ESCHILO I PERSIANI

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1 ESCHILO I PERSIANI : Artembare cavalca gioioso alla guerra e Masistre. Là brilla Imeo: non perdona il suo arco. Poi Farandace e Sostane che aizza destrieri. Anche Nilo possente, affollato di vita, mise in marcia i suoi capi: Susiscane, Pegastagone, puro sangue egiziano, Arsame possente alla testa di Menfi devota, Ariomardo che regge Tebe città millenaria: e le ciurme, marinai di laguna, sfilata tremenda che non termina mai! Dietro s'accalcano i languidi Lidi: hanno in pugno l'intera nazione sorta in quelle pianure. Danno lo slancio Metrogate con Arcteo valoroso, scettrati ministri, e Sardi carica d'ori: folla alla guida dei carri squadre di doppie, triple pariglie. Scenario che gela, vederseli innanzi! È tutto un vibrare di febbre alle falde di Tmolo beato: stringere Grecia schiava alle stanghe! È Mardone, è Taribis - incudini a spuntare la picca - sono Misi che scagliano strali. Babilonia carica d'ori allinea impasto di genti in tumulto: equipaggi imbarcati, nervi saldi, tensione che esplode nell'arco. Dal resto dell'asia s'accoda la gente che impugna la daga, curva agli editti immani del Re. Che scelto sbocciare di figli, o Persia, t'è finito laggiù! L'Asia, la patria che per loro fu culla, è tutta singhiozzi. Rimpianto rovente. Ai vecchi, alle spose - si sgrana la lista dei giorni - è spasimo, dentro, l'inarcarsi del tempo. MESSAGGERO: La mossa fatale, Regina, del nostro sterminio la fece - sorgendo occulto, improvviso - un dio del Castigo, o un sovrumano nemico. Un Greco uscì dalle file ateniesi e raggiunto Serse, tuo figlio, gli disse che al nero calare del buio notturno, non avrebbero perso del tempo i Greci, e un balzo, là sulle tolde, si tenevano pronti - si salvi chi può! - a sgusciare veloci, a rubare fuggendo la vita. A sentire quell'uomo - sordo al tranello, all'ostile livore divino - il Re spicca dritto a ogni capo di nave un comando: aspettare che il sole spenga la vampa radiosa sul mondo, che la tenebra abbracci il cerchio solenne dell'aria, addensare il nerbo di navi su triplice fronte: le altre ad anello, serrando l'isola tutta d'aiace, chiudessero i varchi, i salsi sonori spiragli. Se il nemico eludeva la stretta fatale - scovando la strada, scivolando via silenzioso - una fine era pronta, fissa per tutti: la testa mozzata. Di tale tenore i comandi: gli cresceva dentro l'ebbrezza, non coglieva col senno il domani sorgente da mano divina. La gente - senza tumulto, mansueta al potere - teneva pronto il suo rancio. A bordo ciascuno annodava - un giro di sàgola - il remo allo scalmo culla del remo. Cadde smorendo il lampo del sole. L'ombra saliva. Fu l'ora. Ecco quelli maestri di remo, ecco, i corazzati guerrieri del ponte, ciascuno s'affretta all'imbarco. Rintocca, rimbalza tra squadre di barche slanciate il richiamo. Via sul mare. Disciplina perfetta, tutto come previsto. È nottata di fitte manovre, per gli alti comandi, su e giù, con la forza marina al completo. E la notte passava. Ma l'armata dei Greci non tentava manovre, a sgusciare di frodo! Poi, appena la pariglia lucente dell'alba dilagò per il mondo - lampo chiaro negli occhi - dal fronte dei Greci fu subito scroscio di note sonore, solenne, devota melodia di trionfo; si staglia diritta, riverbera l'inno, dagli scogli dell'isola, un'eco. Angoscia colma l'aggressore straniero: il piano si sfalda, è una beffa. Non era di gente fuggiasca quel fervido grido di guerra e vittoria, ma d'uomini accesi alla lotta, vibranti, decisi. Li vedevi laggiù, l'incendiava - scoppio di luce - una nota di tromba. Di volo - scatto composto di remi sonori - trafissero a tempo l'abisso salato. Un istante e li avemmo compatti, tersa visione, negli occhi. Apriva la strada, in assetto, con bella manovra, l'ala destra. Sulla scia sfilava, la flotta completa. Si fondeva alla vista - percettibile, ormai - un rumore di coro crescente: «Forza, o figli di Grecia, libertà per la terra, libertà per i figli, le donne, i sacrari del nostro paese, per le tombe dei vecchi. Per tutto quello che abbiamo: è l'ora, rischiamo!». Dai nostri reparti, s'opponeva sommesso un frastuono di parole persiane: culmina l'ora, non è ammesso esitare. Dritta una chiglia sprofonda in un'altra la trave coperta di bronzo. Scattò prima a colpire una nave dei Greci: ed è subito sfascio totale per i fregi di poppa, a uno scafo fenicio. Poi addosso, ogni legno cercava il nemico.

