OMO RIVER SOFT. Etiopia, la terra dell ottava armonia dell arcobaleno: il nero.

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1 OMO RIVER SOFT Gruppo Nasia Magnelli Etiopia, la terra dell ottava armonia dell arcobaleno: il nero.. Guarda dove metti i piedi impuro straniero; fuori dai tuoi abiti forestieri impuro straniero sentiti parte del grande capolavoro; cammina in pace, cammina solo, cammina eretto, cammina libero, cammina nudo.. La forza di internet: solo per caso, qualche tempo fa, mi è rimasta impigliata nella rete la poesia di un famoso scrittore etiope scomparso da poco. Dopo averla letta mi è scattata la curiosità di conoscere un paese di cui si sente parlare sempre troppo poco. La forza della storia: proprio a questo paese noi italiani siamo legati a doppia mandata. Vittorio Bottego, fiero ufficiale dell Arma di Artiglieria, alla fine del 1800, in piena età dell imperialismo, scoprì il vero percorso del fiume Omo, chiamato dai locali ZEBRAEUS, uno degli ultimi misteri geografici dell Africa. E poi Benito Mussolini, molto meno fiero rappresentante degli anni più bui della nostra storia contemporanea che, spinto da manie di grandezza, tentò, in piena seconda guerra mondiale, al ritmo frenetico di Faccetta Nera dell Abissina, di mettere la mani su questa nazione. Convinto di sculacciare in poco tempo quattro simpatici negretti, prese dei sonori calci nel sedere facendo fare all Italia una delle più brutte figure della sua storia. La forza della natura: da sempre l Etiopia è ciclicamente soggetta a devastanti periodi di siccità che mettono in ginocchio il paese ed è proprio di questi giorni la notizia che sta attraversando uno di questi periodi. Inoltre, come se non bastasse, detiene due tristi record negativi: è uno dei 10 paesi più poveri del mondo e la speranza di vita media è di 46,7 anni, a sua volta una delle più basse del mondo. Piove sul bagnato, per usare un diabolico gioco di parole. E allora mi sono detto: perché non cercare di aiutarli andando a scoprire il fascino e il mistero delle più antiche etnie dell Africa, cioè quelle che popolano la valle dell Omo? Detto fatto e ci ritroviamo in 16 sull aereo notturno che ci porta ad Addis Abeba. Antonio, Anna Maria e Claudia da Torino; Marina e Riccardo da Biella; poi la nutrita colonia toscana: Lorella e Chiara dalla provincia di Arezzo, Carla e Stefano da Prato, Alessandro da Pisa ma tecnicamente livornese e questa, visti i trascorsi delle due città, sembra proprio una bestemmia, io, Marco, da Firenze ma tecnicamente portovenerino e Nasia, il capo, sempre dalla provincia di Arezzo, che non sarà Bottego ne tanto meno Mussolini, ma è una veterana tosta ed entusiasta, ci aspettiamo grandi cose da lei. Per chiudere Sergio da Perugia, ma tecnicamente di Fabriano, Fabrizio da Roma, ma tecnicamente napoletano, Ignazio da Roma, ma tecnicamente da Spoleto ed Eugenio da Cagliari, ma tecnicamente palermitano, da cui ho mutuato questo simpatico modo di dichiarare le proprie origini. L avventura può avere inizio E veramente il colmo, la peggior siccità dichiarata degli ultimi 20 anni e Addis Abeba è circondata da una pioggerellina sottile, quella che, per capirci, dicono faccia tanto bene alle nostre piante sulle terrazze, che non ci abbandonerà per tutta la mattina. Peccato, perché la città sembra ancora più triste e desolata di quello che in realtà è. La attraversiamo con le nostre jeep e l impressione che ne ricaviamo è l immagine stessa dei suoi abitanti: povera e denutrita. Strade di fango e piene di buche fanno da cornice a grossi palazzi scheletriti apparentemente disabitati che stanno in piedi solo grazie a fatiscenti impalcature di legno; sembrano il costato di un bambino, troppo magro e debilitato per essere felice. Lasciamo Addis Abeba e l Etiopia inizia a presentarsi con il suo vestito migliore; dolci colline alternano tutte le tonalità del verde e gli alberi, come imponenti candelabri, abbelliscono ulteriormente la tavola. La vita pullula lungo i bordi della strada 1

2 e i commensali si alzano e si siedono offrendo le loro mercanzie; asinelli testardi carichi di foglie di finto banano ci sbarrano la via, mentre mucche e caprette, anche loro denutrite come tutto il paese, ondeggiano svogliate alla ricerca di un po d erba da mangiare spinte dalle urla e dalla frusta di corda dei bambini. Tanti bambini che ti salutano e, appena ti fermi, ti tendono le mani quasi ad implorare un aiuto; gli diamo qualche matita colorata e qualche caramella, con lo sconforto di sapere di non potergli comunque garantire un futuro migliore. Purtroppo anche questa è l Africa, ma sarebbe arrivato il momento, cari signori potenti della terra, di mettere mano al portafoglio per cercare di cambiare questi abiti vecchi con altri più nuovi che tanto bene si abbinerebbero alla meraviglia della natura che ci circonda. La prima tappa della giornata la facciamo a ADADI MARYAM per vedere un raro esempio, in questa zona del paese, di chiesa incastonata nella roccia. Stretti cunicoli si infilano in un masso come il bruco fa con una mela e, come il bruco, anche noi scompariamo ad uno ad uno inghiottiti dalla terra. Una voce fredda e un po monotona scandisce la preghiera mentre i fedeli, seduti nella penombra, sembrano voler sfuggire non solo agli occhi curiosi delle nostre macchine fotografiche; atmosfera tra il trascendente e il misterioso che ci ha interessato. Come ci ha interessato e incuriosito tutta quella gente che, a piedi, a cavallo o su carri trainati da asini si dirigeva tutta nella stessa direzione, nella confusione del mercato di ADADI. Con un balzo passiamo dal mistico al caciarone, dall immobilità della preghiera ad un moto disordinato dove tutti si agitano con allegria. Una cosa ci colpisce; non è il classico mercato dove il ruolo di chi vende e di chi compra è ben definito. No, qui non si vede merce esposta e la gente chiacchiera e si gira intorno come se tutti fossero in attesa di qualcuno che dia inizio alle danze. O forse, molto più semplicemente, c è tanto poco da offrire che il mercato diventa semplicemente un luogo di incontro. Riprendiamo la marcia verso Sud nell unica strada asfaltata che attraversa il paese, coscienti che stiamo calpestando la RIFT VALLEY, la grande spaccatura tettonica che, partendo dal Medio Oriente, divide in due l intero continente africano sino al Mozambico. La solita processione di gente ci accompagna sino a TIYA dove si trova uno dei siti più importanti di stele antiche decorate con simboli a forma di spada e curve sinuose dal dubbio significato. Sosta pranzo a BUTAJIRA per il primo contatto con l INJERA, piatto nazionale etiope, una grossa piadina sottile e spugnosa, leggermente acidula, impreziosita da salse di diverso tipo da mangiare rigorosamente con le mani, cioè scarpetta libera alla faccia del galateo. I più restano soddisfatti, gli altri forse si convinceranno; non credo potranno fare altrimenti vista l aria che tira! Poi ancora Rift Valley per arrivare al lago ZIWAY. E ormai pomeriggio inoltrato e i pescatori hanno lasciato campo libero al MARIBU Africano, un grande uccello con lunghe zampe e lungo becco, un po gobbo e con il piumaggio bianconero; l accostamento con il popolo juventino è inevitabile. In effetti, oltre l aspetto, il suo sport preferito è rubacchiare, non campionati o coppe dei campioni, ma i resti di pesce lasciati dai pescatori. Molto più eleganti e signorili sono invece i pellicani; in una lunga fila indiana attraversano il lago non curanti di quello che li circonda con l eleganza di un gruppo di ballerini, cambiando ritmo e direzione disegnando sull acqua grandi figure geometriche. Risaliamo sui fuoristrada per raggiungere il lago LANGANO e qui entrano in gioco prepotentemente i nostri driver: sono in quattro e il capo ha un nome impronunciabile. Per aiutarci ci dice il suo diminutivo, cioè Yena, ma noi vogliamo aiutarci da soli e lo ribattezziamo Mario. Gli piace, parla e ride divertito, almeno sino a quando imbocchiamo lo sterrato che ci divide dal lodge dove pernotteremo. 20 chilometri di una bellezza sconcertante, ma che mettono a dura prova le sue capacità. La luce del tramonto è straordinaria; i raggi del sole filtrano tra i rami degli alberi e, in lontananza, in uno strano vedo non vedo, il lago risalta tra il verde delle colline. Tutto bello, come in una cartolina, tranne il fondo stradale; fango, buche piene d acqua e pendenze oblique fanno somigliare la toyota ad una barca a vela che affronta di bolina un forte vento di maestrale. Dopo ogni passaggio Mario scende, si consulta con gli altri autisti e, insieme, scelgono la strategia giusta per affrontare il passaggio successivo; l avversario è difficile ma, dopo una sbandata, uno stridere di gomme e l odore di bruciato tipico di una frizione malmenata, otteniamo il risultato: arriviamo al lodge, anche se il buio ci fa rimandare a domani gli ulteriori apprezzamenti. 2

