MARC AUGÉ LA GUERRA DEI SOGNI ESERCIZI DI ETNO-FICTION. elèuthera

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1 MARC AUGÉ LA GUERRA DEI SOGNI ESERCIZI DI ETNO-FICTION elèuthera

2 Titolo originale: La Guerre des rèves exercices d ethno-fiction Traduzione dal francese di Adriana Soldati 1997 Édilions du Seuil Collection La Librairie du XX siècle, dirigée par Maurice Olender 1998 Editrice A coop. sezione Elèuthera Copertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive

3 INDICE I. All erta! II. Il punto della situazione: la percezione dcll allro oggi III. La posta in gioco: sogno, mito, finzione IV. Gli antecedenti: l immagine e il sogno colonizzati V. Il teatro delle operazioni: dall immaginario al «completamente finzionale» VI. Ordine del giorno

4 ...sofiemos, alma, sohemos otra vez; pero ha de ser con atención y consejo de que hemos de despertar de este gusto al mejor tiempo......sogniamo, anima mia, sogniamo ancora una volta. Ma questa volta lo farò con il pensiero e l avvertenza che da questo piacere dovrò ridestarmi nel momento migliore... Pcdro Calderón de la Barca La vita è sogno [atto terzo, scena terza)

5 I ALL ERTA! The Invaders era il titolo di una serie televisiva americana dell epoca della guerra fredda. Il suo eroe, David Vincent, aveva assistito una notte allo sbarco di extraterrestri e scoperto il loro segreto; questo momento fondatore veniva ricordato all inizio di ogni episodio. Gli invasori intendevano appunto impadronirsi del nostro pianeta grazie ad una strategia di sostituzione: prendevano il posto degli umani che facevano sparire; anche se credo di ricordare che un dettaglio rivelatore permettesse a volte agli esperti, e in primo luogo a David Vincent, di distinguere le copie dagli originali: per un incomprensibile défaillan ce della tecnica extraterrestre, il mignolo della mano sini stra di questi sostituti umani restava stranamente rigido. Questi cloni venuti da un «altrove» possedevano inoltre ogni informazione necessaria sulla politica e la scienza dei 7

6 terrestri (o comunque su quelle degli Stati Uniti, ma la tesi generale della serie sembrava sottintendere che questi rappresentassero la quintessenza e insieme la totalità delle civiltà umane) e sugli individui di cui rivestivano le sembianze fisiche e riproducevano i tratti del carattere. Questa strategia di sostituzione poneva innumerevoli problemi a David Vincent perché egli si trovava a scontrarsi con il generale scetticismo di tutti quelli cui si rivolgeva per informarli del pericolo imminente, e allo stesso tempo perché non era mai completamente sicuro della loro identità. A volte gli capitava addirittura di smascherare uno dei suoi apparenti amici accorgendosi improvvisamente (sempre il mignolo!) che questi non era altro che un illusione al servizio dell invasione. All epoca era facile, e probabilmente giustificato, vedere in questa serie l espressione di certi fantasmi americani e una denuncia metaforica (appena metaforica) della presenza comunista che dietro la maschera di studiosi, di artisti o di cittadini comuni apparentemente sani e patriottici, si pensava minacciasse e sovvertisse la libertà del mondo e la stabilità degli Stati Uniti. Ma la storia era avvincente e la solitudine del suo eroe, accresciuta ogni giorno di più dalla miopia degli uni e dalle bugie degli altri, aveva una dimensione incontestabilmente tragica. Eppure, ogni episodio si concludeva in maniera positiva: bisognava far continuare la serie, dunque David Vincent scampava miracolosamente alle situazioni più pericolose. Quanto agli extraterrestri, si rivelavano per fortuna vulnerabili all azione delle primitive armi da fuoco umane, liquefacendosi e scomparendo quasi istantaneamente all impatto con le pallottole. Come è noto, la presenza comunista doveva in seguito dimostrarsi altrettanto inconsistente. Perché ricordare questa serie? Perché mi sembra possa simbolizzare, paradossalmente, un altra invasione, generalizzata alla Terra intera, anche se in proporzioni ineguali, inavvertita da molti e sottovalutata da chi ne conosce l esistenza. I suoi agenti hanno volti familiari, prestigiosi o anodini. Crediamo di conoscerli mentre, molto spesso, ci limitiamo a riconoscerli («Non l ho già vista da qualche 8

