e provengono dalle terre più diverse. Sapevo tutto questo per averlo sentito nei racconti che noi bambini ascoltavamo la sera prima di dormire. I pirati assalivano e saccheggiavano e bruciavano, e prima di andarsene prendevano i bambini. I maschietti per farne altri bucanieri, e le bambine, diceva la nostra vecchia cameriera in un sussurro, rabbrividendo di voluttà mentre spegneva con un soffio la lampada sul comodino, per i loro corrotti piaceri. Dei pirati non ne sapeva niente più di noi bambini. Da almeno cent'anni non se ne vedeva neppure l'ombra nel nostro piccolo villaggio sul fiume. Dubito che neppure ci credesse, all'esistenza dei pirati. Ma io ci credevo. Per lunghe ore, dopo quei racconti, giacevo sveglia e ci pensavo piena di struggimento. Stavano là, da qualche parte nel bel mezzo del grande oceano, alti e risoluti, sulle prue delle navi, le braccia conserte, le facce di granito rivolte al nostro villaggio, i capelli sciolti frustati dal vento salmastro. Quello stesso vento salmastro me lo sentivo addosso anch'io. Irrequietudine. Quanto s'era fatta noiosa la mia vita, le lodi senza fine, le canzoni di encomio, le

13 montagne di doni, la timorosa deferenza dei miei genitori. E le notti infinite, a vegliare nel letto in mezzo a un branco di ragazzine che nel sonno esalavano lamentose i nomi dei ragazzi dei loro sogni. Affondavo il viso nel guanciale per sfuggire al vuoto che mi si apriva nel petto simile a una mano nera. Mi concentravo sulla mia insoddisfazione fino a farla scintillare come un amo acuminato e poi lo lanciavo lontano, nell'oceano, per adescare i pirati. Stavo usando la tecnica di richiamo col pensiero, anche se solo più tardi, sull'isola, ne conobbi il nome. Un richiamo grazie al quale, ci disse l'antica, si può attirare a sé chiunque si desideri: un amante al nostro fianco, un nemico ai nostri piedi. Un richiamo con cui si riesce a estrarre l'anima dal corpo di chicchessia per poi tenerla, nuda e pulsante, sul palmo della mano. Una tecnica capace di arrecare rovina e morte al di là di ogni immaginazione, se impiegata impropriamente e senza controllo. Proprio così. Altri possono dare la colpa dell'arrivo dei pirati ai mercanti che diffusero la mia fama in ogni terra. Ma la verità è un'altra. Io lo so. Arrivarono al crepuscolo. In seguito mi parve proprio il momento giusto, l'ora in cui non si distingue il giorno dalla notte, né la verità dal desiderio. Un nero albero solcò la bruma della sera, torce guizzarono illuminando di un avido rosso la capanna, le biche di grano e la stalla, che già odorava di carne bruciata. E, più tardi, gli occhi accesi degli abitanti del villaggio, le bocche spalancate per gridare da cui esalava solo fumo. Stavamo mangiando quando i pirati fecero a pezzi le pareti di bambù della casa di mio padre e ci furono addosso. Dalle facce annerite gocciolava grasso, e tra le labbra contorte, sì, i denti erano pietre levigate. E così pure gli occhi. Levigati e ciechi mentre avanzavano verso di me, attirati dalla forza del pensiero di richiamo, l'amo d'oro che avevo lanciato con tanta sventatezza al di là del mare. Un calcio spazzò via ciotole e brocche, sparpagliando riso, pesce e miele di palma, un braccio si curvò a casaccio nell'aria, e piantò una spada in petto a mio padre. Altre mani strapparono arazzi dalle pareti, trascinarono le donne negli angoli, ammonticchiarono collane e orecchini e cinture ingioiellate sulla gonna verde di una delle mie sorelle. Madre, non pensavo sarebbe accaduto in questo modo. Cercai di fermarli. Gridai tutti gli incantesimi che conoscevo fino a diventare rauca, disegnai nell'aria i segni del potere con mani tremanti. Soffiai su una scheggia di coccio per trasformarla in selce e la scagliai al cuore del capo dei pirati. Ma lui la