2 All'inizio l'ondata di navi persiane teneva. Ma appena la folla di scafi s'ammucchiò nella conca - interrotto lo scambio d'aiuti, infinita vicenda di colpi ripercossi dai rostri metallici, meccanismi interi di remi in frantumi - con scaltri volteggi martellava, la flotta dei Greci; rotolavano all'aria le chiglie di navi; la distesa marina spariva coperta di schegge di scafi, d'umana moria; tutto un rigoglio di corpi, la spiaggia, le creste; allora, una per una, ogni nave cercava la fuga in un caos di remi. Quanto restava d'una flotta venuta da fuori, all'assalto. Loro picchiavano forte, troncavano gli uomini in due: una mattanza, diresti, un volo di reti - strage di pesce - a colpi di remi scheggiati, di fasciame in frantumi. Impasto di urla dolenti, di singhiozzi copriva lo specchio dei flutti. Poi la fine. Soffocò tutto la faccia cupa del buio. Aaah! Stravolto io esco dal cozzo col mio fato brutale, insondabile. Ferina Potenza piombò sul ceppo persiano. Che carico avrò il dolore? Carne snervata divento a vedere la cerchia dei Vecchi. Oh Zeus, se in mezzo agli eroi finiti laggiù m'avesse sommerso l'ora mortale! Oh Re, piango l'armata perfetta prestigio possente di Persia fregio d'uomini in armi che ormai Forza fatale ha trebbiato. Terra singhiozza il suo rigoglio nativo stroncato da Serse: che carico, all'ade, di morti Persiani! Marciano a dense colonne nell'ade, loro, la florida gemma di Persia! Prostravano, gli archi - e ora sono nugolo immenso di vite stremate nel nulla. Aaah, mio scudo d'eroi! L'Asia, o tu che sei Re del paese, - orrore, orrore - si china, stramazza! str. I No, invece! Su me, su me singhiozzate. Io disperato incarno sfacelo al mio trono, alla terra natia. Il mio benvenuto sarà strido sinistro di lutto, lugubre urlio d'ululatore Mariandino scoppio, fiotto di pianto. ant. I Scagliate la nota maligna rotta, gemente: eccola, vira, vira la Potenza, m'è addosso! E nota gemente sarà, solenne sul mostruoso tormento marino voce che piange la patria, la gente. Urlerò gemiti intrisi di pianto. ant. II Perduti. Io partivo e loro - a capofitto da uno scafo tirio - affondavano là alla scogliera di Salamina, martellavano colpi su colpi all'irto scoglio. Il tuo uomo, Farnuco, dov'è? E il bravo Ariomardo? Dov'è Sevalce principe Lileo, gran sangue, Menfi, Taribi, Masistri, Artembare e Istecme? Oh, voglio sapere! str. III Aaah! Negli occhi hanno Atene millenaria, nemica ed eccoli - quanto patire! - una sola retata e boccheggiano riversi sui sassi. Oh, anche l'occhio di Persia quel tuo uomo leale, d'un pezzo, a diecimila contava l'armata: Alpisto, figlio di Batanoco.... di Sesamo di Megabate. Parto e Oibare grande perduti, perduti laggiù? Oh, disperati! Che mali, che radice di mali tu dici alla Persia superba! ant. III Tu m'insinui l'incanto struggente dei bravi scudieri se pronunci sinistra, sinistra oscena radice dei mali. Stride nell'abisso di me il mio cuore. E per altri noi ci struggiamo: Xanti, guidava miriadi di Mardi, Ario e Ancare

