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1 PARTE PRIMA I Il sogno è una seconda vita. Non ho mai varcato senza tremare le porte d'avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile. I primi istanti del sonno sono l'immagine della morte: un nebuloso torpore si impossessa del nostro pensiero e non riusciamo a determinare l'istante preciso in cui l'io, sotto altra forma, continua l'opera dell'esistenza. È come un sotterraneo indefinito che poco per volta si rischiara e dove dall'ombra e dalla notte si liberano le figure gravemente immobili che abitano le dimore del limbo. Poi il quadro prende forma, un chiarore nuovo illumina e anima quelle bizzarre apparizioni - il mondo degli Spiriti si spalanca davanti a noi. Swedenborg, che doveva tali visioni più spesso al fantasticare che al sonno, le chiamava Memorabilia; l'asino d'oro di Apuleio, la Divina Commedia di Dante sono i poetici modelli di questi studi dell'anima umana. Tenterò, secondo il loro modello, di trascrivere le impressioni di una lunga malattia che si è svolta tutta quanta nel mistero del mio spirito - e non so perché io mi serva di questo termine malattia, perché mai, per quanto mi concerne, io mi ero sentito meglio. Qualche volta mi sembrava che la mia forza e la mia attività fossero raddoppiate; mi pareva di sapere tutto, di capire tutto: l'immaginazione mi era apportatrice di delizie infinite. Recuperando quella che gli uomini chiamano la ragione, bisognerà dunque rimpiangere di averle perdute? Questa Vita Nuova ha avuto per me due fasi: ecco le note che concernono la prima. Una donna che avevo a lungo amata, e che chiamerò Aurelia, era per me perduta. Poco importano le circostanze di questo avvenimento che doveva avere una così grande influenza sulla mia vita. Cerchi ognuno nei suoi ricordi l'emozione più straziante, il colpo più duro inferto dal destino alla sua anima: bisogna allora decidersi a morire o a vivere; più tardi dirò perché non abbia scelto la morte. Condannato da colei che amavo, colpevole di un errore del quale non osavo sperare perdono, non mi restava che gettarmi nelle ebbrezze più volgari: ostentavo gioia e spensieratezza, correvo per il mondo follemente assetato di varietà e stravaganze; prediligevo i costumi e le usanze delle popolazioni lontane e mi sembrava in questo modo di spostare le regole del bene e del male; i termini, se così posso dire, di quello che per noi francesi è il sentimento. «Che follia,» mi diceva, «continuare ad amare così, di un amore platonico una donna che non ti ama più! Tutta la colpa è delle mie letture; ho preso sul serio le invenzioni dei poeti e mi sono fatto una Laura e una Beatrice di una donna qualunque del nostro secolo... Passiamo ad altri amori e questo sarà presto dimenticato!» Lo stordimento di un allegro carnevale in una città d'italia scacciò ogni melanconica idea. Ero talmente felice di sentirmi alleviato che facevo partecipi della mia gioia tutti gli amici, e, nelle lettere, presentavo come condizione stabile della mia vita quel che era soltanto sovreccitazione febbrile. Un giorno, in questa città, arrivò una donna di gran reputazione che mi prese a ben volere e che, avvezza a piacere e a primeggiare, mi trascinò facilmente nella cerchia dei suoi ammiratori. Dopo una serata, in cui era stata spontanea e insieme piena di un fascino da cui tutti erano attratti, mi sentii talmente preso che non volli tardare un attimo a scriverle. Ero così felice di sentire il mio cuore capace di un nuovo amore!... In questo fittizio entusiasmo ricorsi alle medesime formule che poco tempo prima mi erano servite per dichiarare un amore vero e lungamente messo alla prova. La lettera era appena partita e io avrei voluto trattenerla; mi misi a meditare in solitudine su ciò che mi pareva una profanazione dei miei ricordi. Ma la sera rese al mio nuovo amore tutto il prestigio della vigilia. La donna si mostrò sensibile a quanto le avevo scritto mostrando però un certo stupore per un fervore troppo improvviso. Avevo toccato in un solo giorno tutti gli stadi del sentimento che, con una certa parvenza di sincerità, si possano concepire per una donna. Mi confessò che la mia lettera l'aveva stupita rendendola nello stesso tempo fiera. Mi provai a convincerla; ma, qualunque cosa volessi dirle, non riuscii mai a trovare nei nostri colloqui il diapason del mio stile, così fui costretto a confessarle, tra le lacrime, che mi ero ingannato ingannandola. Le mie tenere confidenze ebbero tuttavia un certo fascino: a vane dichiarazioni d'amore subentrò un'amicizia più salda nella sua dolcezza. II Qualche tempo dopo la ritrovai in un'altra città dove si trovava la donna che continuavo ad amare senza speranza. Il caso fece sì che si conoscessero e senza dubbio la prima ebbe occasione di intenerire a mio favore colei che mi aveva esiliato dal suo cuore. Di modo che, trovandomi un giorno in una comitiva di cui faceva parte, la vidi venirmi incontro e tendermi la mano. Come interpretare quel gesto e lo sguardo profondo e triste col quale accompagnò il suo saluto? Credetti scorgervi il perdono del passato; il divino accento della pietà dava alle semplici parole che mi rivolse un valore indicibile, quasi che qualche cosa di religioso si mescolasse alle dolcezze di un amore fino a quel momento profano imprimendogli un carattere di eternità. Doveri urgenti mi richiamarono a Parigi, ma presi la decisione di non rimanervi che pochi giorni e di ritornare

2 subito dalle mie due amiche. La gioia e l'impazienza mi procurarono allora una specie di stordimento complicato dalla responsabilità degli affari che dovevo portare a termine. Una sera verso mezzanotte risalivo verso il quartiere dove abitavo quando, alzati per caso gli occhi, notai il numero di una casa illuminato da un lampione. Quel numero era quello della mia età. Subito, abbassato lo sguardo vidi davanti a me una donna dal volto livido, gli occhi affossati che mi pareva avesse i tratti di Aurelia. «Ecco,» mi dissi, «è la sua morte o la mia che mi si annuncia!» Ma non so perché mi fermai sulla seconda ipotesi, colpito dall'idea che sarebbe stato per l'indomani alla medesima ora. Quella medesima notte feci un sogno che rafforzò ancora il mio pensiero. Erravo per un grande edificio composto di molte sale delle quali alcune erano adibite allo studio, altre alla conversazione o alle discussioni filosofiche. Vivamente interessato mi fermai in una delle prime dove mi parve riconoscere i miei antichi maestri e i miei condiscepoli. Le lezioni continuavano su autori greci e latini in un borbottio monotono che sembrava una preghiera alla dea Mnemosine. Passai in un'altra sala dove si tenevano conferenze filosofiche. Vi presi parte per qualche tempo e poi uscii per cercare la mia camera, in una specie di locanda dalle scale immense, piena di viaggiatori indaffarati. Diverse volte fui sul punto di perdermi nei lunghi corridoi, finché, attraversando una delle gallerie centrali, fui colpito da uno spettacolo strano. Un essere di grandezza smisurata - uomo o donna non saprei - volteggiava faticosamente nello spazio e sembrava dibattersi fra dense nubi. Mancandogli il fiato o la forza cadde infine nel cortile oscuro impigliando e lacerando le ali contro i tetti e le balaustre. Potei contemplarlo un istante. Era colorato di vermiglio e le sue ali brillavano di mille riflessi cangianti. Avvolto in una lunga veste dai panneggi antichi rassomigliava all'angelo della Melanconia di Albrecht Durer. Non riuscii a trattenere grida di spavento che mi risvegliarono di soprassalto. Il giorno seguente mi affrettai a visitare i miei amici. In cuor mio facevo loro i miei addii e, tacendo su quanto mi assillava, dissertavo con calore su temi mistici; e li stupivo con un'inconsueta eloquenza, mi sembrava di sapere tutto e che i misteri del mondo mi si rivelassero in quell'ora estrema. La sera, all'avvicinarsi dell'ora fatale, stavo dissertando, al tavolo del circolo con due amici, di pittura e di musica definendo, dal mio punto di vista, la composizione dei colori e il significato dei numeri. Uno di essi, Paolo***, volle riaccompagnarmi a casa, ma gli dissi che non rincasavo. «E dove vai?» mi chiese. «Verso l'oriente!» E mentre mi accompagnava mi misi a cercare in cielo una stella che mi pareva conoscere, come se avesse qualche