La Galleria di Palazzo degli Alberti, nata da un progetto lungimirante dello storico dell Arte Giuseppe Marchini e della Cassa di Risparmio di Prato

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1 La Galleria di Palazzo degli Alberti, nata da un progetto lungimirante dello storico dell Arte Giuseppe Marchini e della Cassa di Risparmio di Prato Nel vasto palazzo che appartenne ai Bardi di Vernio la Direzione della Cassa di Risparmio di Prato, che vi ha sede fin dal 1870, ha lentamente collocato e poi ordinato come Galleria di quadri per la promozione della cultura cittadina opere soprattutto toscane, in una serie che i curatori delle scelte d indirizzo e degli acquisti (Giuseppe Marchini, Mina Gregori, Piero Bigongiari, Gerard Ewald, Giuseppe Cantelli, e il Presidente della Cassa Silvano Bambagioni) hanno distinto e sottotitolato come Decorazione di alcuni ambienti di rappresentanza (visibili comunque attraverso richiesta, ed in orari non di ufficio), cui si aggiunge una serie di opere di Lorenzo Bartolini, per dare almeno una prima idea della perfezione esecutiva e dell incessante ricerca stilistica di un grande artista concittadino. In primo piano, per originale ricerca di capolavori spesso dimenticati, sta il Barocco fiorentino e toscano. Negli scomparti, preziosi per materiali e tonalità aristocratiche e liete, in cui è stata raccolta quest ultima riscoperta, son pure inseriti alcuni capolavori delle arti in Italia (il Crocifisso di Giovanni Bellini, portato in Toscana già nel 1610 dal nobile fiorentino Filippo Niccolini, una Madonna di Filippo Lippi, il Cristo incoronato di spine dipinto in Roma dal Caravaggio per la famiglia Massimi, e infine una radiosa replica della Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, che lo stesso artista atteggiò con pari dolcezza e sfumature di un candore più trepido rispetto all originale, per un cliente segreto). Fra gli acquisti di felice occasione, messi a decorare le sale di lavoro, colpisce l euritmica storia, fra padiglioni fantastici e campagne ricche d ogni frutto, di un arazzo fiammingo del secolo XVI, con un Salomone enigmatico e sacerdotale, e soprattutto con una straripante cornice di fiori che si trasmettono un ansia di primavera senza tregua. In disparte la Giuditta di Corrado Giaquinto (1730?), la cui amarezza ridona quel dubbio insito nell opera seria italiana, di cui verso il 1715 si discuteva tanto, già con un Ludovico Antonio Muratori ( Ma che più ridicola cosa quel mirar persone che piangono con una soave e tranquillissima arietta! ). Certo, l erudito e antiaccademico di ogni italica antichità, avrebbe consentito ad ammirare il bozzetto sfavillante del Giaquinto qui dolcemente esiliato, in cui la protagonista si libera dello sfarzo teatrale e, volgendosi di scatto, resta in una vigile impressione, ascoltando il silenzio dopo l atto efferato. Divagante e piacevole, nonostante l avvio drammatico, è invece il grande olio che un tempo era posto come fondale d una Sala delle riunioni, il cosiddetto Ripudio di Agar, attribuito a pittore veneto della seconda metà del Seicento. Con la sua quasi monellesca sceneggiatura degli effetti dell astio in una famiglia benedetta da Dio, il racconto biblico si riversa in un cucinone tetro, con sottintesi di spregio maligno, e con un diabolico, assaporato levarsi della manina d Isacco fanciullo, che scatena la baruffa e istiga la cacciata di Agar incapace di reagire. Infine un po di cattiveria autentica in questi attori barocchi, che spesso fluttuano tra viluppi di seta, mentre sospirano sulla morte o meditano sul veleno. Successivamente, il registro degli appartamenti cambia del tutto: fra gli arredi si scorgono ritratti moderni, come il Profilo della figlia di Vittorio Corcos (1920), che ci riporta ad un quadro di Signora viennese di Manet, però in un appunto trasognato, privo d atmosfera; soprattutto ci persuade l arabesco del pittore Armando Spadini, con l immagine della Moglie in abito da sposa. Senza dubbio il fluido dello Spadini ci adesca con gli specchi ed il miele dei ricami, con la sua illusione magnifica di trattenere il tocco del Goya o del Manet (fra l altro Ardengo Soffici, che pure gli fu amico, l aveva ingiustamente criticato per certi toni da pinacoteca ); e tuttavia, considerando che anche lo Spadini è sepolto come Soffici nel cimitero del Poggio a Caiano, non sarebbe sbagliato proseguire il ritrovamento dei suoi interni con ritratti dei familiari. Forse questo compito sembrerà confacente ad altri Enti politici e culturali; è però un idea non peregrina, soprattutto se possiamo congetturare un ampliamento dell attuale sede espositiva. 1

2 Inizio di un percorso estemporaneo. Tommaso di Stefano Lunetti, Adorazione dei pastori (proviene dalla cappellina della villa Capponi sul colle d Arcetri) circa Il Vasari, parlando di questa tavola, la definisce condotta molto pulitamente, avendo presente soprattutto la compostezza arcaica della prospettiva paesistica del fondo, che è indicata anche ai principianti con un arco luminoso di liete e precise bozze del Duecento (un simbolo forse di mondo superato, attorno al quale squillano i colori di un presepe festante, ma sempre tenuto nel controllo di una scena fatta di geometrica intelligenza). E vero peraltro che i gesti (di stupore nel San Giuseppe, di timoroso fervore nei pastori, di dialogo incontenibile negli angeli) sono di una seduzione scaltra, volendo il pittore mostrar quella qualità di mestiere della quale egli fu soprattutto richiesto, secondo la testimonianza del Vasari, ossia la vivacità nel tratteggiar bandiere e stendardi di chiese e di Compagnie. Egli non sa rinunziare a nessuna piacevolezza, e ritrae i nastri degli angeli volanti, come aveva visto nelle pale del Perugino, avvista un corteo snodato che si avvicina; ed è sì timido e rigido nell aggiustare i panni, ma sa anche increspare le calze sul ginocchio di uno dei pastori. Infine, per distinguere da una parte la cortesia paradisiaca e dall altra la rozza epidermide dei pastori, il pittore fa in modo che l agile gamba di una creatura celeste si ponga in mostra sull angolo sinistro. Giuseppe Marchini, che ha curato un Commentario su questa Galleria, parla di una qualità ingenua e convinta del pittore. Nell insieme è vero; tuttavia non ci si può sottrarre ad una certa beata dimenticanza del mondo circostante, tanto più sorprendente nel brusio dei conteggi che proviene dalla sala delle contrattazioni bancarie, quando ci si dedichi agli azzurri continui e mai sazi di una predella che sembra nata sul momento. Quale conforto in quel mattino senza tempo! L Orazione nell orto si protrae nell attesa dell alba, e il Cristo è una figuretta angelicata; il sonno dell apostolo sulla destra è intenerito da un adolescenza ignara di qualunque presagio; anche l incontro di San Domenico e di San Francesco, nell ultimo scomparto, è un riposo del cuore, un abbraccio lungamente atteso, accentuato dal grigio sventolio degli abiti in cui forse non sarebbero riusciti i seguaci del classicismo severo. Ritratto commemorativo di Tommaso Soderini, priore della Signoria fiorentina (attribuito a pittore ignoto della metà del secolo sedicesimo La scelta di questo ritratto incerto nella posa, quanto invece imperioso nel carattere delle mani e nello sguardo che pare sia certo di valutare gli uomini e i loro interessi, è felicissima, non solo per l ottimo stato di conservazione (una delle qualità ricorrenti della raccolta), ma anche per la comodità di raffronti con altre opere dello stesso torno di tempo e qui presenti. Io suggerirei un altra opera del Manierismo fiorentino, la Carità, che fa elegante mostra di sé a breve distanza, e che deriva dalla ripresa di un allegoria dipinta da Andrea del Sarto nel chiostro dello Scalzo alla Santissima Annunziata. Ora, mentre la Carità è un gruppo statuario da ornamento per fontana (e l impressione si accentua in quel seno sbocciato e astretto, fuso in delicato metallo, che è al centro della figura principale), il sospettoso sguardo del Soderini è davvero inciso nei freddi metalli di una bottega che potrebbe essere quella del Bronzino. La fermezza è il suo principio; e la ricerca strana delle dita, che stanno arpeggiando le impressioni, ci suggerisce che il ritratto appartiene allo stesso periodo. Certo che la mano sinistra di Tommaso Soderini è affascinante, inquieta come una forza che si riarma, che si prepara ad afferrare il concetto; quel suo emergere da una finta stanchezza, mentre intanto prepara i nervi e fa palpitare appena gli ossi antichi, è un bel risultato del disegno manieristico, che ci ricorda le mani di Bartolomeo Panciatichi raffigurato dal Bronzino. 2