7 parte alla TV?»). Questa invasione, come si sarà indovinato, è quella delle immagini; però, su scala molto più ampia, è il nuovo regime di finzione ad affliggere oggi la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da farci dubitare di essa, della sua realtà, del suo senso e delle categorie (l identità, l alterità) che la costituiscono e la definiscono. Senza aspirare alla stessa efficacia del già mitico eroe della serie americana, vorrei cercare anch io di portare alla luce qualche traccia dell invasione anonima di cui cominciamo a sentire gli effetti senza percepirne chiaramente le cause. 11 mio libro si propone dunque come un indagine, e un indagine antropologica. Questa non sarà esaustiva. Si tratterà piuttosto di raggruppare alcuni fatti spesso percepiti isolatamente e di cominciare a proporne un significato. Si può deplorare il fatto che i bambini (e non pochi adulti) passino troppo tempo davanti alla televisione, ma si può anche relativizzare la portata di questa constatazione facendo notare che l abuso alla lunga produce noia o che discutere insieme della trasmissione del giorno prima permette anche di creare socialità. Si può mostrare scetticismo o spaventarsi un po all idea che si possano tessere degli idilli su Internet o che ci si abitui a dialogare con interlocutori senza volto, ma consolarsi all idea che Internet, come anche il fax, salva il ruolo della scrittura. Si può di volta in volta e contraddittoriamente sorridere o rabbrividire davanti alle possibilità di turismo virtuale che verranno offerte dalle immagini tridim ensionali che presto invaderanno gli schermi dei computer, ma dirsi che in fin dei conti non ci si può sempre lamentare e che la passione per le immagini non ha mai impedito a nessuno di andare a gironzolan' nelle realtà che esse riproducono. Ci si può stupire ili quell uniformità di paesaggi e di punti di vista che corri sponde allo sviluppo delle grandi catene alberghiere, (li lle grandi reti autostradali o degli aeroporti intemazionali, del carattere artificiale dei parchi di divertimento, circense* ad uso dei nuovi piccolo borghesi del pianeta, ma rilnu'io allo stesso tempo che questi stereotipi sono il prezzo dii 9

8 pagare per aprire il mondo ad un numero sempre maggiore di uomini. Si può... si possono fare m oltissim e cose, insomma, come interrogarsi, per esempio, sulla moda dei talk show televisivi, enunciare e denunciare, con più o meno rabbia, ironia, scetticismo o indulgenza, gli esempi di cattivo gusto soddisfatto e di disastro estetico che costellano la Terra o la crescente insularizzazione delle classi abbienti che si rinchiudono ogni giorno di più nelle loro case sotto sorveglianza elettronica, nelle loro cittadelle riservate, nelle loro spiagge private, roccheforti e torri d avorio di una «globalizzazione» davvero paradossale. I rispettivi oggetti di queste diverse constatazioni possono suscitare il riso, il sorriso o il disgusto. Ma è solo quando si è identificato il sottile legame che corre d all uno all altro che può nascere l inquietudine. Ora, evidenziare questo legame è compito specifico dell antropologia. L antropologia sociale ha sempre avuto per oggetto, attraverso lo studio di diverse istituzioni o rappresentazioni, la relazione reciproca, o più esattamente i diversi tipi di relazioni che ogni cultura autorizza o impone rendendoli pensabili e gestibili, cioè simbolizzandoli e istituendoli. Aggiungiamo che le culture non sono mai piovute dal cielo, che le relazioni fra esseri umani sono sempre state il prodotto di una storia, di lotte, di rapporti di forza. La necessità che esse abbiano senso (senso sociale pensabile e gestibile) non le rende per questo delle necessità di natura, anche quando ne assumono l aspetto. Davanti alle apparenti evidenze di oggi e davanti all evidenza, che le contraddice senza sopprimerle, di una crisi del senso - dei simboli e delle istituzioni - l antropologia è, oseremmo dire per definizione, qualificata ad interrogarsi. E l ipotesi da cui muove la ricerca dell antropologo è che le diverse manifestazioni dell attuale crisi abbiano qualche cosa in comune, che esse siano proprio dei sintomi, diversi ma associati, di una stessa aggressione. Per condurre a buon fine la sua inchiesta e quantomeno per precisare la sua ipotesi, l antropologo dispone di qualche mezzo. La tradizione etnografica occidentale si è interessata alle immagini, a quelle degli altri: ai loro sogni, 10

