Valerio M. Manfredi con Lorenzo Braccesi. I Greci d Occidente. Arnoldo Mondadori Editore

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1 Valerio M. Manfredi con Lorenzo Braccesi I Greci d Occidente Arnoldo Mondadori Editore 1996 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Le Scie marzo 1996 I edizione Oscar saggi novembre 1997 ISBN Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy

2 INDICE Premessa Parte prima LA COLONIZZAZIONE I. Il quadro storico II. Caratteristiche dell impresa coloniaria III. La spedizione IV. Il mare dell età coloniale Parte seconda I COLONIZZATORI V. Gli Eubei Pitecusa, - Cuma, - Nasso e Leontini, - Zancle, - Reggio, VI. I Corinzi Siracusa, - Acre, Casmene, Camarina, VII. I Megaresi Megara Iblea, - Selinunte, VIII. I Rodii e i Cretesi Gela, - Agrigento, IX. Gli Spartani Taranto, La spedizione di Dorieo, X. Gli Achei Sibari, - Crotone, - Metaponto, XI. I Locresi Locri, - Epizefiri, - Ipponao XII. I Colofoni Siri, - la leggenda di Cassandra XIII. gli Cnidi Corcira Melaina, - le isole Eolie XIV. I Trezeni Posidonia xv. I Focei Marsiglia, - Velia XVI. I Terei Cirene

3 Parte terza LE COLONIE XVII. Pitecusa e Cuma XVIII. Taranto XIX. Sibari XX. Crotone XXI. Locri XXII. Siracusa XXIII. Agrigento Conclusione Nota bibliografica

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5 I GRECI D OCCIDENTE Ancora una volta, dopo Mare greco, i medesimi autori si rincontrano per dare vita a un nuovo libro: incentrato, questa volta, non più sugli eroi, ma sugli uomini protagonisti della grande avventura ellenica. Lorenzo Braccesi ha scritto la seconda parte del volume (I colonizzatori), Valerio M. Manfredi la prima (La colonizzazione) e la terza (Le colonie). A lui inoltre spetta la responsabilità dell assemblaggio delle parti e dell ultima, unificante lettura del libro. PREMESSA Chi direbbe che Antibes o Nizza sono state città greche? Il loro nome era Antipoli e Nicea ed erano entrambe colonie della greca Marsiglia, a sua volta fondazione di Elleni provenienti da Focea sulla costa dell Asia Minore. Chi direbbe, parimenti, che greche siano state Cirene in Libia, Ampurias in Spagna, Ancona in Italia e Curzola nell ex Iugoslavia? Il grande pubblico di solito identifica come città greche Napoli o Siracusa, ma non riconosce come tali tutte le altre disseminate sulle coste occidentali del Mediterraneo. Qui sono sorte, e hanno prosperato, un infinità di città greche, indipendenti e sovrane, i cui possedimenti si estendevano poco all interno e, il più delle volte, non confinavano con altre fondazioni elleniche. L espansionismo dei Greci non si caratterizza dunque come un impero territoriale, quanto piuttosto come un dominio su rotte marittime costellato da innumerevoli approdi. Questi ultimi talora conservano, nei secoli, la loro primitiva natura di semplici fondaci commerciali (emporio) ma, più spesso, si evolvono divenendo veri e propri insediamenti cittadini con relativa sovranità territoriale: cioè colonie (apoikiai). Per oltre quattro secoli il greco è così lingua franca nel Mediterraneo occidentale, compresa sia dagli Etruschi che dai Fenici, popoli con i quali i nuovi venuti dall Ellade devono convivere: in un rapporto basato sull intesa commerciale o, più frequentemente, sulla concorrenza. I coloni greci, insieme alla lingua, portano nel lontano Occidente anche la propria cultura, la propria religione, la propria esperienza tecnica, la propria natura avventurosa, determinando una profonda ellenizzazione nelle popolazioni indigene con le quali instaurano rapporti di coesistenza, sia in forma pacifica sia, più raramente, in seguito a sottomissione violenta. Ma, al contempo, dal contatto con le genti dell Occidente, maturano essi stessi una nuova, peculiare, identità: quella comune a ogni popolo colonizzatore che emigra e si stanzia in aree remote, dove la realtà è del tutto diversa dalla situazione del paese d origine, e dove, inoltre, la continuità della specie è spesso affidata a matrimoni misti. I coloni greci trapiantano dunque in Occidente il proprio patrimonio culturale; e, a prima vista, parrebbero trasportarvi una cosa ancora più cara: il paesaggio della patria lontana. Nel senso, cioè, che li troviamo insediati in siti che geograficamente, il più delle volte, richiamano la conformazione della madrepatria. Il lettore di questo libro inseguirà così, lungo le coste del Mediterraneo, non solo angoli insediativi del mondo greco, ma anche suoi scorci paesaggistici. Realtà ambientale, archeologia, storia, con indagine innovativa, si fonderanno così insieme per accompagnarlo a navigare nel passato: in un viaggio di evasione che è, anzitutto, viaggio alla ricerca delle proprie origini.

6 Parte prima LA COLONIZZAZIONE I. IL QUADRO STORICO. Verso la fine del XII secolo a.c. la civiltà micenea crollò. Le rocche di Micene, Tirinto, Pilo, Già, Argo, Orcomeno furono messe a ferro e fuoco ed ebbe inizio un periodo di oscurità e di decadenza: il cosiddetto Medioevo ellenico, appellativo introdotto per analogia con il Medioevo europeo che seguì la distruzione dell impero romano. Non è chiaro che cosa abbia provocato la fine dei Micenei, il popolo che ispirò l epopea della guerra troiana: a lungo si è creduto che fossero stati travolti dall invasione dei Dori, popolazione anch essa di stirpe ellenica che in età storica si trovava stanziata nel Peloponneso e che aveva nella città di Sparta il fulcro della propria potenza, ma da qualche tempo questa convinzione è stata minata da non pochi dubbi. Poiché gli scavi archeologici non hanno trovato traccia dei presunti invasori si è pensato che la civiltà micenea sia decaduta per cause interne: a un periodo di grande espansione, avrebbe fatto seguito un periodo di profonda crisi economica, sociale e politica durante il quale le classi più povere, oppresse dalla miseria, si sarebbero ribellate ai loro signori assaltando rocche e palazzi. La lontananza dei principi, impegnati in guerre di conquista (come il mitico assedio troiano), avrebbe dato luogo a crisi dinastiche e istituzionali del tipo di quelle adombrate dal ciclo epico dei «Ritorni» dove assistiamo all assassinio di Agamennone a Micene, alla cacciata di Diomede da Argo e di Idomeneo da Cnosso, al lungo vagare dimenelao fino alle coste dell Africa, alle insidie e alle congiure dei pretendenti di Penelope desiderosi di impadronirsi del trono di Ulisse, disperso sul mare. La decadenza succeduta alla crisi e ai sommovimenti interni avrebbe favorito una lenta infiltrazione di genti di stirpe affine e di parlata greca che dopo lunga gestazione e lungo silenzio, quello appunto del Medioevo ellenico, avrebbe dato origine al grande risveglio dell VIII secolo a.c, di cui sono testimonianza l inaugurazione dei giochi olimpici, la ripresa della vita religiosa dei grandi santuari, la rinascita delle città e l inizio della colonizzazione, imponente fenomeno migratorio che portò la civiltà ellenica in Italia, in Nordafrica, in Gallia e in Iberia. In realtà il problema è ancora aperto e molti interrogativi restano per il momento senza risposta: è difficile in primo luogo immaginare una guerra intestina dove tutti distruggono tutti e in cui nessuno dei contendenti sopravvive, ed è difficile ignorare una folta serie di indizi che sembrano invece riferirsi a un invasore esterno. A parte la nota testimonianza ditucidide che nella Guerra del Peloponneso parla del «ritorno degli Eraclidi», ossia di un avvenimento mitico che sembra adombrare la calata di un invasore nel Peloponneso, è interessante notare come nei poemi omerici non si faccia alcuna menzione dei Dori, che, all epoca in cui l Iliade e l Odissea passarono dalla tradizione orale alla versione scritta, già dominavano stabilmente la zona centrale del Peloponneso, ma si parli sempre e solo di Achei, come se gli eredi della diaspora micenea in Asia, a cui i poemi erano destinati, volessero rimuovere un ricordo sgradevole e umiliante. Nella Grecia centrale, inoltre, la piccola regione montana della Doride sembra conservare la memoria di un passaggio intermedio di una migrazione dorica dal Nord, e recenti scoperte in Macedonia paiono registrare l ingresso di popolazioni da settentrione verso la fine dell età del bronzo. Contemporaneamente, si assiste allo