3 str. II Dio di Guerra greco massacrava Dio corazzato di scafi, forza alla parte nemica. Mieté la nera pianura, spiaggia di morte. Aaah, urla, ma fagli dire la storia. Dov'è l'altra folla persiana? E i tuoi scudieri? Farandace, dov'è? E Susa, Pelagone, Dotame, Agdabate, Psammi e Susiscane che da Ecbatana partì? Daissi e Arsame condottieri al galoppo; poi Egdadate, e Litimna, Tolmo, goloso di sangue che colpo, che colpo vedere che nessuno fa ala alla cortina regale rotolante alta sul carro. str. IV Sì, è finita, per i capi in armi. Ah, è finita: nemmeno l'onore. I SETTE CONTRO TEBE Voi, ascoltatemi - creature di disgusto - bell'eroismo il vostro, bella difesa per Tebe! Dà slancio ai guerrieri bloccati qua dentro il vostro aggrapparvi agli idoli santi, patroni di Tebe! E poi strida, schiamazzi: orrore, per chi ha equilibrio! No, no. Disgraziato - o felice e beato - io non faccio famiglia con questa carne di donna. Se ha potere, scatta, non puoi viverle accanto; ma può prenderla il panico, ed è guaio più grave alla casa, allo Stato. Anche oggi. Questo vostro incrociarvi, fuggitive, sbandate, l'urlio che dilaga: è uno schianto nervoso per la gente di Tebe, l'ha annichilita. Per loro là fuori, invece, è un fior di favore: per noi uno sfacelo. Colpa nostra, siamo noi la radice. Ecco i frutti, a spartire la vita con donne. Chi non vuol essere docile a questo potere che ho - femmina, maschio, creatura mediana - avrà contro regolare sentenza di morte. Niente paura: non sfugge al supplizio dei pubblici colpi di sasso. È terreno dell'uomo, l'esterno. Non ha peso la donna, non deve. Tu sta' lì, tra le quattro pareti, non creare dei danni. M'hai sentito, o per nulla? Mi comprendi, se parlo? str. I Eteocle, quel rombo, quel rombo, martellare di carri... l'ho in testa, incubo cupo, sibilare di perni rotanti di morsi ossessivi, barre piantate tra i denti ai cavalli briglie fucinate alla fiamma. S'è mai visto il nostromo scovare rimedio che salva, sbandando su e giù per il ponte, con lo scafo spossato sull'abisso che bolle? ant. I Ma io venni di volo agli idoli antichi dei Potenti. M'abbandonavo agli dèi: fuori, tempestava le porte, ruggiva tormenta omicidia. M'avventa il terrore, a supplicare i Beati: spieghino salda barriera su Tebe. «La cinta sia stagna ai colpi di picca»: questo implorate. Non starà dalla parte dei numi, la cosa. Certo, gli dèi della città s'eclissano, dopo la rotta: è noto. str. II No, mai! Finch'io duro, non dilegui questa folla santa di dèi! No, vedere Tebe preda di gente sbandata, soldatesche avvolte da vampe assassine!