9 alle loro allucinazioni, ai loro corpi posseduti. Ha osservato e analizzato il modo in cui queste immagini acquistavano tutto il loro senso all interno di sistemi simbolici condivisi, la maniera in cui esse si riproducevano e a volte si modificavano attraverso l attività rituale. L antropologia si è interessata all immaginario individuale, alla sua negoziazione perpetua con le immagini collettive e anche alla fabbricazione delle immagini o piuttosto degli oggetti (chiamati a volte «feticci») che si presentavano allo stesso tempo come produttori di immagini e di legame sociale. Gli antropologi, inoltre, hanno avuto l occasione (a dire il vero, non hanno potuto evitarla) di osservare, attraverso situazioni dette pudicamente di «contatto culturale», come lo scontro fra immaginari accompagnasse l urto fra i popoli, le conquiste e le colonizzazioni, come le resistenze, i ripiegamenti, le speranze prendessero forma nell immaginario dei vinti peraltro durevolmente intaccato e, in senso stretto, impressionato da quello dei vincitori. Su questo terreno, l antropologo ha degli alleati, in primo luogo gli storici. Gli storici, e in particolare quelli che si inscrivono più o meno nettamente nella corrente detta dell «antropologia storica», hanno puntato l attenzione sull azione condotta dalla Chiesa - nel corso di un «lungo Medio evo», secondo l espressione di Jacques Le Goff - per modificare i sogni e rimodellare l immaginazione di popolazioni impregnate di paganesimo che, peraltro, trovano ancora oggi risorse di senso e ragioni di vita nell incanto mantenuto del loro mondo. Gli storici hanno avuto altri campi di indagine e gli antropologi devono essere riconoscenti verso coloro che, lavorando sul Messi co, l America centrale e l America meridionale, hanno potuto analizzare minuziosamente gli effetti complessi del lungo assalto condotto dalle immagini cristiane contro culture che assegnavano anch esse un ruolo privilegialo all immagine. Nella sfera dell immagine, della sua produzione, della sua ricezione, della sua influenza, del suo rapporto con il sogno, con la rèverie, con la creazione e la finzione, ò evi dente che anche altre discipline svolgono un ruolo CSNOn 11

10 ziale. La psicanalisi, in ogni caso Freud, e la semiotica, soprattutto quando si presenta come un prolungamento d e ll indagine psicanalitica, sono le alleate naturali dell antropologia in questo campo. Ho già accennato al «nuovo regime di finzione». Di fatto, non è solo l immagine a essere messa in discussione dalla constatazione del cambiamento che siamo oggi invitati a definire. Più esattamente, sono le condizioni di circolazione fra l immaginario individuale (per esempio il sogno), l immaginario collettivo (per esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no) che sono cambiate. È appunto perché le condizioni di circolazione fra questi diversi poli sono cambiate che noi possiam o interrogarci di nuovo sullo statuto attuale deh immaginario. Possiamo infatti affrontare la questione della minaccia che pesa sull immaginario a causa della «finzionalizzazione» sistematica di cui il mondo è oggetto, dove questa stessa «messa in finzione» dipende da un rapporto di forze molto concreto, molto percettibile, i cui termini non sono però facili da identificare. Detto in breve, tutti noi abbiamo la sensazione di essere colonizzati, ma senza sapere precisamente da chi; il nemico non è facilmente identificabile. Azzarderemo inoltre l ipotesi che questa sensazione sia presente oggi dappertutto sulla Terra, anche negli Stati Uniti. Ciò che ci proponiamo di esprimere è dunque diverso dalla pura e semplice denuncia del cybermondo, che è oggi cosa corrente. Questa denuncia ha infatti i suoi profeti e i suoi critici, o i suoi scettici. Fra i «profeti», Paul Virilio ha insistito in più libri su diversi aspetti inquietanti delle tecnologie moderne che pongono la relazione con il mondo sotto il segno dell istantaneità e dell ubiquità, ma che provocano allo stesso tempo l apparire di corpi umani solitari, immobili e irti di protesi, di città disurbanizzate e di società destoricizzate. Altri hanno fatto invece notare (penso ad un articolo di F rancis Archer su «Libération» del 22 maggio 1996) che non ci si è mai spostati tanto quanto oggi, che la socialità degli strati sociali medi si sviluppa, che i musei, i luoghi storici, i parchi di divertimen 12