7 «svuotamento» di vaste aree sia nell Europa balcanica sia nell Europa centrale, come se i popoli autoctoni le avessero abbandonate migrando verso altre terre. In taluni territori il numero degli insediamenti si riduce anche dell 80 per cento. Gli affreschi del palazzo di Pilo, dove sono raffigurati guerrieri micenei che si battono contro rozzi awersari vestiti di pelli, vengono da alcuni considerati una rappresentazione di scaramucce con pastori dell interno più che di lotte contro invasori; e così pure la famosa tavoletta di Pilo in cui si allertano guarnigioni della costa non è più interpretata come l allarme che precede un invasione ma piuttosto come una specie di inventario delle forze disponibili. Tuttavia sono stati scoperti i resti di un muro miceneo risalente al XII secolo nell istmo di Corinto e si sa che a Micene, nel medesimo periodo, venivano scavate cisterne per accumulare riserve d acqua, il che si potrebbe intendere come reazione alla minaccia di un assedio. Nell area dell Egeo orientale (specie a Cipro) è documentata, agli inizi dell età del ferro, la sopravvivenza di linguaggi di chiara derivazione micenea, prova, secondo alcuni, che quelle zone erano rimaste fuori dalla sfera d influenza di nuovi sopravvenuti, portatori dei dialetti dorici parlati in età storica nel Peloponneso. La critica più recente sembra rifuggire da ipotesi invasionistiche che configurino un blocco straniero ostile, magari guidato da un condottiero, che distrugge una civiltà già consolidata e si appropria del suo territorio. Si preferisce pensare a crisi interne e/o a lente e complesse infiltrazioni dall esterno che producono mutamenti a lungo o lunghissimo termine. In questo modo è più facile spiegare il costituirsi, in determinati territori, di culture di cui è impossibile o molto arduo stabilire la provenienza. È il caso, per esempio, degli Etruschi giunti, secondo la leggenda, dalla Lidia al seguito di un condottiero, portatori di un linguaggio non affine a quello degli Italici preromani: è impossibile, allo stato attuale degli studi, determinare modalità, cronologia e area geografica del loro eventuale «arrivo». Oggi tutti accettano l idea di «formazione» del popolo etrusco, mentre viene abbandonato il concetto di «origine», che non permette di giungere ad alcun risultato concreto. Lo stesso si può dire per i Fenici, popolazione che si sarebbe formata dalla mescolanza di numerosi gruppi, non necessariamente omogenei, provenienti dall area siro-palestinese-sinaitica e confluiti nella striscia di territorio compresa tra il monte Libano e il mare Mediterraneo. Fenomeni di tal genere avvengono tuttora sotto i nostri occhi, basti pensare al popolo americano, che si è andato costituendo grazie all apporto di innumerevoli componenti, per la maggior parte non anglosassoni, sebbene in questo caso ci sia stata in origine un invasione con conseguente distruzione delle genti autoctone. È necessario comunque ricordare che la fine dell età del bronzo fece da scenario a un impressionante serie di avvenimenti catastrofici che scossero molti potentati del Mediterraneo. Ne serba ancora una volta memoria il mito: Quindi il padre Zeus un altra stirpe di uomini mortali creò, la terza, di bronzo... Essi avevano armi di bronzo, e case di bronzo, e con il bronzo lavoravano: ancora non esisteva il nero ferro. E questi, sopraffatti dalle loro stesse mani, se ne andarono alla squallida dimora del terribile Ade, ingloriosi: la nera morte li rapì, quantunque terribili, ed essi abbandonarono la luce splendente del sole. (Esiodo, Opp., ) Entrò in crisi in questo periodo l impero anatolico degli Ittiti, l Egitto faraonico fu travolto dall invasione dei cosiddetti Popoli del mare, una possente coalizione di molte nazioni di cui, grazie ai documenti egizi, conosciamo i nomi. Molti di loro sarebbero diventati, in età successive, protagonisti di importanti vicende storiche sul teatro

8 mediterraneo: i Tersh (Etruschi?), i Shekelesh (Siculi), i Lukka (Liei), i Peleset (Filistei). Contemporaneamente, nel Nord dell Italia, si estinse in pochi decenni la cultura dei Terramaricoli che avevano colonizzato la Valle Padana. Ancora non è stata proposta una spiegazione veramente convincente per questo evento. Tutto lascia pensare, insomma, che fosse un epoca di grandi turbolenze, determinate forse da mutamenti climatici, da situazioni ambientali che dovettero influire profondamente sulle condizioni di vita di molti popoli creando sommovimenti e gravi disordini. Quando le acque si calmarono l impero ittita era distrutto, l impero babilonese dei Cassiti era prossimo al collasso, l Egitto si avviava a un periodo di decadenza, i regni micenei non erano più che un ricordo, la Valle Padana, in cui erano sorti durante l età del bronzo insediamenti terramaricoli con la densità, in certe aree, di uno ogni 5 chilometri, era quasi deserta. Da questo panorama desolato vennero però emergendo, con il passare degli anni, nuove realtà etniche e politiche che avrebbero dominato la scena nell età del ferro. In Medio Oriente gli Assiri conquistavano gradualmente l intera Mesopotamia, preparandosi a invadere e sottomettere l Egitto; nell area siro-palestinese, a sud si affermava il regno ebraico di Saul e di Davide dopo una lunga e incerta lotta contro le città filistee della costa, a nord, tra il Libano e il mare, fiorivano le città-stato cananee di Bi-blo, Arado, Tiro e Sidone. I loro abitanti sarebbero presto divenuti famosi nel Mediterraneo con il nome di Phoi-nikes («rossi») e avrebbero inaugurato la più grande avventura mercantile e marinara che il mondo antico avesse mai visto. In Italia genti nuove muovevano dalla Toscana attestan-dosi sui passi appenninici, come per prenderne possesso e prepararsi a scendere nella Valle Padana. Vengono chiamati Protovillanoviani perché la loro cultura, sulla base delle testimonianze materiali, è parsa preludere a quella meglio nota dei Villanoviani che si affermò in tutta la Toscana, nel Lazio settentrionale e in alcune località della Valle Padana a partire dal IX secolo a.c. Come i Villanoviani avrebbero dato origine alla civiltà storica degli Etruschi (tale è perlomeno la più diffusa convinzione), così in altre zone della penisola vennero connotandosi gradualmente culture che in età successive sarebbero state riconosciute come quelle dei Veneti, degli Umbri, dei Piceni, dei Dauni, degli Oschi. In Sicilia si affermavano i Siculi (forse i Shekelesh citati nella lista dei Popoli del mare) di probabile provenienza balcanica,, soppiantando i Sicani, antichi abitanti dell isola. Nell area centroeuropea e nella penisola iberica veniva caratterizzandosi la cultura dei Celti, che sarebbe poi via via filtrata anche in Italia dando origine alla cultura detta di Golasecca. In un certo senso si può dire che l assetto dell Europa storica e, in particolare, dell Italia ebbe le sue dirette premesse tra la fine dell età del bronzo e gli albori dell età del ferro. L aspetto più sorprendente dell inizio della civiltà greca, da cui nacque il più vasto movimento coloniario dell antichità classica, è il suo sbocciare in campo artistico e letterario. I vasi geometrici del Dipylon sono capolavori assoluti per la perfezione delle proporzioni, per l efficacia e l immediatezza delle raffigurazioni, per l armonia tra forme e colori, così come i poemi omerici, messi per iscritto per la prima volta nello stesso periodo (VIII secolo a.c), restano tra i massimi capolavori della letteratura universale. Nulla invece ci è purtroppo pervenuto della statuaria e dell architettura di questa età remota (a parte alcuni esemplari di bronzistica minore) perché quasi sicuramente si trattava di opere in legno. Tali erano gli xoana, le statue più antiche rappresentanti gli dei e gli eroi, e anche i templi dovevano essere in legno, probabilmente dipinti e con