4 Attenta. Chiama pure gli dèi: ma ragiona, non smarrirti. Docilità è madre di Buona Fortuna, e sposa di Riparo: è proverbio. CORRIE So tutto. Fatemi dire le mosse nemiche, una per una, che schieramento hanno estratto, davanti alle porte. Tideo è già lì, di fronte alla soglia di Preto. Rugge. Ma il veggente non lascia che varchi il guado d'ismeno: non vengono belli i presagi di sangue! Delira Tideo, spasima, vuole lo scontro, si sgola: rettile, pare, che stride nel caldo del sole. Martella brutale sul chiaro veggente, sul figlio d'oicleo: «Senza fegato, abbassa la coda davanti all'ora fatale, alla lotta perfino!». Così lastra e scrolla tre creste, masse d'ombra, corona irsuta dell'elmo. Dallo scudo, nel cavo, trilli di bronzo battuto, scroscio che gela. Sullo scudo il marchio, lo stemma della sua arroganza. Eccolo: cielo metallico, incendio di stelle; in mezzo alla piastra raggia plenilunio terso, solenne, maestà astrale, gemma del buio notturno. È la sua frenesia, sotto armatura sdegnosa: e ulula, rasente l'orlo del fiume, irta passione di lotta. Un puledro, diresti che vibra, ansima contro le briglie, ha dentro lo scatto, teso al primo urlo di tromba. Che antagonista gli schieri? Chi dà pegno di saldo riparo alla porta di Preto, al cadere dei pali? Fregio d'uomo nemico non può dare brivido, a me. Non possono farsi autori di squarci, i suoi marchi. Creste, scampanio: non azzannano senza la picca. E quel buio famoso là sopra lo scudo, balenare di stelle nell'aria... chissà, la demenza può farsi profeta, a qualcuno. Certo, se crolla e buio gli piomba sugli occhi, questo stemma troppo sdegnoso fa reale il suo nome, per lui che l'imbraccia. Retto castigo! Io a Tideo contrappongo il bravo figliuolo di Astaco, campione a presidio del varco. È di ceppo purissimo. Non solo. Per lui, Ritegno è sacro. Ne ha il culto. Ha orrore d'insolenze chiassose. È indifferente al male: non sa la bassezza. L'ha nel sangue. Il suo tronco affonda nella semina d'uomini, superstiti della rissa mortale. Sì, è genuino di questo suolo, Melanippo! L'esito è un volo di dadi: giudica Ares. Naturale Patto di sangue è l'intimo scatto imperioso, per lui, a sviare la punta nemica da questa Madre nativa. CORRIE Il prossimo, quarto, occupa il varco seguente, di Atena Onca. Si fa sotto, tra scoppi di urla. È Ippomedonte. Una massa. Statuario, enorme. Mulinava la distesa di un'aia: lo scudo rotondo, vi dico. Io gelai! Basta, non più parole. Non era certo incisore mediocre chi plasmò per lo scudo la scena. Ecco Tifone, dalla gola che alita vampe sfoga caligine negra, sinuosa sorella del fuoco. Grumi di serpi costellano l'orlo, fanno solido blocco là dove s'incava lo scudo falcato, rotondo. «Morte!» ha ululato. Fanatico d'ares, smania per l'orgia di guerra. Un ossesso, diresti. Paralizza, lo sguardo. Devi imbrigliare lo scatto di questo guerriero. Senti? Panico è là, davanti alla porta, e scaglia bravate. Primo. Atena Onca ha sede qui nel sobborgo, porta a porta con Tebe. Odia lo squilibrato: gli sbarrerà la nidiata, come a un rettile freddo. Secondo: Iperbio, sangue buono, di Enopio, è campione eletto a misurarsi in duello con lui. È deciso a scrutare che parte gli tocca, nella stretta dell'ora fatale. Eroe senza macchia: né fuori, visibile, né intima, né come imbraccia le armi. Bella la scelta di Ermes, d'annodarli: un uomo sta per scontrarsi con l'uomo che odia. Nel cozzo di scudi, porteranno a lottare dèi antagonisti. Uno imbraccia Tifone che alita fiamma. A Iperbio Zeus padre troneggia immoto sull'arma. In pugno, ha lama di fuoco. E finora, occhio umano non ha scorto disfatta di Zeus! Così si spartisce l'affetto dei Potenti. Noi apparteniamo a chi trionfa, loro a chi cade. Per i rivali prevedo identica fine, se nel duello Zeus schiaccia Tifone. Parla chiaro lo stemma d'iperbio: Zeus è con lui, sullo scudo, e lo salva. Così vuole il destino. CORRIE Al racconto del quinto, ora, già in posizione d'attacco alla porta del Nord, ch'è la quinta. Là, sì, alla tomba d'anfione, il figlio di Zeus. Giura sull'asta che stringe - è il suo dio, l'adora caparbio, più della luce degli