influenza sulla mia sorte. Trovatala continuai a camminare per le strade nella cui direzione essa era visibile; andavo, per così dire, incontro al mio destino e volevo vedere la stella fino all'attimo in cui la morte mi avrebbe colpito. Giunto all'incrocio di tre strade non volli proseguire. Mi pareva che il mio amico spiegasse una forza sovrumana per smuovermi: si ingigantiva ai miei occhi e prendeva i tratti di un apostolo. Mi sembrava che il luogo dove ci trovavamo si alzasse e perdesse la propria configurazione urbana - su una collina circondata da vaste solitudini questa scena diventava la lotta tra due spiriti e quasi una tentazione biblica. «No,» dicevo, «io non appartengo al tuo cielo. Coloro che mi aspettano sono in quella stella. Essi preesistevano alla rivelazione che mi hai annunciata. Lascia che io li raggiunga. Colei che amo appartiene a loro, lassù dobbiamo ritrovarci!» III Qui ebbe inizio per me quello che chiamerò il dilagare del sogno nella vita reale. Da quel momento tutto assumeva talvolta un duplice aspetto - e questo senza che mai il ragionamento mancasse di logica, senza che la memoria smarrisse i più piccoli dettagli di quanto mi accadeva. Soltanto le mie azioni, insensate in apparenza, obbedivano a ciò, che secondo la ragione umana, si chiama illusione... Sono assillato dal pensiero che, in taluni momenti gravi della vita, uno spirito dell'aldilà si incarni nella forma di una persona qualunque, e agisca o tenti di agire su di noi, senza che questa persona ne abbia coscienza o ne conservi il ricordo. Vedendo tutti i suoi sforzi inutili, e pensandomi preda di qualche idea fissa che camminando si sarebbe calmata, il mio amico mi aveva lasciato. Ritrovatomi solo, mi levai a fatica e ripresi il cammino in direzione della stella dalla quale non distoglievo mai gli occhi. Camminando cantavo un inno misterioso che mi pareva di ricordare come se l'avessi udito in un'altra esistenza e che mi colmava di una gioia ineffabile. Nello stesso tempo mi andavo spogliando dei miei vestiti terrestri e li disperdevo intorno a me. La strada sembrava alzarsi senza posa e la stella ingrandirsi. Poi rimasi a braccia tese aspettando il momento in cui l'anima, attratta nel raggio della stella da una forza magnetica, si sarebbe separata dal corpo. Sentii un brivido; il rimpianto della terra e di coloro che amavo mi strinse il cuore e supplicai con tanto ardore lo Spirito che mi attirava che mi parve di ridiscendere in mezzo agli uomini. Una ronda notturna mi circondava; avevo la sensazione di essere grandissimo, e carico di forze elettriche, pronto a rovesciare tutto quanto mi si avvicinasse. C'era qualche cosa di veramente comico nella cura che prendevo di risparmiare la forza e la vita dei soldati che mi avevano raccolto. Se non pensassi che la missione di uno scrittore consiste nell'analizzare con sincerità quanto sperimenta nelle gravi circostanze della vita, e se non mi proponessi un... fine che credo utile, mi fermerei qui e non cercherei di descrivere quanto provai in seguito in una serie di visioni, forse insensate o semplicemente morbose... Steso su un letto da campo, mi parve vedere il cielo svelarsi e aprirsi in mille aspetti di inaudita magnificenza. Il destino dell'anima liberata sembrava rivelarsi a me quasi a farmi rimpiangere di avere voluto rimettere piede, con tutte le forze dello spirito, sulla terra che stavo lasciando... Cerchi immensi si stavano tracciando

3 nell'infinito, simili alle orbite che forma l'acqua turbata dalla caduta di un corpo; ogni regione, popolata da immagini grandiose, si muoveva e svaniva di volta in volta mentre una divinità, sempre la medesima, gettava lontano sorridendo le maschere furtive delle sue diverse incarnazioni per rifugiarsi alla fine, inafferrabile, nei mistici splendori del cielo dell'asia. Tale celeste visione, per uno di quei fenomeni che ognuno ha potuto sperimentare in certi sogni, non mi lasciava però estraneo a quanto stava succedendo intorno a me. Sdraiato su un letto da campo sentivo i soldati raccontarsi di uno sconosciuto arrestato come me e del quale avevo sentito risuonare la voce in quella stessa sala. Per uno strano effetto di vibrazioni mi sembrava che questa voce risuonasse nel mio petto e che la mia anima si sdoppiasse, per così dire, distintamente divisa tra visione e realtà. Per un attimo pensai di rigirarmi con sforzo verso colui del quale si stava parlando! Poi rabbrividii ricordandomi di una tradizione molto conosciuta in Germania, tradizione secondo la quale ogni uomo ha un suo doppio e quando s'incontra significa che la morte è vicina. Chiusi gli occhi ed entrai in uno stato d'animo confuso dove le figure fantastiche o reali che mi circondavano si frantumavano in mille labili parvenze. Per un attimo vidi accanto a me due dei miei amici che chiedevano di me; i soldati mi indicarono; poi la porta si aprì e qualcuno, della mia statura, e di cui non potevo scorgere il viso, se ne uscì con i miei amici che io invano richiamavo. «Vi sbagliate,» gridavo, «sono venuti a prendere me e se ne vanno con un altro.» Feci un tale fracasso che mi rinchiusero in cella. Vi rimasi per parecchie ore in stato di abbruttimento; infine i due amici che mi era parso di vedere vennero a prendermi in carrozza. Raccontai tutto quello che mi era accaduto, ma essi negarono di essere venuti nella notte. Cenai con loro abbastanza tranquillamente; ma, a mano a mano che la notte si avvicinava, mi sembrava di dover temere la stessa ora che, nella notte precedente, aveva rischiato di essermi fatale. Chiesi a uno dei due di darmi l'anello orientale che portava al dito e che consideravo un antico talismano, e, con un fazzoletto me lo legai al collo avendo cura di far scorrere il castone, che tratteneva una turchese, su un punto dolente della nuca. Secondo me da quel punto la mia anima sarebbe uscita nel preciso istante in cui un certo raggio partito dalla stella scorta il giorno prima, avrebbe coinciso in rapporto a me, con lo zenit. Sia per caso, sia per la grande preoccupazione che mi assillava, nella stessa ora del giorno precedente caddi come fulminato. Mi misero su un letto e per lungo tempo persi il senso e il filo delle immagini che mi si presentavano. Questo stato si protrasse per parecchi giorni. Fui trasportato in una casa di cura. Molti parenti ed amici vennero a visitarmi senza che io me ne accorgessi. La sola differenza tra veglia e sonno era che, nella veglia, tutto ai miei occhi si trasfigurava; le persone che mi si avvicinavano sembravano cambiate, gli oggetti erano avvolti in una penombra che ne modificava le forme, e i giochi di luce, le combinazioni dei colori si scomponevano portandomi a seguire una serie costante di impressioni collegate tra loro e di cui il sogno, più svincolato dagli elementi esterni, prolungava la probabilità. IV Una sera mi parve con certezza di essere trasportato sulle rive del Reno. Di fronte a me si alzavano rocce sinistre di cui nell'ombra intravvedevo la forma. Entrai in una casa ridente in cui, attraverso le persiane verdi incorniciate di pampini, un raggio di sole al tramonto penetrava festoso. Mi sembrò di entrare in una dimora conosciuta, quella di uno zio materno, un pittore fiammingo morto da più di un secolo. Quadri abbozzati erano appesi qua e là: uno rappresentava la celebre fata di quelle rive. Una vecchia serva che chiamavo Margherita e che mi pareva conoscere fin dall'infanzia mi disse: «Perché non vi buttate sul letto? Venite da così lontano e vostro zio rincaserà molto tardi; vi sveglierò all'ora di cena.» Mi coricai in un letto a colonne drappeggiato di tela di Persia a grandi fiorami rossi. Di fronte a me, appeso al muro, c'era un rustico orologio e sopra vi stava appollaiato un uccello che incominciò a parlare come un essere umano. Ero certo che l'anima del mio antenato fosse in quell'uccello; ma non mi stupivo del suo aspetto e del suo linguaggio più di quanto non mi stupissi di essere stato trasportato indietro di un secolo. L'uccello mi parlava di persone della mia famiglia viventi o morte in tempi diversi. Come se esistessero simultaneamente e mi disse: «Vedete vostro zio ha avuto cura di fare il suo ritratto in anticipo; ora lei è con noi.» Volsi gli occhi su un quadro che rappresentava una donna in antico costume tedesco, china sulla