spinse via con un dito e fece un cenno ai suoi uomini perché mi legassero. Il mio pensiero di richiamo aveva messo in moto una valanga, e neppure io ero in grado di arrestarne la forza devastatrice. Mi trascinarono attraverso il villaggio in fiamme, inebetita dall'emozione e dalla vergogna, annichilita da questa impotenza nuova per me. Saliva fumo dalle macerie. Gli animali mugghiavano in preda al terrore. La voce del capo dei pirati si levò a coprire i lamenti dei moribondi, dandomi un nome nuovo colmo di crudele ironia, Bhagyavati, Colei che porta la buona sorte: perché questo dovevo essere per loro. Padre, sorelle, perdonatemi: io, un tempo Nayan Tara, ambivo al vostro amore e ho conquistato solo la vostra paura. Perdonami, villaggio mio: per noia e delusione ho

14 causato la tua rovina. Il dolore che mi lasciavo alle spalle mi bruciava, una brace ardente in petto, mentre i pirati mi gettavano sul ponte della nave, mentre salpavamo, mentre la linea infuocata della mia terra natia scompariva oltre l'orizzonte. A lungo, molto a lungo dopo che il pensiero di richiamo ebbe esaurito i suoi effetti e io potei recuperare i miei poteri, resi anzi più forti dall'odio, come spesso accade al potere, ancora per molto tempo dopo essermi ribellata al capo dei pirati ed esserne divenuta regina continuai a sentirmi divorare dal dolore. La vendetta non lo placava, contrariamente a quanto avevo immaginato. Non era certo l'ultima volta che avrei frainteso i meccanismi del mio cuore. Ah, pensavo, brucerò per sempre, la cicatrice si riaprirà e arderà ancora, e accoglievo lieta la punizione. Per un anno - o forse furono due, o tre? il tempo a tratti gira su se stesso nel mio racconto - vissi da regina, guidando i pirati verso la fama e la gloria, affinché i bardi ne cantassero le imprese temerarie. Ma dentro di me portavo il mio dolore segreto, impresso indelebilmente in ogni angolo del cuore. Un dolore su cui si innestava la verità appresa in modo così duro: l'incantesimo è più forte dell'incantatore; una volta scatenato, non lo si può più contrastare. Di notte camminavo sui ponti sola e insonne: io, Bhagyavati, maga, regina dei pirati, portatrice di buona sorte e di morte, trascinando il lungo mantello nella polvere salmastra come un'ala spezzata. Avrei voluto ridere, ma non avevo più sorrisi. Né lacrime. Non li dimenticherò mai, questo dolore e questa verità, dicevo a me stessa. Mai. Non sapevo ancora che si dimentica tutto. Prima o poi. Ma ora vi devo parlare dei serpenti. I serpenti sono dappertutto, sì, anche in casa vostra, nella vostra stanza preferita. Forse proprio sotto il focolare, o attorcigliati nelle intercapedini dei muri, o nascosti nella trama dei tappeti. Quel guizzo che s'intravede con la coda dell'occhio e subito scompare. La bottega? La bottega ne è piena. Sorpresi? Non ne avete mai visti, replicate. Perché hanno perfezionato l'arte dell'invisibilità. Se loro non vogliono, non li scorgerete mai. No, neppure io riesco a individuarli. Non più. Ma so che ci sono. Ecco perché ogni mattina prima dell'arrivo dei clienti sistemo vasi di terracotta pieni di latte in tutti gli angoli del negozio. Dietro il mucchio dei sacchi di riso basmati, nella sottile fessura sotto gli scaffali di dal, accanto alla vetrina colma di sgargianti oggetti di artigianato che gli indiani comprano soltanto per regalarli agli americani. Devo disporre le ciotole con cura e per bene, cercando sul pavimento il punto preciso, caldo come pelle e pulsante. Devo guardare nella giusta direzione, nord-nordovest, chiamata ishan nell'antico linguaggio. Devo bisbigliare le parole di invito. I serpenti. Le creature più arcaiche, le più vicine alla madre terra, la sostengono e scivolano sul suo petto. Li ho sempre amati. Un tempo anche loro mi amavano.