9 ornamenti in terracotta policroma. Pausania ebbe la possibilità di osservare la presenza, ancora nel I secolo, di colonne lignee nel peristilio del tempio di Era a Olimpia, il che fa pensare che quelle di pietra avessero rimpiazzato nel corso dei secoli quelle di legno che via via si deterioravano. Questa fioritura artistica non fu un miracolo: sappiamo bene che i poemi di Omero furono il risultato finale di una tradizione orale plurisecolare, probabilmente tramandatasi sulle coste dell Asia Minore, dove è verosimile supporre che gli eredi della diaspora micenea avessero mantenuto un certo controllo del territorio e delle sue risorse anche dopo il crollo della loro civiltà nella penisola ellenica. Al tempo stesso, le più recenti esplorazioni hanno dimostrato che centri palaziali come quello di Lefkandi, nell Eubea, prosperarono in area ellenica già in età molto antiche, mentre è noto che alcune aree come l Attica, l Eu-bea e le isole dell Egeo orientale mantennero una certa continuità, fino all inizio dell età del ferro, con l antico mondo miceneo. Tale continuità è comprovata dal dato archeologico: gli scavi effettuati di recente nella località di Porto Cesareo, non lontano da Taranto, hanno per esempio rivelato che la frequentazione micenea e submicenea non subì praticamente interruzioni fino alla fine dell XI secolo quando il testimone, sia qui sia in altre località dell Italia e del Mediterraneo, passò ai marinai cicladici e poi rodii nel corso del X e del IX secolo a.c. Come sempre in questi casi bisogna pensare a forme di interazione tra elementi immigrati da poco tempo e resti delle culture precedenti. La civiltà micenea nacque dall incontro/scontro tra gli Achei del Peloponneso e i Minoici di Creta invasi e sottomessi. La civiltà greca dovette avere matrici analoghe: contatti e interscambi tra capisaldi sopravvissuti della diaspora micenea del bronzo tardo e nuovi elementi sopravvenuti forse dai Balcani, forse anche dal Nord della stessa Grecia. In modo simile la civiltà europea del Medioevo si originò dall incontro/scontro tra la civiltà dell impero romano e le genti germaniche giunte dalla Sarmazia. Certo, il nostro approccio a questi eventi può essere condizionato dall abitudine a considerare l assetto politico degli stati moderni che abbiamo da secoli sotto gli occhi: entità delimitate da confini invalicabili, con accessi regolati da rigide norme e da documenti di transito e di immigrazione, con simboli nazionali enfatizzati quali bandiere e inni, con linguaggi grammaticalmente e sintatticamente codificati, con sistemi legislativi e ordinamenti politici peculiari, a volte con religioni di stato le cui regole morali hanno anche valore di legge. Nondimeno è giusta l idea che i popoli antichi (o almeno alcuni di essi, come i Greci) avessero coscienza dell etnia di appartenenza e che questa coscienza fosse sostenuta da una notevole convinzione. Essi dovevano avere infatti l istintiva percezione che l affermazione dell identità etnica coincideva con la sopravvivenza fisica delle comunità che ne facevano parte. I Greci, in particolare, seppero connotarsi in modo assai specifico e, intorno al V secolo, arrivarono a elaborare modelli intellettuali che definivano l etnia come comunità di linguaggio, di religione e di cultura. La cosa è differente per i Fenici, che non si definirono mai come popolo ma piuttosto come abitanti di singole città (Tirii, Sidonii) oppure, genericamente, come abitanti della terra di Canaan. La diversità tra Greci e Fenici, clamorosa nella lingua, nella religione e nei costumi, portò, come vedremo in seguito, a un duro scontro militare, ma in genere le ragioni economiche finirono per prevalere, specialmente in ambito coloniale dove in età storica si assistette addirittura ad alleanze tra Cartagine (colonia fenicia) e città greche contro altri centri greci. L ambiente coloniale dunque si caratterizzò per una serie importante di aspetti che ne fecero quasi una civiltà a sé, un fenomeno unico. Ed è tale straordinario fenomeno, imponente per le sue realizzazioni in ogni campo dello scibile, dell arte, dell architettura, dell economia, che tenteremo di analizzare in

10 queste pagine cercando il più possibile di coglierne l anima. Che cosa provocò il movimento coloniario dei Greci verso occidente? Anche in questo, nel motivo che li spinse ad avventurarsi oltremare, i Greci si differenziarono dai loro avversari storici, i Fenici. Mentre costoro sembra fossero mossi soprattutto da ragioni commerciali e dal desiderio di espandere i loro traffici, i Greci furono spinti a lasciare il proprio paese sostanzialmente dalla povertà e dalla fame. I dati ambientali relativi a questa epoca non sono sufficienti per tracciare un quadro della situazione dei terreni nella Grecia del VII secolo e per informarci delle loro possibilità produttive rispetto alla popolazione, ma gli echi che ci giungono dalla letteratura sono abbastanza significativi. Dalla poesia di Esiodo esce un quadro nettamente negativo della situazione sociale ed economica di quegli anni: una classe di aristocratici grandi proprietari terrieri «divoratori di doni» (Opp., 39) possiede la maggior parte della terra migliore, mentre le classi più umili devono cercare di sopravvivere su terre ingrate o darsi al commercio rischiando la sorte sul mare. C è inoltre una nutazione di carattere demografico in Esiodo: «La cosa migliore per un uomo è di avere un figlio solo» (Opp., ). L affermazione è interessante sia perché contrasta con l opinione oggi corrente secondo cui in un economia sottosviluppata le famiglie numerose sono inevitabili, sia perché questa esigenza del controllo demografico si configura fin dall inizio della civiltà greca come una delle sue componenti fondamentali a livello sociale. La morale dei Greci, infatti, a differenza di quella degli Ebrei, non condannò mai le pratiche sessuali fini a se stesse e accettò sempre, o quantomeno tollerò, le pratiche di contenimento della popolazione, anche le più dure, come l esposizione dei bambini che la famiglia non poteva mantenere. Si ritiene che la poesia omerica, benché di tradizione molto antica, rifletta pur sempre, nei toni e nella sensibilità, la mentalità contemporanea alla sua prima versione scritta. E, come in Esiodo, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una visione assai pessimistica della vita. Il fatto è tanto più rilevante se si considera che Omero si rivolge agli aristocratici, a coloro cioè che si ritenevano discendenti o comunque eredi degli eroi descritti nel poema e si riconoscevano nel loro codice etico oltre che militare. Il titanismo iliadico non riesce a nascondere una vera e propria fatica del vivere, una visione della vita come sequenza di sofferenze e di lutti. Gli esseri umani, anche se eroi e sovrani, sono vittime di divinità capricciose e dispotiche. Il loro codice d onore è più un fardello che un privilegio e la morte non è che l ultimo atto di un esistenza dominata da una competizione esasperata, da un continuo prepararsi alla perdita della vita e della luce del sole. Quest atmosfera cupa e opprimente è, con ogni probabilità, il riflesso di una condizione generale di scontri continui per il possesso dello spazio vitale. Razzie di bestiame, devastazioni, atti di pirateria, rapimenti di donne e fanciulli sono episodi ricorrenti in tutta la tradizione epica anche non omerica. Una tale visione della vita non poteva non riflettersi nel concetto religioso e nell immagine stessa degli dei e delle forze che presiedevano al creato. Idea particolarmente desolante, sia in Omero sia in Esiodo. Si pensi al mito di Prometeo che, mosso a compassione per le condizioni miserevoli degli uomini, dona loro il fuoco suscitando la vendetta degli dei: Per questa ragione [Zeus] riversò sugli uomini lacrimevoli affanni. (Esiodo, Opp., 49) Si pensi all inganno di Pandora, atroce beffa divina a un umanità indifesa, che riempie il mondo di malattie, piaghe, lutti di ogni genere: Invece le altre sciagure in numero infinito si aggirano in mezzo agli uomini; piena infatti è la terra di mali, e pieno il mare; le malattie giungono agli uomini spontaneamente, di giorno e di notte, recando malanno ai mortali, tacitamente, perché il saggio Zeus ha tolto ad esse la parola. (Opp., )