riva di un fiume, gli occhi rivolti ad un ciuffo di non ti scordar di me. Intanto la notte si faceva sempre più fonda e i suoni e le parvenze dei luoghi andavano confondendosi nel mio spirito sonnolento: mi pareva precipitare in un abisso che attraversava il globo. Mi sentivo trasportato senza soffrire da una corrente di metallo fuso mentre mille fiumi simili a quello, i cui colori indicavano le differenze chimiche, soffocavano il grembo della terra come i vasi e le vene che serpeggiano tra i lobi del cervello. Scorrevano, circolavano e vibravano tutti allo stesso modo e io sentivo che erano anime vive, allo stato molecolare e che solo il loro rapido fluire mi impediva di discernere. Intanto un chiarore biancastro filtrava poco per volta tra i condotti, finché vidi, come una vasta cupola, slargarsi un nuovo orizzonte dove si disegnavano isole circondate da flutti luminosi. Mi trovai su una costa illuminata da un giorno senza sole e vidi un vecchio che coltivava la terra. In lui riconobbi quello che mi aveva parlato con la voce dell'uccello, e, sia che me lo dicesse, sia che lo capissi da me, mi si chiarì l'idea che gli antenati, per venirci a trovare sulla terra, prendevano le spoglie di alcuni animali, e che assistevano così, muti osservatori, alle fasi della nostra esistenza. Il vecchio abbandonò il lavoro e mi accompagnò a una casa che si ergeva poco distante. Il paesaggio che ci circondava mi ricordava un luogo della Fiandra francese dove i miei genitori avevano vissuto e dove si trovavano le

4 loro tombe; il campo circondato da boschetti al margine del bosco, il lago vicino, il fiume e il lavatoio, la strada in salita, le colline di arenaria con i cespugli di ginestra e di erica - immagine ravvivata di luoghi amati. Solo la casa dove ero entrato mi era sconosciuta. Capii che doveva essere esistita in non so quale tempo e che, nel mondo che stavo visitando, il fantasma delle cose accompagnava il fantasma del corpo. Entrai in una vasta sala dove molte persone stavano riunite. Ovunque vedevo volti conosciuti. I tratti di parenti morti che avevo pianto si trovavano riprodotti in altri, che vestiti di abiti più antichi mi facevano la stessa paterna accoglienza. Pareva che si fossero riuniti per un banchetto di famiglia. Uno di loro mi venne incontro e mi baciò teneramente. Portava un abito antico dai colori sbiaditi, e il suo volto sorridente, sotto i capelli incipriati, aveva una certa rassomiglianza col mio. Mi pareva più decisamente vivo degli altri e, per così dire, in un rapporto più attivo col mio spirito. Era mio zio. Mi fece posto vicino a sé e una sorta di comunicazione si stabilì fra noi: non potrei dire infatti di avere udito la sua voce; solo, a misura che il mio pensiero si poneva una domanda, la risposta diventava immediatamente chiara e le immagini si precisavano ai miei occhi come pitture animate. «È proprio vero!» dicevo raggiante, «noi siamo immortali e conserviamo le immagini del mondo che abbiamo abitato! Che felicità sapere che tutto quello che abbiamo amato esisterà sempre intorno a noi! Ero tanto stanco della vita!» «Aspetta,» mi disse, «aspetta a rallegrarti perché appartieni ancora al mondo di lassù e devi sopportare ancora duri anni di prove. Il soggiorno che ti incanta non è privo di dolori, di lotte, di pericoli. La terra dove siamo vissuti continua a essere il teatro dove si annodano e si snodano i nostri destini; siamo i raggi del fuoco centrale che la anima e che già si affievolisce...» «Che dici? La terra potrebbe dunque morire e noi essere invasi dal nulla?» «Il nulla non esiste,» disse, «nel senso che comunemente si intende; ma la terra è essa stessa un corpo materiale la cui anima è la somma degli spiriti. La materia, come lo spirito, non può perire ma può modificarsi secondo il bene e secondo il male! Il nostro passato e il nostro futuro sono solidali. Viviamo nella nostra stirpe e la nostra stirpe vive in noi.» Immediatamente questa idea mi divenne percettibile, e, come se i muri della sala si fossero spalancati su prospettive infinite, mi sembrò vedere una catena ininterrotta di uomini e di donne nei quali ero, e che a loro volta erano me; i costumi di tutti i popoli, le immagini di tutti i paesi apparivano distintamente e simultaneamente come se le mie possibilità di attenzione si fossero moltiplicate senza confondersi, per un fenomeno di spazio analogo al fenomeno del tempo che concentra un secolo d'azione in un minuto di sogno. Il mio stupore crebbe ancora vedendo che questa immensa enumerazione si componeva soltanto delle persone presenti nella sala e di cui avevo veduto le immagini comporsi e scomporsi in mille fuggitive sembianze. «Siamo sette,» dissi a mio zio. «Questo è infatti il numero tipico di ogni famiglia umana, e, per estensione sette volte sette e così di seguito.» Non posso sperare di rendere chiara questa risposta rimasta anche per me molto oscura. La metafisica non mi fornisce i termini per esprimere la percezione che allora ebbi, del rapporto di un tal numero di persone con l'armonia generale. Nel padre e nella madre si può intuire qualche cosa di analogo alle forze elettriche della natura: ma come stabilire i centri individuali da loro emanati e da cui essi emanano come una figura animica collettiva la cui combinazione sarebbe ad un tempo multipla e chiusa? Tanto varrebbe chiedere conto al fiore del numero dei suoi petali o della divisione delle sue corolle... al terreno delle figure che traccia, al sole dei colori che produce. V Tutto intorno a me mutava forma. Lo spirito stesso, col quale mi intrattenevo non aveva più il medesimo aspetto. Era un giovane e oramai captava da me le idee più di quanto non me le comunicasse... Ma non mi ero forse spinto troppo oltre in quelle vertiginose altitudini? Mi parve di capire che questi problemi erano oscuri o pericolosi anche per gli spiriti di quel mondo che allora percepivo... Forse un potere superiore mi inibiva tali indagini. Mi trovai ad errare per le strade di una città popolosa e sconosciuta. Notai che era tutto un sali e scendi di colline e dominata da un monte coperto di abitazioni. Tra la popolazione di questa capitale mi pareva notare alcuni uomini che sembravano appartenere ad una nazione particolare; il loro portamento vivo, risoluto, i tratti energici mi facevano pensare alle razze indipendenti e guerriere dei paesi di montagna o a quelle di certe isole poco frequentate da stranieri; e tuttavia era proprio in una grande città, in mezzo a una popolazione eterogenea e banale che sapevano conservare la loro indomita individualità. Chi mai erano questi uomini? La mia guida mi fece inerpicare per strade scoscese e rumorose che rimbombavano dei frastuoni di industrie diverse. Salimmo ancora per una lunga rampa di scale, oltre la quale si aprì il panorama. Qua e là terrazze coperte di pergolati, piccoli giardini sui ripiani più spaziosi, tetti, padiglioni dalle sagome leggere, dipinti e scolpiti con capricciosa pazienza: prospettive collegate da lunghe spalliere di rampicanti verdi seducevano la vista e innamoravano lo spirito come una dolcissima oasi, una solitudine ignorata sopra il tumulto e i rumori della città che lassù non erano più che un mormorio. Si è sovente parlato di nazioni proscritte viventi all'ombra delle necropoli e delle catacombe; qui era tutto il contrario, una stirpe felice si era creata questo ritiro amato dagli uccelli, dai fiori, dall'aria pura e dalla luce. «Sono,» mi disse la mia guida, «gli antichi abitanti di questa montagna che domina la città e sulla quale ora ci troviamo. A lungo sono vissuti semplici di costumi, affettuosi, giusti, custodendo le