15 Nei campi spaccati dalla calura dietro la casa di mio padre, i serpenti di terra mi proteggevano dal sole quand'ero stanca di giocare. I cappucci tesi e allargati, l'odore fresco quanto la terra umida sotto i ciuffi dei banani. Nei corsi d'acqua che orlavano il villaggio come nastri, i serpenti di fiume nuotavano accanto a me, pelle contro pelle, frecce d'oro a solcare acque screziate di pagliuzze di sole, raccontandomi storie. Come dopo mille anni le ossa di un affogato si trasformino in candido corallo, gli occhi in perle nere. Come giù, sott'acqua, in una caverna profonda, abiti il re dei serpenti, Nagraj, a guardia di montagne di tesori. E i serpenti dell'oceano, i serpenti di mare? Mi hanno salvato la vita. Ascoltate, vi racconterò tutto. Dopo essere stata regina dei pirati per un po', una notte mi inerpicai in cima alla prua della nave. Ci trovavamo nella zona delle grandi bonacce. Attorno a me l'oceano giaceva scuro e spesso, una distesa di ferro solidificato. Mi pesava addosso come la mia vita. Pensai agli anni trascorsi, a tutte le scorrerie che avevo guidato, alle ricchezze accumulate senza scopo e senza scopo dilapidate. Guardai avanti, negli anni a venire e vidi le stesse cose, onda su onda d'inchiostro gelato. «Voglio, voglio...» mormorai. Ma cosa davvero desiderassi, non sapevo, se non che non si trattava di quella vita. La morte? Forse. E così mandai un altro pensiero di richiamo sull'acqua del mare. Il cielo si fece opaco quanto le scaglie di un pesce hilsa arenato sulla sabbia, l'aria divenne pungente e carica di elettricità, il vento urlò funereo tra gli alberi della nave e lacerò le vele. E poi apparve all'orizzonte il grande tifone che avevo risvegliato dal sonno nelle profondità dell'oceano orientale. Veniva da me, e il mare ribolliva al suo passaggio. I pirati urlarono il loro terrore dalle cuccette sottocoperta, ma le grida mi giunsero attutite, come un'eco del mio passato. Quando si ha il cuore indurito dal proprio dolore, è facile restare indifferenti a quello altrui. Dentro di me affiorò un interrogativo, simile alla punta di un albero spezzato in un mare agitato dalla tempesta. Altre voci avevano forse gridato verso di me nello stesso tono tanto tempo prima? Ma lasciai cadere la domanda nel boato del vento. Quant'è eccitante, pensai. Essere sollevata nel cuore del caos, rimanere in equilibrio senza fiato sull'orlo del nulla. E poi la caduta a precipizio, il mio corpo sottile ridotto in briciole, le ossa frantumate, liberate, divenute schiuma, il cuore finalmente sciolto dalle catene. Ma quando vidi la bocca dell'imbuto librata su di me, e scorsi al suo interno lampi grigi come lame rotanti, mi calò nelle membra un greve senso di gelo. Seppi di non essere ancora pronta. Il mondo mi apparve dolce più che mai, all'improvviso, bello in modo struggente, e desiderai con tutta me stessa di restarci. «Vi prego», urlai. Ma a chi fosse rivolta la mia preghiera, non sapevo. Troppo tardi Bhagyavati portatrice di morte. Fu allora che li udii. Un suono sommesso, poco più di un brusio, nemmeno da paragonare al mugghio del fortunale. Ma veniva da un luogo profondo e lento, il centro dell'oceano forse, e