3 L abito rosso senza dubbio aiuta l alterezza dell immagine. Cionondimeno esso non ha squilli di colore, tanto che viene il sospetto che si rispetti qui una memoria conservata dalla famiglia; anche le pieghe sono tenute nei limiti di ricorsi che aderiscono ad un modello austero, sul quale si sia poi fatto combaciare il ritratto. (1) Bozzetto di una Natività della Vergine, attribuibile all ultimo decennio del Cinquecento Suggerita da un affresco di Andrea del Sarto nel chiostrino dei voti alla Santissima Annunziata, l invenzione di questa scena da istantanea teatrale non si potrebbe capire senza lo stimolo delle sottigliezze di lumi e di raggi che i fiamminghi apportarono in Firenze, entro la fucina raffinata e insieme visionaria che si lambiccò a lungo sulle pareti dello studiolo di Francesco I de Medici in Palazzo Vecchio. Il pittore, sia stato un tardo allievo del Vasari o piuttosto un amico e sodale del fiammingo Stradano, ha voluto preparare, forse per suo personale godimento, un sipario teatrale arguto, aristocratico, in cui si ritrovassero certi elementi quasi strani o lambiccati: il rispetto per l architettura promossa dal granduca Cosimo I, la messinscena d attrici di corte o d abiti nobiliari da visita, pomposi perfino nella figura della puerpera, e su tutto lo spiovere di rabeschi, di parole non dette ma indovinate, di sorrisi o anche di stanchezze melanconiche (come si scorge in quel Giovacchino stordito dai complimenti). Per fortuna il nostro autore ha saputo vedere le occasioni che si potevano far sprizzare dal diverso cammino indicato dai pittori fiamminghi. Guardate per esempio la vetrata con riflessi filtrati, ma precisi, in alto, sopra il letto della puerpera; che gusto di pittore in erba, ma già smaliziato, in quella coperta spianata sul letto per effetto di luce! Egli ha rinunziato al chiaroscuro, a far affiorare le membra sottostanti; è lo stesso rigagnolo di meriggio avanzato che rende le stoffe di una certezza palpabile, sfiora merletti e nasi senza far distinzione, andando infine a perdersi sulla mano infermiccia, ma vigile, del seccatissimo Giovacchino, rintanato in ombra. Sembra perfino di sentire il vario fruscio; giustamente l artista ha lasciato l opera in impressioni di non finito, per concedere a noi di indovinare le premure e le malizie dei sorrisi, mentre continua il divertimento dei raggi che ruscellano sulle tempie e intorno ai seni. Un disegnatore esclusivamente fiorentino non se lo sarebbe permesso con tanta disinvoltura, e con una trasmissione di piacere così ben calcolata e vezzeggiata. San Girolamo, di un pittore manierista della seconda metà del secolo XVI Certamente si tratta di uno dei più riusciti incontri fra il disegno fiorentino e la verità fiamminga, con l attribuzione a Fabrizio Santafede, pittore eclettico formatosi in ambiente napoletano. L eclettismo, di cui dà conto preciso la scheda preparata da Giuseppe Marchini in occasione dell acquisto della tavola nel 1958, non significa certo rinunzia inventiva, ma piuttosto complessità di suggestioni diverse, accolte dall autore quasi a prova della sua saldezza rielaborativa, con un intento di grandezza dell animo. Io credo che, in ambito di scuole napoletane (ma si tratta di un incontro armonico tra Venezia, Michelangelo, e gli immigrati fiamminghi in Italia alla fine del Cinquecento), soltanto la geniale tela col Buon Samaritano delle Gallerie Civiche superi in felicità di pennello questo San Girolamo del palazzo Alberti. L articolazione di un corpo ancora tanto saldo e giovane, con belle mani corse da una linfa primaverile, non risponde all immagine consegnata dalla tradizione; solo Raffaello, nella Madonna del pesce che è del 1513, aveva concepito l eremita scrittore con una simile gagliardia fisica e morale. Da quell interpretazione, forse, e dal San Girolamo del Correggio, l autore ha acquistato un respiro di vitalità atletica, senza alcun offuscamento della visione, se non per quegli occhi colmi di dubbio, che sembrano piuttosto cercare che non aver trovato. 3

4 L Assunzione, attribuita dal Marchini a pittore ferrarese della seconda metà del secolo XVI, forse della scuola di Dosso Dossi Un enfasi portata in alto dall entusiasmo del colore caratterizza questo bozzetto (acquisto del 1957), che sembra echeggiare in mezzo al meriggio e ci fa sostare a lungo (c è un ricordo dell Assunta di Tiziano nella parte inferiore, con gli apostoli colpiti e atterriti dall apparizione, e poi l affocarsi di tramonti lontani). Tanto più affiora il sospetto che il Marchini abbia voluto, mantenendo sempre il registro dell ottima conservazione, suggerire per suo piacere un accostamento con la grande Vergine Assunta attribuita prima a Leonardo Mascagni ed ora piuttosto a Santi di Tito, acquistata dal convento di San Clemente nel Sempre si tratta di arpeggiature su diversi autori degli ultimi decenni del Cinquecento; ma da una parte, nel bozzetto ferrarese, è possibile perdersi ancora in un invasamento atmosferico che pervade le figure, mentre la tavola fiorentina della fine del Cinquecento non ha evoluzione dinamica, essendo già una Conversazione, sia pure tra cielo e terra, e con brividi di tempesta prossima e tesa. Ciò che respinge in eloquenza, sembra che l Assunta del pittore toscano acquisti in compiaciuta malinconia, che è pure un luogo nobilissimo del cuore. Scegliete voi, sembra dire lo storico pratese: la mia Galleria è breve, ma intensa. Bisogna riconoscere che nei chierichetti di Santi di Tito, con le gote arrossate dall emozione, resta un attrattiva che discende dal suo compiacimento spavaldo nel ritratto; per il bozzetto d origine ferrarese, al contrario, si potrà dire di qualche fretta, ma sempre si giustificherà un certo dipingere ad abbagli di sole, in una prestezza che sembra debba involarsi (si guardi a lungo l apostolo a sinistra, tutto di spalle, che un fiorentino avrebbe avuto qualche difficoltà ad ammettere, dove l aria cerca di fargli scivolare il mantello, con un allegrezza addirittura pagana). Santi di Tito, Ritratto di Ferdinando I de Medici cardinale (1569 circa) I paragoni che rendono così originale la raccolta del Palazzo degli Alberti si ripetono in questo ritratto di Ferdinando de Medici, prima cardinale (come in questa raffigurazione di imperiosa svogliatezza), poi principe scardinalato, in modo da poter succedere al fratello Francesco I morto senza discendenti. Per l appunto, nel Salone del Palazzo Comunale esiste un altro Ferdinando in veste ufficiale e granducale, del 1588, dipinto da Alessandro Allori, alla distanza di circa vent anni dal ritratto acquisito per la Galleria degli Alberti (dimentichiamo pure un altra immagine dello stesso granduca, sempre appartenente alla Quadreria del Salone, dove un porporato quasi spettrale merita di restare inchiodato in alto). Non così dovrebbe essere, appunto, per il ritratto di mano dell Allori; ma perché qualche volta uno di questi antenati non vien tirato giù, ed esposto a raffronto con altri profili dello stesso personaggio presenti nella nostra città? Potrebbe essere questo il caso; ci si potrebbe dunque render conto di un ispirazione psicologica diversa dei due autori. Alessandro Allori si situa in un momento di crisi, in cui gli anni di ferro della Controriforma impongono quasi la sostituzione di una maschera al volto reale; eppure egli se ne distoglie, e rende nel maestoso fluire dei panni una rassegnazione inquieta, la quale via via si placa nella malinconia delle mani. Santi di Tito, d altro canto, mostra un abilità di tocco, che proviene forse da un personale ripensamento delle gamme cromatiche dei veneziani, soprattutto nelle vesti, che di solito egli affidava agli aiutanti. Non così volle fare in questo ritratto, dove palesò un attenzione per la materia fin nei particolari di rilievo di ciascun bottone, e una condensazione di tinte marrone e di bande di nero velluto, come per far meglio sbocciare l umore del volto; ma è proprio questo che un po delude, freddo com è e distante da se stesso, come se non sapesse che cosa aspettarsi dal futuro. Tutta l epidermide e l affiorante ossatura sono calcolate per destare sensi d armonia, ma il carattere è rimasto nel pennello. 4