11 to conoscono un successo senza precedenti, che, in breve, bisogna diffidare delle previsioni apocalittiche dei profeti del virtuale. Non entreremo qui in questo dibattito. In ogni caso non attraverso la stessa porta. Ogni profezia generalizzata a partire da un solo settore del sociale, anche quando si tratta di un settore sviluppatosi in modo tanto spettacolare quanto quello delle tecnologie della comunicazione, è evidentemente imprudente, perché necessariamente sottovaluta la pluralità e la complessità sociologiche dell innovazione in un insieme planetario ancora ampiamente diversificato. All opposto, la pacifica constatazione del fatto che «la vita continua», e che anzi è più attivamente culturale di ieri, è parziale e allo stesso tempo insufficiente: le realtà sociali sulle quali poggia questa constatazione vengono individuate nei Paesi o nelle classi più favorite, e devono essere analizzate in quanto tali. Forse sono proprio i modi di viaggiare, di guardare o di incontrarsi che sono cambiati, confermando così l ipotesi secondo la quale il rapporto globale degli esseri umani con il reale si modifica per effetto delle rappresentazioni associate allo sviluppo delle tecnologie, alla planetarizzazione di certi obiettivi e all accelerazione della storia. Ci accontenteremo in questa sede di richiamare una constatazione generale per ricordare una questione particolare. La constatazione generale è che tutte le società hanno vissuto dentro e attraverso un immaginario. Diciamo che ogni realtà sarebbe «allucinata» (oggetto di allucinazione per individui o gruppi) se non fosse simbolizzata, cioè collettivamente rappresentata. La questione particolare consiste nel sapere che cosa avviene del nostro rapporto con il reale quando cambiano le condizioni della simbolizzazione. Era il problema di David Vin cent ma, per sua sfortuna, nessuno dei suoi interlocutori gli dava atto della premessa, cioè del cambiamento di sim bologia o, se si vuole, di cosmologia. Lo si giudicava aliti cinato (vedeva extraterrestri dappertutto), mentre in renila stava assistendo all instaurazione dell ordine nuovo. I v it i allucinati erano in effetti i suoi detrattori i quali, coni mi dendo realtà e apparenza, prendevano gli extraterrrsii i (tri 13

12 buoni americani, lucciole per lanterne. Cercheremo a nostra volta di dare valore di sintomo ad un fenomeno paradossale: l impotenza della simbolizzazione nello stesso momento in cui la planetarizzazione potrebbe darci al contrario l impressione di aver fatto un «check up» delle cose, del mondo e degli esseri e di poter finalmente apprezzare le nostre interrelazioni in tutto il loro senso. Se la metafora medica si ricongiunge qui alla metafora guerriera, è perché il nemico è in noi, è già dentro, intra piuttosto che extra-terrestre; e perché le perversioni della nostra percezione, la difficoltà a stabilire e a pensare le relazioni (quello che a volte chiamiamo la crisi), provengono più da un irregolarità del nostro sistema immunitario che da un aggressione esterna. La nostra malattia è autoimmune, la nostra guerra è civile. 14