16 fece fremere la nave e anche il mio cuore. E poi le teste ritte immobili al di sopra delle acque vorticose, la luce calma emanata dai gioielli incastonati nelle creste. O fu lo splendore degli occhi a conquistarmi. Non saprei dire quando il tifone risalì verso il cielo, quando le onde si addolcirono. Il mio corpo era pieno di quel canto, senza peso, luminoso. I serpenti di mare che dormono tutto il giorno in grotte di corallo, per salire in superficie solo quando Dhruva, la stella del nord, riversa nell'oceano la sua ampolla di luce lattea. Pelle di madreperla fusa, lingue come guizzi di lucido argento. Di rado appaiono a occhi mortali. Più tardi chiesi loro, più e più volte: «Perché mi avete salvata, perché?» I serpenti non mi risposero mai. Che risposta può mai dare l'amore? Furono i serpenti di mare a parlarmi dell'isola. E, così facendo, mi salvarono un'altra volta. Fu davvero così? A volte non ne sono sicura. «Spiegatemi meglio». «L'isola è là da sempre, - dissero i serpenti, - e così pure l'antica. Neppure noi, che abbiamo visto le gemme di roccia in fondo al mare crescere e diventare montagne, che eravamo là quando Samudra Puri, la città perfetta, affondò dopo la grande inondazione, sappiamo nulla della sua origine». «E le spezie?» «Da sempre. Il profumo si diffonde come le lunghe note a spirale delle shehnai, come il suono del madol che fa rimescolare il sangue col suo ritmo selvaggio, fino all'altra sponda dell'oceano». «E l'isola, che aspetto ha? E lei?» «L'abbiamo vista solo da lontano: il verde di un vulcano assopito, il rosso delle spiagge di sabbia, spunzoni di granito simili a denti grigi. Nelle notti in cui si inerpica sulla cima più alta l'antica si trasforma in una colonna di fuoco. Le sue mani scatenano attraverso il cielo una scrittura di tuoni». «Non avete mai desiderato andarci?» «È pericoloso. I suoi poteri sull'isola e nelle acque circostanti non hanno rivali. Una volta avevamo un fratello, Ratnanag dagli occhi d'opale, il curioso. Udì i canti e si avventurò vicino alla costa nonostante i nostri avvertimenti». «E poi?» «Parecchi giorni dopo trovammo la sua pelle che galleggiava sull'acqua, perfetta, morbida come un'alga appena nata, e profumata di spezie. E sopra di essa, a girare in tondo fino al tramonto, emettendo stridi disperati, un uccello dagli occhi di opale». «L'isola delle spezie», ripetei, e mi sembrò di aver trovato il nome dei miei desideri. «Non andare! - gridarono i serpenti. - Vieni con noi, piuttosto. Ti daremo un nome nuovo, una nuova esistenza. Sarai Sarpa Kania, la fanciulla dei serpenti. Ti porteremo per i sette mari sulla nostra groppa. Ti mostreremo il luogo ove Samudra Puri dorme nel fondo dell'oceano, in attesa del suo momento. Forse sarai proprio tu a risvegliarla». Se solo me lo avessero chiesto prima.