3 E allora eccoli gli apprezzamenti: il lodge è composto da piccole casette isolate immerse nella vegetazione belle e comode, la cena a base di pesce fritto è stata ottima e il lago, la mattina presto, trasmette pace e tranquillità. La monotonia dell acqua, immobile e piatta, è spezzata solo dal vibrare della lenza di un pescatore e dall impercettibile movimento delle orecchie di un ippopotamo, anche lui immobile come una roccia; sembra un quadro e il rischio di fare una foto mossa è pressoché nullo. Colazione e via, per i 20 chilometri di Camel Trophy fatti anche all andata. I driver oggi sono però molto più tranquilli; dopo i complimenti ricevuti ieri sera si sentono imbattibili e affrontano la strada senza titubanza, compreso il mitico passaggio nel container, messo in un guado in sostituzione di un possibile ponte. Le taniche di benzina sulla jeep si schiacciano e deformano il tetto del container, per un attimo ci sentiamo in trappola come il topo ingordo che non ha saputo resistere al pezzo di formaggio, ma non facciamo neppure in tempo a sentire lo scatto della tagliola che siamo già fuori, liberi a gustarci il capolavoro della natura. Arriviamo sulla strada asfaltata per raggiungere in tutta fretta il mercato del pesce di AWASA, una cittadina affacciata direttamente sull omonimo lago. Qui non ci si può sbagliare: si vende e si compra con grande frenesia pesce, solo quello e quasi tutto della stessa varietà. Le urla dei battitori ci accolgono quasi come se fossimo vittime di un aggressione, in realtà cercano il miglior prezzo per piazzare il pescato. Non si va a peso, ma ad unità di misura, infatti il pesce viene buttato in terra, tutti ci mettono le mani per selezionarlo e poi viene riempita una cassetta dal compratore che la paga in base alla grandezza del pesce selezionato. Detta così sembra semplice, in realtà è come essere a Wall Street; urla segni con le mani, foglietti di carta che volano o passano da una mano all altra e poi mazzette di soldi trucidi e puzzolenti che entrano nelle tasche di pochi. Dopo le contrattazioni, la lavorazione. Il pesce dalle cassette riprende la via delle terre, dove viene pulito, sfilettato e spellato. Noi siamo abituati a vedere al banco pesce della Coop infilare le sogliole in una macchinetta che le spella perfettamente senza che il commesso muova un dito. Qui non funziona proprio così: il pesce, sempre per terra, viene preso dalle mani esperte di un adulto che, con un coltello lungo e stretto e con la punta ricurva, lo sfiletta alla velocità della luce, getta lisca e testa da una parte e passa i filetti ad un bambino che, sempre alla velocità della luce, li spella con la bocca. Veramente impressionante; nel tempo che questi due puliscono una cassetta di pesce, il commesso della Coop ha spellato tre sogliole con la fatidica macchinetta e le ha messe sulla bilancia pronte per essere prezzate. Siamo gli unici turisti e i bambini fanno a gara per dimostrarci la loro abilità, tutto per un sorriso e lo scatto di una foto. Siamo impressionati e divertiti, ma vogliamo limitarci a guardare l apparenza. La cosa veramente impressionante, invece, è vedere quei bambini in ginocchio in un mercato, con la bocca sporca di pesce, frastornati dalle urla degli adulti e non dietro ad un banco di scuola con la voglia di imparare per sognare ad occhi aperti su cosa vorrebbero fare da grandi. Con il dubbio che forse siamo noi a farci un idea sbagliata della vita, usciamo dal mercato e andiamo sulla spiaggia dove altri bambini puliscono le reti, mentre nelle piccole barche ormeggiate viene raccolto l ultimo pesce per essere portato al mercato. Dietro alle barche la presenza inquietante dei gobbi, non gli juventini, ma gli immancabili maribù, pronti a rubare anche il più piccolo boccone di pesce. Il cerchio si chiude lungo una fila di bancarelle dove simpatiche ragazze friggono il pesce appena pescato; peccato, sono solo le 10,30 del mattino e l odore che si sprigiona da quei grossi padelloni non è proprio uguale a quello di un cappuccino e una brioche calda alla crema. Chiuso il cerchio, chiusa la visita, davvero bella. Ripartiamo sempre facendo rotta a Sud, con un paesaggio sempre diverso, ma sempre ugualmente meraviglioso, proprio quello che ti immagineresti sdraiato sul letto sognando ad occhi aperti dopo aver letto un libro di Hemingway. Attraversiamo prima la zona di produzione delle banane, poi quella del caffè, poi quella delle ananas, il tutto colorato e animato dalla gente che fa vivere la strada grazie allo loro voglia di vita. Così, al nostro passaggio da zone apparentemente disabitate, si materializzano venditori improvvisati e bambini scatenati che ci rincorrono, urlano e ci salutano; ma troviamo anche la cittadina che ospita la comunità Rastafariana d Africa e simpatici cartelli che avvertono gli automobilisti di stare attenti agli ubriachi che, in quanto tali, come mucche, capre o asini, si ciondolano nel mezzo di strada incuranti di tutto e di tutti. Ne fa le spese una delle nostre macchine, 3

4 che incoccia il gomito di un tizio molto sbronzo e si gioca lo specchietto destro. Poi un tuffo nella storia e uno nella realtà. Prima di arrivare alla cittadina di DILA ci fermiamo lungo la strada a fotografare delle capanne; gli abitanti si affacciano curiosi almeno quanto noi e ci invitano ad entrare. Vivono tutti in una grande stanza, compreso gli animali, nella semi oscurità; un canniccio separa la zona adibita a cucina, che altro non è che un angolo con il fuoco sempre acceso e due pietre affiancate dove vengono appoggiate le pietanze. Non c è camino e il fumo esce diradato infilandosi nei pertugi del tetto di paglia. Ora si capisce il perché di tutta quella gente nella strada: la casa non è, come per noi, un punto di ritrovo, ma un semplice ricovero per la notte. Certo i pensieri si affollano nelle nostre menti come grandi nubi nere che annunciano il temporale, così passiamo volentieri alla storia. Subito dopo Dila, deviazione per il sito di stele e falli di TUTUFELA. Sterrato molto impegnativo; Mario si destreggia con bravura e ci accorgiamo solo quando siamo in cima che manca una jeep. Sergio, il principe del foro, e dopo vi dirò il perché, sale a piedi e ci racconta che la macchina è finita con due ruote nel fossato ai bordi della strada. Mario riparte preoccupato e noi intanto visitiamo il sito, non entusiasmante per la verità, con dei grandi piselloni che vigilano attenti sui loro cari. Torniamo e Mario ha risolto tutto: ha ripescato come un branzino la jeep dal fossato e siamo ripartiti senza problemi per YABELO dove trascorreremo la notte Oggi ci aspetta la prova di forza, visita a EL SOD e al suo lago vulcanico salato. Facciamo colazione molto presto e mentre ci svegliamo con un ottimo caffè, vediamo passare per la strada due camion carichi di cammelli; ci guardiamo stupiti senza saperci dare una spiegazione se non quella che il caffè non abbia ancora fatto il suo effetto. Comunque prendiamo le macchine e partiamo. Pochi chilometri fuori Yabelo scopriamo l arcano; non era questione di sveglia o caffè, ma di un paesaggio che è cambiato drasticamente. Tutto è più brullo e desertico, l erba è quasi sparita, così come gli alberi, lasciando spazio ad una savana con bassa vegetazione dove spiccano enormi termitai simili a lunghe matite spuntate e cammelli. Superiamo la cittadina di Dublock, dove ci fermeremo al ritorno, ed arriviamo ad El Sod; le jeep lasciano la strada principale e ci troviamo di fronte al baratro. Scendiamo quasi con la paura di cadere; l enorme cratere del vulcano si è aperto improvvisamente davanti ai nostri occhi e sotto ai nostri piedi come la bocca spalancata di una balena pronta ad inghiottirci. Ma noi non ci facciamo spaventare, dobbiamo scoprire cosa nasconde quella macchia nera petrolio proprio in fondo al cratere. Ci incamminiamo lungo un sentiero ripido e sassoso e la macchia nera si fa sempre più nitida e splendente, una pietra preziosa incastonata nel rosso delle montagne che la circondano. In realtà, essendo Nasia una profe preparata e noi studenti modello, sappiamo già di che cosa si tratta; è un lago da dove si estrae un sale nero molto pregiato. La curiosità resta, anzi, aumenta man mano che scendiamo. Il sentiero è davvero impegnativo e non solo dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi, ma ci dobbiamo guardare anche dagli asinelli, veri padroni del territorio; nei punti più stretti si piantano in mezzo alla strada e non si spostano sino a che non ti fai da parte e li lasci passare. Non sono poi così stupidi come la tradizione ci vuol far credere. Siamo finalmente di fronte al lago e cerchiamo di convincere tre giovani Borana, l etnia che abita questa zona dell Etiopia, a fare un po di straordinari; vorremo vedere come si fa ad estrarre il sale. Dopo tanto parlare è il vile denaro che fa la differenza e con 100 birr a testa, l equivalente di 4 euro, ci accontentano. Si gettano nel lago e, ancora ancorati al ricordi di quell insolito destino nell azzurro mare di agosto, rimaniamo impressionati; l acqua è davvero nera come la pece, tanto nera che sembra densa come un budino al cioccolato fondente. I corpi dei tre ragazzi sono un tutt uno con l acqua, non solo per il colore della loro pelle, ma anche per la leggerezza con cui si muovono in quest ambiente che da solo farebbe ricordare gli inferi delle tenebre. Invece il sole ravviva tutto e i ragazzi iniziano il loro lavoro; con l aiuto di un lungo bastone di legno pestano il fondo del lago più volte, poi infilano le braccia nell acqua sino a sfiorarla con la bocca e tirano fuori delle grosse pietre di sale nero. Quando escono dall acqua il sole asciuga il sale sulla loro pelle e, forse senza volerlo, assumono una nuova identità, quella dei capi tribù indiani che, per prepararsi alla battaglia, si dipingono il volto e il corpo di bianco in segno di forza e invincibilità. Dopo il piacere, il dovere; ci aspetta infatti la risalita che, come temevamo, è 4