13 II IL PUNTO DELLA SITUAZIONE: LA PERCEZIONE DELL ALTRO OGGI L epoca attuale vede amplificarsi un paradosso davvero notevole. Da un lato, sulla Terra agiscono potenti fattori di unificazione o di omogeneizzazione: l economia, la tecnologia, sono ogni giorno più planetarie; accorpamenti aziendali vengono effettuati su scala mondiale; nuove forme di cooperazione economica e politica avvicinano gli Stati; le immagini e l informazione circolano alla velocità della luce; alcuni tipi di consumo si diffondono sulla Terra intera. Dall'altro lato, vediamo invece imperi o federazio ni sfasciarsi, particolarismi imporsi, nazioni e culture rivendicare la propria esistenza singolare, differenze reli giose o etniche affermarsi con forza fino a un punto di mi tura che può condurre alla violenza omicida. A questa constatazione se ne aggiungono almeno allic due: l importanza dei movimenti migratori, che spicca 15

14 l ineguale situazione economica, demografica e politica dei diversi Paesi, e il dilagare del tessuto urbano, notevole in tutti i continenti. Così, il paradosso constatato sul piano globale (ovvero il coesistere dell omogeneizzazione e dei particolarismi) si ritrova sul piano locale: i centri dello sviluppo economico e tecnologico che hanno per campo d azione il pianeta nel suo insieme (un pianeta in questo senso uniformizzato, considerato come un mercato, una zona di espansione, un luogo di concorrenza o di partnership) sono in genere quelli in cui coesistono in modo più o meno spettacolare origini, lingue e culture diverse. Questo miscuglio di unità e diversità appare tanto più sconcertante in quanto viene riprodotto e moltiplicato dai media che ne sono l espressione e allo stesso tempo uno degli agenti. L uso che siamo indotti a fare, a tal proposito, dei termini «spettacolo» e «sguardo» non ha niente di metaforico. È proprio il nostro sguardo, infatti, che si inquieta allo spettacolo di una cultura che si dissolve nelle citazioni, nelle copie e nei plagi, di un identità che si perde nelle immagini e nei riflessi, di una storia che viene inghiottita dall attualità e di un attualità essa stessa indefinibile (moderna, postmoderna?) perché noi la percepiamo soltanto attraverso delle briciole, senza che alcun principio organizzatore ci permetta di dare un senso a quei flash, cliché e commenti sparsi che per noi rim piazzano la realtà. Quale conseguenza può trame l antropologo rispetto ai suoi oggetti empirici di investigazione e, più ancora, rispetto alla costruzione intellettuale del suo oggetto? La questione dell alterità è qui centrale, lo è sempre stata per l antropologia, quantunque oggi si lasci sdoppiare più nettamente: l antropologo deve infatti identificare gli altri (quelli che studia) e interrogarsi sul loro rapporto con l alterità, sulla maniera in cui essi stessi concepiscono il loro rapporto con gli altri, vicini e lontani. I termini di questo doppio modo di procedere sono cam biati: né l identificazione degli «altri» da studiare né le concezioni dell altro operanti nelle società contemporanee sono le stesse di inizio secolo. Ora, la questione dell alterità rara 16