5 occhi - che è sicuro, svuoterà l'abitato tebano: dovesse lottare con Zeus! Così tuona, bocciolo fiorito da una che ha il covo sui monti: splendida fronte, eroe intriso d'uomo e di bimbo. Da poco dilaga peluria sul volto - germoglio dell'età tenera - scura macchia di piuma nascente. Ma la mente è gelida, dura, non rispecchia il fanciullesco del nome. Eccolo, che avanza: lo sguardo t'impietra. Certo, non è umile il modo con cui si pianta alla porta: in mezzo allo scudo martellato di bronzo - rotonda fortezza dell'uomo - imbracciava lo sfregio di Tebe, la Sfinge - carne viva, tra i denti - placca ingegnosa saldata con chiodi, disegno in rilievo, lucente. Schiaccia un corpo, un tebano: così quest'uomo diventa bersaglio favorito dei colpi. Non ha l'aria di uno venuto a spacciare due soldi di guerra: anzi, deciso a non disonorare una missione partita da tanto lontano, l'arcade Partenopeo, Viso Fanciullo. Che guerriero. Eppure, è un emigrante. Vuole saldare splendidamente il suo debito ad Argo, che gli ha offerto la vita. Che minacce, ai torrioni di Tebe: che dio non le faccia reali! Ricada su loro il progetto! Concedilo, dio! Su loro, sugli sfoghi rabbiosi, sacrileghi! Che sfacelo, che abisso di male sarebbe, a stroncarli! Anche per l'eroe che racconti, per quest'arcade, è pronto un campione: uno senza bravate, ma il braccio vede bene il bersaglio. È Actor, fratello dell'altro che ho appena chiamato. Non vorrà che lingua sonante - senza sostanza di fatti - irrompa dentro la cinta, e moltiplichi i mali. Non darà varco, da fuori all'interno di Tebe, all'armato che imbraccia l'emblema del mostro, peggiore nemico, sullo scudo nocivo. Sfogherà il suo livore, la Sfinge, su lui che l'imbraccia, quando all'ombra di Tebe subirà un crepitio di percosse. Se il Cielo è disposto, le mie sono parole reali. CORRIE Ecco il settimo, alla settima porta. Sono pronto a ridire - sì, è lui, tuo fratello - che casi maligni bestemmia, impreca su Tebe: prima calpesta le torri, si fa proclamare campione, riversa sui vinti il suo inno frenetico, poi t'incrocia, t'ammazza e ti crolla vicino. Se scampi, castiga in te il suo usurpatore: scambio d'identica pena, l'esilio randagio, fuggiasco. È il suo proclama. Chiama per nome gli dèi familiari della terra nativa - che tengano fisso lo sguardo al suo supplicare - Polinice potente. Regge scudo di fresca fusione, un disco perfetto: sopra, placca ingegnosa, un duplice stemma. Ecco, uomo d'oro sbalzato, uomo di guerra, all'aspetto. Lo conduce un'effigie di donna: è composta, conosce la strada. Dice che è lei, proprio lei, la Giustizia. L'incisione l'afferma: «Sarò io a rimpatriare quest'uomo: riavrà una vita civile, girerà da padrone tra le mura native». Tutte qui le malizie di quelli là fuori. Ora a te: sappi chi ti par bene schierare alle porte. Di me non potrai lamentarti, son certo, di come t'ho riferito. Ora a te. Pensa tu a guidare lo Stato al suo porto. Il Corriere esce. O sangue indemoniato, carico d'odio divino, o universo di lacrime, o sangue mio che vieni da Edipo! Aaah, è il tempo: matura l'imprecazione del padre! No, no. Né singhiozzi, né chiasso. Non è dignitoso. Che non dilaghi poi il piagnisteo: non potrei sopportarlo. Per chi è specchio vero del nome - a Polinice, alludo - presto sapremo fin dove dà frutto il suo stemma, se saprà rimpatriarlo quella scritta d'oro fuso in mezzo alla piastra, sciocco profluvio d'un cervello sbandato. Se Giustizia - figliola immacolata di Zeus - gli stesse vicina, mentre pensa o agisce, certo questo potrebbe accadere. Ma non è così. Da quando fu espulso dal buio cavo materno, poi nel tempo delle cure infantili, adolescente, e al primo addensarsi di peluria sul viso Giustizia mai gli ha rivolto uno sguardo, un segno di stima. Non gli farà da fedele scudiera in quest'ora, nello