5 veramente dura. Prima della partenza due defezioni e mezzo: Carla e Eugenio salgono sul mulo, Ignazio fa solo un tentativo. Il povero animale non regge all urto, si affloscia sulle zampe e declina l invito. Per tutti gli altri un pianto e un lamento sino alla meta raggiunta comunque con grande dignità. Esperienza davvero straordinaria, come straordinaria e, oserei dire inaspettata, è la reazione di Nasia quando si è accorta che ci volevano fregare 100 birr sul prezzo pattuito per essere stati accompagnati dalla solita guida locale. Questa volta la prof non tira fuori il suo quadernino magico preparato nei minimi particolari per il viaggio, ma le unghie. Incazzata nera non per i birr, ma per il rispetto che anche loro devono avere per il turista, viene accerchiata, Mario la sostiene e anch io mi getto nella mischia, non perché sia più convincente, ma perché l omo non è solo river, ma anche omo e, in momenti come questi, può aiutare, Nasia comunque non molla e il capo villaggio, molto a malincuore, ci restituisce il maltolto rasserenando gli animi. Sulla strada di ritorno ci fermiamo a DUBLOCK per l antico rito dei pozzi cantanti che poi tanto un rito non è, è, caso mai, una gran faticaccia. Per combattere la siccità e poter abbeverare il bestiame, i pastori Borana scavano dei canali piuttosto lunghi in leggera pendenza infondo ai quali costruiscono gli abbeveratoi. Dietro agli abbeveratoi sprofondano nel sottosuolo scavando pozzi sino a raggiungere le falde acquifere. Una catena umana si passa i secchi colmi d acqua sino alla superficie e, per farsi forza uno con l altro, cantano; cori che escono dalla terra amplificati, che nascondono la fatica necessaria alla sopravvivenza. Anche noi, insieme a qualche mucca, scendiamo sino ad un pozzo dove due ragazzi si passano i secchi e cantano una melodia lenta e ritmata. Lo sforzo è evidente, ma l atmosfera è un po fredda, sembra la tipica esibizione per turisti, ma noi, d altronde, questo siamo. L unica speranza è che non si perda una tradizione tanto antica quanto ingegnosa. Sosta meritata a Yabelo per riprenderci dalle fatiche procurateci dal vulcano; mangiamo e facciamo quattro chiacchiere in libertà, o a bischero sciolto come dicono in toscana, così ci conosciamo tutti un po meglio. Fra le tante emergono tre curiosità. Sergio, il più giovane, di cui vi dovevo la definizione principe del foro. In effetti la professione, avvocato, e l abbigliamento sempre impeccabile con tanto di maglioncino girocollo sulle spalle, ne sintetizzano un ritratto perfetto. Ma poi l imprevisto: si è scoperto anche tombeur de femme con fidanzata iraniana appena lasciata in una valle di lacrime e foto ambigua sul cellulare di un perfetto lato B; ambigua solo per l identità del soggetto. Poi Riccardo; in tanti lo guardavamo incuriositi, ma solo Alessandro ci ha acceso la lampadina: la fotocopia a colori in grande formato di Mister Bean. Stessi occhi, stesso profilo, stessa simpatia. Infine Fabrizio; ingegnere, ottima occupazione, una compagna a casa che lo aspetta e una seconda occupazione che definirei insolita: cuoco per diletto e affittacamere a Cuba. Senza conoscere i dettagli, comunque un idea geniale. Tempo scaduto, dobbiamo ripartire per KONSO. Sterrato davvero impegnativo, ma il paesaggio ritorna alla vita. Arriviamo all imbrunire in un paese quasi addormentato ma le sistemazioni questa volta sono davvero ottime. Mangiamo, poi tutti sotto le stelle e a nanna, domani incontreremo le prime etnie Inizia oggi il nostro giro alla scoperta della bassa valle dell OMO, il fiume che scorre imponente per oltre chilometri dalle regioni a sud-est di Addis Abeba sino a tuffarsi, dopo varie peripezie, nel lago Turkana, in Kenya. Iniziamo con l etnia dei KONSO, abili agricoltori e superbi ingegneri. Per sfruttare tutto il terreno coltivabile hanno pensato al sistema dei terrazzamenti e, per difendersi dai nemici, hanno collocato i loro villaggi sulle colline e li hanno fortificati con mura di pietra. Davvero dei precursori; ma questo mi fa venire un dubbio atroce: i terrazzamenti li avranno inventati prima i Konso o noi liguri? Essendo i liguri un popolo di naviganti, mi sa che mi crolla un mito. Un anziano maestro elementare è la nostra guida e ci porta subito al villaggio di GESERGIO, conosciuto anche come New York, non per le capanne che lo compongono che poco hanno a che spartire con la Grande Mela, ma perché è circondato da un ampio canyon formato da enormi formazioni di sabbia simili a grattacieli. Giusto il tempo di scattare qualche foto, ci giriamo e siamo circondati; altro che New York, qui sembra di essere alla Monument Valley con gli indiani che assediano i cowboy sino a quando arriva John Wayne, la nostra guida, a risolvere la situazione. Ma la pace è solo temporanea; appena ci avviciniamo al 5

6 villaggio inizia la vera battaglia dei faranji, cioè noi, gli stranieri. Una battaglia lunga, estenuante, a volte simpatica, qualche volta ossessiva, ma noi non vogliamo perderla. Le richieste sono continue e pressanti, ti toccano, ti prendono per mano, i più piccoli si attaccano alla maglietta e tutti di parlano contemporaneamente e il sentimento che ne scaturisce nei loro confronti è contrastante. Subito ti senti una star, sembri uno di quei calciatori o di quei cantanti famosi accerchiati dai loro fan in cerca di un autografo o di uno scatto e allora reagisci con cortesia. Poi però inizia a mancarti l aria, non riesci più a gustarti il piacere di essere lì, a cercare di conoscere un mondo tanto diverso dal tuo, e allora ti irrigidisci, ti agiti e cerchi in qualsiasi modo di scrollarteli tutti di dosso. Ma, fortunatamente, l essere umano è razionale e allora ti fermi per un istante a pensare, ti isoli dal contesto e ti guardi intorno con attenzione; scopri così che l unico vero sentimento che ti attanaglia la gola è la compassione e questo ti porta ad accettare tutto. Il villaggio è bello, strette staccionate ci guidano alle diverse capanne, caratterizzate tutte da una grossa anfora posizionata sulla punta superiore del tetto a mo di camino, davanti alle capanne uno spiazzo per gli animali e, lateralmente, delle piccole capanne su palafitte utilizzate per conservare il sorgo, un cereale simile al grano molto utilizzato per l injera e, se fermentato, per produrre la TELLA, la loro birra fatta in casa. Ma ad ogni angolo, in ogni sguardo, vedi chiara sempre la stessa cosa, la povertà, oserei dire la fame, la disperazione di chi non ha a sufficienza per nutrirsi e crescere adeguatamente i propri bambini. E allora inizi a dare una spiegazione alla battaglia dei faranji e all ossessionante equivalenza 1 FOTO = 2 BIRR; ma di questo ne parleremo in seguito. Intanto ci godiamo il villaggio e scattiamo le nostre belle foto ai Konso per la gioia di tutti nel rigoroso rispetto della legge della domanda e dell offerta. Torniamo alle jeep per andare niente po po di meno che dal RE dei Konso che vive con la sua famiglia in un villaggio isolato più a Nord. La strada è poco più di un sentiero di montagna, piena di buche e fango e sembra strano che un Re abiti così distante dalla sua gente. In realtà la guida ci dice che tutti i villaggi konso lo rispettano, che è lui ad amministrare la giustizia e a risolvere le diatribe tra i capi villaggio. Prima di arrivare al cospetto del re, ci facciamo una camminatina nel bosco per rendere omaggio anche ai defunti di famiglia; non perché abbiamo paura di essere interrogati dal Re sulla sua dinastia, ma per ammirare i WAGA, termine che in amarico significa qualcosa dei padri. Oggetto di razzia da parte di archeologi e turisti, sono diventati oggi molto rari e questi di Konso sono appunto uno dei pochi esempi rimasti. Questi enigmatici totem, posizionati sopra le tombe, venivano ricavati da un unico pezzo di legno e la statua del personaggio eroe che viene commemorato è sempre più alta delle altre e, a volte, sulla sua fronte, viene scolpito il KALLAACHA, simbolo fallico di comando. Questo perché era usanza tra i Konso evirare i nemici uccisi in battaglia per ornarsi poi la testa con i loro genitali. Ve lo immaginate lo spettacolo? Un freschissimo banana split servito direttamente tra i capelli!! Comunque i due Waga, parenti stretti del re, arrivato alla diciannovesima dinastia, sono davvero belli. Torniamo tra i vivi ed arriviamo finalmente nel villaggio fortificato del Re che ci viene subito incontro; sorridente e fiero, vestito in abiti tradizionali con braccialetto in argento al polso destro e bracciale d avorio all avambraccio sinistro simboli della sua autorità. Ci stringe la mano, si presta a farsi fotografare e ci accompagna tra le viuzze di fango del villaggio, tra una capanna e l altra. Non possiamo vedere la sua casa, ma in compenso vediamo il trono, due grosse pietre levigate incastrate in un muretto come tante se ne possono vedere nei rifugi dolomitici e ci chiediamo esterefatti: saprà cosa vuol dire essere Re in tutto il resto del mondo? Forse no, ma una cosa è certa, a noi sembra l immagine della felicità. Salutiamo sua Maestà, lasciamo la guida e partiamo per TURMI dove ci aspetta la prima ed unica notte di tenda. Ancora pista impegnativa anche a causa dei lavori d asfaltatura e avvistamento dei prima HAMER, l etnia più numerosa ma anche tra le più belle di tutta la valle dell Omo. Li scopriremo domani. Cena con le galline e a letto in tende davvero comode Intera giornata dedicata agli Hamer, etnia davvero meravigliosa. Curano il loro corpo in modo maniacale in tutti i minimi particolari. I capelli delle donne sono impastati con fango e burro e acconciati o con piccole treccine che calano a caschetto sul viso, o con palline allineate una 6