5 Alessandro Rosi (secondo G. Marchini, Sigismondo Coccapani), Mosè difende le figlie di Raguel, Mosè fa scaturire l acqua dalla roccia, vaste scene in cui gli esempi del caravaggismo portano il disegno fiorentino in mezzo all avventura del paesaggio Il merito dell acquisizione, che deriva da una ricerca appassionata di Mina Gregori, si apprezza anche sulle prime impressioni, di materia ricca e quasi voluttuosa nel continuo variar delle ore e dei cieli, quasi presi in capogiro; è un atmosfera di gusto drammatico attinta a molte scuole, non più soltanto ad alcuni autori esemplari; ed è questa una svolta nell accademia fiorentina del Disegno. A Firenze, dietro l esempio di Ludovico Cigoli, ma nello stesso torno di tempo ( ) anche sulla scorta di pittori senesi, il disegno entra nel fermento del colore e si piega ad effetti sia notturni, che di brulichio meridiano, come avviene in questo dittico. Certo che le pose tendono ad un epica romanzata: il gesto di Mosè mentre caccia i persecutori sembra così impetuoso da far volare anche le nubi; una delle figlie assume un accentuata grazia ellenistica, versando acqua da una brocca di rame abbagliata e marcata in ogni granulo di materia. Si deve ammettere che la volontà di riprendere spunti altrui, da Raffaello al Caravaggio, non contraddice all atavica dignità del comporre toscano; anche i paesaggi di sapore emiliano, con un controluce spettacolare di tramonto burrascoso sul margine della seconda scena, non riescono a penetrare in quel labirinto di dramma sceneggiato. (2) Studio di Antiveduto Gramatica, uno dei primi indirizzi della dimora in Roma del Caravaggio; Sant Orsola con la bandiera crociata Nell ambito di quell indirizzo naturalistico che in Roma si raccolse sotto la protezione del cardinal Federico Borromeo già alla fine del Cinquecento, si aggira la fortuna di questo pittore, specializzato nel rendere teste e mezze figure con risalto del volto. Presso di lui operò ed addestrò la mano anche il Caravaggio; ma dove Michelangelo Merisi fu così diligente imitatore della natura, che dove gli altri pittori sogliono promettere, esso ha fatto (così si esprime un assistente del Borromeo in un testo sulla Nobiltà di Milano ), il Gramatica continuò a prendere il modulo di lumi e penombre come artificio per ottenere un piacere di somiglianza al vero. Del resto, in questa tempera che ritrae una nobile fanciulla vestita da santa, è l attrattiva delle carni che seduce, è la finezza dei capelli o la manica di seta frusciante a coinvolgerci, mentre sostiamo attentamente; e poi alla ricchezza della materia subentrerà un disagio di contrasti innaturali: perché la veste simula un basamento statuario, e invece il vessillo sventola contro un cielo senz aria, perché lo sguardo s indirizza a noi con un severo commiato, e non rivela ricordi od emozioni? Mario Balassi, Noli me tangere ; un acquisto che agevola il confronto con altre opere del pittore presenti in Prato 5

6 Un altro merito della raccolta di Palazzo degli Alberti consiste nel chiarire alcuni percorsi d artisti del Sei- Settecento che ottennero commissioni in Prato. Uno dei riferimenti più opportuni è dato proprio da un modello per pala d altare dipinto ad olio su tela, con una Maddalena che incontra il Cristo risorto (1631 circa). In questa prova dinamica, audace, quasi resa a volo, si pensa subito alla presenza di suggestioni dal Tintoretto o da Palma il Giovane; in genere si allega l esempio di un manierismo esasperato, acrobatico, ricordando gli esperimenti del Rosso Fiorentino. Tuttavia, una ricerca di riflessi che quasi aggrediscono la pompa degli abiti, che penetrano i capelli, danno lustro alle unghie e sfrangiano le pieghe, fa sorgere il sospetto che l artista, non ancora partito per Venezia, fosse già innamorato dei veneti. E naturale che avesse nel sangue la tortuosa prova del disegno, che era nei geni della pittura fiorentina; ma l inflessione del cuore sta cambiando. Lo vediamo in questo sobbalzo cromatico, prossimo ad orizzonti più liberi. Nel miracolo che Mario Balassi ebbe l incarico di dipingere molto più tardi per l altare Modesti in San Francesco a Prato (1645), con San Nicola da Tolentino e le starne resuscitate nel piatto, assistiamo ad una svolta ancora più impegnativa, dove i colori mandano brividi in mezzo all ombra folta; ma l ultima opera creata per la nostra città da quest artista elucubrante, la tela con la Madonna che appare a San Domenico, ordinata dalla Comunità per il palazzo dei Priori, dà un senso di tristezza. Vi subentra l apparato che sventola a festa senza sapere il perché. Allora siamo rimandati di nuovo al bozzetto di questo Noli me tangere, così scapigliato e trovato per puro divertimento; alcuni eccepiscono che sembri un balletto, eppure si sente che è dettato da un estro giovanile, in cerca di commozione autentica. Matteo Rosselli, il Ritrovamento di Mosè ; una delle gemme della raccolta, silente e perfetta Il fatto che si giudichi questo dipinto attraente, comprensibile e tutto rivolto all azione, è naturale; ma se ci soffermiamo all arcano colloquio che prende possesso delle figure, alla dignità di queste creature inverosimili, aristocratiche e aliene dalla sensazione drammatica, allora il racconto di Matteo Rosselli, giunto alla padronanza dei suoi mezzi espressivi, ci parrà inimitabile e da lui stesso mai più raggiunto. Si guardi per un confronto l altra opera del pittore qui presente, certo anteriore, forse del , La morte di Sofonisba : l artista è già in grado di far risuonare tutta la gamma coloristica acquisita sull esempio di Ludovico Cigoli, e nello stesso tempo di scegliere con modestia e continuità il suo ideale, la bellezza inalterata, che non teme né il tempo né la morte. E questa la lezione del pittore, che dà un brivido nascosto, attraverso l apparente freddezza della sua interpretazione astorica; eppure, nella Sofonisba, l avvenenza e l atarassia hanno un profumo eccessivo. Solo il paesaggio in fuga sulla destra porta una malinconia di riflessi che non torneranno più; è uno dei riscatti del dramma mancato, insieme alla tenda amaranto, che piace di per sé, dietro la nuca estatica della principessa. Si ritorni ora tra le ombre argentine del Ritrovamento di Mosè. Quelle cadenze di panni, i gesti ritenuti e commossi, il paesaggio che raggiunge i nostri piedi con un brivido d acqua come in un ottava ariostesca, son diventate cifre stilistiche coerenti con lo spirito del momento, che invita all idillio e al presagio favoloso. Non una delle figure sfugge alla scaltrezza del pittore, che deve aver provato infiniti abbozzi di gesti, d incroci di piedi; se poi qualcuno desidera scegliere una singola immagine, certo la figlia del Faraone sarebbe degna di entrare in una sonata di violino; ma l ancella in rosa, che incrocia le mani e si china con timore e tenerezza, potrebbe esser considerata un capolavoro di sosta in un giardino assorto. Molti artisti hanno provato un simile atteggiamento, ma nessuno è riuscito a flettere la persona sulla stessa armonica movenza, e con l impressione di un mondo che non è dato toccare. 6