5 virtù naturali degli albori del mondo. I popoli vicini li amavano e si modellavano sul loro esempio.» Seguendo la mia guida discesi dal punto dove mi trovavo in una di queste alte abitazioni dai tetti confinanti che offrivano un così strano aspetto. Mi pareva che i miei piedi affondassero, attraverso strati successivi, in edifici di età diverse. Queste fantomatiche costruzioni ne scoprivano sempre altre dove si notava il gusto di ciascun secolo e questo mi ricordava gli scavi delle antiche città: solo che qui tutto era arioso, vivo, attraversato da mille giochi di luce. Mi trovai alla fine in una vasta camera dove scorsi un vecchio chino su non so quale lavoro. Nel momento in cui oltrepassavo la soglia un uomo biancovestito, del quale non riuscivo a scorgere il viso, mi minacciò con un'arma che teneva in mano: ma colui che mi accompagnava gli fece cenno di allontanarsi. Pareva quasi che mi si volesse impedire di penetrare il mistero di questo rifugio. Senza nulla chiedere alla mia guida capii allora per intuito che quelle alture e quelle profondità erano il rifugio dei primitivi abitanti della montagna. Continuando a sfidare la marea crescente delle nuove stirpi, seguitavano a vivere lì, semplici di costumi, affettuosi e giusti, abili e saldi e ingegnosi, - e pacificamente vittoriosi delle cieche masse che avevano tante volte invaso il loro retaggio. Ebbene! Né corrotti, né distrutti, né schiavi! Puri, anche avendo debellato l'ignoranza! conservando nel benessere la virtù della povertà! Un bambino giocava per terra con cristalli, conchiglie, pietre incise facendo diventare gioco quello che avrebbe dovuto essere studio. Una donna anziana, ma ancora bella, si occupava della casa; in quel momento parecchi giovani entrarono chiassosamente come se tornassero dal lavoro. Mi faceva stupore vederli tutti vestiti di bianco, ma forse era solo un'illusione ottica; infatti, perché avvertissi l'inganno, la mia guida si mise a dipingere i loro vestiti tingendoli di vivi colori e facendomi così capire che erano così nella realtà. Il bianco, che era per me motivo di stupore, proveniva, forse, da una luminosità particolare, da un gioco di luci nel quale si confondevano i colori ordinari del prisma. Uscii dalla stanza e mi trovai su una terrazza trasformata a giardino; bambine e bambini passeggiavano e giocavano. I loro abiti mi parevano bianchi come quelli di tutti gli altri, ma abbelliti da ricami di color rosa. Queste creature erano così belle, i loro tratti così graziosi e lo splendore della loro anima traspariva così vivido attraverso le forme delicate che ispiravano tutte quante una specie di amore senza preferenze e senza desideri, un amore che riassumeva tutti i turbamenti delle vaghe passioni della giovinezza. Non saprei ridire il sentimento che provavo in mezzo a questi esseri cari al mio cuore senza che mai li avessi conosciuti. Gli occhi di questa sorta di famiglia primitiva e celeste cercavano i miei con dolce pietà. Scoppiai a piangere a calde lacrime come al ricordo di un paradiso perduto. E sentii allora amaramente che in questo mondo caro e remoto ad un tempo non ero che un viandante e rabbrividii al pensiero di dover tornare alla vita. Invano donne e bambini mi si stringevano intorno quasi a trattenermi. Già le loro splendide forme svanivano in confusi vapori; i bei visi impallidivano e i limpidi tratti, gli occhi brillanti si perdevano in un'ombra nella quale risplendeva ancora l'ultimo lampo di un sorriso... Questa fu la visione, o questi almeno i principali dettagli di cui conservo il ricordo. Lo stato catalettico nel quale ero piombato per diversi giorni mi venne spiegato scientificamente; i racconti di coloro che mi avevano visto in questo stato mi irritavano quando sentivo attribuire ad aberrazione gesti e parole che corrispondevano alle diverse fasi di quella che era per me una sequenza assolutamente logica. Preferivo quegli amici che, o per pazienza compiacente, o per idee analoghe alle mie, mi lasciavano fare lunghi racconti delle cose che avevo vedute in ispirito. Uno di essi mi chiese piangendo: «È vero che c'è un Dio?» «Sì,» gli risposi con entusiasmo. E ci abbracciammo quali fratelli della mistica patria che avevo intravveduta. Quale felicità trovai immediatamente in questa convinzione! Così l'eterno dubbio sull'immortalità che tormenta gli spiriti maggiori era risolto per me! Non più morte, non più tristezza, non più inquietudine. Coloro che amavo, parenti, amici mi davano segni certi della loro esistenza eterna e non ero separato da loro altro che dalle ore del giorno. Aspettavo quelle della notte in uno stato di dolce malinconia. VI Un altro sogno ancora mi confermò nella mia convinzione. Mi trovavo di colpo in una sala della casa del mio avo. Solo sembrava diventata più grande. I vecchi mobili brillavano di un meraviglioso splendore, tappeti e tende erano come rimessi a nuovo, una luce tre volte più viva di quella naturale entrava dalla finestra e dalla porta, e c'era nell'aria una freschezza e un profumo simile a quello dei primi tiepidi mattini di primavera. Tre donne lavoravano in quella camera e rappresentavano, senza essere per nulla rassomiglianti, parenti e amiche della mia giovinezza. Era come se ognuna di loro avesse i tratti di più persone. I contorni delle loro figure erano cangianti come la fiamma di una lampada e ad ogni momento qualcosa dell'una passava nell'altra: il sorriso, la voce, il colore degli occhi e dei capelli, la statura, i gesti consueti, tutto si scambiava tra loro come se vivessero un'unica vita; di modo che ognuna era il composto di tutte, come quei tipi che i pittori imitano da diversi modelli per realizzare una bellezza completa. La più vecchia mi parlava con voce vibrante e melodiosa che riconoscevo per averla udita nell'infanzia e non so cosa mi dicesse che mi colpiva per la sua profonda esattezza. Questa voce richiamò il mio pensiero su me stesso e mi vidi vestito di un abitino scuro di foggia antiquata, tessuto con fili sottili come quelli di una ragnatela. Era grazioso, civettuolo e impregnato di odori soavi. Mi sentivo ringiovanito e tutto baldanzoso in quell'abito che usciva dalle loro dita fatate, e arrossendo come se fossi stato un bambino davanti a delle belle e grandi dame le ringraziai. Allora una di

6 loro si alzò e si diresse verso il giardino. Nei sogni, lo sappiamo, non si vede mai il sole benché si possa sovente avere la sensazione di un chiarore ancora molto più vivo. Oggetti e corpi sono luminosi di per sé. Mi vidi in un piccolo parco nel quale si alzava un pergolato a volta, carico di pesanti grappoli di uve bianche e nere, mentre la dama che mi guidava avanzava sotto il pergolato l'ombra dei pampini intrecciati variava ai miei occhi le sue forme e le sue vesti. Finalmente uscì da quell'ombra e ci trovammo in uno spiazzo scoperto; vi si scorgeva appena la traccia di vecchi viali che un tempo l'avevano tagliato in croce. La coltivazione era stata abbandonata da molti anni e piante sparse di clematidi, di luppoli, di caprifoglio, di gelsomino, di edera, di aristolochia stendevano fra gli alberi vigorosi i loro lunghi strascichi di liane. Carichi di frutti i rami si piegavano fino a terra e in mezzo a ciuffi di erbe parassite sbocciava qualche fiore di giardino ritornato allo stato selvaggio. Qua e là si ergevano gruppi di pioppi, di acacie e di pini in mezzo ai quali si intravvedevano statue che il tempo aveva annerito. Scorsi infine davanti a me un ammasso di rocce coperte di edera dove zampillava una sorgente d'acqua viva che risuonava con un gorgoglio armonioso in una vasca d'acqua stagnante a metà nascosta dalle larghe foglie delle ninfee. La dama che seguivo, protendendo la persona slanciata in un movimento che faceva luccicare le pieghe del suo vestito di taffetà cangiante, circondò graziosamente col braccio nudo un lungo stelo di malvarosa e poi, sotto un fulgido raggio di luce, incominciò a ingrandirsi tanto che a poco a poco il giardino assumeva la sua forma, e le aiuole e gli alberi diventavano i merletti e i festoni delle sue vesti, mentre volto e braccia imprimevano i loro contorni alle purpuree nuvole del cielo. Così, a mano a mano che si trasfigurava, io la perdevo di vista, poiché svaniva nella sua grandezza. «Oh, non fuggire,» gridai, «la natura morirà insieme a te!» Dicendo queste parole camminavo a fatica attraverso i rovi quasi per afferrare l'ombra ingigantita che mi sfuggiva. Urtai contro un lembo scalcinato di muro ai piedi del quale giaceva un busto di donna. Sollevandolo ebbi la certezza che fosse il suo. Ravvisai i tratti amati e, girando gli occhi intorno, vidi che il giardino aveva preso un aspetto di un cimitero. Delle voci dicevano: «L'universo è nella notte!» VII Quel sogno così lieto al suo inizio finì col gettarmi in una grande perplessità. Cosa mai poteva significare? Non lo seppi che più tardi. Aurelia era morta. In un primo tempo seppi solo della sua malattia, e a causa del mio stato mentale, non