7 all altra a formare una specie di papalina cardinalizia. Per usare un termine culinario, visto i diversi appassionati di cucina del gruppo, è come la differenza tra i fusilli e gli gnocchetti di patate. Il tutto di un bel marrone ramato che luccica al sole. Poi le collane, sempre bellissime; gli Hamer sono poligami, la prima moglie porta il BIGNERE, collana di ferro dalla quale spunta, proprio sotto la gola, una protuberanza fallica; le fidanzate, invece, portano solo una collana a due file. In più, a scelta dei soggetti, usano anche perline e collane di conchiglie, simbolo di fortuna e fertilità. Polsi e avambracci sono stretti in decine di bracciali di rame e il corpo è coperto, si fa per dire, da una pelle di capra. Anche gli uomini sono belli pur essendo molto più essenziali: piccolo gonnellino di capra con in mano l immancabile lungo bastone di canna di bambù e l originale poggiatesta, il BORKOTO, pensato proprio per non rovinare le loro capigliature; capigliature che assumono l aspetto di una spirale nella fronte o nel centro della testa oppure che formano una cupola impastata con l argilla impreziosita da lunghe piume di struzzo. Il villaggio che visitiamo è a circa 15 minuti da Turmi ed è anch esso molto bello. Appena scesi dalla jeep, all urlo di YOU; YOU; YOU, inizia la battaglia dei faranji e qui potremo provare a dare una spiegazione alla ormai famosa equivalenza 1 FOTO = 2 BIRR. La spiegazione, ovviamente, non è matematica, ma morale. C è chi, infatti, pensa che, cadendo nella trappola del ricatto, si snaturino le tradizioni secolari di queste popolazioni; il rischio che si acconcino in quel modo meraviglioso solo per andare a caccia di birr è reale e la perdita sarebbe gravissima. Lo stesso discorso vale per i tantissimi bambini che popolano i villaggi; crescere sotto la cattiva legge dei birr li allontana dalla loro realtà e da un infanzia normale. Abituarsi a chiedere continuamente ai faranji soldi, piuttosto che caramelle o semplici bottiglie di plastica vuote, li porta a crescere lontani dalla scuola, lontano dagli usi della loro gente, lontano da quelle tradizioni che dovrebbero continuare a vivere con loro. Di contro, girando per il villaggio e guardandosi attorno non solo utilizzando l occhio della macchina fotografica, ti accorgi, come già ci era capitato a Konso, che la povertà è palpabile, l igiene è inesistente e le capanne sono un misero giaciglio dove l unica cosa viva è la fiamma di un fuoco sempre acceso; idealmente ci piace immaginarla come la fiamma della speranza. Francamente sono confuso, ma non potendo azzardare nessun tipo di confronto con altre realtà che ho avuto modo di vedere in altre parti del mondo, credo non sia un peccato mantenere viva quella fiamma della speranza accettando la cattiva legge dei birr. Foto, foto, foto: sono tutti bellissimi, sono tutti insistenti, sono tutti in posa. Scatti e paghi, scatti e paghi; io sono contento e gli Hamer anche, così anche in questo caso viene rispettata la legge della domanda e dell offerta e l equivalenza è definitivamente risolta. Credetemi, è stata comunque un esperienza indimenticabile e, speriamo, non l ultima. Oggi a Turmi è giorno di mercato e ritroviamo molte facce immortalate solo un ora prima. Oltre agli Hamer, ci sono anche donne BANNA, molto simili alle Hamer, contraddistinte solo da una fascia di perline rosse sulla fronte. Il mercato è affollato; gli Hamer comprano e vendono i loro prodotti ma l impressione è che sfruttino questo momento per ritrovarsi, tutti insieme, come da noi accade la sera al Bar Sport del paese. Ammassati in diversi punti della piazza, scherzano e ridono con ampi gesti delle mani e delle braccia vivacizzando l atmosfera. Entriamo nel cortile interno di una vecchia costruzione fatiscente dove le persone sedute in terra sono appiccicate come sardine; stanno aspettando, come al Bar Sport, la birra di sorgo che una signora incazzosa sta preparando in un grosso bidone. Un liquido denso e chiaro con sopra una schiuma che sembra maionese impazzita viene girato dalla signora infilando il braccio sino all ascella dentro al bidone e per la maionese è un vero e proprio manicomio. La birra è pronta: gli Hamer sorridono compiaciuti e preparano le loro zucche che vengono riempite sino all orlo. E solo il primo giro, prima di sera qualcuno dovrà accompagnarli al loro villaggio. Nel mercato c è anche la zona più adatta a noi faranji e siamo finalmente colti da raptus violento da shopping, malattia cronica che ancora non si era manifestata apertamente. Fortunatamente tutti riusciamo a trovare la medicina che fa per noi e usciamo dal mercato soddisfatti. Nel tardo pomeriggio torniamo allo stesso villaggio della mattina per le tipiche danze EVANGADI. Le capanne si svuotano, ragazzi e ragazze fanno capannello al centro di un arena improvvisata e, al ritmo del battito delle mani, iniziano un moto ondulatorio confuso; come le onde del mare che dopo il libeccio si infrangono contro gli scogli e poi ritornano indietro con la risacca, 7