7 Giovanni Bilivert, Angelica e Ruggero, un fortunato incontro con gli allettamenti della lascivia (commissione del cardinale Carlo dei Medici, 1624) Intorno a questi anni ( ) si diffonde tra gli aristocratici fiorentini (anche fra i prelati) la moda di tenere in casa quadri profani e apertamente sensuali, magari sotto pretesti d evocazione epica, mentre gli stessi pittori (Giovanni Bilivert, Francesco Furini) si spostavano da un registro all altro, dai nudi femminili alle grandi pale d altare, sempre ispirati dalla grazia del disegno, che tutto avvolge in una sorta di nostalgica apparizione. Anche il Bilivert si fece persuadere dalla favola (è lo scorcio del canto X dell Orlando Furioso), e colse il momento di un erotica attesa, contraddetta maliziosamente da incident faceti: Ruggero perde la testa, sorpreso dalla morbidezza indifesa d Angelica, e cerca di spogliarsi velocemente, ma se un laccio sciogliea, due n annodava. Angelica, temendone l assalto, profitta del suo impaccio, mette in bocca l anello fatato e scompare alla vista, mentre il poderoso ippogrifo è già innalzato in volo sullo sfondo. Ancora in Prato, nel Museo Civico, si può ammirare a riscontro il quadro dell Annunciazione, dipinto dallo stesso autore per il Ceppo Nuovo in San Francesco: che cosa lega l Annunziata del Museo Civico, che teme a rispondere perfino con il respiro, al fremito di questo coito apparecchiato nella penombra di un boschetto annuente? Appunto l interesse vero dell artista, che, a differenza di altri più scaltri autori di tentazioni, il Furini, Giovanni da San Giovanni, è aperto ad una bellezza incontaminata, è incline alla fresca Angelica nuda nel silenzio assopito dell ora, come alla parola non ancora detta della Vergine Annunziata (eppure c è il sospetto che il profilo di Ruggero somigli all Angelo agghindato e tempestoso della pala). Intendiamoci, lo splendore novellesco non attutisce l interesse licenzioso: basta osservare com è soppesata la paura d Angelica, che esita un attimo, forse per vedere se Ruggero riesce infine a sbottonarsi, o come si trastulla anche l eroe coi suoi lacci, sicuro di un successo indisturbato. Bello è anche l ambiente, che finalmente traspare e vive d aperture lontane, come di rado si vede in questi pittori, e sospira anch esso con accento non lontano dalle strofe del Tasso, favorendo e spiando con la tenebra che s avvicina. 7

8 Francesco Furini, Ghismonda piangente, David vincitore di Golia ; come la sensualità inclina alla scoperta del dolore Un temperamento più virile si scopre in un altro artista dell ultimo Manierismo edonistico, gli esiti del quale erano stati d esempio per il fiammingo Bilivert; è Francesco Furini, di temperamento avventuroso ed insieme astuto, un virtuoso del disegno e della lunga perfezione. Egli aveva già appreso il gusto della sbrigliata fantasia da Giovanni da San Giovanni, aiutandolo negli affreschi di Palazzo Pallavicini a Roma, con l ironia di una Notte colma di sottintesi, fra il piacere e la paura, compagni inestricabili di lei. Di qui una certa ambiguità in alcuni soggetti dell autore, che però, nelle due tele conservate dalla Galleria degli Alberti, si dedica ad un ben diverso registro, sulle conseguenze nascoste della voluttà, che traggono al vuoto della distruzione. Ghismonda, l eroina del Decamerone che versa lacrime sul cuore dell amante Guiscardo ucciso dai suoi, eccitò la mano del pittore, che volle inquadrarla in un culmine di magnificenza carnale, in un dubbio tragico e abbagliante, quando essa, che era pronta per un altra occasione amorosa, è costretta invece a conoscere l orrenda prova della morte di Guiscardo. La subitanea successione dell ardore sperato e del disinganno atroce, che adesca la donna con l attrattiva del veleno e del suicidio, non sembra però giungere ad un armonia persuasiva, costretta com è nella lente della tela da cavalletto. Affascinante è quella posa non ancora affranta, in cui traspare la pietà feroce della donna (ma l artista, che tra bizzarre vicende si fece prete in Mugello, troppo si perdeva anche nei nascondimenti muliebri, e di seni e di capezzoli se ne intendeva). Lo sguardo della figura è poi uno dei colpi da maestro di chi ha voluto acquisirlo (anno 1983): l amarezza di quella scoperta è certo penetrante nel dolore, ma anche lungamente assaporata, e sembra chiedere il sonno tra lo scorrere delle lacrime. Ed è poi la morte, inflitta al nemico e ostentata come spettacolo di bravura, a dominare nella seconda tela, una delle opere più ammirate del Seicento fiorentino, che deriva da un probabile incarico del granduca Ferdinando II de Medici intorno al Non ha questo David la concentrazione dell ultimo David del Caravaggio (e come potrebbe?); si avvicina anzi per un paragone di spavalderia, per un gusto dei carnefici fieramente abbigliati che erano al servizio dei granduchi, ad un altro Trionfo di David presente in questa raccolta, che Giovan Battista Vanni aveva dipinto nel Con la sua rutilante energia nel tenere la spada enorme, il giovinetto pensato dal Vanni con lunghi riccioli, si fa ammirare per ingenuità simulata e fredda soddisfazione; la testa del gigante pende dietro la sua schiena, ed egli non osa né vuole guardarla, pago com è di mettere in mostra la sua giovinezza senza ferocia, eppure sottilmente perversa, capace di dar la morte e di spacciarsi del suo ricordo. In definitiva, mentre il David dell abile Vanni si specchia quasi in un narcisismo radioso, altrettanto esitante nel ribrezzo del sangue è il vendicatore dipinto dal Furini. E vero che quel trionfo veste panni da parata, che anzi nasconde qualche nobile rampollo desideroso di mostrare la raggiunta pubertà mediante il rito dell uccisione; ma lo sguardo pieno d ombra, quel poggiare la mano sulla gigantesca testa con velato raccapriccio (ancorché tutto del senso), lo stringere che le dita fanno dell elsa con brivido nascosto, son tutti segni di un pentimento che il sangue sempre richiama. Si aggiunge l accuratezza del segno psicologico, quasi ossessiva in questo pittore, che sembra ora acquisire una soddisfazione complessa e cercata a lungo; sicché la gioia dell estro pittorico, il prezioso addensarsi del cielo in lapislazzuli, la sceneggiatura pausata degli oggetti, dal sasso insanguinato alla piuma che prende un soffio burrascoso, non impediscono, anzi rendono più fluido il trapassare che la figura esprime, dalla parata e dal grido al deluso ravvedimento, ad una smorfia incerta di successo insperato e di malinconia. 8

9 Jacopo Vignali L asina di Balaam, in cui la lusinga dei sensi si avvale anche di letture bibliche assai rare; Tobiolo e l angelo Jacopo Vignali eredita dal maestro Matteo Rosselli una capacità multiforme, che gli permette di accogliere la richiesta cresciuta di soggetti per le dimore private. Già il Rosselli, che la critica tende ingiustamente a definire pittore accademico, aveva scorto un nuovo modo di suscitare la favola dai racconti prodigiosi. Dalla sua Leggenda di Mosè salvato dalle acque ci si sposti ora ai dipinti del Vignali, e si vedrà, in un tono certamente quotidiano, una simile preferenza per i simboli alternati nei giorni dell uomo. Il pittore è già in grado di tentare anche la rapida pennellata del teatro improvviso e realistico, come si vede nell ira di Balaam, che bastona la sua fedele asina; il racconto raro, ispirato al libro dei Numeri della Bibbia, piace in veste d episodio sorprendente, piuttosto che nel senso originario e religioso, il quale nasceva dalla difficoltà di interpretare la volontà di Dio. Sarebbe piaciuta ad un Giovanni da San Giovanni, ad un Guercino, quell impuntatura petulante dell asina, che è resa con lamento umano, proprio nell attimo di rivelare la verità: Non sono io la tua asina sulla quale hai sempre cavalcato?. A destra accorre l angelo con la spada sguainata; l episodio indica un sentiero stretto fra i muri delle vigne, e qui invece il paesaggio digrada sfumato, per coerenza con la statura dell angelo, che non reca il rimprovero, ma piuttosto il dono della bellezza eterea, com era del resto nell esigenza edonistica di tutti questi artisti. Addirittura, il candore di quelle membra vien messo a trasparire nel germoglio di un velo sottile e impenetrabile insieme, per onorare una creatura uscita appena dal guscio del mattino. La spada è solo un ornamento, e l avviso di Dio non conta, tutto essendo riassorbito nel piacere di una curiosa fascinazione. Più vicina al momento del viaggio è la Sosta di Tobiolo e dell Angelo sulla sponda di un fiume ; qui il pittore, come lo storico Marchini giustamente osserva, partecipa alla voglia di narrare entro la psicologia dei personaggi. La storia assume i tratti di un riposo spiato come in sogno, però afferrabile e rasserenante. Tobiolo si accorge della stanchezza dell angelo, che allunga un piede martoriato in quei calzari da cerimonia, inadatti per un cammino diventato così difficile; ma il sole reca guarigione e le colline bevono una brezza sottile; il cagnolino abbaia contro il pesce con la bocca aperta, mentre in Tobiolo spunta il desiderio d essere lui a rincuorare l angelo. Ogni impressione di magia nei costumi o nel giorno diffuso non soverchia mai quel pensiero di fiducia e di tregua. (3) Jacopo Vignali - Rebecca ed Eliezer al pozzo, tela firmata e datata al