17 Sulla superficie dell'acqua brillava la prima pallida luce dell'alba. Le pelli dei serpenti divennero trasparenti, assunsero la tinta delle onde. Il richiamo delle spezie mi scorreva nelle vene, inarrestabile. Distolsi lo sguardo dai serpenti e rivolsi il viso nella direzione in cui immaginavo l'isola, che mi aspettava. Sibili d'improvviso irati e tristi. Acqua spumeggiante frustata dalle code. «Perderà tutto, povera sciocca. Vista, voce, nome. Forse anche se stessa». «Non avremmo dovuto parlargliene mai». Ma il più vecchio soggiunse: «L'avrebbe scoperta in qualche altro modo. Guardate quella lucentezza di spezie sotto la pelle, segno del suo destino». E prima che l'oceano gli si richiudesse opaco sopra la testa, mi insegnò la via. Da allora non ho mai più visto i serpenti di mare. Furono loro i primi ad allontanarsi da me per colpa delle spezie. Ho saputo che anche qui, in America, nell'oceano al di là del ponte d'oro rosso in fondo alla baia, ci sono serpenti. Non sono andata a vederli. Mi è proibito lasciare la bottega. No. Devo dirvi la vera ragione. Ho paura che non si lascino scorgere da me. Che non mi abbiano perdonata per aver scelto le spezie. Infilo l'ultima ciotola al suo posto sotto la vetrina degli oggetti di artigianato, poi mi tiro su premendomi una mano sulla schiena. Mi stanca, a volte, questo vecchio corpo di cui mi sono ammantata prima di venire in America, prendendomi insieme ad esso tutti i dolori della vecchiaia. È proprio come diceva la Prima Madre. Per un attimo ripenso agli altri suoi avvertimenti cui allora non avevo creduto. Domani ritirerò le ciotole, vuote e leccate fino a brillare, ma non avrò il bene di vedere neppure una squama caduta. Eppure, talora penso di volerci provare: in piedi nella bruma della sera là dove la terra finisce in un boschetto di cipressi contorti, tra le sirene antinebbia e i latrati delle foche nere, vorrei tentare di cantare per loro. Mi metterò sulla lingua un po' di shalparni, erba della memoria e della persuasione, e salmodierò le parole antiche. E anche se non verranno, almeno ci avrò provato. Forse lo chiederò ad Haroun, che guida la Rolls per la signora Kapadia, Haroun i cui passi lievi come una risata si fanno sentire proprio ora davanti alla mia porta, di portarmi là nel suo giorno libero. «Signora, - esclama Haroun entrando di slancio e portando con sé una folata d'aria profumata di pino e di akhrot, la noce bianca e rugosa dei monti del Kashmir dov'è nato. - Oh signora, signora, notizie per te». Cammina scivolando sul linoleum consunto, senza quasi sfiorarlo. La bocca è una luce bramosa. È sempre stato così. Dalla prima volta che è venuto nella bottega al seguito dei fianchi altezzosi della signora K., pronto a cercare, accumulare, trasportare, fare salamelecchi, ma senza abbandonare la sua espressione di scusa divertita negli occhi, come se dicesse: faccio questo gioco solo per un po'. E quella notte tornò da solo e mi disse: «Signora per favore, prego leggi la mano». E mi offrì i palmi callosi. «Non sono in grado di prevedere il futuro», lo avvertii.

18 E veramente non ne sono capace. L'Antica non l'ha insegnato a noi maghe. «Vi impedirebbe di sperare, - ci disse. - Di impegnarvi al massimo. Di avere piena fiducia nelle spezie». «Oh, ma Ahmad mi ha raccontato come l'hai aiutato a procurarsi una carta verde, no, no, non scuotere il capo, e Najib Mokhtar stavano per licenziarlo e il terzo giorno dopo essere stato qui e aver ricevuto un tè speciale da far bollire e da bere, subhanallah!, il suo capo è stato trasferito dritto filato a Cleveland e Najib ne ha preso il posto». «Il merito non è mio, è del dashmul». Ma lui continuò a tendermi le mani, quelle mani così indurite e fiduciose, finché dovetti indicare col dito i polpastrelli e i palmi ruvidi e screpolati e chiedere: «Come hai fatto a ridurtele