8 così ragazzi e ragazze si avvicinano e si allontanano nel gioco delle parti. Poi, improvvisa, l impennata; i ragazzi saltano in aria e ricadono accentuando con i piedi il rumore sordo della terra che, combinato con il ritmo acuto del battito ininterrotto delle mani, infiamma gli animi. I ragazzi sono su di giri, le ragazze si avvicinano con movimenti sinuosi del ventre, poi tornano sui loro passi ridendo in segno di sfida. I balli vanno avanti così per un po, poi la luce calda del tramonto smorza gli animi e la bonaccia riporta il mare a calma piatta; il villaggio si ripopola e noi ci ritiriamo per rielaborare tutte le emozione vissute in questa grande giornata Oggi è la volta di far visita ad un altro Re, un re a cui è difficile dire di no, un re che è difficile da contrastare, un re a cui è legato inesorabilmente il destino di un intera regione, insomma una vera forza della natura: il fiume OMO. Per ammirare il suo corso saliamo, sempre su pista, a KOLCHO, villaggio abitato dall etnia KARO che, più di tutte le altre è a serio rischio estinzione. Proprio sotto il villaggio il fiume fa una grossa curva permettendoci di ammirare le sue due lunghe braccia che si perdono nell infinito, una grande calamita che attira sguardi, sogni, ricordi e, naturalmente, foto. Risolta ormai la difficile equivalenza e archiviata nel libro dei ricordi la sua soluzione, fotografiamo senza remore. I bellissimi Karo sono famosi per i disegni con cui amano decorarsi il corpo e per l utilizzo degli oggetti più strani per rendere ancora più eccentrico il look. Così le ragazze usano le schede telefoniche come orecchini o i cinturini di acciaio degli orologi come collane, ma anche chiodi e bastoncini di legno che spuntano da sotto il labbro come il pungiglione di un ape regina. I ragazzi hanno un fisico prepotente; alti, magri ma con braccia robuste, dipinti in tutto il corpo e quando dico tutto intendo proprio tutto, anche le parti più intime e quasi tutti sono muniti di kalashnikov, la seconda arma.!!! Giriamo tra le capanne sempre davvero troppo povere guardati a vista; sono meno ossessivi degli Hamer, ma strappare una foto per loro vuol dire davvero molto. Ancora bellissimo. Riprendiamo le jeep, non prima di aver fatto un bel ritratto di famiglia tutti insieme con sua maestà l OMO, il river che ci ha spinto a intraprendere questo grande viaggio. Destinazione mercato di DIMEKA. Più raccolto rispetto a quello di Turmi, e forse per questo più animato e frenetico, è frequentato esclusivamente dagli Hamer. La mercanzia è sempre la stessa: mais, sorgo, legna, patate, cipolle e l immancabile birra, ed anche questo è indicativo per capire la qualità della vita in queste zone d Africa. Noi riusciamo ancora a curare la nostra malattia da shopping e da foto anche se, questa volta, per qualche scatto rubato, riceviamo sassi e insulti fortunatamente incomprensibili. Torniamo a Turmi sempre più carichi di emozioni e ricordi preziosi. A cena una sorpresa: per non farci soffrire troppo di nostalgia ci preparano pizza, tra l altro nemmeno tanto male, poi, puntuali, alle 22,00 il coprifuoco. Luci spente e tutti a letto per iniziare la lunga lotta con zanzare e pulci Per alcuni la battaglia della notte è stata durissima; i segni più evidenti li riporta Ignazio, ma anche Alessandro, Marina e Stefano non scherzano. Carla si è salvata in quanto devotissima al Dio Zanzara; in suo onore ha acceso zampironi in tutte le stanze scongiurando il malocchio ma rischiando l intossicazione. Dopo la conta dei feriti, risultiamo tutti abili e arruolati per affrontare una giornata che si presenta intensa ed impegnativa, destinazione OMORATE e Lago TURCANA. Mario, il capo driver, è nervoso, non vorrebbe arrivare sino al lago, ma Nasia lo incalza senza pietà, gli sventola sotto il naso la copia del programma e Mario deve cedere: andiamo. Manco a dirlo la pista è impegnativa, ma gli autisti sono sempre all altezza. In un paio d ore siamo ad Omorate; ci fermiamo al posto di polizia per lasciare i nostri passaporti per ottenere il permesso di attraversare il confine con il Kenya e andiamo ancora al cospetto di sua maestà l OMO; ma questa volta il contatto è molto più diretto, dobbiamo andare sulla riva opposta per raggiungere il villaggio di GALEB, abitato dall etnia DESANECH. Per farlo non usiamo ne una barca, ne un motoscafo, ne una canoa e, non avendo ancora ricevuto il dono di saper camminare sulle acque, ci dovremo arrangiare in altro modo: tronchi d albero. Sembra uno scherzo, in realtà non è così; lunghi tronchi scavati, storti come le dita di una mano colpite dall artrosi, saranno il nostro mezzo di trasporto. Definirli imbarcazioni, infatti, è un po azzardato, come è azzardato, almeno per alcuni 8

9 di noi, infilarcisi dentro; i chili di troppo ci sono e, quando meno te lo aspetti, ti presentano in modo crudele il conto. Il tronco è comandato da un unico barcaiolo munito di un lungo remo a mo di gondoliere e la corrente nel fiume è evidente, allora la domanda sorge spontanea: riusciranno i nostri eroi a portare a termina l ardita traversata? In realtà i gondolieri sanno il fatto loro e in qualche minuto approdiamo nella sponda opposta. La zona è polverosa e desertica e da subito l idea della desolazione. Fa addirittura impressione vedere i ragazzi dissetarsi bevendo a sorsi generosi l acqua marrone del fiume. Siamo quasi subito circondati dai Desanech che, almeno loro, sono bellissimi. I lineamenti dolci e le forme sinuose sono esaltate dalle loro decorazioni: lo stecco di legno nel mento è la loro carta d identità, ma poi ognuno sceglie come abbellire il suo corpo. Fiori, collane, conchiglie, perline e, addirittura, tappi di bottiglia a formare una specie di corona, tutto sistemato con gusto e portato con disinvoltura in una passerella che, purtroppo, non li porterà alla luce della ribalta, ma frutterà solo qualche birr. Entriamo nel villaggio e constatiamo subito che la loro estrema bellezza contrasta con la loro estrema povertà, ma sanno ancora sorridere e il nero diventa l ottava meraviglia dell arcobaleno. Il nero, il colore delle tenebre, qui risplende di luce propria e per una volta il faranji si sente un estraneo, un intruso, spettatore di una forza interiore che, forse, non gli appartiene. Risaliamo velocemente sui tronchi come per sfuggire ad una cruda realtà e partiamo per il lago TURKANA, non prima di aver ripreso i nostri passaporti. Il paesaggio è sempre più desertico e la strada sempre più dissestata; quasi inconsciamente ci inoltriamo nel nulla, in un paesaggio ostile, sino a quando, come in un miraggio, ci appare il lago. Sembra di toccarlo, ogni buca sembra sempre l ultima ma, alla buca successiva, lo rivedi più lontano. Poi, finalmente, ti trovi in uno splendido isolamento: davanti una distesa d acqua sino all infinito, dietro una distesa di sabbia sino all infinito, e scopri il fascino del niente assoluto. La strada del ritorno sembra ancora più faticosa; Mario, tra il serio e il faceto, forse per farci pesare il passaggio in Kenya, si fascia la testa con un turbante per sconfiggere l emicrania e arriva distrutto a Turmi, giusto in tempo per farci fotografare un infuocato tramonto africano. La macumba di Carla sembra aver scoraggiato pulci, mosche e zanzare, così ci godiamo tutti un meritato riposo Avevamo deciso di dormire una notte in più a Turmi per avere più probabilità di assistere ad una delle cerimonie di iniziazione più antiche dell Africa: il salto del toro. Purtroppo ce ne andiamo con le pive nel sacco, lasciamo la terra degli Hamer ed entriamo in quella dei BANNA, destinazione il mercato di KEY AFAR, senza toro ma con lo stesso entusiasmo. Solita stradaccia e soli lavori d asfaltatura; certo quando tutto sarà finito anche un po del fascino del viaggio verrà asfaltato, ma pensiamo positivo; un afflusso maggiore di turisti porterà più benessere, speriamo solo che tutti ne siano realmente contenti. La guida locale ci aspetta vicino al mercato e dopo i soli convenevoli ci spara la notizia bomba: domani pomeriggio Salto del Toro a soli 8 KM. da lì Subito sembriamo dei pesci presi all amo, poi l euforia prende il sopravvento; anche se la cerimonia fosse organizzata ad hoc per i turisti, non ci andremo lo stesso, poi si vedrà. Intanto, come palombari, ci tuffiamo nel mercato; ormai è il quarto che vediamo ma, come per gli altri, non riusciamo a nascondere lo stesso stupore e la stessa curiosità. Le donne Banna, simili come acconciatura alle donne Hamer ma contraddistinte da una vistosa fascia rossa di perline in testa, sono tantissime. Una minoranza, invece, è rappresentata dall etnia TSMAY, donne bellissime con grandi collane di conchiglie. In piedi, sedute con la loro mercanzia, si chiamano, urlano, ridono, mettendo in mostra, più che le solite cipolle, patate o mais, il loro fascino intatto; anche se i loro volti sono solcati da profonde rughe o se i loro seni hanno subito l attacco indiscriminato dei troppi figli, restano una meraviglia. In alcuni momenti sembriamo dei fantasmi, ma poi la loro curiosità, unita a un po di civetteria, esce allo scoperto. Ti guardano, si coprono la bocca per nascondere un timido sorriso e si lasciano fotografare. Si aggirano tra la gente anche quattro ragazzi Banna; portano fieri in testa le piume che sanciscono la loro valorosità; gli chiediamo una foto e scopriamo che uno di loro parteciperà al salto del toro di domani. La notizia è quindi certificata e questo ci conforta molto. Saliamo nella parte di mercato dedicata agli animali. Tori e mucche si muovono sperduti come in un acquario; le persone discutono animatamente dispensando comunque sonore bastonate e 9