10 Per definire con una prima impressione questa maestosa tela, che ora domina il corridoio d entrata alla raccolta di Palazzo degli Alberti in un nuovo, silente spazio, staccato forse troppo recisamente mediante un telaio continuo di pannelli dalla sala delle contrattazioni, verrebbero in mente due parole: magnificenza arcana. L opera è stata acquistata anche per consacrare il restauro della Galleria alla fine dell anno 2005, e per confermare l ideale della bellezza mitologica, che fu uno dei momenti cruciali del disegno prospettico e del piacevole, prezioso colore delle botteghe pittoriche fiorentine durante il terzo decennio del Seicento, fra la sospensione dei gesti che era in Matteo Rosselli maestro del Vignali stesso, e l intensa, tersa luce azzurrina degli sfondi che ricorrerà tante volte in Giusto Sustermans. Non dobbiamo aspettarci in quel fondale aristocratico, consapevole della propria magnificenza, di ritrovare la sottile brezza di mistero che abbiamo quasi ascoltato tra le mani delle dame egizie nel Ritrovamento di Mosè di Matteo Rosselli; tuttavia la sapienza del disporsi scenico in meraviglioso accordamento delle parti, come bene annotò nelle sue Notizie Filippo Baldinucci, che certo parlava di Matteo Rosselli, ma anche scorgeva un eguale virtù nelle tele del Vignali; Rebecca appena piegata per far bere il servo assetato, il quale si sporge con devota grazia all anfora di bronzo che gronda di tutti i riflessi della piena estate, e, sulla ripresa della quinta a destra, come fiutando l ora e il paese, le flessibili teste dei cammelli; tutto prende riconoscibilità di materie e capacità atmosferica condotta dalla macchia selvatica quasi all infinito, in un rispondersi di colori aurati e di folte penombre penetrate d aria. Alcuni critici insistono sul valore della carità che, nonostante l accorto temperarsi degli addobbi quasi teatrali, si scorgerebbe nell atto gentile di Rebecca e nel profilo riconoscente del servo d Abramo (ma è piuttosto un cortigiano, che recita con soave studio). In realtà il Vignali ebbe presente quel momento d annuncio evangelico in un disegno preparatorio oggi nel Gabinetto dei Disegni agi Uffizi, che sembra davvero sgusciare da un impulso generoso; poi egli rifiutò la prima idea e corse dietro alla seconda parte del racconto biblico, che più rispondeva alla sua immagine di rivelazione di Dio nelle cose che vengono incontro al nostro presagio, siano d artificio o di natura, quelle che ci circondano e quelle che ci sono donate: Io ho bevuto, poi lei ha abbeverato i cammelli. Allora io l ho ornata con l anello d oro al naso e i braccialetti ai polsi. E vero che in questo felice godimento degli affetti, che corrono nelle percezioni sensoriali, il pittore dimentica, non per sempre, altre sue attitudini, come la necessità della devozione penitente; però la sua splendidezza curata senza affaticamento in ogni capello, broccato, fronda, mantiene una sospensione arcana degli animi, un ora incantata che era appartenuta ai vasti poemi cavallereschi. Bartolomeo Salvestrini, San Matteo ispirato dall angelo (ma quasi certamente è un San Giuseppe), dell anno 1631; un notturno segreto e commosso 10

11 Capace di un presagio rivoluzionario, questo pittore che morì giovanissimo, in pochi anni sperimentò con foga sia la raffinatezza della materia scoperta nella solitudine, sia l energia di una nuova eloquenza, che peraltro restò troncata in boccio. Questi momenti si trovano rafforzati a vicenda attraverso questo San Matteo, che vigila in sonno su di una parola attesa, mentre l angelo si materializza a fiore del pavimento. E certo uno dei vertici nel recupero del Seicento toscano, una delle soste intellettualmente impegnative della Galleria. Non c è dubbio che l autore abbia tenuto conto della prima redazione del San Matteo opera del Caravaggio nella chiesa di S. Luigi dei Francesi; ma che dire di quella strana diagonale di deformazione ottica, che sulla destra sembra far cardine su una minuscola Madonna leggente, come riprendendo ripercussioni visionarie venute da lontano, perfino dal Pontormo? Per quale motivo la Vergine è paragonata al sonno del santo? Salvo che l argomento sia un altro; allora, nell epidermide ben tesa dell anziano che scrive, in quella mente vigile e robusta, si dovrà identificare la domanda del San Giuseppe sposo di Maria (ripresa per l appunto nel Vangelo di Matteo): Non temere gli dice l angelo in sogno di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. E il calamaio a sinistra con la pagina aperta per la scrittura, come si spiega? E certo un soprasenso impercettibile, ma non suonerebbe assurdo che nel San Giuseppe dormente giungesse l ombra dell evangelista, secondo una cerebrale sceneggiatura della parola evangelica. L angelo fanciullo, un nuotatore pronto a scostarsi fra i molti inciampi della stanza, reca la parola creativa, non un avviso aneddotico; perciò dispiace rinunziare all intitolazione all evangelista Matteo, che è della razza degli uomini ardenti e chiusi, una rarità almeno ai tempi dell autore, in quel clima bigotto sorvegliato dalle Accademie medicee. Il pittore rende omaggio a quella tempra, con la paglia mutevole della sedia, con il panno di latte versato nella cesta, con la penna conficcata nel libro, quasi temendo di interrogare una forza di carne e di pensieri, la stanchezza sparente di quelle palpebre un po infastidite. 11

12 Cesare Dandini, una Bella ; Vincenzo Dandini, un Ganimede. Il trionfo erratico di un ribellismo profano Uno dei primi cenacoli di pittori contesi dai collezionisti privati nella Firenze degli anni ci viene incontro dai quadri di Cesare e Vincenzo Dandini, persone ostentatamente colte e intellettuali. Era giusto che se ne restituisse l ambizione in questa galleria, per dimostrare una divergente gara d emblemi e allegorie inafferrabili, rispetto alla fornitura di paradisi e di crisi mistiche che invadevano le chiese più sperdute. Si prenda ad esempio la figura in rosso, verde e azzurro, la Cortigiana di Venezia, un po stupita di dover posare in aria estranea, una creatura che discende dal Veronese, ma con un respiro impassibile sulle carni e sugli occhi estraniati. Qual è la sua origine, il ceto, il significato? E veramente il simbolo dell arroganza, come indicherebbe il pavone da lei coccolato? L artista non vuole manifestarlo; in fondo, ai protettori illustri premeva il contrasto tra il frusciar delle sete e l immobilità dell ora, con un piacere di senso astratto che non appartiene più alla barocca spavalderia. I riguardanti si fermavano all arguta scoperta del simbolo, a quei seni immacolati e gelidi, con un azzurro che li sfiorava come nuvola senza traccia. Pure il fratello di Cesare, Vincenzo, si dilettò di questo vagheggiare per enigmi, ma vi fece affiorare talvolta una sensibilità inquieta; come si scorge nel Ganimede, dipinto per il principe Don Lorenzo dei Medici intorno al Nel suo perdersi lontano, il suo sguardo è uno dei più vicini e pungenti, proprio per una psicologia ambigua, nascosta in un cammeo esatto: guardate all alternarsi delle dita sospettose con la fredda scabrosità della brocca dorata che esse vanno stringendo; e ditemi se poi il committente non si sarà meravigliato di quel bicchiere poggiato al petto, un vero e pungente segnale, incerto se esprimere il desiderio di un giovinetto altrimenti taciturno e quasi atterrito di poter svelare la propria natura. (4) 12