ne provai che un dolore vago, misto a speranza. Credevo di non avere io stesso che poco tempo da vivere e avevo oramai la certezza dell'esistenza di un mondo dove i cuori che si amano si sarebbero ritrovati. D'altra parte essa mi apparteneva molto più nella morte che nella vita... Egoistico pensiero che la mia ragione doveva in seguito pagare con amari rimpianti. Non vorrei abusare dei presentimenti: il caso gioca strani tiri. Ma in quei giorni mi angosciava un ricordo della nostra troppo rapida unione. Le avevo regalato un anello antico nel quale era incastonato un opale tagliato a forma di cuore. L'anello era troppo grande per il suo dito ed allora ebbi la malaugurata idea di farlo tagliare per rimpicciolirne il diametro. Mi resi conto del mio errore sentendo il rumore della sega; mi pareva veder colare sangue... Le cure mi avevano ridata la salute senza ricondurre però la mia mente al corso regolare della ragione umana. La casa dove mi trovavo, situata su un'altura, era circondata da un grande giardino di alberi rari. L'aria pura della collina i primi soffi della primavera, la dolcezza di una compagnia tutta quanta simpatica, mi portarono lunghi giorni di calma. Le prime foglie dei sicomori, screziate come le penne dei galli faraoni, mi incantavano con la vivacità dei loro colori. La vista che spaziava sulla pianura offriva mattino e sera orizzonti incantevoli dai colori sfumati che allietavano la mia immaginazione. Popolavo poggi e nuvole di figure divine delle quali mi pareva intravvedere distintamente le forme. Volli fissare ancora di più i miei pensieri favoriti e, con l'aiuto di pezzi di carbone e di mattoni che raccoglievo per terra, ricoprii i muri di una serie di disegni nei quali realizzavo le mie impressioni. Una figura sempre dominava tutte le altre: era quella di Aurelia che disegnavo con i lineamenti di una divinità, quale mi era apparsa in sogno. Una ruota girava sotto i suoi piedi e gli dei le facevano corteggio. Riuscii a colorare questo gruppo spremendo il succo di erbe e di fiori. Quanto ho sognato davanti a quel caro idolo! Feci ancora di più: tentai di modellare con della terra il corpo di colei che amavo: ogni mattino il mio lavoro doveva essere rifatto perché i pazzi, gelosi della mia felicità, si divertivano a distruggerne l'immagine. Mi fu data della carta e allora, per un lungo periodo, mi sforzai di rappresentare con migliaia di figure accompagnate da racconti, da versi e da iscrizioni in tutte le lingue dello scibile, una specie di storia del mondo composta da ricordi di studio e da frammenti di sogno che la mia ossessione rendeva più tangibili o dei quali prolungava la durata. Non mi basavo su quelle che sono le moderne tradizioni della creazione. Il mio pensiero andava al di là: come in un ricordo, intravvedevo il primo atto stipulato dai genii mediante i talismani. Avevo tentato di ricomporre le pietre della Sacra tavola e di raffigurarvi intorno i primi sette Elohim che si erano divisi il mondo. Tale metodo storico, preso dalle tradizioni orientali, aveva inizio con il felice accordo delle potenze della natura che formulavano e organizzavano l'universo. Nella notte che precedette questo lavoro mi sentii trasportato in un oscuro pianeta sul quale si dibattevano i primi germi della creazione. Dal seno dell'argilla ancora molle si alzavano

7 palme gigantesche, euforbie venefiche e acanti attorcigliati intorno ai cactus. Le aride sagome delle rocce si slanciavano come scheletri da quell'abbozzo di creazione, mentre rettili orribili strisciavano, si allungavano o si arrotolavano fra la rete inestricabile di una vegetazione selvaggia. Solamente la pallida luce degli astri rischiarava le azzurre prospettive di questo inusitato orizzonte; tuttavia a mano a mano che le creazioni prendevano forma, una stella più luminosa attingeva da loro i germi della luce. VIII Poi i mostri mutavano forma e spogliandosi della prima pelle si ergevano più potenti sulle zampe gigantesche; con la massa enorme dei corpi spezzavano i rami e il fogliame e, nel disordine della natura si slanciavano in combattimenti ai quali io stesso prendevo parte, poiché avevo un corpo mostruoso come il loro. Poi di colpo una strana armonia risuonava in quelle solitudini e pareva che i gridi, i ruggiti, i sibili confusi di quegli esseri primitivi si modulassero su quest'aria divina. Le variazioni si succedevano all'infinito, il pianeta poco per volta si rischiarava, forme divine si disegnavano sui prati e nelle profondità dei boschetti, e, oramai domati, i mostri che avevo veduti si spogliavano delle loro forme bizzarre per diventare uomini e donne; altri, nella loro trasformazione assumevano l'aspetto di bestie selvagge, di pesci, di uccelli. Chi dunque aveva operato questo miracolo? Una dea risplendente guidava, in questa nuova avatara, la rapida evoluzione degli esseri umani. Da allora si stabilì una distinzione di razze che, partendo dall'ordine degli uccelli comprendeva anche le bestie, i pesci, i rettili: erano i geni del male, le fate, le ondine e le salamandre; ogni volta che uno di questi esseri moriva rinasceva tosto in una forma più bella e cantava la gloria degli dei. Uno degli Elohim però pensò di creare una quinta razza composta di elementi della terra e che fu chiamata degli Afriti. Fu il segnale di una completa rivoluzione fra gli Spiriti che non vollero riconoscere i nuovi padroni del mondo. Non so quante migliaia di anni durarono questi combattimenti che insanguinarono il globo. Tre degli Elohim con gli Spiriti della loro razza furono alla fine relegati nella parte meridionale della terra dove fondarono vasti regni. Avevano portato con loro i segreti della divina cabala che collega i mondi e prendevano forza dall'adorazione di certi astri con i quali erano in comunicazione. Banditi ai confini della terra questi negromanti si erano accordati per trasmettersi il potere. Ognuno dei loro sovrani, circondato di donne e di schiavi, si era assicurato la rinascita sotto le spoglie di un figlio. La loro vita durava mille anni. Cabalisti potenti li rinchiudevano, all'avvicinarsi della loro morte, in sepolcri ben custoditi dove li nutrivano di elisir e di sostanze conservanti. A lungo ancora mantenevano le apparenze della vita, poi simili alla crisalide che fila il proprio bozzolo, si addormentavano per quaranta giorni per rinascere sotto le spoglie di un bambino che più tardi era chiamato al potere. Tuttavia nutrendo quelle famiglie, nelle quali era sempre il medesimo sangue a fluire in nuovi germogli, le forze vivificatrici della terra andavano esaurendosi. In vasti sotterranei scavati sotto gli ipogei e sotto le piramidi quei re avevano accumulato tutti i tesori delle stirpi passate e certi talismani che dovevano proteggerli dalla collera degli dei. Era al centro dell'africa, al di là dei monti della Luna e dell'antica Etiopia che questi strani misteri avevano luogo; a lungo anch'io vi avevo languito in prigionia come tutta una parte della razza umana. I boschetti che avevo veduti così verdi non portavano più che pallidi fiori e fogliame appassito; un sole implacabile divorava queste contrade e i deboli figli di queste inestinguibili dinastie sembravano oppressi dal peso della vita. La grandezza imponente e monotona regolata dall'etichetta e dalle cerimonie ieratiche pesava su tutti senza che nessuno osasse sottrarsi. I vecchi languivano sotto il peso delle corone e degli ornamenti imperiali tra medici e preti la cui sapienza garantiva loro l'immortalità. Quanto al popolo, incasellato per sempre in una divisione di caste, non poteva contare né sulla vita né sulla libertà. Ai piedi degli alberi colpiti da morte o da sterilità, alle bocche delle sorgenti inaridite, sull'erba bruciata si vedevano appassire giovanette e bambini pallidi e affranti. Lo splendore delle stanze regali, la maestà dei porticati, lo sfarzo delle vesti e dei paramenti non erano che deboli consolazioni alla eterna noia di quelle solitudini. Ben presto la popolazione fu decimata dalle malattie, bestie e piante morirono e gli immortali stessi deperirono sotto le vesti pompose. E d'un tratto un flagello più grande degli altri sopravvenne a ringiovanire il mondo e a salvarlo. La costellazione di Orione aprì in cielo le cataratte; la terra troppo carica dei ghiacci del polo