10 altrettante tenere carezze. L atmosfera si scalda quando un uomo dalla faccia poco raccomandabile e forse già un po alticcio, cerca di prendere la macchina fotografica ad Alessandro che, ovviamente, non molla la presa. Si crea subito un capannello di gente e qualcuno alza la voce, sino a quando una guardia riporta tutto alla normalità. Immancabile poi la sosta ai prodotti di artigianato locale. Partita lenta, è Chiara la regina dello shopping, ma tutti usciamo con in mano qualche cosa, per lo più zucche, di tulle forme, di tutti i colori, per tutti gli usi; nel rispetto delle tradizioni, ma anche per le scarse altre possibilità, la zucca è utilizzata sia come contenitore universale, ma anche come brocca per la birra o come unità di misura per il mais: una brocca piena di mais = 5 birr, una nuova equivalenza che ci fa capire come i due birr per una foto possono essere considerati a ragione come buona fonte di sostentamento. Sarò ripetitivo, ma anche questa volta l aggettivo giusto per definire questo mercato è bellissimo, forse il migliore che abbiamo visto sino ad ora. Riprendiamo le jeep, fissiamo l appuntamento per domani pomeriggio e partiamo per JINKA, dove pernotteremo per i prossimi due giorni. Arriviamo quando il sole è ancora abbastanza alto da permetterci la visita ad un villaggio ARI, altra etnia presente nella zona. Mario tenta ancora il blitz, ma forse non ha ben capito con chi ha a che fare; vuole farci andare a piedi a vedere non si sa cosa. Nasia non si scompone, apre il fatidico quadernino e sentenzia che il villaggio da vedere si trova 8 km fuori Jinka, quindi tutti in jeep. Mario impreca in amarico con la guida locale, ma anche questa volta, alla fine, non riesce a dire no. In effetti, anche questa volta, la strada per il villaggio è veramente pessima, un ciotolato tutto in salita che spaventerebbe anche un mulo ma, anche questa volta, ne valeva la pena. L umidità si taglia a fette e la vegetazione rigogliosa ci catapulta in piena foresta equatoriale. I soli bambini ci vengono incontro, sorridenti e cordiali, senza chiedere birr. Gli ARI non sono caratterizzati da particolari acconciature ma, al pari delle altre etnie che abbiamo visto, condividono le stesse precarietà, la stessa miseria oserei dire. Vivono dei prodotti della terra e sono abili produttori di vasi in terracotta, attività che non capisce quanto possa contribuire ad aumentare il loro tenore di vita. Bene, torniamo a Jinka, facciamo un rapido giro al mercato della frutta e verdura e andiamo in albergo dove troviamo camere poco accoglienti, senza acqua calda e senza luce. Cena a lume di candela con camerieri in perfetto camice bianco non si sa se per farsi riconoscere meglio nel buio della sala, o per arrotondare in qualche modo lo stipendio in mancanza di malati da accudire. Alla fine della cena, povera e monotona, il primario prescrive a tutti il letto, si toglie in tutta fretta il camice e tira giù il bandone. Solo Sergio trasgredisce alle regole, non resiste al canto delle sirene e si infila in un locale ambiguo dove trova compagnia: i nostri quattro autisti. Ma non dovevano essere stanchi morti? Si lanciano invece tutti in balli sfrenati e Teddy, il più giovane, si esibisce con successo nell antica arte della seduzione. Però la storia parla chiaro, Rodolfo Valentino insegna; noi italiani siamo sempre stati i migliori interpreti di quest arte. Così Sergio, che come Valentino possiede lo sguardo magnetico che incanta le femmine senza possibilità di scampo, ricordate il famoso lato B, per tenere alta la nostra bandiera, si vorrebbe portare in Italia una bella diciottenne letteralmente impazzita appunto per quel caldo sguardo latino, almeno così racconta radio fante. Ma non ci è dato sapere come si sono realmente svolti i fatti, la cosa certa è che Sergio, anche se un po insonnolito, si presenta puntualissimo all appuntamento per i MURSI. Giornata campale quella che abbiamo di fronte: mattina MAGO PARK e villaggio MURSI, poi Salto del Toro. Un cocktail esplosivo di emozioni che speriamo di riuscire a tenere a bada altrimenti, ai primi squilibri, per tutti prova del palloncino. I cinesi, intanto, stanno mettendo lo zampino anche qui in Etiopia; la lunga pista che porta al Mago National Park, infatti, è uno sterrato molto ben battuto e ampio che appunto i cinesi stanno ultimando per favorire i loro investimenti fatti in piantagioni di canna da zucchero. Speriamo si limitino a questo e non costruiscano una quattro corsie a pedaggio con svincolo sopraelevato destinazione Mago Park Mursi. A noi, per ora, sono sufficienti le indicazioni della guardia armata che abbiamo caricato all inizio del parco per arrivare al villaggio di AILOA, al cospetto dell etnia che, più di tutte le altre, conserva inalterate le diverse usanze tribali che caratterizzano le popolazioni della valle dell Omo. Due esempi per tutti. 10

11 L amore morboso che i MURSI hanno per la cura del corpo si concretizza, ancora oggi, con la deformazione del labbro inferiore per l introduzione di un piattello labiale in terracotta, la cui grandezza determina la bellezza e la desiderabilità di una donna. Eppure questa antica arte non era nata per creare bellezza, bensì per rendere la donna ripugnante e toglierle il valore venale causato dal commercio degli schiavi. Lo stesso dicasi per la tecnica della scarificazione; principalmente le donne, ma anche gli uomini, si feriscono il corpo con pietre, coltelli o, oggi, con lamette da barba, la ferita viene ricoperta di cenere per provocare l infezione che, una volta guarita, lascia delle cicatrici in rilievo sulla pelle che formano vere e proprie decorazioni; un bel vestito che non cambierai più per tutta la vita. Raccontate così le cose, sembra di essere andati a vedere il museo degli orrori, invece siamo di fronte ad una bellezza incredibile, inimmaginabile, che ci conquista e che ci spoglia per un ora dei nostri abiti e ci rende nudi e indifesi, ma liberi da quelle regole con cui siamo abituati a nella nostra quotidianità. Poco importa se noi faranji non siamo più visti solo come stranieri, ma come fonte di guadagno; i volti e gli sguardi che ci circondano, le mani che ci toccano, le grida che ci accompagnano, sono autentiche espressioni di bellezza, anche di curiosità, ma, comunque, di indiscussa superiorità che noi subiamo senza traumi estasiati dalla magia che si respira tutto intorno. Le donne mostrano con orgoglio le loro deformazioni; piattelli enormi, belli, colorati, retti solo dal sottile filo del labbro inferiore sfidano le leggi della fisica ed evidenziano un volto armonico, lontano dai comuni canoni della bellezza e proprio per questo unico, autentico che sa ipnotizzare anche l occhio freddo delle nostre macchine fotografiche. E poi catene, conchiglie, zanne di facoceri in acconciature estreme che esaltano il bello. Ogni foto è un ritratto, ogni ritratto un opera d arte, tutte esposte nella galleria indimenticabile dei ricordi. Ma, come detto, le emozioni non si fermano qui; appuntamento a Key Afar per il Salto del Toro. Sino all ultimo abbiamo temuto che tutto fosse una bufala, una casualità troppo strana e insperata. Invece, man mano che ci avviciniamo a non si sa bene dove, i battiti aumentano e di bufala resta solo il ricordo di una gustosa mozzarella che oggi tutti mangeremo molto volentieri. Le due guide che trasportiamo nel bagagliaio ci fanno entrare in un viottolo che tutto può sembrare tranne una strada; ci torna il sospetto, ma dai finestrini aperti si sentono delle grida e una specie di musica simile al rumore di una radio sincronizzata male. Ci siamo, in uno spiazzo ci sono già alcune jeep che ci fanno capire di essere arrivati nel posto giusto. Scendiamo e a passo svelto ci dirigiamo verso le grida e la radio ora sembra sincronizzata sulla stazione giusta. In un grande prato un gruppo di donne in cerchio stanno cantando accompagnate dal suono metallico di campanelle che hanno attaccate alle caviglie e dall urlo stridulo di rudimentali trombette. Sono molto su di giri e l atmosfera appare subito elettrica. Siamo nel territorio dei Banna che, insieme agli Hamer, sono gli unici a mantenere viva la tradizione del salto del toro. E una prova di iniziazione, in amarico UKLI BULA, che il NAALA, il ragazzo, deve superare per diventare DAALA, fidanzato,. La prova consiste nel saltare sopra il dorso di 10 tori allineati per almeno tre volte senza mai cadere. Trenta buoi, trenta capre e un kalashnikov è il prezzo che il padre del Naala deve versare ai genitori della futura sposa. I MAAZA sono i giovani uomini che hanno già superato la prova e hanno il compito di incitare il Naala e di frustare le donne nel corso della cerimonia. Le cicatrici, che resteranno permanenti nella schiena della fortunata, rappresentano i crediti che queste vanteranno nei confronti del ragazzo per cui si sono fatte frustare. Sembra tutto assurdo, violento, ed invece accade sotto i nostri occhi e il sentimento che trasuda da ogni partecipante alla cerimonia non è certo di sofferenza, ma di gioia; è un vero inno alla vita, un grido di speranza per un futuro migliore a cui i giovani vanno incontro. In questo gioco tribale ogni attore recita la sua parte; i Maaza si riuniscono in una parte del campo bevendo the per rilassarsi ed aiutare il giovane Naala nella concentrazione per la prova. Le donne, invece, bevono birra e sfidano i giovani con l insistente suono delle trombette per essere frustate. Il corpo seminudo delle ragazze accoglie come una liberazione la scudisciata, che arriva secca, senza pietà, lasciando una linea rosso sangue segno indelebile della devozione verso il Naala. In questo clima di grande eccitazione entrano in scena i tori che scalpitano, scalciano e ondeggiano da una parte all altra del campo come la chioma di un albero scosso dal vento. C è grande movimento e tensione e la polvere alzata nella concitazione del momento va ad offuscare l ormai debole luce del sole al tramonto. Poi, 11