13 Carlo Dolci, la Carità ; dello stesso, un bozzetto per l Angelo Custode; in un margine strettissimo fra i concetti sublimi e le incarnazioni di cera La Carità che allatta un bambino dormiente, sollecita verso una creatura che non è generata dal proprio seno, fu dipinta da Carlo Dolci per qualche signore virtuosissimo; ma in fondo, egli la vagheggiò lungamente a lume di candela, come i fratelli Dandini facevano per i ritratti da parete, in clima di libertinaggio. In questo caso la delicatezza non fermava gli occhi sui geroglifici arroganti di una natura eletta (anche al peccato), ma distraeva dalle avversità, persuadendo la mente a fissarsi nel soccorso invocato dal cielo. Un affinità sotterranea lega tutte queste opere da cavalletto: mostrare la dolcezza solidale delle epidermidi e dei panni, fin quasi a vincere la stessa natura nel ricreare la voluttà delle forme. Una contraddizione insidiosa, uno spasimo estetizzante inibito, ma corrente nelle vene, era il destino dell autore, che oggi si vede troppo celebrato per una ricerca di sublimazione religiosa. Si aggiungeva in questo gruppo un motivo programmatico; il risultato fu di una levigatezza ossessiva, da perderci quasi il sonno e il cervello; ma sempre più il languore s impadronì della fantasia dell artista, in contrasto anche struggente con la didascalica sacra. Ora, come si può affermare che egli fu refrattario alle morbide atmosfere, quando la morbidezza era la qualità più autentica del suo pennello? Tale contraddizione, amorosa e vanamente repressa, parla anche dalle carni di questa Carità, dal bambino soprattutto, dalle dita affusolate in alabastro della figura principale, che anticipano quelle del fanciullo della Tentazione eseguita per la cappella Bocchineri nel duomo di Prato. Ampia è la via che conduce alla perdizione, ci ammonisce il pittore; ed ampia è la lusinga della forma in sé carezzevole, come lo splendore del ricciolo avviticchiato della Carità, o il tenue lucore che passa nel divergere delle gambe del lattante. Si tratta di miracoli di resa artistica, non di concentrazione dello spirito. Allora viene da chiedersi: E se il bozzetto qui esposto dell Angelo Custode fosse l intuizione vera per la pala del Duomo?. Io credo che esso abbia una spontaneità non raggiunta poi, con uno sguardo timoroso emergente dal buio, forse con un aria malinconica; c è come un ebbrezza indistinta in quella creatura non adatta al rimprovero, ma sorpresa d essere in alto; soltanto quel suo battito ignaro avrebbe reso spirituale il paesaggio del tulipano controluce, che giustamente noi idoleggiamo nell opera compiuta. 13

14 Bernardino Mei, pittore senese romano, Il sacrificio d Ifigenia, metà del secolo XVII. Un parossismo bloccato, incerto fra la scultura classica e il turbine emotivo d origine rubensiana Il fulgore senza riposo di questo Sacrificio, uno degli acquisti mirabolanti del Barocco, bene si addice ad illustrare la crisi di una pittura toscana e romana ancora renitente agli impeti illusionistici di Pietro da Cortona, ma già soggiogata senza parere. Bernardino Mei è assetato di luci e di labirinti, mentre pur vorrebbe scolpire l atto tragico, o nello strepito accalcato dell episodio di Giulia che sviene alla vista del mantello insanguinato di Pompeo, o nel racconto epico di Ifigenia, dove l imitazione dei maestri è per fortuna dimenticata. Infine il pittore trattiene, con illusione di fregio o di sarcofago in alabastro, il dramma religioso, lo distanzia in gesti disperati, come in una recitazione corale della bottega che si sia fermata per lui. Ecco, investito dal prodigio del dio dall alto, subentra al bassorilievo funebre del proscenio un adagio cantabile, una pietà per i giorni ingiustamente troncati della giovinezza, che abbassa opportunamente il tono degli altri accadimenti (come la cerva d Artemide, come l atto paralizzato del sacerdote). Un accenno alla terribilità del rito ed alla sua impassibile cecità resta in un riflesso di coltello levato. Il pittore ha compreso che l elegia gli stava prendendo la mano, soprattutto nelle figure muliebri; così, ha smorzato in rassegnazione il grido delle donne, in languore le corolle intrecciate, ponendo sopra un gradino (un colpo geniale d opera seria), come un bussar di timpano sommesso, la figura di un servo cinto di verde, che caccia la testa in un lembo per dare sfogo al suo orrore. Pietro Testa, un lucchesino di Roma; Baccanale, ripreso da quello di Tiziano e portato a un grado d esultanza arruffata, già colta dal crepuscolo Un altro esempio di come i giovani toscani, mandati ad imparare a Roma, alla scuola di Pietro da Cortona, sappiano talvolta reagire con un ebbrezza fanciullesca alle antichità romane ( non restò vecchia architettura, bassorilievo, statua o frammento, che egli non disegnasse, dice del Testa Filippo Baldinucci), è questo Baccanale gremito d aria e di voci. Approdato dal mare, da una specie di vascello di canti senza guida certa, esso ci rivela uno dei luoghi del fascino barocco, preso in mezzo tra Firenze, Roma e Venezia. Pietro Testa lo variò lungamente, traducendolo in incisione; forse ne portava con sé una copia, per calmare, beandosi degli scherzi dei satiri e del velocissimo getto a fontana di una nube bianca che si ripercuote fin tra i seni di Venere, quella sua stranezza inspiegabile, che lo portò un giorno a guardarsi a lungo nello specchio del Tevere, e a scivolare per sempre senza un lamento. Certamente il Baccanale di Tiziano (ora al Prado, e firmato nel 1518) è l espressione di un età dell oro, la cui trasparenza è come un comandamento di fecondità per la terra, per gli dei e per gli uomini; qui il concetto si piega in un groviglio ingegnoso. Si pensi al confronto con l anfora di vetro messa da Tiziano come faro contro il nembo candido; l artista secentesco, al contrario, dedica una fatica opulenta e sovraccarica ad un cesto di frutta, ad un satiro che tenta di sollevarla e sta per rinunziare. La nube si ritrae, e subentra la pigrizia del giorno che volge al termine, mentre Venere sulla battigia trionfa col suo respiro, libera dal cerchio dei beoni; sfrenatezza, ditirambo e malinconia sono mischiati in un solo appagamento. Livio Mehus, L annuncio ai pastori 14

15 Livio Mehus, venuto dalle Fiandre e trapiantato precocemente in Italia, fu uno degli artisti più cari ai granduchi medicei, uno dei più abili nel rispecchiare quasi ad inganno i suggerimenti più diversi (da Salvator Rosa nelle vedute marine, dal Correggio e dal Bernini per accentuare il deliquio dell estasi mistica, dai pittori genovesi per scendere di nuovo in mezzo al sapore delle cose domestiche). Era di un abilità sconcertante nel proporsi come punto d onore la combinazione che non si vedesse, ma che fosse assoggettata poi a calcoli d effetti mai visti. Così si manifesta nella Comunione di Santa Teresa d Avila per la cappella Inghirami del duomo di Prato, quasi una folgorazione fotografica. Altrettanto ingegnoso, eppure molto più cordiale in senso evangelico, splende come gemma di verità per i puri di cuore questo suo gruppo di pastorelli veneti. E forse il più bel quadro del Mehus presente in Prato, insieme alla Sacra Famiglia dipinta per San Bartolomeo e datata Nell Annuncio non c è limite alle combinazioni d atmosfera e di colore; eppure, il risveglio goffamente atterrito dei pastori ed il sonno presago degli animali, ci parlano di una fraternità delle creature, protette dall oscurità e dal calore che esse si prestano a vicenda. Stupefacente è il gioco delle dita, anche dei piedi, che si pongono a difesa; come un incidente inspiegabile, come una cometa è l angelo apparso, di razza aristocratica, scelto dal pittore per una reminiscenza divertita. Si guardi bene; è ripreso da uno degli Angeli custodi di Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia, mentre il suo sorriso proviene dal genio del Bernini; invece, i contadinelli svegliati ad un tratto, mantengono il profumo greve dei pascoli dell Italia settentrionale. Chi avrebbe osato compendiare, in unico avviso notturno, certi ingenui narcisismi di felicità celestiale (un po scarruffata e maliziosa anch essa), e versi stralunati di ragazzi che si nascondono tra le vacche? Soltanto un pittore non aduggiato dai professori fiorentini del Disegno e insieme protetto dalla corte. 15