15 mente viene posta come tale. Essa rappresenta piuttosto il nocciolo problem atico di nozioni apparentem ente più sociologiche e di uso molto più divulgativo quali le nozioni di identità, di cultura e di modernità. È sempre rispetto all «altro» che si pone la questione dell identità. Forse è proprio questa la ragione per la quale, all inizio dei viaggi di avanscoperta, delle esplorazioni e dell etnologia, non si è posta la questione dell identificazione degli altri da studiare o da colonizzare. Per un Occidente che, sotto questo aspetto, non si interrogava sulle proprie alterità interne, erano «altri» tutti quelli che scopriva, che colonizzava e che osservava. Le potenze coloniali erano rivali e si scontravano a volte duramente. Ma avevano in comune di riconoscere l alterità radicale di coloro a proposito dei quali si scontravano. Da questo punto di vista si potrebbe affermare che l impresa coloniale nel suo insieme è stata per i Paesi europei l occasione di una presa di coscienza identitaria: rivali fra loro, ma diversi dai Paesi che cercavano di asservire e convertire. Un filosofo come Leibniz li aveva peraltro invitati a fare pace fra loro e a dirigere l offensiva verso gli altri continenti1. Venne ascoltato solo sul secondo punto. Su scala etnologica, sarebbe possibile dimostrare che ogni attività rituale ha lo scopo di produrre identità attraverso il riconoscimento di alterità. I rituali della nascita, i rituali di iniziazione, i rituali funerari, mettono tutti in scena un «altro» (un antenato, delle generazioni, un dio o uno stregone) con il quale bisogna stabilire o ristabilire una relazione adeguata per assicurare lo statuto e l esistenza dell individuo o del gruppo. In un ottica forse abusivamente funzionalista e durkheimiana alcuni etnologi si sono spinti fino a dire che la finalità esplicita del rito non è la sua vera finalità. Ma forse non è necessario negare il valore «performativo» del rito per riconoscere il suo vaio re «identificante». Anche in materia di rito, l unione, e più ancora la coscienza dell unione, fa la forza. Quelli clu\ attraverso la celebrazione di un rito, vogliono guarire un individuo o scongiurare un flagello, lo vogliono vera inni te, ma hanno bisogno, per farlo, di costruire un islan/a <li 17

16 riferimento esterna (altra) rispetto alla quale essi si identificano come uguali (interni e identici). Inoltre, una specializzazione rituale costituisce un fattore di identificazione e di riconoscimento per chi non vi è associato. Si può dunque sostenere che l attività rituale crea l identità e non ne è soltanto la traduzione. Ho cominciato la mia carriera di etnologo in Costa d Avorio presso un gruppo di una decina di migliaia di individui. La Costa d Avorio è famosa per il numero rilevante di etnie che la compongono e di lingue che vi sono parlate. Questi gruppi etnici sono spesso il risultato di mescolanze di popolazioni; alcuni osservatori hanno addirittura sostenuto che l intervento coloniale in Costa d Avorio ne abbia inasprito i contorni e modificato la natura imponendo uno stesso nome e un unica amministrazione ad insiemi eterogenei. Il gruppo che studiavo aveva un nome (Alladian); parlava una stessa lingua e comprendeva quella di alcuni gruppi vicini, ma non di tutti. Le storie di fondazione dei villaggi e dell installazione dei sotto-gruppi non dissimulavano l eterogeneità del popolamento, anche se alle diverse migrazioni era assegnato un punto di partenza comune, come istanza storica esterna e in qualche modo condivisa; non era riconosciuta alcuna autorità politica comune prima che le autorità coloniali creassero un capo cantone, la cui giurisdizione coincideva pressappoco con quella dei villaggi «alladian», e prima che le autorità nazionali, alla fine degli anni Sessanta, creassero un capo supremo degli Alladian, senza alcun precedente storico, ma zio di una personalità politica importante. A questa diversità si aggiungeva quella che si potrebbe chiamare una diversità etnica interna. Gli Alladian vivevano in effetti fra mare e laguna ad un centinaio di chilometri da Abidjan. A partire dal XVI secolo avevano monopolizzato il commercio con gli europei. I grandi lignaggi mercantili assicuravano la vendita agli europei di numerosi prodotti interni (in particolare, nella seconda metà del XIX secolo, l olio di palma) e, in senso inverso, vendevano all interno il sale marino e i manufatti europei. La loro ricchezza si era tradotta nell acquisto di molti schiavi origi 18