opposto, fece un mezzo giro sopra se stessa e i mari, oltrepassate le rive, rifluirono sui pianori dell'africa e dell'asia; l'inondazione si infiltrò nelle sabbie, invase tombe e piramidi e per quaranta giorni un'arca misteriosa vagò sui mari portando la speranza di una nuova creazione. Tre degli Elohim si erano rifugiati sulle cime più alte delle montagne dell'africa. Fra di loro si ingaggiò un combattimento; la mia memoria qui si confonde e io non so quale fu l'esito di quella lotta suprema. Vedo ancora soltanto, in piedi, su un picco lambito dalle acque una donna abbandonata, una donna che grida con i capelli sparsi e si dibatte contro la morte. I suoi accenti disperati dominano il fragore delle acque... Fu salvata? Non lo so. Gli dei suoi fratelli l'avevano condannata, ma sopra la sua testa brillava la Stella della sera riversandole sulla fronte raggi infiammati. L'inno interrotto della terra e dei cieli risuonò armoniosamente a consacrare l'accordo delle nuove stirpi. E, mentre i figli di Noè lavoravano faticosamente ai raggi di un nuovo sole, i negromanti chiusi nelle loro dimore sotterranee continuavano a custodire i loro tesori compiacendosene nella notte e nel silenzio. Qualche volta uscivano timidamente dai loro asili e venivano a spaventare i viventi o a diffondere fra i cattivi le funeste lezioni della loro

8 scienza. Erano questi i ricordi che, in una specie di vaga intuizione del passato, io venivo tracciando; e tremavo nel descrivere le laide fattezze di quella razza maledetta. Per ogni dove moriva o piangeva o languiva la sofferente immagine della Madre Eterna. Nel corso confuso delle civiltà dell'asia e dell'africa sempre si rinnovava la scena sanguinosa di orgia e di massacro che gli stessi spiriti riproducevano sotto nuovi aspetti. L'ultima volta la scena avveniva a Granada dove il sacro talismano rovinava sotto i colpi dei Cristiani e dei Mori. Quanti anni ancora il mondo dovrà soffrire? Poiché occorre che la vendetta di questi eterni nemici si rinnovi sotto altri cieli. Sono i tronconi del serpente che si avvolgono intorno alla terra... Separati dal ferro, si ricongiungono in un orribile abbraccio, cementato dal sangue degli uomini. IX Queste furono le immagini che di volta in volta apparivano davanti ai miei occhi. A poco a poco la calma era ritornata nel mio spirito e lasciai quella dimora che era per me il paradiso. Circostanze fatali dovevano preparare molto tempo dopo una ricaduta che rinnovò la serie interrotta di queste strane visioni. Passeggiavo per la campagna preoccupato per un lavoro che aveva attinenza con idee religiose. Passando davanti ad una casa udii un uccello parlare; ripeteva qualche parola che gli era stata insegnata, ma quel confuso chiacchericcio mi parve avesse un senso. Mi ricordava l'uccello della visione che ho raccontato prima e un brivido di cattivo augurio mi percorse. Fatto qualche passo, incontrai un amico che non vedevo da molto tempo e che abitava in una casa vicina. Volle farmi visitare la sua proprietà e ad un certo punto mi fece salire su una terrazza sopraelevata che dominava un vasto panorama. Era il tramonto. Nello scendere gli scalini di una scala rustica misi il piede in fallo e andai a sbattere col petto contro lo spigolo di un mobile. Ebbi forza abbastanza da rialzarmi ma, credendomi colpito a morte, mi slanciai nel giardino, volendo, prima di morire, gettare ancora uno sguardo al sole che tramontava. Fra i molti rimpianti che un simile momento porta con sé, mi sentivo felice di morire così, a quell'ora, in mezzo agli alberi, ai pergolati, ai fiori di autunno. Si trattò solo di uno svenimento, passato il quale ebbi ancora la forza di ritornare a casa e mettermi a letto. Mi prese la febbre e pensando al punto dal quale ero caduto mi rammentai che il paesaggio che avevo ammirato dava su un cimitero, quello stesso dove si trovava la tomba di Aurelia. In quel momento io non ci pensavo affatto, se no potrei attribuire la mia caduta all'impressione provocatami da tale vista. Questo fatto suscitò in me l'idea di una fatalità ancora più ineluttabile. Ancora di più rimpiangevo che la morte non mi avesse congiunto a lei. Poi, ripensandoci, mi dissi che non ne ero degno. Considerai con amarezza la vita che avevo condotto dopo la sua morte, rimproverandomi non di averla dimenticata, ciò che mai era avvenuto, ma di avere con facili amori fatto oltraggio alla sua memoria. Pensai di interrogare il sonno; ma la sua immagine che tante volte mi era apparsa non ritornava più nei miei sogni. Non ebbi da prima che visioni confuse mischiate a scene di sangue. Mi sembrava che in mezzo a quel mondo ideale, visto altre volte e di cui lei era la regina, si fosse scatenata una stirpe fatale. Lo stesso Spirito che mi aveva minacciato - quando ero entrato nella dimora delle pure famiglie che abitavano le alture della Città Misteriosa - mi passò dinnanzi non più nel candido vestito che indossava una volta come gli altri della sua razza, ma vestito come un principe dell'oriente. Mi slanciai su di lui minacciandolo, ma lui si girò con tutta tranquillità verso di me. Oh terrore! Oh rabbia! Era il mio volto, era, idealizzato e ingrandito il mio stesso aspetto... Allora mi sovvenni di colui che era stato arrestato nella medesima notte in cui ero stato arrestato io e che, secondo me, era stato fatto uscire dal corpo di guardia sotto il mio nome, quando i miei due amici erano venuti a prendermi. Lo Spirito portava un'arma della quale distinguevo male la forma, quando uno di coloro che l'accompagnavano disse: «E con quella l'ha colpito.» Non so come spiegare che per me gli eventi terrestri potevano coincidere con quelli del mondo soprannaturale, cosa più facile da sentire che da spiegare chiaramente. Ma chi era dunque questo spirito che era me, e al di fuori di me? Era il mio doppio di cui parlano le leggende o era quel mistico fratello che gli orientali chiamano Ferouer? Non mi era forse noto il racconto di quel cavaliere che combatte per tutta una notte nella foresta con uno sconosciuto che era lui stesso? Di qualunque cosa si tratti credo che l'immaginazione umana non abbia mai inventato nulla che non sia vero, in questo mondo o negli altri, e non potevo mettere in dubbio ciò che avevo visto così distintamente. Una terribile idea mi assalì: «L'uomo è doppio,» mi dissi. «Sento due uomini in me,» ha scritto un Padre della Chiesa. In un corpo che anch'esso offre alla vista due porzioni simili riprodotte in tutti gli organi della sua struttura, il concorso di due anime ha deposto questo germe misto. In ogni uomo c'è uno spettatore e un attore, colui che parla e colui che risponde. Gli orientali hanno veduto in questo due nemici; il buono e il cattivo genio. «Sono io il buono? sono il cattivo? In ogni caso l'altro mi è ostile... Chissà che non ci sia qualche circostanza o qualche età in cui questi due spiriti si separino. Uniti tutti e due al medesimo corpo da una affinità materiale forse uno è promesso alla gloria e alla felicità, l'altro all'annientamento o alla sofferenza eterna?» Un funesto lampo attraversò ad un tratto questa oscurità... Aurelia non era più mia... Mi sembrava sentir parlare di una cerimonia che si stesse svolgendo altrove e dei preparativi di un mistico matrimonio, che era il mio ma di cui l'altro, per errore dei miei amici e della stessa Aurelia, avrebbe approfittato. Le persone più care che venivano a trovarmi e a consolarmi mi parevano preda all'incertezza: vale a dire che le due parti della loro anima erano divise nei miei confronti, una affezionata e fiduciosa, l'altra come morta. Nei discorsi di queste persone c'era come un doppio significato benché non se ne rendessero conto, dato che non erano come me, in ispirito. Per un attimo pensando ad Anfitrione ed a Sosia questa idea mi parve persino comica. Ma se questo