11 È quasi incomprensibile, per un uomo moderno, l idea di un dio «saggio», nel senso di «sadicamente astuto», che crea le malattie prive di parola in modo che giungano subdole e inaspettate a minare la salute, ad accendere la sofferenza. La speranza, patetico e fragile scudo contro un intero universo ostile, è l unica forza che resta all essere umano per affrontare la vita. E fu proprio sulle ali della speranza che presero il largo le navi dei primi coloni, ma il termine apoikia, che in greco indica la deduzione di una comunità stanziale oltremare, implica un significato triste, e cioè l abbandono della propria casa. Non possiamo naturalmente recepire in modo acritico la testimonianza dei poemi omerici che tendono a eroizzare la figura dell aristocratico e quindi a darne un ritratto di tragica grandezza. Non possiamo però nemmeno sottovalutare il significato di un atmosfera tanto cupa come è quella che emerge sia da Omero sia da Esiodo, che si debbono considerare interpreti di una realtà in qualche modo riconoscibile dal pubblico a cui erano rivolte le loro opere. Come spiegare allora una situazione dove i poveri sono costretti ad abbandonare la patria e a emigrare ma dove anche i ricchi e i privilegiati sembrano immersi in un clima di profondo pessimismo? Il quadro sociale dell età arcaica era pesantemente condizionato dalla struttura agricola dell economia. I signori, «domatori di cavalli» come sono chiamati nell Iliade (ma nell Eubea dell VIII secolo l epiteto ippobotai, ossia «allevatori di cavalli», sopravviveva quasi invariato), erano proprietari di vasti latifondi e tendevano a espandere sempre di più le loro tenute a danno dei piccoli proprietari che dapprima erano costretti a indebitarsi e poi a vendere e a migrare in cerca di un pezzo di terra al di là del mare. Al tempo stesso però doveva esistere una situazione di conflittualità permanente sia tra i vari clan (ghene) aristocratici sia tra le varie etnie confinanti, fenomeno solo parzialmente attenuato da alleanze di carattere matrimoniale e da scambi di doni, ma con ogni probabilità esacerbato da qualunque peggioramento delle condizioni ambientali. Questa conflittualità, che si esprimeva in scontri armati, razzie, devastazioni e furto di raccolti e azioni di pirateria, pur sublimata in termini di eccellenza militare e di impresa eroica, certamente induceva, in generale, una visione della vita dominata dalle disgrazie, dal dolore, dalle distruzioni e dalla morte. La vita, insomma, se era durissima per i poveri, non era facile neppure per le classi dominanti. Non si può nemmeno escludere che un certo aumento della pressione demografica, unitamente a forme di degrado ambientale testimoniate dalle fonti, abbia contribuito a suscitare il flusso coloniario, come sembrerebbe di capire dalla raccomandazione di Esiodo di generare un figlio solo. La notevole scarsità di terreni coltivabili nel centrosud della Grecia e soprattutto nelle isole, oltre ai problemi, di sicuro preponderanti, di carattere sociale che abbiamo descritto in precedenza, dovettero provocare la scelta migratoria, ma non si può escludere che eventi e circostanze eccezionali come carestie, andamenti stagionali ripetutamente sfavorevoli, epidemie del bestiame abbiano innescato le primissime spedizioni oltremare di cui, come vedremo, resta ampia eco nelle fonti. Un elemento determinante dovette essere, in particolare nelle isole, il massiccio disboscamento che causò erosioni del suolo e siccità. Nell era delle migrazioni coloniarie fu di fondamentale importanza il ruolo dell oracolo di Delfi, che tutte le comunità elleniche riconoscevano e consultavano prima di organizzare una spedizione. L oracolo diceva come, quando e dove si doveva fondare la nuova comunità e non di rado indicava anche l ecista (oikistes, «fondatore»), ossia il condottiero che guidava la spedizione ed esercitava l autorità politica e religiosa nella fase iniziale della vita della colonia. Non sappiamo come l oracolo si fosse

12 guadagnato tanto prestigio, ma poiché i vaticini che pronunciava la profetessa del dio (Pythia) erano di significato oscuro o a volte indecifrabile, l interpretazione dei sacerdoti diveniva indispensabile e fondamentale. Tali interpretazioni dovevano quindi basarsi, oltre che sul timore reverenziale dei postulanti, anche su notizie precise e documentate delle situazioni dei territori verso i quali si indirizzava la migrazione di un gruppo. È lecito dunque ritenere che il santuario di Delfi [vedi inserto iconografico], che gli scavi hanno rivelato attivo già fin dall età micenea, avesse accumulato nel corso dei secoli un patrimonio molto ampio di conoscenze, e potesse disporre di un efficiente rete di informatori. Tutto questo contribuiva da un lato al crescere del suo prestigio, dall altro a estendere ulteriormente il raggio delle sue conoscenze. Si può avanzare l ipotesi che il santuario rappresentasse una continuità anche con le epoche passate in cui le entità politiche erano andate in rovina insieme al loro patrimonio di beni e di sapere. Con la prudenza del caso potremmo forse pensare, per analogia, al ruolo svolto dalla Chiesa di Roma ai fini della conservazione del patrimonio civile del mondo classico negli anni successivi alla caduta dell impero romano. Il «possesso» della cultura conferiva alla Chiesa grande prestigio e autorità e al tempo stesso, favorendone l espansione, comportava l apporto continuo di nuove conoscenze. Il suo ruolo risultò così importantissimo, e talvolta fondamentale, all epoca delle grandi scoperte geografiche per definire le sfere d influenza e di espansione tra le potenze cattoliche. In sostanza le rotte percorse dai coloni ellenici a partire dall VIII secolo per fondare le loro comunità oltremare erano non molto dissimili da quelle battute in tempi più antichi dalle navi dei Micenei e poi dei Rodii e dei Cicladici, dovevano quindi esistere nei grandi santuari conoscenze abbastanza precise sulle terre da colonizzare e sui popoli che le abitavano. Inoltre, qualora un impresa coloniaria iniziata senza la benedizione del santuario delfico fallisse, l evento veniva fortemente enfatizzato come monito per chi osasse sfidare l autorità del dio, come nel caso della sfortunata impresa del principe spartano Dorieo, di cui esporremo più oltre la vicenda. La connessione tra centri religiosi, come l oracolo delfico, e le colonie si può forse anche riconoscere nel patrimonio di miti e tradizioni che i coloni portavano con sé, riambientandoli nella nuova terra e arricchendoli con le usanze tipiche e specifiche della loro città di origine, con la quale mantenevano rapporti molto stretti soprattutto sul piano culturale. La stessa connessione si può inoltre riconoscere nel fatto che le città coloniali continuavano anche in seguito a inviare delegazioni a Delfi per consultare l oracolo, o atleti a Olimpia per cimentarsi nelle gare. Vi fu un periodo, come vedremo, in cui gli atleti delle colonie la fecero da padroni nei giochi olimpici mietendo successi ripetuti e clamorosi. Da un punto di vista archeologico, l importanza dei santuari è ribadita dal fatto che nel corso dell VIII e del VII secolo, quando si diffonde in tutto il Mediterraneo e specialmente in Occidente il gusto per gli oggetti di lusso di stile orientalizzante, in Grecia se ne ha una scarsissima documentazione con la sola eccezione, appunto, dei santuari, unici centri che potessero permettersi spese ingenti e l acquisizione di oggetti d importazione di grande valore e prestigio. Tali relazioni commerciali sono la prova evidente che i santuari avevano contatti e conoscenze che andavano ben al di là del loro raggio immediato di influenza. Quando ebbe inizio, con la fondazione di Pitecusa nell isola di Ischia (ca 770 a.c), la migrazione dei Greci verso occidente, la situazione politica nel Mediterraneo era abbastanza stabile: l impero assiro si era affermato dovunque nel Vicino Oriente e dominava, oltre che sull Assiria, su parte dell Armenia, sulla Mesopotamia e sull area siro-palestinese, dove nel 743 a.c. Tiglatpileser III conquistò Tiro e nel 721 Sargon II distrusse Samaria annettendo lo stato d Israele. L Egitto conservava la sua