sfacelo del suolo paterno! Non credo, non posso. Sarebbe l'esatta smentita al suo nome, Giustizia, alleata a un essere che in corpo ha insolenza pura. Tutto ciò mi dà forza serena. Vado allo scontro: sì, io solo. E chi avrebbe più giusto motivo? Da principe a principe, fratello a fratello, nemico contro nemico: l'affronterò immoto. Forza, cominciamo: qua i gambali, baluardi ai colpi di lama e di sasso. No, mio principe, no, figlio di Edipo! Non ridurti, nel tuo slancio brutale, pari a quell'altro, che urla follie. Guerrieri Cadmei si battono contro gli Argivi. È sufficiente. Si lava, quel sangue. Ma nodo suicida di morte tra due dello stesso sangue... non, non è chiazza che possa appassire. Puoi subire una fine violenta, ma senza ignominia. E sta bene: è l'unico pregio che vale, tra i morti. Ma patire col male l'infamia non puoi dire sia fonte di gloria. str. I

6 Che febbre la tua, povero figlio? Scatto cieco dilagante, pazzo di sangue, non possa predarti! Strappati il seme di sinistra passione. Incalza i miei casi - bufera di colpi - un dio. Dunque, veleggi al gorgo infernale, sul filo del vento, tutto il ceppo di Laio. È Destino: ha addosso l'odio di Apollo. ant. I Azzanna nel vivo, t'aizza lo spasimo d'immolare un essere umano: rito di sangue sacrilego, che frutta tormento. L'ostica Voce Imprecante... di mio padre - occhi riarsi, che non sanno il pianto -, mi attacca, mi spiega il vantaggio di una rapida fine, su una fine più tarda. str. II Tu almeno non farla più svelta. Non passerai per abietto, se hai il bene di vivere. Vendetta ammantata di buio lascia le mura, se all'offerta devota sorridono, infine, gli dèi. Dèi, dèi! Devi dirlo? Da un pezzo non contiamo più nulla, per loro. Un dono solo salutano in festa, da noi: ch'io perisca. Ha senso, vezzeggiare la mia funebre fatalità? CORRIE ant. II Ora, almeno: t'è tanto vicina! Ma se, lenta Maledizione svia il suo corso, può toccarti con più soave spirare. Oggi ribolle. Ah, ferve, trabocca l'imprecazione di Edipo. Davvero sincere le fantasie degli incubi, nel sonno, quello spartirsi l'eredità del padre... Esaudisci noi donne. Non importa, se t'è atto sgradito. Di' proposta concreta. Farla lunga non serve. No, non tu! Non andare laggiù, alla settima porta! Ho la tempra del ferro. Non mi smussi, parlando. Anche una vittoria opaca ha stima, dal cielo. A un uomo di guerra non piace questo tuo dire. Dunque hai deciso, falcerai identico sangue fraterno. Dio ti regala sfacelo: assurdo schivarlo. Eteocle esce. LE SUPPLICI str. VI Svelo ululando il mio povero male stridulo plumbeo pioggia di pianto - aaah, aaah! - ant. VII Desideri - io lo desidero - scortarmi con l'occhio Artemide casta che abita salda le sante mura. Reagisca alla caccia

7 s'allaccia a una nenia di morte. Celebro viva il mio lutto. efimnio I Siimi fausta, Apia ondulata. Terra, comprendi la mia lingua incerta. Folate di colpi sui veli divelti sul bisso d'oriente. ant. VI S'impennano al Cielo più gravi, efficaci i voti dei probi, nell'ora di morte. Aaah! Ventate sfuggenti rischiose dove mi preda il gorgo bollente? efimnio I Siimi fausta, Apia ondulata. Terra, comprendi la mia lingua incerta. Folate di colpi sui veli divelti sul bisso d'oriente. str. VII Pala, ligneo covo, trama di sartie, scudo alle onde mi scortò nella calma, sul filo del vento. No, non recrimino! Tutto maturi, col tempo il cosmico Occhio del Padre, e fondi esiti propizi, per noi! efimnio II Alta semenza di nobile grembo eluda il letto dei maschi non sposa, non schiava. con ogni energia. Inviolata, si faccia bastione di me inviolata. efimnio II Alta semenza di nobile grembo eluda il letto dei maschi non sposa, non schiava. str. VIII Altrimenti - bruna carne martellata dal sole - caleremo da Zeus dell'abisso patrono degli uomini spenti noi e le supplci fronde uccise dai cappi deluse dai numi celesti. efimnio III O Zeus! O Iò che astio di dea ti frugò! Indovino livore nuziale che flette Celesti. Duro maestrale