9 grottesco simbolo fosse altra cosa? Se, come in altre favole dell'antichità, sotto una maschera di follia si fosse celata una fatale verità? «Ebbene,» mi dissi «lottiamo contro lo spirito funesto, lottiamo contro la divinità stessa con le armi della tradizione e della scienza. Qualunque cosa si trami nell'ombra e nella notte io esisto e per vincere ho ancora tutto il tempo che mi è dato vivere sulla terra.» X Come descrivere la strana disperazione in cui a poco a poco queste idee mi fecero piombare? Un cattivo genio aveva preso il mio posto nel mondo delle anime: Aurelia lo credeva me e il desolato spirito che vivificava il mio corpo, indebolito, spregiato, ignorato da lei si vedeva per sempre destinato alla disperazione e al nulla. Per penetrare più addentro nel mistero del quale avevo sollevato qualche velo, adoperavo tutte le forze della mia volontà. I sogni si facevano sovente gioco dei miei sforzi e mi portavano solo immagini distorte e fuggitive. Qui non posso dare che una idea assai bizzarra di ciò che la tensione del mio spirito produsse. Mi sentivo come scivolare su un filo teso d'infinita lunghezza. La terra, attraversata dalle vene colorate di metalli in fusione, che già una volta avevo visto, diventava poco per volta più chiara per lo svilupparsi del fuoco centrale, e questo chiarore si fondeva al cremisi che colorava la superficie interna dell'orbe. Mi stupiva incontrare di tanto in tanto vaste pozze d'acqua, sospese come lo sono le nuvole nell'aria e nello stesso tempo così dense da poterne staccare dei fiocchi. Ma era evidente che si trattava qui di un liquido differente dall'acqua terrestre e senza dubbio emanazione di quello che, per il mondo degli spiriti, erano il mare e i fiumi. Arrivai infine in vista di una larga spiaggia montuosa e tutta ricoperta di canne verdastre, ingiallite sulla cima come se la vampa del sole le avesse in parte disseccate; ma non vidi il sole nemmeno questa volta. Un castello dominava il pendio per il quale mi inerpicai. Sull'altro versante si stendeva un'immensa città. Mentre attraversavo la montagna, era sopravvenuta la notte e scorgevo i lumi delle abitazioni e delle strade. In fondo alla discesa mi trovai in un mercato dove si vendevano frutti e legumi simili a quelli del Sud. Scesi per una scala buia e mi trovai per le strade. Vi si affiggevano manifesti per l'inaugurazione di un casinò e i programmi degli spettacoli erano divisi per paragrafi; la cornice tipografica era fatta di ghirlande così ben disegnate e dipinte da sembrare vere. Una parte dell'edificio era ancora in costruzione. Entrai in una officina; qui gli operai erano intenti a modellare con argilla un enorme animale dalla forma di lama, ma che sembrava dovesse essere munito di ali. Il mostro era come attraversato da un getto di fuoco che poco per volta lo animava e sotto il quale si torceva penetrato da mille filamenti purpurei, essi formavano vene e arterie e fecondavano, per così dire, l'inerte materia che all'istante si rivestiva di una vegetazione di appendici fibrose, di pinne e di ciuffi lanosi. Mi arrestai a contemplare questo capolavoro in cui pareva fossero stati colti i segreti della creazione divina... «Qui,» mi si disse, «abbiamo il fuoco primitivo che animò i primi esseri... Una volta si innalzava fino alla superficie della terra ma poi le sorgenti si sono inaridite...» Vidi anche lavori di oreficeria nei quali si adoperavano due metalli sconosciuti sulla terra; uno rosso che pareva corrispondere al cinabro e l'altro azzurro pallido. Gli ornamenti non erano né martellinati né cesellati, ma prendevano forma, colore e sviluppo come piante metalliche nate da amalgami chimici. «Non si potrebbero creare così anche gli uomini?» chiesi a uno degli operai, ma egli mi rispose: «Gli uomini vengono dall'alto, non dal basso: possiamo forse creare noi stessi? Qui non facciamo altro che formulare, attraverso i progressi successivi della nostra arte, una materia più sensibile di quella che compone la crosta terrestre. Questi fiori che vi sembrano veri, questo animale che vi sembrerà vivere, non sono altro che prodotti dell'arte portata al punto più alto delle nostre cognizioni, e ognuno li giudicherà come tali.» Queste pressappoco le parole che mi furono dette o delle quali credetti di percepire il senso. Mi misi a percorrere allora la sala del casinò e vidi una grande folla in cui scorgevo persone conosciute, alcune viventi, altre morte in tempi diversi. Le prime sembravano non vedermi, mentre le altre mi rispondevano con l'aria di non conoscermi. Ero arrivato nella sala più grande tutta tappezzata di velluto rosso vivo con strisce tramate d'oro che formavano ricchi disegni. Al centro stava un divano a forma di trono. Alcuni passando vi si lasciavano cadere per provarne l'elasticità: ma, non essendo terminati i preparativi, tutti si dirigevano verso le altre sale. Si mormorava di un matrimonio e dello sposo, che, si diceva, doveva arrivare per dare inizio alla festa. Subito una insensata esaltazione si impadronì di me. Immaginavo che l'uomo atteso fosse il mio doppio che doveva sposare Aurelia, feci uno scandalo che gettò tutti i presenti nella costernazione. Parlavo in modo concitato, spiegavo i miei crucci e invocavo l'aiuto di quanti mi conoscevano. Un vecchio mi disse: «Ma non ci si comporta così! state spaventando tutti quanti!» Allora urlai: «So, so che egli già una volta mi ha colpito con le sue armi. Ma ora lo aspetto senza paura e conosco il segno che lo vincerà.» A questo punto uno degli operai del laboratorio che avevo visitato entrando, apparve portando una lunga sbarra con l'estremità formata da una palla rovente. Volli gettarmi su di lui, ma la sfera che teneva in resta continuava a minacciare il mio capo. Mi pareva che tutti intorno schernissero la mia impotenza... Allora indietreggiai fino al trono, e, l'animo pieno di indicibile orgoglio, alzai il braccio per fare un gesto che mi pareva carico di un magico potere. Un grido di donna distinto, vibrante, pieno di indicibile dolore mi svegliò di soprassalto. Si spensero sulle mie labbra le sillabe della parola sconosciuta che stavo per pronunciare... Saltai giù dal letto e mi misi a pregare con fervore, piangendo a calde lacrime. Ma quale era dunque la voce che aveva risuonato così dolorosamente nella notte? Non apparteneva al sogno; era la voce di una persona viva, e tuttavia per me era la voce e l'accento di Aurelia...

10 Spalancai la finestra; tutto era tranquillo ed il grido non si ripeté. Mi informai fuori: nessuno aveva udito. E tuttavia sono certo ancora adesso che quel grido era reale e che l'aria dei vivi ne aveva risuonato... Mi si potrà anche dire che il caso ha fatto sì che in quello stesso momento una donna sofferente gridasse nelle vicinanze della mia casa. Ma, secondo me, gli eventi terrestri sono legati a quelli del mondo invisibile. È uno di quegli strani rapporti dei quali neppure io so rendermi conto e che è assai più facile indicare che definire... Cosa avevo fatto? Avevo turbato l'armonia del magico universo dal quale la mia anima attingeva la certezza di una esistenza immortale. Forse, per avere voluto penetrare un pericoloso mistero offendendo la legge divina, ero maledetto: non dovevo aspettarmi altro che collera e disprezzo! Le ombre irritate fuggivano, gettando strida e tracciando nell'aria cerchi infausti, come gli uccelli all'avvicinarsi di un temporale. PARTE SECONDA Eurydice! Eurydice! I Perduta per la seconda volta! Tutto finito, tutto passato! Tocca a me ora morire e morire senza speranza! Che cosa è dunque la morte? Il nulla... Piacesse a Dio! Ma Dio stesso non può far sì che la morte sia il nulla. Perché dopo tanto tempo torno per la prima volta a pensare a lui? Lo schema fatale che si era formato nel mio spirito non ammetteva quella regalità solitaria... o meglio essa veniva assorbita nella somma degli esseri; era il Dio di Lucrezio impotente e perduto nella sua immensità. Lei, però, credeva in Dio e un giorno avevo sorpreso il nome di Gesù sulle sue labbra. E ne sgorgava così dolcemente che piansi. Oh mio Dio quella lacrima quella lacrima! Da quanto tempo si è inaridita! Quella lacrima, mio Dio! Rendetemela. Quando l'anima vaga incerta tra vita e sogno, tra disordine dello spirito e ritorno alla fredda riflessione è nel pensiero religioso che bisogna cercare aiuto. Mai ho potuto trovarlo nella filosofia; non ci propone altro che massime di egoismo o tutt'al più di reciprocità, un'esperienza vana, dubbi amari, combatte i dolori morali annichilendo il sentimento; simile alla chirurgia non sa fare altro che amputare l'organo che fa soffrire. Ma per noi, nati in giorni di rivoluzioni e bufere, giorni in cui tutte le fedi erano infrante - educati tutt'al più in una fede vaga che si accontenta di qualche pratica