16 Livio Mehus, un soffio di paesaggio contemplativo, anticipatore delle vedute di Marco Ricci Un altro merito che la Galleria degli Alberti condivide con il Museo Civico, è l attenzione portata sugli indirizzi della pittura di genere, sulle Battaglie, sulle marine infuriate o, come avviene in questo Paesaggio dipinto per il principe Ferdinando de Medici verso il 1680, sulla vicenda di un meriggio ai fianchi di un sonnacchioso castello in riva al mare toscano (o napoletano, trattandosi sempre di spunti da Salvator Rosa). Evidentemente il Mehus, che era nato ad Oudenarde, in Olanda, non era informato più dei paesaggi olandesi della pittura, che preferivano l esaltazione delle opere dei campi a paragone delle minacce insondabili degli elementi; egli sosta invece come in pigrizia, con la precisione però dei fenomeni che vanno dal verde imprigionato tra le scogliere fino all azzurro del firmamento, tra i sottili margini di un nembo pomeridiano. Potrebbe essere la vicenda di una stagione di passaggio, ma anche un assaporata delizia di un giorno incontrato davvero, il cui ricordo non annoia mai. Il Mehus, come anche Marco Ricci nei suoi paesaggi montani, non ha cognizioni geografiche o interessi di clima, non si ferma a lungo per la vibrazione di un mattino, ma vede per appunti; i fenomeni, li ripensa nel suo studio, per raggiungere un vero universale. Un medesimo alambicco imperturbabile si ripete, con interventi di bottega, nei Paesaggi fluviali del Museo Civico, anch essi goduti dietro un vetro dove non si dimentica nulla, non di quello che succede, ma di quello che può intervenire durante l ozio di una giornata esemplare e feconda. Altrettanto si potrebbe dire, spostandoci un poco avanti, sempre nella Galleria degli Alberti, su di una Veduta di San Galgano in un pomeriggio febbricitante e assetato, che sembra invadere le terre senesi di poggio in poggio, o sulla Costa in burrasca, o sopra un dilagare d aria ammirevole, con un esercito che si avvia a prendere assetto di battaglia: tele che vengono attribuite alla mano del vedutista Pandolfo Reschi. Ecco un altro artista straniero, un polacco di cognome Resch, che lo spettacolo degli eserciti, del mare, delle nubi, lo possedeva nelle vene. E certo più audace del Mehus, più attento nel ritrarre, oltre alle pescaie adatte per la sosta nei viaggi, anche l orrido, anche il sangue delle battaglie. Basterebbe il fremito di certi alberi, soprattutto quello di un frassino montano che ci sorprende sul lato destro di una Scena di vita militare, che nel pigro trasparire ode già la battaglia e gode insieme la frescura che cambia il cielo. Pier Dandini (Firenze, ), un mago saltuario del tocco: la cosiddetta Concordia Diversamente dall analisi critica di Giuseppe Marchini e dal riferimento alla Iconologia del Ripa, è difficile credere che un immagine di giovinetta così tenera nella sua apparente indolenza, uno dei punti di maggiore appagamento che la raccolta ci offra, sia davvero un allegoria fredda della Concordia. A me parrebbe più bello idearla come una promessa sposa, fedele, desiderosa di portare la fecondità nel suo grembo. Il mirto fra le sue dita è attributo di Venere, o di una poesia di carattere amoroso, la melagrana dischiusa è simbolo di lunga fecondità; e come sono intrisi di lucida attesa quei grani! Certo vi è un fascio, del tutto incidentale e non pervaso dall apparizione, c è la corona (nulla a confronto delle matasse dei capelli, che si addicono a Flora). Inoltre, un capezzolo sfiorante il rigagnolo della veste parla di una tacita promessa d amore, dando per un istante l emozione della pudicizia, che altrimenti sarebbe difficile scorgere in una posa così cerebrale. Per esempio, tornando fra le tele di Cesare e di Vincenzo Dandini, si sente come nella glaciale interrogazione di quei volti stia in agguato una carnalità inconfessata. La giovinetta che porta il nome di Concordia evoca al contrario una sfumatura spontanea, la promessa dei suoi anni: timidamente si lascia atteggiare, reca la melagrana e arrossisce, difesa ancora dalla vampa del manto gettatole intorno. 16

17 Alla fine del Seicento è tutto un fiorire di papaveri in vaso e di nature morte, passione dei principi medicei e dei collezionisti inglesi Per quanto riguarda il gusto dei Floralia, che ha conosciuto una dolorosa dispersione, la Galleria presenta un duplice indirizzo: il primo, che è gioioso e invasato dai dettami della storia naturale, specificamente fiorentina; e l altro, con paragoni e indovinelli di moralità, attento al minimo decadere dell ora fuggente, che è filtrata da ambienti romani o da pittori giunti dall Olanda. Al primo insegnamento, incentrato su Bartolomeo Bimbi e su quei trionfi di precisione botanica (cascate incredibili d uva, di susine e d agrumi condotti dalla sua mano seguace d ogni specie di lucidità e d ombra, ci vengono incontro nel ricordo di visite estive alla Villa del Poggio a Caiano), si attiene un primo mazzo di papaveri, noncurante e messo a caso, eppure ossessivo nella ricerca dell ora. I fiorentini cercavano anche il prodigio, per esempio immense zucche che stanno per scoppiare o l insidia di bruchi quasi confusi con l aria. D altro canto piaceva, alla scaltrita commissione dei Granduchi, ogni malinconia di filtrazione della sera; il risultato doveva esprimere l irremovibile vitalità della bellezza vera, autentica anche sull orlo morente di tulipani o, come qui, di papaveri. La caducità non era però una fissazione o un brivido; si ha l impressione che il pittore e scienziato si sia convinto del ricrearsi continuo delle cose, ritraendole in questo privilegio fin nel decolorarsi dei petali ed oscillare delle nappe, facendone oggetto di continua scoperta. A confronto sta un vaso dorato che plasma il disordine, pur essendo inadatto a commuovere la nostra mente. Spostiamo ora l attenzione su due grandi tele firmate da Andrea Scacciati nel 1700; vedremo infittirsi gli sbalzi dal buio ed esasperarsi la caccia ai meandri della materia: anche qui c è un vaso metallico, ma sembra un urna sepolcrale dischiusa, e la vitalità del Bimbi, camminatore tra gli orti assolati, diventa un accanimento sperimentale, come se ci trovassimo ad un limite di pienezza seducente, ma incapace ormai di comunicare e quasi sfatta. (5) 17