così?» «Oh, questo. Spalando carbone sulla nave venendo qui e poi in officina. Chiavi e leve, e, prima, il lavoro sulle strade con il martello pneumatico e il catrame da versare». «E prima ancora?» Un lieve tremito alle dita. Una pausa. «Sì, anche prima di allora. A casa siamo barcaioli sul lago Dal, mio nonno, mio padre e io: remiamo sulla shikara di famiglia per i turisti da America ed Europa. Un anno di guadagno così buono che ricopriamo i sedili di seta rossa». Non volli sentire altro. Già percepivo il suo passato nelle linee corrugate e nere come il tuono sui palmi delle mani. Da sotto il banco presi una scatola di chandan, la polvere di sandalo che allevia il dolore del ricordo. Cosparsi le mani di Haroun con quella serica fragranza, stando attenta a non toccarle. Gliela versai sulle linee della vita. «Strofinati le mani». Obbedì con aria assente. E mentre lo faceva mi raccontò la sua storia. «Un giorno cominciarono a combattere, e i turisti non vennero più. I ribelli scesero a cavallo dai passi di montagna armati di mitragliatrici, gli occhi come buchi neri nel volto. Sì, arrivarono nelle strade di Srinagar, la città propizia, questo significa il suo nome. Io dico a mio padre: Abbajaan, dobbiamo andarcene subito, ma il nonno ribatte: Toba, toba, dove andremo, è questa la terra dei nostri antenati». «Zitto», soggiunsi io, cancellandogli dal palmo le vecchie linee con la forza di volontà, liberando il suo dolore nell'aria fiocamente illuminata della bottega. Le sofferenze giravano e giravano sopra le nostre teste in cerca di una nuova dimora così come devono fare tutte le sofferenze lasciate libere. E lui continuò a narrarle, scandendo parole di pietra scheggiata. «Una notte i rivoltosi. Nel villaggio sul lago. Vennero a prendersi i giovani. Abbajaan cercò di fermarli. Colpi d'arma da fuoco. Echeggiavano sull'acqua. Sangue e sangue e sangue. Perfino il nonno che dormiva. La seta rossa della shikara diventa ancor più rossa. Avrei voluto anch'io anch'io...» Mentre gli ultimi granelli di chandan gli si scioglievano tra le mani, si fermò con un brivido. Batté le palpebre intontito come risvegliandosi. «Cosa stavo dicendo?» «Volevi conoscere la tua sorte».

19 «Oh sì». Un sorriso prese forma sulle sue labbra con tale struggente lentezza da far pensare che stesse imparando a sorridere da capo. «Sembra promettente, molto promettente. Ti accadranno grandi cose in questa nuova terra, qui in America. Ricchezza, felicità, forse anche l'amore, una bellissima donna dagli occhi di loto nero». «Ah», esclamò con un lieve sospiro. E prima che potessi impedirglielo si chinò a baciarmi le mani. «Signora ti ringrazio». I suoi riccioli mandavano bagliori di un morbido nero, un cielo notturno d'estate. La bocca era un cerchio di fuoco, mi bruciò la pelle e il piacere mi percorse le vene incendiandole. Non avrei dovuto consentirglielo. Ma come potevo tirarmi indietro? Le cose contro cui mi avevi messa in guardia, Prima Madre, io le volevo tutte. Le sue labbra innocenti e infuocate sul palmo della mia mano, le sue sofferenze splendenti come lucciole accese tra i miei capelli. E nello stesso tempo qualcosa dentro di me ebbe un guizzo di paura. Un poco per me stessa, ma molto di più per lui. Non sono in grado di prevedere il futuro, è vero. Ma quel pulsare disperato nei polsi di Haroun, il sangue troppo rapido quasi sapesse di avere solo poco tempo... Uscì baldanzosamente nelle tenebre pericolose intorno alla bottega, Haroun intrepido: non avevo forse promesso? E io posso far accadere qualsiasi cosa, carte verdi e promozioni e fanciulle dagli occhi di loto. Io Tilo architetto del sogno dell'immigrato. O Haroun, avevo mandato una supplica per te su nell'aria scoppiettante che ti eri lasciato alle spalle. Legno di sandalo, proteggi lo splendore del suo sguardo. Ma ci fu un'esplosione