13 indipendenza sotto la XXII e XXIII dinastia mentre in Anatolia si sviluppava il regno di Lidia destinato a diventare, fino al VI secolo, la maggior potenza della regione. In Italia la civiltà etrusca si avviava a un eccezionale sviluppo grazie allo sfruttamento dei metalli dell Elba, della Tolfa e dell Allumiere. Nasceva la civiltà urbana e si diffondevano altresì sontuose residenze principesche come i palazzi di Murlo e di Acquarossa. Gli Etruschi si espandevano a sud fino a Pontecagnano e a nord fino alla Valle Padana, dove il centro preurbano di Felsina cominciava ad acquistare i caratteri di una vera e propria città. Il mercato degli scambi era in gran parte in mano ai Fenici che avevano sfruttato a fondo il loro inserimento nello sterminato impero assiro sviluppando una moda artistica, l orientalizzante, di cui prima abbiamo parlato, destinata a un successo commerciale strepitoso. Le commesse della grande aristocrazia orientale li avevano poi spinti a cercare sempre più lontano i luoghi dove approvvigionarsi dei metalli preziosi (argento, stagno, oro) che servivano ad alimentare il loro florido artigianato. Per questo motivo avevano stabilito relazioni commerciali con il Tartesso iberico e fondato stazioni commerciali lungo la costa del Nordafrica fino allo stretto di Gibilterra, dove sorgeva in quel tempo lo scalo ben presto fiorente di Cadice. Su questa stessa rotta si erano lanciati, già nell VIII secolo, i navigatori eu-bei fondandovi scali e piccoli insediamenti che però erano stati ben presto soppressi dal fiorire delle colonie fenicie e in particolare di Cartagine. Sorte migliore ebbe invece la loro espansione tirrenica che culminò con la fondazione delle prime colonie greche di Occidente e, in seguito, degli avamposti più occidentali di Aleria in Corsica e di Marsiglia in Gallia. La tradizione vuole che nello stesso periodo fosse anche fondata Roma (21 aprile 743 a.c), ed è noto che i fondi di capanna ritrovati nell angolo nordoccidentale del Palatino risalgono appunto a questi anni. Sappiamo bene che l assetto di Roma come vero e proprio centro urbano risale all età dei re Tarquini, quando per la prima volta venne pavimentata la valle del Foro e innalzato sul Campidoglio il tempio di Giove, ma è comunque dimostrato che fin dall inizio dell VIII secolo lo spiazzo che si affacciava sull ansa del Tevere presso l isola Tiberina era già sede di un vivace mercato. La presenza dell isola Tiberina, che consentiva un facile passaggio del fiume in quel punto, favoriva indubbiamente il flusso dei traffici tra Nord e Sud, ma è assai probabile che quel mercato fosse frequentato anche da mercanti greci che risalivano la corrente del fiume. Forse a questi antichi visitatori si deve la diffusione, in quell area, del culto di Èrcole che Virgilio avrebbe attribuito al mitico Evandro. Cinquant anni prima, nell 800 a.c, su una laguna costiera della Tunisia da un gruppo di coloni provenienti da Tiro sarebbe stata fondata Cartagine, ma finora gli scavi non hanno rivelato resti anteriori al VII secolo. È comunque abbastanza evidente che gli anni fra il IX e l VIII secolo incubarono, per una serie di complesse circostanze, le civiltà che avrebbero dominato la scena della storia mediterranea fino quasi all inizio dell era volgare e che in parte sarebbero state tramandate, attraverso i grandi rivolgimenti dell alto Medioevo, fino ai nostri giorni. In quegli anni nacque la costellazione delle colonie greche in Occidente: Pitecusa e Cuma, Nasso, Sibari, Crotone, Metaponto, Reggio, che a loro volta diedero vita a molte altre città-figlie. Alcune di queste città scomparvero già nell antichità per non essere mai più ritrovate, altre vissero un avventura rapida e bruciante come la traiettoria di una meteora per poi morire improvvisamente di morte violenta, lasciandoci nei loro resti monumentali le commoventi testimonianze della loro grandezza. Altre ancora sopravvissero stentatamente come centri minori. Ma molte attecchirono come piante robuste continuando a vivere fino a oggi senza soluzione di continuità per oltre venticinque secoli.

14 Per le vie di Napoli e Marsiglia, di Messina, Siracusa e Taranto si muove oggi una folla di operai, di impiegati, di manager, nei loro uffici il flusso dell economia è regolato da computer, nei loro porti gettano l ancora transatlantici e petroliere da centinaia di migliaia di tonnellate, dai loro aeroporti si alzano in volo aviogetti con centinaia di passeggeri a bordo e forse i frettolosi visitatori del nostro tempo non possono nemmeno immaginare l epoca lontana in cui quelle coste erano ancora incontaminate, coperte di boschi e di fitte macchie di vegetazione, l epoca in cui fragili imbarcazioni gettavano l ancora, dopo un viaggio estenuante, per fare scendere gruppi di giovani guerrieri che avanzavano guardinghi verso la spiaggia silenziosa, temendo che dalla boscaglia potesse esplodere improvvisamente il grido di altri guerrieri accorsi a respingerli, a privarli per sempre del sogno di una nuova patria. Portavano con sé un pugno della terra natia e le braci del fuoco sacro che avevano attinto sull acropoli della loro città-madre nella speranza di accendere un nuovo focolare, di costruire nuove case in cui condurre spose straniere rapite con la forza o convinte con i doni e generare figli di sangue nuovo. In questo libro vogliamo raccontare la loro avventura con tutta la fedeltà che ci consentono le nostre conoscenze ma anche con la gratitudine di chi ha ricevuto l eredità di una civiltà preziosa e irripetibile, così forte e così grande da resistere al flusso dei millenni.