18 Alcuni capolavori presenti nella Galleria in margine all argomento principe del Barocco: una Madonnina di Filippo Lippi, opera concepita dal pittore in sembianza simbolica L accuratezza serrata degli elementi visivi e dell impronta trascendentale, che distingue quest icona riferibile al periodo giovanile di Filippo Lippi, sembra palpabile al primo sguardo, e ci fa pensare ad un ricordo o riduzione per la preghiera e per la memoria di un opera di più vasto respiro. Il Marchini, che ne ha curato l acquisto nel 1982, e che ci conduce attentamente a rilevare anche il taglio indiscriminato della figurazione e dei margini, parla di un esemplare che potrebbe essere a capo di questa memoria a noi rimasta, analogo al complesso della pala Barbadori, che si trova oggi nel Museo del Louvre (1438 circa). In realtà, ipotizzando che essa costituisca un primo abbozzo della pala Barbadori, oppure un successivo estratto per una stanza privata dei committenti, si dovrà rilevare nella tavoletta di Prato l uguale disegno per la nicchia, con cinghie scultoree che disciplinano con vitalità donatelliana lo sguscio degli angoli ed il loro fascio di colonnette. Non può essere una semplice coincidenza; e neppure si potrà negare un altra osservazione del Marchini, circa la somiglianza del volto di questa Madonna con la Vergine che il Masaccio dipinse nella Trinità di S. Maria Novella: oltre la congiunzione affettiva col figlio, realmente essa entra nel cerchio di una comunione misterica e sacerdotale. Non poteva Filippo Lippi scostarsi dal presagio di quelle palpebre suggerite dal maestro, così dolenti e ammonitrici verso i fedeli. Del resto l esigenza di vedere Maria come consacrata alla Redenzione era predicata in quegli anni dal teologo Antonino, che insegnava i modi per rendere chiaro che l umiltà e la purezza della Vergine erano mediatrici, e suggerivano l amministrazione del corpo e del sangue di Cristo. Prendendo per validi tali indizi, si potrà collocare la tavoletta fra il 1427 ed il 1438, ad un passo dalla Madonna Tarquinia, dove il Bambino ha lo stesso slancio carezzevole verso il mento della Vergine, ma in modo impulsivo e tutto schiacciato sul gesto. Qui la gradualità spaziale ha una maturità diversa, un ripensamento del rapporto fra la natura umana ed ingenua del fanciullo, e quella profetica della madre, così costante, internata nei giorni futuri; il pittore si avviava ormai alla padronanza intellettuale dei suoi mezzi stilistici. Consistono essi nel modellato rattenuto e sferico, nell incisività compiaciuta dei panni, nella gradualità e trasparenza del chiaroscuro. Il velo sul capo della Madonna poteva essere un pensiero gotico; ma il cambiamento decisivo rispetto all arte cortese consiste nell aver posto l immagine secondo un ispirazione benevola, piena di sapienza, che era forse nell intento teologale dei committenti. Oggi noi parliamo d affetti umani, in parte cogliendo l emozione del frate pittore, ma con qualche arbitrio, soprattutto se consideriamo il taglio purtroppo arrecato alla visione, e se indaghiamo con maggior verità quel velo di malinconia effusa che il danno di numerose puliture, togliendo lo smalto, ha però suggerito alla nostra mente con qualche piacere. Attribuito a Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Busto di una santa, dipinto verso il 1530; effetto questa volta di un taglio impulsivamente barbarico, ma immedesimato nella scelta del bello 18

19 Il senso d irrequietudine contenuta da riservatezza, che sembra animare gli occhi di questa santa fanciulla, è uno degli spunti più complessi della pittura fiorentina intorno agli anni E un periodo dominato da artisti di convinzioni repubblicane e savonaroliane, che ci fa per esempio ripensare ad un precedente Ritratto di giovane del Rosso Fiorentino (databile al 1521 circa, oggi nella Galleria Nazionale di Washington), che ritrae la tacita veglia guerriera di un repubblicano fiorentino, mentre si ferma e riguarda alla promessa giurata. E in fondo lo stesso motivo che si scorge in questa giovinetta del Ghirlandaio, che forse è ciò che rimane di una Caterina, mistica sposa di Cristo. Il Marchini, che su di essa ha preparato una scheda di attribuzione meticolosa e ammirata, non ha dubbi sulla stima dell autore, Michele Tosini, come di un pittore capace di internarsi nella freschezza di un amore convinto e toccato da titubanza, e che s intravede nel girare che il collo fa trattenendo il respiro. Naturalmente, un po di quel prevalere innocente e senza parole ( come soltanto in gioventù può accader di fare, magari per una volta sola nella vita ), deriva dalla scelta di quel barbaro erede che ha visto la pala per intero, decidendo che quella prima emozione, i riflessi delle ciocche dei capelli e gli occhi inconsapevoli e miti, forti della loro castità, dovessero valere il sacrificio di un intera composizione. Il Crocifisso di Giovanni Bellini, riconosciuto come originale nella mostra veneziana del pittore tenutasi nel 1949 (già appartenente alla collezione del conte Niccolini da Camugliano) 19

20 E senza dubbio l acquisto più fortunato della Fondazione della Cassa (risale al 1981), la pittura che porge a qualunque visitatore il ricordo più duraturo del destino dell uomo e della natura. Giustamente il Marchini parla di radici epiche e contemplative, strette all opera d Antonello da Messina; ma la ricchezza delle cose, dei loro simboli e del loro silenzio, sembra qui attratta da uno stesso respiro: sono i monumenti che prendono la prima luce in ogni luogo della loro materia, come fa la lucertola ai piedi della croce; è il sottile risveglio dei prati e dei boschi dal sonno invernale, oppure la nuvolaglia sospesa all orizzonte. Il volto stesso del Cristo, pur rattristato dai colori di morte, sembra ancora riflettere in sé le proprie parole, le aspettazioni; tutto ciò è coordinato in un calcolo invisibile, che testimonia la maturità di una cultura pittorica consapevole di poter osare l idea stessa dell armonia universale. Tutti questi temi fanno concordare i critici per una datazione verso il , in vicinanza concettuale e stilistica con la Pietà oggi esposta a Venezia, nelle Gallerie dell Accademia. L artista ha fatto qui una scelta diversa dal senso eroico che ispira un altro suo Crocifisso in luogo romito, quello della Galleria del principe Corsini in Firenze (datato intorno al 1480), dove l umanità del Cristo domina l orizzonte vastissimo e perduto in nebbie remote di lago, con le braccia arcuate ed un flettersi della testa ancora non doma. Diversamente, nella vittima stanca e abbandonata che si vede nella Galleria degli Alberti, il pittore, arricchendo il paesaggio in una miriade di cime, di bordi e di riflessi, mantenendo però una calma pacificatrice, forse ha inteso rinnovare l idea del Giusto che muore per tutti gli uomini, ma che accetta e compatisce anche alle leggi della natura. Osserviamo per esempio il cimitero con le lapidi ebraiche, in cui la croce è imprigionata, il sottile sfaldarsi del terriccio penetrato di barbe, i teschi senza memoria, le rocce ridotte a strati; ebbene, un passo più in alto, l erba riprende e spuntano riconoscibili gli steli d aprile; sentiamo anche che il molino sta per risvegliarsi. Si riconosce perfino la continuità storica dei monumenti anconetani o vicentini, o delle colline marchigiane che l artista ha disegnato nei suoi viaggi (è l uomo-artefice che ritorna con le stagioni). Intorno al perno del Crocifisso si muove lentamente la legge del cosmo, con una luminosità acerba, avanzante di grado in grado. Il velo della morte non contraddice la consolazione: per questo il Crocifisso appartiene all universo, ed è quindi privo di spettatori e di dolenti. Il Caravaggio, Cristo incoronato di spine, opera eseguita per Mons. Massimo Massimi; oggi il soggetto è accolto come originale dalla maggior parte della critica La pulitura e lo studio accurato del dipinto, hanno portato la maggior parte degli osservatori a rendersi conto dei pentimenti decisi dall artista, per rendere più angosciosa e monumentale la presa delle figure nell atto di dare o accettare il tormento. Per esempio, quella sorda spalla sinistra del Cristo, pur sembrando consunta e umiliata come materia senza resistenza, raccorda tuttavia i due argini del momento acutissimo del martirio: la reazione del braccio destro di Gesù, che si contrae per spasimo e riscopre il vuoto, e al contempo l aggressione gelida, ma decisa, del carnefice, che punta la canna per far leva alla corona di spine e conficcarla nella fronte del condannato. Rispetto a questo dramma lungamente preparato e d improvviso esploso senza grido, sotto la feritoia di un sotterraneo senza testimoni, l invenzione ha un piglio di riuscita eroica, accostandosi alle tele di San Luigi dei Francesi (verosimilmente risale, come sostiene lo storico romano Maurizio Marini, al periodo che va dal 1600 al 1602). 20

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