improvvisa là fuori, lo scappamento di un autobus, o forse un colpo d'arma da fuoco. E sommerse la mia preghiera. Oggi sono felice di ammettere il mio errore. Perché sono passati tre mesi e Haroun, con un sorriso solare pieno di nuove parole americane, mi dice: «Signora, non ci crederai. Ho lasciato il lavoro con quella Kapadia memsaab». Aspetto le sue spiegazioni. «Tutta questa gente piena di soldi, credono di essere ancora in India. Ti trattano come janwaar, bestie. Ordinano questo, ordinano quello, non c'è mai fine, e dopo che ti sei fatto fuori le suole correndo qua e là per loro, neanche un cenno di ringraziamento». «E adesso, Haroun?» «Ascolta, ascolta. Ieri sera stavo da McDonald, vicino alla lavanderia Thrifty sulla Quarta Strada, quando qualcuno mi posa una mano sulla spalla. Io faccio un salto perché, ti ricordi, il mese scorso ci fu una sparatoria, un tipo voleva soldi e non ne ebbe abbastanza. Prego Allah mentre mi giro ma è soltanto Mujibar, dal villaggio di mio zio su vicino a Pahalgaon. Mujibar, non sapevo neppure che fosse in America. E se la passa anche bene, ha già un paio di taxi e gli serve un autista. Un buon salario, mi dice, soprattutto per un compagno kashmiro e forse anche la possibilità di comprare il taxi dopo un po'. E pensa, niente vale quanto essere il padrone di te stesso. Così accetto e corro a dirlo alla memsaab: me ne vado. Signora, credi a me, ha fatto una faccia viola che sembrava una melanzana. Perciò da domani starò alla guida

20 di un taxi nero e giallo come un girasole». «Un taxi», ripeto con un tono da scema. Mi sento nello stomaco una specie di morsa di ghiaccio, ma perché. «Signora ti devo ringraziare, è tutto merito tuo questo keramat, e adesso vieni a vedere il mio taxi, è qui fuori. Vieni, vieni, la bottega starà benissimo anche senza di te per un minuto». O Haroun, nei tuoi occhi supplichevoli vedo che per te una gioia non è reale finché non la condividi con qualcuno a te caro, e in questo paese lontano chi altri hai? Quindi non posso evitare di metter piede sul cemento proibito d'america lasciandomi alle spalle la bottega, cosa che mai dovrei fare. Dietro di me un sibilo, una specie di fischio costernato, ma forse è solo vapore da una grata sotterranea. Il taxi è là, a mantenere la promessa di Haroun: la carrozzeria lucida pare una scultura di burro, liscia e armoniosa, ma scatena un senso di freddo dentro di me prima ancora dell'invito di Haroun: «Toccalo». Allungo la mano. La visione mi scoppia contro le palpebre, un fuoco d'artificio esploso male. Buio, sera: le portiere della macchina si spalancano dondolando pazzamente insieme al cassetto del cruscotto, e qualcuno si accascia sul volante: è un uomo o una donna? E i riccioli sono di un nero lucente e madido di sudore come la paura, la bocca era di sole un tempo, la pelle è spaccata e livida - o è solo un'ombra? Passa. «Signora, tutto ok? Hai una faccia più grigia di un giornale vecchio, occuparti della bottega tutta da sola è troppo per te. Quante volte ti ho detto di mettere un annuncio su "India West" per cercare un aiuto». «Sto bene, Haroun. È una bellissima automobile. Ma stai attento». «O Ladyjaan, ti preoccupi troppo, proprio come la mia vecchia nani a casa. Ok, sai cosa facciamo? Tu mi prepari un bel pacchettino magico e la prossima volta che vengo lo metto in macchina contro la sfortuna. Vado di fretta adesso. Ho promesso ai ragazzi di incontrarli da Akbar e offrire loro un khana speciale». Gli ci vuole, gli ci vuole... Ma senza lasciarmi il tempo di escogitare la spezia giusta è sparito. Soltanto il crepitio secco come un colpo di fucile della portiera che si chiude, il ronzio allegro del motore, il sottile odore di benzina aleggiante nell'aria, una promessa di avventura. Tilo non ti far prendere dalla fantasia. Nella bottega mi aspetta il disappunto delle