15 II CARATTERISTICHE DELL IMPRESA COLONIARIA Non sono note le cause precise della deduzione della prima colonia in Occidente, ma possiamo intuire il motivo per cui i navigatori eubei di Calcide scelsero il golfo di Napoli per il loro primo insediamento. Senza dubbio essi frequentavano già da tempo quelle acque per motivi commerciali, diretti verso il remoto Tartesso lungo una rotta che dalla Grecia attraversava il canale d Otranto, lo stretto di Messina, il mar Tirreno e il mar Ligure e quindi il golfo del Leone e il mare delle Baleari. Conoscevano dunque le caratteristiche topografiche di quella zona e, evidentemente, le giudicavano favorevoli. Bisogna tener presente infatti che gli scali commerciali, che certo esistevano già prima dell VIII secolo a.c. come dimostra il rinvenimento della ceramica geometrica in Sicilia e nel golfo di Napoli, non sempre rappresentavano la premessa per la deduzione di una colonia. Uno scalo commerciale infatti è tale per la sua posizione favorevole verso i mercati, ma non deve necessariamente possedere quelle caratteristiche che consentono la sopravvivenza di una comunità, condizione, quest ultima, indispensabile per una località destinata a ospitare una colonia. Sappiamo che quasi tutte le prime colonie furono di carattere agricolo e che in gran parte erano costituite da giovani che in patria non avrebbero mai avuto la possibilità di possedere un pezzo di terra per il sostentamento della famiglia. Il luogo prescelto, dunque, doveva avere alcune caratteristiche morfologiche fondamentali: un rilievo facilmente difendibile su cui fondare l acropoli, un area circostante dove erigere l abitato e tracciare le strade e, da ultimo, una zona pianeggiante (chora) da dividere tra i coloni per la coltivazione (principalmente grano, orzo, olivo, vite) e per il pascolo. Se le caratteristiche morfologiche delle località prescelte per queste fondazioni ci sono note, e così pure, in parte, gli aspetti urbanistici degli insediamenti, ci è assai meno facile risalire alle modalità secondo le quali una città decideva di dedurre una colonia. Chi prendeva la decisione? Con quali criteri si stabiliva il numero dei coloni? Come venivano scelti? Sappiamo che si trattava (con rarissime eccezioni, come nel caso di Locri e di Focea), di uomini giovani scapoli, e ciò consente alcune congetture. Essi dovevano provenire per la maggior parte da famiglie indigenti o non in grado di assicurare loro condizioni di vita decorose per un uomo libero: mezzi adeguati di sostentamento (terra coltivabile, animali da allevamento e da lavoro) e beni necessari per l «acquisizione» di una sposa (si dovevano offrire costosi doni alla famiglia della ragazza) e per la costruzione o l adattamento della casa ecc. La presenza di un buon numero di giovani frustrati e probabilmente aggressivi doveva costituire un fattore destabilizzante per le istituzioni (in generale oligarchie di aristocratici) e per la pacifica convivenza sociale; era così nell interesse dell intera comunità offrire loro una possibilità di sbocco. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare come potessero i più poveri tra i poveri affrontare i costi, indubbiamente elevati, della spedizione. È evidente che, se la loro partenza era un vantaggio per tutti, ciascuno era tenuto a contribuire. Doveva però verificarsi anche il caso in cui i coloni erano prescelti fra tutte le famiglie con più figli maschi, senza distinzione di censo per non irritare gli strati più poveri della popolazione che avrebbero potuto scatenare rivolte e tumulti. Un caso simile, come vedremo, è quello dell isola di Tera, oggi Santorino [vedi inserto]. La città metteva a disposizione una flotta per il trasporto, o forse la faceva costruire, affinchè la nuova comunità potesse avvantaggiarsi delle attività

16 connesse alla navigazione. Approntava i materiali necessari e operava la scelta degli uomini da inviare oltremare. Sarebbe di enorme interesse conoscere le modalità di queste operazioni nei dettagli ma purtroppo non è pervenuto alcun rapporto abbastanza particolareggiato sulla preparazione e l invio di una spedizione coloniaria. Nondimeno, il racconto di Erodoto riguardo alla spedizione di un gruppo di Terei che fondarono in Libia la città di Cirene può essere considerato paradigmatico. La narrazione nelle Storie di Erodoto (IV, ) è duplice e riferisce sia la versione dei Terei (madrepatria) sia quella dei Cirenei (colonia). Vale la pena di riportare le due versioni perché il lungo brano è ricchissimo di indicazioni preziose. Versione dei Terei: Grinno, figlio di Esania, che discendeva da Tera ed era re dell isola di Tera, se ne venne a Delfi, conducendo dalla sua città un ecatombe, e lo seguivano altri cittadini, e fra essi Batto figlio di Polimnesto... Mentre il re di Tera, Grinno, interrogava l oracolo su tutt altro argomento, la Pizia gli rispose di fondare una città in Libia. Ma quello replicò: «O signore, io sono troppo vecchio ormai e carico d anni per assumermi tale impresa; ma tu impartisci l ordine di fare ciò a qualcuno di questi che sono più giovani». E mentre diceva tali parole, accennava a Batto. Allora si giunse fino a questo punto; ma poi, partitisi dì là, non fecero più alcun conto dell oracolo, dato che non sapevano in qual parte della terra fosse la Libia e non osavano far partire una colonia verso destinazione ignota. Dopo questi fatti, però, su Tera non cadde pioggia per sette anni continui, durante i quali tutte le piante che si trovavano nell isola, tranne una, s erano inaridite. Ai Terei che consultavano l oracolo, la Pizia ripetè il comando di condurre una colonia in Libia. E poiché non c era rimedio per i loro malanni, mandarono degli inviati a Creta a cercare se qualcuno dei Cretesi, o dei forestieri che erano con loro, fosse mai giunto fino in Libia. Aggirandosi qua e là per l isola questi messi arrivarono anche alla città di Itano e in essa incontrarono un pescatore di porpore, di nome Corobio, il quale affermava di esser giunto, portato dal vento, in Libia e a Platea, un isola della Libia. Allora convincono costui, dietro compenso, e lo conducono a Tera; di qui poi degli uomini si imbarcano per esplorare i luoghi, dapprima in piccolo numero. Avendoli Corobio guidati a quest isola di Platea, ivi lo lasciarono con una scorta di viveri per un certo numero di mesi; essi, invece, ripresero il mare in tutta fretta per fare ai Terei una relazione riguardo all isola. Siccome, però, la loro assenza si prolungava più del tempo stabilito, Corobio venne a mancare di tutto. Ma poi una nave di Samo, di cui era proprietario Coleo e che faceva vela verso l Egitto, fu dal vento dirottata verso quest isola di Platea e i Sami, da Corobio informati di tutta la questione, gli lasciarono viveri per un anno... Da questo gesto di Coleo ebbe origine l amicizia a tutta prova che lega gli abitanti di Cirene e di Tera a quelli di Samo. Intanto, i Terei che, lasciato Corobio nell isola, erano tornati in patria, riferirono che avevano preso possesso d un isola presso la Libia. Decisero allora i Terei di mandare colà degli uomini, tratti da tutti i distretti (che erano sette) in ragione di un fratello su due, designato dalla sorte, e che avrebbero avuto Batto come capo e re. E così essi inviarono a Platea due navi a 50 remi. Versione dei Cirenei:...il resto del racconto ormai coincide con ciò che dicono quelli di Cirene; poiché, per quel che riguarda Batto, i Cirenei non vanno assolutamente d accordo con i Terei: essi, infatti, la raccontano così. C è nell isola di Creta la città di Oasso, su cui allora regnava Etearco, il quale, siccome aveva una figlia di nome Fronima, rimasta senza madre, per lei sposò un altra donna. Ma costei, introdottasi nella sua casa, pensò di dover essere, per Fronima, matrigna non solo di nome, ma anche di fatto,