12 improvvisa, la calma; gli animali, stretti dalla morsa dei Maaza, si fermano e il giovane Naala nudo, leggero come una libellula, salta da una schiena all altra con apparente facilità, sanzionando in tre balzi il suo passaggio all età adulta. Strepitoso! Lasciamo i Banna ai loro festeggiamenti; loro ubriachi di tella, noi di emozioni, che smaltiremo solo dopo aver pensato e ripensato a quanto abbiamo avuto la fortuna di vedere Dopo i fuochi pirotecnici di ieri, ci svegliamo con un cerchio alla testa come chi, la sera prima, non ha superato la prova del palloncino. Fortunatamente non dobbiamo guidare ed iniziamo così la lenta risalita verso Addis Abeba. In realtà da Jinka, dopo aver visto il piccolo ma bel museo che in poco meno di mezzora ci fa rivivere le emozioni degli ultimi giorni trascorsi tra le diverse etnie, scendiamo nuovamente verso Konso, da dove raggiungeremo ARBA MINCH. A Konso, infatti, avevamo lasciato un incompiuta: la visita al villaggio di MACHEKIE. Situato in alto, proprio su uno sperone di roccia, il villaggio persenta un unica grande difficoltà, la strada: ripida, stretta, piena di sassi e buche, non si fa mancare niente. Mario lo sa, Nasia lo sa, anche noi lo sappiamo. Inizia così la sfida all Ok Corral. Mario dice che la visita non è nel programma; ma Nasia non molla. Poi dice che bisognerebbe pagare l entrata al villaggio e una guida locale; e Nasia mette mano al portafoglio. Ultimo disperato tentativo: ci fa dire dalla guida che forse la strada è interrotta. Falso! Nasia allora sfodera il suo quadernino, che ormai è diventato un arma letale, e Mario, disperato, si sente tremare la terra sotto i piedi. Eugenio, che non per niente di professione fa lo psicologo, ha creato quello che per noi è diventato un simpatico slogan, per Mario, invece, un incubo, un vero inno alla rassegnazione: - Nasia: Mario it s possible to go.? - Mario: no possible, no possible!!! - Nasia: Marioooooo! - Mario: it s ok, it s ok!!! Morale, alla fine i buoni vincono sempre e il nostro grande, simpatico autista, ci porta a Machekie. Il villaggio è racchiuso tra mura e staccionate di legno in un dedalo di stradine che portano alle diverse capanne; sembra un puzzle, dove ogni pezzo si incastra perfettamente con gli altri per formare un unico grande disegno. Una volta dentro, però, ci troviamo in trappola; la battaglia dei faranji inizia ed è spietata. Mancano le vie di fuga e decine di bambini ci accerchiano e la loro insistenza, a volte, è davvero insopportabile. In un angolo del villaggio troviamo bellissimi Waga di 150 anni fa; hanno grandi occhi spiritati che ti guardano fisso in modo interrogativo. Sono gli occhi dei morti che guardano i vivi e noi, imbarazzati, ci sentiamo come davanti al tribunale dell inquisizione. Tra una richiesta e l altra, tra una strattonata e l altra, tra un birr e l altro, continuiamo il nostro giro. Nella piazza principale, attorno al lungo palo che, testimone inanimato, racconta delle diverse dinastie che hanno governato il villaggio, alcune donne si esibiscono nell arte del filato e della pipa, che fumano con maestria in modo molto scenografico. Sono vestite con appariscenti gonne con le balze, dove dominano il giallo e il blu. Le donne sposate possono portare la gonna un po più corta con due balze, tutte le altre devono essere coperte sino ai piedi e portano la gonna con una sola balza; sembrerebbe meglio il contrario, ma va bene lo stesso. Partiamo per Arba Minch e, dopo pochi chilometri, rivediamo finalmente l asfalto e rivediamo anche la vita che scorre, chilometro dopo chilometro, più viva che mai. I bambini, al nostro passaggio, ballano una danza disarticolata; aprono e chiudono le gambe e, contemporaneamente, agitano le braccia. Sembrano dei piccoli ragnetti impegnati a tessere la loro tela. La speranza è quella di catturare qualche faranji anche se, alla fine, si accontentano di qualche bottiglia di plastica vuota che lanciamo dalle jeep. Poi le mucche; intere mandrie che hanno deciso di prendere la tangenziale per arrivare a casa in tempo e non perdere l inizio della partita. Sono come automobilisti indisciplinati, vorrei dire le classiche donne al volante, che si spostano da una parte all altra della carreggiata 12

13 senza freccia e a passo d uomo. Quando la jeep si avvicina ciondolano il capoccione, ti guardano di traverso e alla fine si spostano anche se poco volentieri. I colori si ravvivano al passaggio di donne cariche sulle spalle di foglie di banano e di carri trainati da asinelli guidati in piedi da giovani ragazzi che, forse non volendo, imitano le gesta dei centurioni romani nella corsa con le bighe. Affascinati da tutto questo, arriviamo ad Arba Minch quasi senza accorgersene e la sorpresa è grande soprattutto grazie alla bellezza dell albergo che ci ospiterà per gli ultimi tre giorni del viaggio. Affacciato sul lago CHAMO, immerso nel verde, con casette ampie e confortevoli, abbondante acqua calda e luce per tutta la notte: una vera goduria! Lavati e riposati, abbiamo smaltito in una notte le scorie accumulate nei giorni scorsi, pronti per scoprire anche i dintorni di Arba Minch. Destinazione della mattina il Parco Nazionale del NECHISAR. Mario è di nuovo agitato; la strada all interno del parco è molto impegnativa, ma l inno alla rassegnazione gli rimbomba nella testa e Nasia, questa volta, non ha nemmeno bisogno di far finta di tirare fuori il quadernino. Carichiamo la solita guardia armata e ci inoltriamo nel parco. Il paesaggio è bello e cambia rapidamente. Da una prima zona di foresta, dove si aggirano babbuini e facoceri, si passa ad una boscaglia di acacie dove il kudu, con le sue grandi corna ritorte, la fa da padrone; poi la savana, regno dei dik dik e, soprattutto, delle zebre. Siamo ossessionati, il bianco nero ritorna ma, questa volta non è brutto come il maribù. Questa è una zona d Africa priva dei grandi predatori quindi le zebre si muovono senza stress e, in fila indiana, come tanti ragazzi diligenti alla prima gita scolastica, vanno in cerca d acqua, bene prezioso e di difficile accesso quando il leone o il leopardo decidono di occuparne il territorio vicino. La strada sale tra sassi e buche; siamo di fronte al Ponte di Dio, un promontorio che divide i laghi Chamo e Abaya, e la vista è davvero superba. Arriviamo nel punto più alto e panoramico del parco in mezzo ad una distesa d erba scolorita che sembra paglia: erba bianca, che poi altro non è che la zona che, in amarico, da il nome al parco. Fermiamo le jeep e ci abbandoniamo al silenzio assoluto; solo il vento irrompe sulla scena, provocando il fruscio dell erba e il planare armonioso, senza nemmeno un battito delle ali, di grossi rapaci che squarciano l azzurro del cielo. Bello, anche se chi ha visto i grandi parchi africani come il Krugher o l Etosha, potrebbe restare un po deluso. Rientriamo in albergo per pranzo e qui l attenzione è catturata tutta da una famiglia di babbuini. Da un albero di fronte al ristorante ci guardano e sembrano modelli in posa per le fotografie di rito. In realtà è una tattica; sembrare innocui con la speranza che il faranji lasci la finestra del ristorante aperta. Così è e, in un attimo, il babbuino si trova dal tronco al tavolo, arraffa una zuccheriera, saluta, e se ne va. Inutile la rincorsa dei camerieri che gli tirano tutto quello che hanno in mano; il ratto delle Sabine è ormai compiuto e, come vuole la leggenda, l aver soddisfatto la golosità, ha scatenato la guerra che, in questo caso, non ha provocato ne morti ne feriti. Bene, mangiamo e ripartiamo, questa volta per mare o, per meglio dire, per lago; infatti, in una grande insenatura del Chamo, si trova il così detto MERCATO dei COCCODRILLI; non, ovviamente, perché i coccodrilli si comprano, ma perché sono tanti e in bella mostra come se fossero distesi nei banchi di un mercato. Dopo circa 20 minuti di navigazione arriviamo in questo posto incredibile; tutto è immobile, piatto, più che un mercato sembra un grande presepio vivente dove pastori e pecorelle sono sostituiti da una miriade di uccelli che accennano solo un impercettibile movimento degli occhi. Ma gli occhi più inquietanti, freddi, spietati, gli occhi che ti gelano il sangue e che non riesci a sostenere per più di qualche secondo sono proprio quelli dei padroni di casa, i coccodrilli. Come enormi zattere, galleggiano al pelo dell acqua apparentemente inanimati; ma l occhio è vigile e capta anche le semplici sensazioni. Prima ancora che tu pensi, lui si muove, così la zattera molla gli ormeggi e scivola silenziosa vicino alle nostre due imbarcazioni; mossa da una forza occulta, si inabissa lasciando una bolla come unico segnale del suo passaggio. Uno scatto improvviso rompe il silenzio, l acqua si spezza come un vetro colpito da un sasso ed emerge violenta la testa del coccodrillo con le fauci spalancate che agguantano in una morsa infernale due pesci. Poi ritorna la pace e l immobilità del fermo immagine. Solo l aquila pescatrice, ferma su un ramo, apre le ali e accenna un movimento; ma tutto è bloccato e con la mente ritorni bambino quando, nel piazzale della chiesa, giocavi alle belle 13