spezie. Devo fare ammenda. Ma non riesco ancora a smettere di pensare a Haroun. Nell'aria marrone bruciato ho in bocca un sapore di rame, sono nella morsa di un incubo da cui si può sfuggire solo per un attimo, a fatica, perché se ci si riaddormenta tornerà, ma le palpebre sono troppo pesanti e si chiudono inesorabilmente. Forse mi sbaglio anche questa volta. Perché non riesco a crederci? Kalo jire, cumino, mi sovviene, prima di essere di nuovo sopraffatta dalla visione, sangue e ossa fracassate e un urlo sottile quanto un filo rosso che strangola la notte. Devo procurarmi del cumino, la spezia dell'oscuro pianeta Ketu, che protegge dal malocchio. Neroblu e luccicante come le foreste del Sundarban dove è stato trovato

21 per la prima volta, cumino a forma di lacrima, dal profumo di tigre, aspro e selvaggio, per sovrastare ciò che il fato ha scritto per Haroun. Forse l'avete già indovinato. Sono le mani a risvegliare il potere nelle spezie. Hater gun, lo chiamano, valore delle mani. Per questo sono proprio le mani le prime a essere esaminate dall'antica quando le ragazze arrivano all'isola. Ecco ciò che ella dice. «Non devono essere né troppo leggere, né troppo pesanti. Mani leggere sono creature del vento, volano di qua e di là al suo capriccio. E mani pesanti, trascinate giù dal loro stesso peso, non hanno spirito. Sono solo pezzi di carne per i vermi in attesa sottoterra. Le mani giuste non hanno macchie scure sul palmo, indice di cattivo carattere. Chiuse strettamente a coppa e tenute contro sole, non mostrano fessure attraverso le quali spezie e incantesimi potrebbero scivolare via. Non sono fredde e secche come il ventre dei serpenti, perché le maghe delle spezie devono saper sentire il dolore altrui. E neppure calde e umide come il respiro di un amante in attesa davanti alla finestra, perché le maghe delle spezie devono lasciarsi alle spalle le passioni. Al centro della mano giusta è impresso un invisibile giglio, fiore di fredda virtù, perla splendente di mezzanotte». Le vostre mani rispondono a questa litania? Neppure le mie. E allora come mai, direte voi, sono diventata una maga? Bene, ve lo spiegherò. Dal momento in cui il più vecchio dei serpenti mi rivelò la via, feci navigare i miei pirati giorno e notte, senza tregua, finché non cadevano esausti sul ponte, senza neppure l'ardire di domandare perché o dove. Poi una sera la scorgemmo all'orizzonte, una macchia simile a fumo, a una nuvola di mare. Ma io sapevo di cosa si trattava. «Gettate l'ancora», ordinai, e non dissi altro. E mentre la ciurma stravolta dormiva come in trance, mi tuffai nell'oceano di mezzanotte. L'isola era lontana, ma io mi sentivo fiduciosa. Intonai un incantesimo per divenire senza peso e presi a solcare i flutti più lieve dell'aria. Ma quando l'isola appariva ancora minuscola quanto un pugno levato verso il cielo, il canto mi morì in gola. Braccia e gambe si fecero pesanti e rifiutarono di obbedirmi. In quelle acque dominate da una maga assai più potente i miei poteri non valevano nulla. Lottai e mi agitai e inghiottii acqua salata come qualsiasi altra goffa creatura mortale; infine mi trascinai sulla sabbia e crollai in un vertiginoso turbine di sogni. Ho scordato quelle visioni notturne, ma non dimenticherò mai la voce che mi destò. Fredda e rauca, con l'eco di una risata canzonatoria, eppure profonda, così profonda, una voce in cui immergere il cuore. «Che cosa ha vomitato sulla nostra spiaggia il dio del mare stamattina?» L'Antica, circondata dalle sue novizie: il sole le formava un'aureola dietro il capo e le brillava multicolore nelle ciglia. Tanto che io scattando in ginocchio mi sentii costretta ad abbassare le mie incrostate di sabbia. Proprio allora mi accorsi di essere nuda. Il mare mi aveva spogliata di tutto, abiti e

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