17 infliggendole ogni umiliazione e macchinando contro di lei inganni d ogni sorta; alla fine, accusandola di dissolutezza, convinse il marito che ciò che diceva era vero. Quello, persuaso dalla moglie, tramò contro la figlia un empio disegno. C era in Oasso un mercante di Tera, che si chiamava Temisone; Etearco, avendolo invitato a banchetto come ospite, gli fece giurare che senz altro gli avrebbe reso il servigio di cui lo pregava. Quando l ebbe legato a sé con giuramento, fece venire la propria figlia e lo pregò che la portasse fuori dal paese e l affogasse in mare. Temisone, allora, sdegnato per l inganno con cui gli era stato strappato il giuramento, rotto ogni legame di ospitalità, si comportò in questo modo: presa con sé la fanciulla, sciolse le vele; quando poi fu in alto mare, per liberarsi dal vincolo del giuramento fatto ad Etearco, la legò con delle funi e la fece calare in mare; ma poi, tiratala su di nuovo, se ne andò a Tera. In seguito Polìmnesto, uomo che godeva di prestigio fra i Terei, presa Fronima con sé, la tenne come sua concubina. Col passare del tempo, ne nacque un figlio, difettoso nel parlare e balbuziente, al quale, secondo i Terei e i Cirenei, fu posto il nome di Batto... Infatti, quando fu uomo maturo se ne venne a Delfi per consultare l oracolo sul proprio difetto di pronuncia; ma alla sua domanda la Pizia diede questa risposta: «O Batto, sei venuto per la tua voce, ma il signore Febo Apollo ti manda a fondare una colonia nella Libia, nutrice di greggi.»... Quello allora replicò: «O signore, io sono venuto a te per consultarti sulla mia pronuncia difettosa; tu, invece, mi rispondi tutt altra cosa, impossibile a farsi, ordinandomi di colonizzare la Libia: con quali mezzi? Con quali compagni?». Ma pur dicendo così, non riuscì a convincere la Pizia che gli desse un altro responso; ora, siccome quella ripeteva lo stesso vaticinio di prima, Batto, lasciatala nel bel mezzo, se ne tornò a Tera. In seguito, per lui e per gli altri Terei fu un continuo susseguirsi di malanni e i Terei, che non sapevano spiegarsene la ragione, mandarono a Delfi per interrogare il dio sui mali che li opprimevano. La Pizia rispose loro che avrebbero avuto sollievo dalle sventure se, insieme con Batto, avessero fondato Cirene in Libia. In conseguenza di ciò, essi fecero partire Batto con due navi a 50 remi. Questi, però, giunti che furono in Libia, poiché non avevano altro da fare, se ne tornarono nuovamente a Tera. Ma quando stavano per approdare, i Terei li presero a colpi di pietra, non permisero che s accostassero a terra e imposero loro di riprendere il mare. Così, costretti con la forza, invertirono la rotta e colonizzarono un isola che si trova sulla costa della Libia, quella che, come s è detto precedentemente, si chiama Platea. E si dice che quest isola abbia un estensione pari a quella che ha attualmente la città di Cirene. L abitarono per due anni; ma poi, visto che non c era nulla che riuscisse favorevole, lasciato colà uno di loro, tutti gli altri fecero vela verso Delfi: giunti alla sede dell oracolo, lo consultarono, facendo notare che essi abitavano bensì la Libia, ma le loro cose non andavano, per questo, meglio. A tali rimostranze la Pizia rispose così: «Se tu, pur non essendoci stato, conosci la Libia, nutrice di greggi, meglio dì me, che ci sono andato, io sono molto ammirato della tua sapienza.» Udite queste parole, Batto e i suoi ripresero di nuovo la via del ritorno. Era chiaro, infatti, che il dio non li riteneva assolti dall obbligo della colonia, se prima non giungevano nella Libia propriamente detta. Arrivati all isola e preso il compagno che v avevano lasciato, colonizzarono nella Libia stessa, proprio di fronte all isola, una località che si chiamava Aziri: da due parti la chiudono splendide colline, ricche di boschi, e, da un lato, un fiume che le scorre accanto. In questo luogo abitarono per sei anni; ma al settimo, i Libici avendoli

18 scaltramente lusingati che li avrebbero condotti in un luogo migliore, li persuasero a lasciarlo. Toltili, quindi, di là, i Libici li condussero verso occidente e, per evitare che i Greci, attraversando la regione più splendida, vi lasciassero gli occhi, avendo calcolato il cammino in modo che coincidesse con la durata del giorno, ve li fecero passare di notte: è questa la regione che si chiama Irasa. Li condussero, quindi, presso una sorgente che si diceva sacra ad Apollo e dissero: «O uomini di Grecia, è qui che vi conviene abitare; poiché qui il cielo è forato». La storia che abbiamo ora letto doveva essere quella già codificata nella tradizione ufficiale sia di Tera, la città madre, sia di Cirene, la colonia. La versione dei Terei che organizzarono la spedizione è ricca di dati tecnici, concreta, «storica». Quella dei Cirenei è più fiabesca e folclorica, obbedisce cioè all esigenza di nobilitare le origini della colonia avvolgendo, in particolare, il fondatore Batto nella nebbia del mito. La versione di Tera inizia con la consultazione dell oracolo delfico: a Grinno la Pizia chiede di fondare una colonia in Libia e indica prima lui e poi Batto come ecista della futura colonia. Nessuno però sa dove si trova la Libia, per cui il progetto non viene realizzato. Arriva l immancabile castigo: sette anni di siccità che richiamano i biblici anni delle sette vacche magre. I Terei riconsultano l oracolo chiedendo la fine del castigo e ottengono nuovamente l ordine di fondare la colonia in Libia. A questo punto non hanno scelta. Segue una fase operativa: si cerca a Creta un uomo che conosca le coste africane. E un pescatore di murici che forse vende a qualche manifattura per la tintura della porpora. Pagato adeguatamente, l uomo accetta di fare da guida a un piccolo gruppo di esploratori che scelgono il posto: un isoletta di nome Platea («Larga»), prospiciente la costa, che ben si presta alla realizzazione dell insediamento. Quindi lo lasciano sul posto come un Robinson Crusoe ante litteram con viveri per alcuni mesi, e tornano a Tera a riferire. Il poveretto, esaurite le scorte, morirebbe di fame se una nave samia, probabilmente in viaggio verso Gibilterra lungo la rotta già battuta dai Fenici, non vi facesse scalo lasciandogli viveri per un anno. Intanto a Tera si prepara la spedizione: i componenti sono scelti per sorteggio, uno per ogni famiglia che abbia due figli maschi, in ciascuno dei sette distretti in cui l isola è divisa. I prescelti vengono imbarcati su due penteconteri e fatti salpare. La versione dei Cirenei, come sappiamo, racconta i fatti dal punto di vista dei coloni. L origine del fondatore è resa fiabesca dalla classica storia della ragazza odiata dalla matrigna che convince il marito a farla uccidere: il richiamo a Biancaneve per noi è inevitabile. In questa tradizione era consolidato l aneddoto del fondatore che si reca a Delfi per ottenere un responso sulla propria balbuzie e al quale viene invece ingiunto di fondare una nuova colonia. Anche la risposta è classica, la stessa che diede Mosè, lui pure balbuziente, a Dio che gli imponeva di portar fuori Israele dall Egitto «Come farò, Signore, con quali mezzi?». La cosa più interessante per noi è che, in ogni caso, c è un oracolo delfico alla base dell avventura. Abbiamo già detto che il santuario doveva essere una sorta di banca dati, probabilmente uno dei maggiori serbatoi di conoscenze esistenti in tutto il Mediterraneo. È il dio in persona (ossia i sacerdoti) a rivendicare queste conoscenze: «Se tu, pur non essendoci stato, conosci la Libia, nutrice di greggi, meglio di me, che ci sono andato, io sono molto ammirato della tua sapienza». Ma non solo: si rendeva evidentemente necessario impostare l avventura coloniaria come un fatto sacro, un compito a cui era impossibile sottrarsi, voluto dagli dei. Batto espone più volte le sue ragioni al dio ma ottiene sempre la stessa risposta.