17 nari del centro e del nord. In questa società matrilineare l acquisizione massiccia di donne comprate o aventi dote assicurava ai notabili alladian una discendenza agnatica sulla quale avevano gli stessi diritti che sulla discendenza uterina. Questo movimento di integrazione e di riproduzione si è accentuato nel XIX secolo, al punto che nessun lignaggio alladian può oggi pretendere a una qualsiasi «purezza» etnica. L unità alladian era dunque linguistica (senza traduzione politica), ma si esprimeva prima di tutto sul piano rituale: per esempio uno dei villaggi costieri di un importante lignaggio mercantile aveva il monopolio del culto dedicalo ad alcune divinità del mare. In occasione di certe feste, tutti i villaggi e i lignaggi alladian si facevano rappresentare, e questa riunione - il cui oggetto immediato era di propiziarsi le potenze marine per favorire la pesca e il commercio - forniva in modo evidente l occasione per rinforzare le alleanze matrimoniali, per armonizzare le politiche commerciali, per scambiarsi le notizie, in breve per affermare ad intervalli regolari l esigenza di una certa identità. A queste feste venivano a volte associati quelli che erano chiamati i «popoli dell acqua», cioè quei gruppi etnolinguistici diversi che occupavano lo spazio lagunare e costiero vicino agli Alladian e che condividevano con loro alcuni interessi, a volte in modo antagonistico. Lo spazio rituale superava dunque le frontiere linguistiche. Oggi, in un contesto diverso, quello della Costa d Avorio presidenziale e indipendente, tende a manifestarsi una certa coscienza politica lagunare nei confronti di altri gruppi; e questa può favorire quell integrazione nazionale che le pretese dei gruppi demograficamente molto più potenti potrebbero al contrario minacciare. Non si dovrebbe però insistere troppo sull'importanza dell attività rituale nell elaborazione di identità relative (in questo caso particolare lignaggere, di villaggio, etniche <> regionali). Infatti essa funziona altrettanto bene nei rituali di integrazione degli schiavi di origine esterna, o nei l ilua li condivisi dai sotto-gruppi alladian e, a volte, da nini gruppi. Il legame sociale creato dal rito deve essere pensii 19

18 bile (simbolizzato) e gestibile (istituito); in questo senso il rito è mediatore, creatore di mediazioni simboliche e istituzionali che permettono agli attori sociali di identificarsi ad altri e di distinguersene, insomma di stabilire mutualmente dei legami di senso (di senso sociale). Due osservazioni a questo riguardo: quando si produce un blocco rituale, un deficit simbolico, un indebolimento delle mediazioni - delle cosmologie o dei «corpi intermediari» di cui parlava Durkheim - cioè un interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità, appaiono i segni della violenza. Seconda osservazione: le nuove tecniche della comunicazione e dell immagine rendono il rapporto con l altro sempre più astratto. Ci si abitua a vedere di tutto, ma non è certo che si sappia ancora guardare. Aver sostituito i media alle mediazioni contiene in sé la possibilità di violenza. Ma lo sviluppo dei media e i cambiamenti che interessano la comunicazione e l immagine sono cambiamenti quasi sempre presentati come culturali; è quindi normale interrogarsi sul ruolo della cultura o dell idea che si ha di essa nella storia più recente. L attualità più scottante è in effetti caratterizzata dal fatto che sono balzate in primo piano nozioni quali quelle di cultura e di religione. Direi che è sulla capacità dei movimenti detti «culturali» o «religiosi» di elaborare riti, cioè di rilanciare la dialettica identità/alterità, che è possibile misurare la loro capacità di influire sull avvenire. È nota, per esempio, l importanza dei movimenti religiosi che si sviluppano oggi in America centrale e in America del Sud. Alcuni fanno espressam ente allusione a una dimensione etnico-culturale, come la nuova «religione maya» del Guatemala. A proposito di movimenti di questo genere, l importante, mi sembra, non è di interessarsi all aspetto più o meno mitizzato o idealizzato del passato al quale si riferiscono, ma di misurare, nel presente, la loro capacità di creazione e di apertura. Il passato ricreato, è il grande Altro storico rispetto al quale può affermarsi una identità presente: la difficoltà, di ordine allo stesso tempo rituale e politico, risiede nella doppia e necessaria negoziazione con gli altri, prim a di tutto quelli vicini 20