sprigiona gelido assalto. ant. VIII E alla fine sarà lui, Zeus, preda di critiche giuste: ha voluto umiliare il frutto della bestia che lui stesso plasmò; ora rilutta, si torce il suo occhio a chi prega. Raccolga, lassù, il mio richiamo! efimnio III O Zeus! O Iò che astio di dea ti frugò! Indovino livore nuziale che flette Celesti. Duro maestrale sprigiona gelido assalto. Dal poggio sui cui era salito, Danao esplora la pianura. Parla rivolto alle figlie. DANAO Figlie, cervello ci vuole. E cervello ne ha, questo vecchio, per avervi segnato la rotta fin qui: fidatevi. Ora siamo sbarcati. Devo essere cauto, guardingo. Perciò vi comando: fate tesoro di ciò che vi dico, incidetelo nelle pagine della mente. Polvere, vedo! Segnala in silenzio gente che marcia. Ecco la voce dei perni, s'avvitano agli assi. Laggiù! Barbaglio confuso di scudi, palpito d'aste. Cavalli, carri falcati. Certo saranno i prìncipi di questo paese. Li avranno informati le scolte e ora verranno a scrutare chi siamo. Può essere innocuo, o aguzzo d'istinto brutale chi affretta in tal modo la marcia. Tutto può essere. Figliole, è più sicuro assiderci qui, sul rialzo. Guardate, è sacro agli dèi del paese. È saldo l'altare, più che fortezza, è piastra priva di crepe. Accorrete, di volo. Nella mano sinistra terrete solenni la supplice fronda, e il suo niveo serto, santi fregi di Zeus delle Suppliche. Con chi deve ospitarvi, scambiate saluto pietoso, dolente, di chi manca di tutto. Pensate che è giusto così, che voi siete fuggiasche. Squilli nel vostro discorso la nota dell'esilio non sporco di sangue. Dal tono di voce, escludete anzitutto arroganza. Via la frivola irriverenza dai volti composti, dallo sguardo

8 chiaro! Evita sproloqui, ma neppure fatti strappare le parole di bocca. Ci s'esaspera presto, in questo paese. Devi fletterti, bada. Sei ospite, profuga, manchi di tutto. Stride, impudenza sulle labbra dei fragili. Vi vedo, protette dall'ombra di frasche appena tagliate, pellegrine in attesa agli dèi della terra. Ah, non si faccia maligno il caso delle straniere ospitate. Caso che folgora, strano alla mente: non vorrei si spaccasse lo Stato, per questo. Non è proprio il momento, per Argo. ant. I Maligno il mio bando non è! Mi scorti supplice Moralità, figlia del Prodigo Zeus. Tu hai mente matura. Io nacqui dopo: pure devi ascoltarmi. Se rispetti chi prega non derelitto... Grati ai sacrari divini voti di uomini probi. Ma voi non sceglieste a rifugio il cuore della mia casa! Se è una peste che chiazza intero lo Stato, Argo s'unisca, elabori insieme la cura. Per me, non v'anticipo nulla di serio: riunisco la gente, ne discuto con tutti. str. II Sei tu lo Stato, sei tu la gente: domini, senza rendere conto. T'appartiene l'altare, cuore domestico d'argo. Può tutto, la tua semplice mossa. Dal trono assoluto attui tutto. Schiva sacrilega colpa! Ricada sui miei antagonisti! Non posso aiutarvi senza espormi a rovina. Né mi sorride umiliare il tuo grido. Bloccato! Angoscia, dentro, m'inchioda: decidere, non decidere, affrontare la sorte. ant. II Affonda gli occhi nell'altissimo Occhio che scorta i viventi dolenti che ricorrono ai loro senza fortuna. Santa Vendetta negata! È paziente rancore di Zeus Pietoso contro chi è sordo al patire che geme. Se quelli d'egitto ti tengono in pugno - è legale, nel vostro paese - insistendo sul fatto che ti sono i più affini di sangue, a chi può piacere la guerra con loro? Tu devi schivare l'accusa, chiarendo che ai sensi del codice egizio quelli non hanno dominio su te. str. III Non voglio finire nel pugno di prepotenza d'uomo. Ci sarà sotto il sole mezzo qualunque a sottrarmi al connubio, all'orrore! Preferisci allearti a Giustizia! Decidi: rispetto verso gli dèi! È critico discriminare così. Non dirmi: «Discrimina tu!». Ripeto: non posso risolvere il caso senza popolo, anche se io sono re. Guai se la folla dicesse - chissà, può mettersi male -: «Pellegrine ossequiasti: e sfacesti lo Stato!».