19 Poiché è una risposta che non gli piace, decide di interrompere la consultazione, insomma di fare uno sgarbo al dio. Reiterare un interrogazione al dio, nella speranza di ottenere una risposta diversa e più favorevole, faceva parte della procedura ammessa dai sacerdoti e in qualche caso funzionava. Il postulante otteneva una risposta migliore e se ne andava soddisfatto o, comunque, un po rincuorato. È quanto accadde agli Ateniesi che, nel 481 a.c, avendo chiesto al dio se dovevano o no opporre resistenza all invasione persiana, avevano ottenuto una risposta così catastrofica che non osavano tornare a casa a riferirla. Un tale, che passava nei pressi e li vide così abbattuti, consigliò loro di chiedere al dio una risposta migliore minacciando altrimenti di lasciarsi morire di fame sulla soglia del santuario. La nuova risposta fu quella famosa del «muro di legno» che avrebbe salvato Atene e la Grecia e che diede a Temistocle il pretesto per costruire una potente flotta da battaglia. (Erodoto, VII ). Ma torniamo alla storia di Batto. L aver ignorato un comando del dio non rimase cosa impunita, e poco dopo sia Batto sia i suoi concittadini vennero colpiti da non meglio precisate sventure, che vanno forse identificate con i sette anni di siccità della versione terea. Non possiamo però escludere che l espressione adombri anche turbolenze o disordini che forse accompagnarono la carestìa. L oracolo è nuovamente interrogato e a Batto non rimane che partire. Per il resto, a detta dello stesso Erodoto, le due versioni sostanzialmente concordano, ma è interessante notare, nella versione dei Cirenei l episodio impressionante dei coloni che, tornati a Tera per non essere riusciti nel loro tentativo di insediare la colonia, vengono cacciati a sassate dai compatrioti e costretti a riprendere il mare. Si tratta di un particolare drammatico che i Cirenei non possono dimenticare e che invece i Terei hanno censurato nella loro versione considerandolo evidentemente imbarazzante. In realtà un comportamento tanto spietato, e così difficile da capire per noi moderni, era invece perfettamente legittimo e rispondente alla altrettanto spietata legge della sopravvivenza. A questo proposito una preziosa testimonianza, di fatto unica nel suo genere, è costituita dall iscrizione su marmo con cui i Cirenei ricordarono il giuramento pronunciato dai loro antenati al momento della partenza dalla madrepatria. Il testo è impressionante e vale la pena di riportarlo integralmente (R. Meiggs-D. Lewis, A Selection of Greek Historical Inscriptions to the Fifth Century B.C., 5, Oxford ): Fu deciso dall assemblea. Poiché Apollo ha spontaneamente profetizzato a Batto e ai Terei di colonizzare Cirene, i Terei decidono che sia mandato Batto in Libia come guida e re; che i Terei salpino come suoi compagni; che essi salpino in base a una selezione egalitaria, secondo la famiglia; che un figlio sia scelto tra ogni famiglia; che partano gli adulti e ogni altro Tereo libero che lo voglia parta. Se i coloni fondano la colonia ciascuno dei loro concittadini che in seguito parta per la Libia partecipi della cittadinanza e degli onori e gli sia data una porzione di terreno non ancora assegnato. Ma qualora non riescano a fondare la colonia e i Terei non siano in grado di aiutarli ed essi soffrano per l indigenza per cinque anni, partano da quella terra senza paura per tornare a Tera, e riabbiano i loro beni e la cittadinanza. Colui che non voglia partire malgrado la città lo abbia inviato, sia passibile della pena di morte e i suoi beni siano confiscati. Colui che lo accolga o gli dia rifugio, che si tratti del padre nei confronti del figlio o del fratello nei confronti del fratello, subisca le stesse pene di chi non vuole partire. A queste condizioni fecero dei giuramenti, quelli che rimanevano e quelli che salpavano per andare a fondare la colonia, e lanciarono delle maledizioni contro chi contravvenisse a questi patti e non vi rimanesse fedele, sia che si trattasse di quelli che vivevano in Libia, sia di quelli che rimanevano in patria. Foggiate delle statuine di cera le bruciarono lanciando tutti le seguenti maledizioni, radunati uomini, donne,

20 fanciulli e fanciulle: «Colui che non rimanga fedele a questi giuramenti, ma vi contravvenga, possa liquefarsi e dissolversi come queste statuine, lui e la sua stirpe e i suoi beni. Per coloro che rimangono fedeli a questi giuramenti, sia quelli che partono per la Libia, sia quelli che rimangono a Tera, vi siano beni in abbondanza, per loro e per i loro discendenti». Dall analisi di questa epigrafe possiamo dedurre una ricca messe di informazioni: 1. La madrepatria, retta a monarchia, secondo la testimonianza di Erodoto, impone di fatto la stessa forma istituzionale alla colonia che sarà pure una monarchia. 2. Chi, sorteggiato per la partenza, si rifiuta, è passibile della pena di morte e così pure chiunque, si tratti pure del padre o dei fratelli, gli dia ricetto o lo nasconda. La partenza è invece facoltativa per chiunque altro voglia unirsi alla spedizione. 3. Una volta fondata la colonia chiunque può, in seguito, raggiungerla e in tal caso avrà diritto alla cittadinanza e a un lotto di terreno non ancora assegnato. 4. Se, dopo cinque anni, non sarà stato possibile dar vita alla nuova colonia, i coloni potranno far ritorno e saranno riaccolti con dignità di cittadini e reintegrati nei loro beni. Il giuramento si conclude con le maledizioni di rito per gli spergiuri e con la distruzione dei feticci che li rappresentano. Sono concordi le notizie in nostro possesso concernenti la consistenza della colonia, che appare sorprendentemente ridotta: furono sufficienti a trasportare gli avventurosi due sole penteconteri. Erano, queste, navi da guerra con venticinque rematori per ogni murata. Non avevano ponte e disponevano forse soltanto di un gavone di prua e uno di poppa. Difficile pensare che vi fosse gran posto a bordo per altri passeggeri, tanto più che i gavoni dovevano servire a custodire armi, attrezzature e cibo. Se prendiamo per buone le parole di Erodoto, dobbiamo considerare che la prima spedizione dei Terei si avvalesse di circa centocinquanta-centosessanta uomini, un numero effettivamente esiguo ma tuttavia sufficiente a dare vita a una comunità se fosse giunto a destinazione senza perdite. L uso delle penteconteri, ossia di veloci navi da guerra anziché di più stabili e capaci ma più lenti mercantili, doveva essere motivato dalla presenza di pirati nelle acque dell Egeo orientale. In questo caso non c erano pesi morti a bordo oltre lo stretto indispensabile. Ogni uomo era passeggerorematore e anche fante di marina se necessario. È tuttavia probabile che in caso di emergenza vi fosse un gruppo a bordo esclusivamente destinato al combattimento. Non si potevano infatti, almeno nelle prime fasi dello scontro, distrarre uomini dalla voga per non azzoppare la nave. Infine l uso di navi da guerra per la spedizione consentiva agli stessi coloni la pratica della pirateria e del saccheggio delle coste durante il lungo viaggio. Non sappiamo perché la prima spedizione non riuscì a mettere radici; il racconto erodoteo è a questo proposito molto stringato e possiamo solo ipotizzare le cause del fallimento: forse i coloni incontrarono resistenza, forse si spaventarono per l inospitalità dei luoghi, forse si resero conto che non avrebbero potuto procurarsi per l anno successivo quantità sufficiente di cibo e di acqua potabile. Sta di fatto che pensarono di tornarsene a casa. Ma non c era più casa per loro: una volta che una spedizione era partita, la madrepatria la considerava separata da sé e non più riaccettabile nel suo seno. Come abbiamo visto, i coloni che tentavano di attraccare vennero presi a sassate e costretti a riprendere il mare. Non è un evento di poco conto: erano i padri e i fratelli stessi di quei poveretti che li lapidavano! La versione dei Cirenei racconta poi di un secondo tentativo fallito di colonizzazione dell isoletta di Platea, quindi di un terzo tentativo sulla terraferma durato sei anni, e

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