14 statuine. Per fortuna un gruppo di pellicani rompe gli indugi e ravviva la scena; con l armonia, il ritmo e la simmetria di una squadra di nuoto sincronizzato, si muovono in parata, ora a destra, ora a sinistra, poi affondano il grande becco nell acqua e lo rialzano fieri e impettiti in attesa dell applauso, mostrando tutta la loro vanità. Svogliata, in lontananza, una famiglia di ippopotami guarda la scena; muovono nervosamente le orecchie e, con uno sbuffo d acqua, abbandonano in silenzio le luci della ribalta. I colori del tramonto sono bellissimi, il silenzio è rotto dal rumore delle barche che ci riportano verso riva e il sole, invece di tuffarsi nel lago, si nasconde dietro nere figure cariche di ingannevoli promesse: anche stasera la pioggia volerà lontano? No, questa volta no; un bel temporale con lampi e tuoni ci tiene compagnia durante tutta la cena. Ma è ancora il silenzio della sera che ci accompagna a letto dopo l ennesima, superba, giornata africana Ci avviciniamo alla fine del viaggio, ma ancora non è il giorno dei saluti, ma quello degli auguri. Eugenio, lo strizza cervelli, compie i suoi 41 anni ed è un tripudio. Non per l età dichiarata, ma per il fatto che quasi tutti se la bevono. In realtà gli anni sono 51, evidentemente portati molto bene: Eugenio, ma cosa racconti ai tuoi pazienti? Dopo un caffè italianissimo, con tanto di moka preparato proprio dal festeggiato con l aiuto di Chiara che lo supporta e lo sopporta in tutto, anche la sera quando russa in libertà, saliamo in montagna sui MONTI GUGE dove, nel villaggio di DORZE, vive l omonima etnia. Tra la nebbia che ci accompagna sino ai metri del villaggio, sbucano, come folletti, i bambini, che si esibiscono in una danza che consiste nell agitare le natiche in un moto ondulatorio degno del migliore carnevale di Rio; simpatici e divertenti si meritano in regalo le matite colorate che avevamo portato dall Italia. Al villaggio ci aspetta Benjamin, un ragazzone rasta che dice di essere il figlio del Re; magari è vero, o forse è solo frutto di una tirata di troppo di marijuana, ma è simpatico e noi gli crediamo, così ci accompagna nella visita. La cosa che più caratterizza il villaggio sono le grandi capanne col nasone, simili alla testa di un grosso elefante. Alte anche 12 metri, sono imponenti e sembrano non temere le insidie del tempo. Invece, proprio come l elefante con il topolino, possono essere sconfitte dalle piccolissime termiti che le attaccano alla base e possono ridurle anche della metà dell altezza originale. Come le capanne caratterizzano il villaggio, così gli SHAMMA, lunghe toghe di cotone bianco, esaltano l abilità dei Dorzè nell arte della filatura, riservata alle donne, e della tessitura, esclusiva degli uomini. In una delle tante piazzette assistiamo anche alla lavorazione delle foglie di ENSETE, il finto banano, da cui viene ricavata, sfilettandole, una poltiglia bianca che, dopo essere messa a fermentare sotto terra avvolta sempre nelle stesse foglie, costituisce la base per un ottima injera, che ci viene offerta servita con il diavolo e l acqua santa, cioè con una salsa piccantissima e con il miele; il tutto annaffiato con la BERLA, acquavite a base di anice e aglio con 75 gradi di potenza. Benjamin ci mostra come si beve: tutta d un fiato; io lo imito, anche per stemperare il piccante che mi sta aggredendo le papille gustative, e diventiamo fratelli di.. grappa! Chissà se anch io, un giorno, potrò vantarmi di essere il figlio di un re. Ancora una dimostrazione, la cerimonia del caffè. Prima i chicchi vengono tostati su una piastra direttamente sul fuoco; poi vengono pestati in un mortaio, e il ricordo del profumo del basilico e dei pinoli schiacciati con parmigiano ed olio extra vergine d oliva mi fa venire l acquolina in bocca; infine la polvere ottenuta viene fatta bollire in una bella caffettiera di terracotta. Il risultato, ovviamente, non è pesto, ma un ottimo caffè, impreziosito con un rametto di erba aromatica simile alla menta da inzuppare direttamente nella tazzina. Per finire tutti in piazza per la grande danza finale; tamburi per le donne, lance, scudi e pelli di leopardo per gli uomini e il ballo ha inizio. Subito guardiamo divertiti, poi ci lanciamo nella mischia e il mister Bean di casa nostra, Riccardo, si trasforma in un vero indigeno con parrucca bionda, pelle di leopardo sulle spalle e movenze da scimpanzé: è lui la star dello spettacolo. Risate a non finire e saluti di rito con un grazie di cuore a tutti, soprattutto a Benjamin, con la raccomandazione di non scordare, per la prossima volta, la corona. Ci spostiamo ora al mercato dove rimaniamo colpiti dalla quantità di persone presenti e dalla festa di colori che spigionano. Il bianco candido della zona riservata alla vendita del cotone, il rosso dei tessuti esposti come tanti arazzi, il verde delle foglie di ensete raccolte in grandi fasci che le donne si caricano a 14

15 fatica sulle spalle. E poi ancora verdura, frutta, mais e donne elegantissime con shamma bianco lungo sino ai piedi e turbanti rosso scuro che esaltano il nero ramato dei volti. Uno spettacolo che va oltre la povertà che comunque si respira e si evidenzia ad ogni sguardo, ad ogni gesto, ad ogni sorriso, una povertà portata con una dignità che ha dell incredibile. Sono costretto ad usare sempre lo stesso aggettivo: bellissimo. Andiamo a recuperare gli autisti che sono in un bar che affaccia sempre sulla piazza e lì troviamo, oltre agli autisti, anche i colori che ci mancavano. Tre stanzette semi buie dipinte di un blu elettrico dove risaltano i volti segnati dal tempo di anziani signori che bevono in un ampolla di vetro il TEJI, un liquore giallo a base di miele e di foglie fermentate. Neanche l impressionista più famoso sarebbe stato capace di dipingere un quadro così; noi ce lo abbiamo sotto gli occhi e lo terremo nascosto nella nostra memoria con morbosa gelosia. Pomeriggio di totale relax in albergo per ristrutturarci e ristrutturare il nostro bagaglio, ma anche per organizzare la festa di stasera. Torta di compleanno per Eugenio, mancia per gli autisti con dediche personalizzate e abbraccio finale tra Mario, che di nome in realtà fa YDNEKATCHEW e da qui capite il perché dell utilizzo del soprannome, e NASIA, a sancire la perfetta riuscita di un viaggio bellissimo Alzataccia e partenza per Addis Abeba prima delle 7.00; la strada è lunga, quasi 500 km, e vorremo arrivare nel pomeriggio per cercare di dare uno sguardo d insieme a questa città che, nonostante la nostra buona volontà, non riesce a riabilitarsi. La stessa sensazione di città disastrata che avevamo avuto alla partenza, la viviamo anche ora che percorriamo quello che dovrebbe essere il cuore pulsante della città vecchia. Attraversiamo la CHURCHILL ROAD sino alla PIAZZA, poi vediamo la Cattedrale della Santissima Trinità e la Cattedrale di San Giorgio, ma tutto senza entusiasmo; caos e desolazione sono un mix che ci rattrista un po. Quindi cosa c è di meglio di un buon caffè per risollevare gli animi? Detto fatto, Mario ci porta al TOMOCA, un glorioso locale italiano dove preparare il caffè è un arte rimasta intatta negli anni. Terminiamo la giornata in un ristorante con danze tipiche dal vivo e l ultima injera del viaggio. Al ristorante ritroviamo anche Claudia che, visibilmente commossa, accompagnata da Marina, è stata a far vista alla piccola bambina adottata dall Italia. Ancora baci e abbracci con Mario e poi tutti all aeroporto, dove bivacchiamo sino alle 4,00 del mattino, quando un volo Egypt Air con scalo al Cairo ci riporta a casa. Siamo alla resa dei conti: già detto della bellezza assoluta del viaggio, va aggiunta la compattezza e la simpatia di tutti i partecipanti, ognuno dei quali, a modo suo, ha contribuito a rendere unica questa avventura. Solo una piccola nota di merito personale a Nasia; avevo detto all inizio che ci saremo aspettati grandi cose da Lei. In effetti non ha tradito le nostre aspettative; quadernetto alla mano, colletto della camicia perfetto sempre tirato su, grande comunicatrice e, quando serve, piglio da professoressa severa. In una parola la numero 1. Poi il pensierino finale. L Etiopia è un paese dove il tempo sembra passare nell indifferenza dell eternità; ore, giorni, mesi, anni formano i secoli lasciando tutto magicamente inalterato, autentico, quasi irreale. Un solo dubbio: TWO BIRR OR NO TWO BIRR, THIS IS THE QUESTION!!! 15

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