19 (quelli che possono dirsi allo stesso titolo «maya»), ma anche con quelli più lontani (quelli che non rivendicano alcun passato indio). La difficoltà è reale, ed infatti abbiamo molti esempi di movimenti di resistenza etnico-culturale che non sono riusciti a superare l ambito della loro iniziale affermazione di singolarità. Prima di proseguire, vorrei ricordare rapidamente due attuali conflitti detti «etnici», per sottolineare l importanza della capacità rituale o simbolica di cui ho appena parlato. In un intervista concessa al giornale «Le Monde», lo scrittore Yachar Kemal, di nazionalità turca, ha dichiarato: «Non penso che i Curdi pretenderebbero l indipendenza, se ottenessero i loro diritti culturali»2.yachar Kemal ha origini curde e turcomanne; nella sua infanzia ha ascoltato leggende curde e racconti di trovatori turcomanni. Si trova dunque in una situazione paradossale, poiché è stato condannato diverse volte dalla giustizia del suo Paese, benché neghi di essere un nazionalista curdo, e allo stesso tempo è lo scrittore più popolare della Turchia. Per Yachar Kemal c è incompatibilità fra il feudalesimo, ancora presente fra i Curdi, e il nazionalismo; il nazionalismo è stato indotto dagli eccessi della politica repressiva dello Stato turco. L identità curda potrebbe dunque conservarsi, secondo lui, all interno di una Turchia veramente democratica: «Ci sono mille modi per aiutare la Turchia a diventare democratica, tramite discussioni, mediazioni, pressioni politiche». Yachar Kemal vede venire le pressioni politiche in particolare dall Europa, e ciò che egli ci indica, attraverso il triplice riferimento all esistenza di un identità curda, alla necessità di un apertura interna e al richiamo ad una dimensione europea, è proprio il carattere necessario e allo stesso tempo relativo della coppia identità/alterità. A proposito della cultura, che lo scrittore ha personalmente appreso nelle sue forme più letterarie e popolari, aggiunge: «[...] c è sempre un interazione delle culture. Lévi-Strauss mi ha aiutato a capirlo». Probabilmente l autore fa qui allusione in modo particolare a Razza e storia, quel testo nel quale Lévi-Strauss spiega lo straordinario sviluppo d e ll Europa rinascim entale con 21

20 l accoglienza che essa ha sapulo riservare alle tradizioni culturali più diverse e distanti. Ricordiamo che l ottimismo molto relativo di Yachar Kemal dipende dalla speranza di credere ancora possibile in Turchia l instaurazione di un sistema di mediazione (parlerei volentieri, in questo caso, di ritualità democratica). Di un pessimismo ben più radicale dà invece prova l antropologo e storico Georges Charachidzé a proposito dei Ceceni. In un intervento apparso sullo stesso numero di «Le Monde» constata che il rifiuto da parte del potere russo di negoziare con un popolo che intende eliminare è ben radicato nel tempo: «Già nel 1834 un funzionario della Russia imperiale scriveva: La sola cosa da fare con questo popolo m alintenzionato è di elim inarlo fino all ultimo uomo. Boris Eltsin dichiarava recentemente: Sono dei cani rabbiosi, bisogna abbatterli come cani rabbiosi». Quanto al popolo ceceno, ci dice Charachidzé, si trova con le spalle al muro: «La sopravvivenza, per esso, si pone oggi in termini di nazione. Restare nella Russia, significa la certezza di sparire in quanto popolo». La Cecenia è proprio l impossibile mediazione, la violenza obbligata3. Qual è dunque il posto della cultura in questa storia fatta di negoziazioni o di violenze? Innanzi tutto, è evidente che la cultura non implica in sé alcun rifiuto e alcuna incompatibilità fino a che resta cultura, cioè creazione. Una cultura che si riproduce sempre tale e quale (una cultura da ghetto o da riserva) è un cancro sociologico, una condanna a morte, proprio come una lingua che non si parla più, che non mutua più elementi da altre lingue, che non inventa più, è una lingua morta. E dunque sempre abbastanza pericoloso voler difendere o proteggere le culture, e illusorio ricercarne la purezza perduta. Esse non hanno mai vissuto in altro modo che trasformandosi. Detto ciò, ci si può interrogare sulle condizioni della loro trasformazione. Le culture vive sono ricettive alle influenze esterne; in un certo senso, tutte le culture sono state culture di contatto. Ma è quello che fanno di queste influenze che è interessante. A volte tendiamo a conside 22

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