9 Ostacoli atroci, da punti diversi. Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo che salva. Se non compio la vostra preghiera, minacci una peste che varca il mio raggio mentale. Se invece resisto agli Egizi - al tuo ceppo - immoto davanti ai bastioni, e duello allo stremo, che spreco amaro, pungente quel sangue d'uomo che chiazza la terra per colpa di donne! Non ho scelta. Spaventa il rancore di Zeus delle Suppliche. Anzi, è panico vertiginoso per gli esseri umani. Tu, padre venerando di queste giovani donne, abbraccia subito le frasche, posale su ogni braciere dei Potenti patroni di Argo. Che ognuno, in città, scorga l'emblema del vostro viaggio, e la mia scelta non abbia contrasti: piace alla piazza criticare il governo. Dallo spettacolo, sorge certo un senso pietoso; e rabbia, per l'oltraggio brutale del branco di maschi. Il popolo può farsi più indulgente con voi. Sui fragili si riversa l'indulgenza dell'uomo. DANAO Non ha prezzo, per noi, l'incontro, il legame con chi, umano, ci offre l'asilo. Affiancami guide, e i vostri scudieri, a dirmi la strada ai templi di Argo, agli altari davanti ai sacrari di dèi cittadini, alle sedi degli dèi cittadini; non s'intralci il cammino attraverso i sobborghi. Non è uguale lo stampo delle nostre figure. Il Nilo cresce semenza che non è quella d'inaco. Attento, passo spavaldo rischia di farsi terrore. Uno non sa e abbatte l'amico. È successo. In marcia, seguaci. Ragiona bene il nuovo arrivato. Conducetelo ai pubblici altari, culla dei numi. Se incrociate persone, nessuna parola di troppo: state scortando ai santi bracieri uno sorto dal mare. Danao in mezzo alla scorta s'allontana. Per lui hai disposto. Sa che fare. Proceda. Ma io, io che decido? Che luogo m'assegni, a farmi sentire sicura? Deponi le fronde, traccia della tua passione. Le poso. Al tuo braccio le affido, alla tua ragione. Passa quaggiù, dove l'area sacra si spiana. È lo spiazzo comune. Può farci da scudo? Non ti lascio agli artigli di uccelli da preda. Oh, e ai bruti peggiori dei rettili freddi? Ti si augura bene: solo di bene dovresti parlare. Non meravigliarti. Ho un incubo dentro, e rilutto. Propri di donne i terrori ossessivi. Placaci tu, con la voce e col braccio. Bene. Vedrai, il padre non ti lascia sola per troppo. Per me, m'avvio, raduno gli uomini d'argo, preparo il paese a darti soccorso. Intanto, ispiro a tuo padre le parole più adatte. Tu fermati qui. Snoda preghiere agli dèi cittadini, d'avere fortuna in quanto più brami. Io devo andare, concludere tutto. Convinzione sia mia scudiera, con Fortuna che ottiene. Il Re esce.

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