esteriore, di un'adesione indifferente più colpevole forse dell'empietà e dell'eresia, - per noi è molto difficile quando se ne senta il bisogno, ricostruire il mistico edificio del quale gli innocenti e i semplici accolgono l'immagine completa nel loro cuore. «L'albero della scienza non è l'albero della vita!» Tuttavia possiamo noi respingere dal nostro spirito ciò che tante intelligenti generazioni vi hanno riversato di buono e di funesto? L'ignoranza non s'impara! Spero di più nella bontà di Dio: forse siamo sul punto di toccare il tempo in cui la scienza, compiuto per intero il suo ciclo di sintesi e di analisi, di fede e di negazione, potrà purificarsi da sola, e dal disordine e dalle rovine far sorgere la città meravigliosa dell'avvenire... Non si deve avvilire la ragione umana, non si deve credere che umiliandosi completamente essa guadagni qualcosa, sarebbe come mettere sotto accusa la sua origine celeste... Dio apprezzerà senza dubbio la purezza delle intenzioni; quale padre si compiacerebbe nel vedere il proprio figlio abdicare dinnanzi a lui a ogni ragiona mento e a ogni fierezza? L'apostolo che voleva toccare per credere non per questo è stato maledetto! Ma cosa mai vado scrivendo? Sono bestemmie. L'umiltà cristiana non può parlare così. Pensieri come questi sono ben lungi dal commuovere l'anima! Portano in fronte i lampi orgogliosi della corona di satana... Addirittura un patto con Dio!... O scienza! o vanità! Andavano raccogliendo libri cabalistici. Mi sprofondai in questo studio e mi convinsi che tutto quanto lo spirito umano aveva accumulato in materia durante secoli era verità. La convinzione che mi ero formato di un mondo al di fuori di noi coincideva troppo perfettamente con le mie letture perché potessi oramai mettere in dubbio le rivelazioni del passato. Ad esse dogmi e riti delle differenti religioni si riconnettevano a tal punto che ciascuna possedeva una certa porzione di quegli arcani che costituivano il suo mezzo di espansione e di difesa. Tale forza poteva forse indebolirsi, diminuire, sparire; ed era questo che portava alla sopraffazione di alcune stirpi da parte di altre; poiché nessuna può vincere o essere vinta se non in virtù dello Spirito. «Tuttavia,» mi dicevo, «non c'è dubbio che queste scienze sono pervase da errori umani. L'alfabeto magico, i geroglifici misteriosi, ci arrivano incompleti e falsati sia dal tempo sia da coloro stessi che hanno interesse alla nostra ignoranza; cerchiamo di ritrovare le lettere perdute o il segno cancellato, ricomponiamo la gamma discordante e riprenderemo il nostro posto nel mondo degli Spiriti.» Credevo di percepire i rapporti del mondo reale con il mondo degli Spiriti. La terra, i suoi abitanti e la loro storia erano il teatro dove le azioni fisiche preparavano l'esistenza e le condizioni degli esseri immortali congiunti al suo

11 destino. Senza agitare l'impenetrabile mistero dell'eternità dei mondi il mio pensiero risalì all'epoca in cui il sole - simile alla pianta che lo raffigura, segue, inclinando il capo, la rivoluzione del suo celeste cammino, - seminava sulla terra i germi fecondi delle piante e degli animali. Altro non era che il fuoco stesso che, composto di anime, esprimeva per istinto la comune dimora. Lo Spirito dell'essere-dio, riprodotto, e per così dire riflesso sulla terra, diventava il tipo comune delle anime umane, ciascuna delle quali, di conseguenza, era insieme uomo e Dio. Questi furono gli Elohim. Quando ci si sente infelici si pensa all'infelicità altrui. Non mi ero curato di andare a trovare uno dei miei amici, il più caro, che avevo saputo ammalato. Camminando verso la casa in cui era ricoverato, mi rimproveravo aspramente tale negligenza. E ancora di più me ne dolsi quando il mio amico mi disse di essere stato il giorno prima malissimo. Entrai in una camera d'ospedale imbiancata a calce. Il sole tracciava sui muri disegni festosi e giocava su un vaso di fiori che una suora aveva posato sul tavolo dell'ammalato. Pareva la cella di un anacoreta italiano. Il volto smagrito, il colorito simile a vecchio avorio accentuato dal nero della barba e dei capelli, gli occhi accesi da un residuo di febbre, e forse anche una mantellina con cappuccio gettata sulle spalle lo rendevano molto diverso da colui che avevo conosciuto. Non era più l'allegro compagno di studi e di piaceri; ma in lui c'era qualcosa dell'apostolo. Mi raccontò come s'era sentito al momento culminante delle sue sofferenze, in preda a un'ultima crisi che gli parve essere quella fatale. Di colpo il dolore, come per prodigio, era cessato. E quello che mi raccontò in seguito è quasi impossibile da descrivere: un sogno sublime negli spazi più eterei dell'infinito, un colloquio con un essere differente, e insieme compartecipe, al quale, credendosi morto, aveva chiesto dove fosse Dio. «Ma Dio è in ogni dove,» gli rispondeva il suo spirito, «è in te stesso e in tutti. Ti giudica, ti ascolta, ti consiglia: siamo tu ed io che pensiamo e sogniamo insieme - e non ci siamo mai lasciati e siamo eterni!» Di questo colloquio che forse ho male inteso o mal capito, non posso citare altro. So soltanto che ne provai un'impressione molto viva. Non oso attribuire all'amico le conclusioni che forse erroneamente dedussi dalle sue parole. E non so neppure se il sentimento che ne deriva sia conforme all'idea cristiana. «Dio è con lui!» gridai, «ma non è più con me! Oh disgrazia! Io stesso l'ho scacciato! Era ben lui il mistico fratello che si allontanava sempre più dalla mia anima e invano mi ammoniva! E lui lo sposo diletto, il re vestito di gloria, è lui che mi giudica e mi condanna, che rapisce per sempre con sé, nel suo cielo, colei che mi avrebbe donato e della quale oramai non sono più degno!» II Non posso descrivere la prostrazione nella quale questi pensieri mi piombarono. Capisco, mi dicevo, ho preferito la creatura al creatore; ho deificato il mio amore e ho adorato, secondo i riti pagani, colei che aveva consacrato a Dio il suo ultimo respiro. Ma se questa religione dire il vero, Dio può ancora perdonarmi. Può rendermela, se mi umilio davanti a lui; forse il suo spirito ritornerà in me! Erravo a caso per le strade pieno di questi pensieri. Mi imbattei in un funerale che si dirigeva verso il cimitero dove lei era stata sepolta; pensai di unirmi al corteo e di andare laggiù. «Questo morto che portano a seppellire non so chi sia; ma oramai so che i morti ci vedono e ci sentono, e forse questo sarà contento di essere accompagnato da un fratello di dolore, il più triste fra tutti coloro che lo accompagnano.» A questo pensiero piansi e certamente dovettero credermi uno dei più cari amici del morto. O lacrime benedette! Da gran tempo la vostra dolcezza mi era negata!... La mia testa si stava liberando e un raggio di speranza mi guidava ancora. Sentivo dentro di me la forza di pregare e me ne rallegravo con entusiasmo. Non chiesi neppure il nome di colui di cui aveva seguito il funerale. Il cimitero nel quale ero entrato mi era sacro per diversi aspetti. Tre parenti della famiglia di mia madre vi erano sepolti; ma non potevo pregare sulle loro tombe perché da molti anni erano stati trasportati in una terra lontana, luogo della loro origine. Cercai a lungo la tomba di Aurelia ma non riuscii a trovarla. La disposizione del cimitero era mutata - forse anche la mia memoria si era smarrita... Mi pareva che questo caso, questo oblio aggravassero ancora la mia condanna. - Non osavo dire ai guardiani il nome di una morta sulla quale, secondo la religione, non avevo diritto alcuno... Ma mi ricordai che a casa avevo l'indicazione precisa della tomba e vi corsi, il cuore in tumulto, la testa sconvolta. L'ho già detto; avevo circondato questo amore delle più strane superstizioni. In un cofanetto che le era appartenuto, conservavo la sua ultima lettera. Per di più oso appena confessare che avevo fatto di quel cofanetto una specie di reliquario che mi ricordava i lunghi viaggi nei quali l'immagine di lei mi aveva seguito, una rosa colta nei giardini di Sciubra, un pezzetto di benda portato dall'egitto, foglie di lauro colte sulla riviera di Beirut, due piccoli cristalli dorati, mosaici di Santa Sofia, un grano di rosario, e che altro mai? e sotto tutto questo il foglio di carta che mi era stato dato il giorno in cui era stata scavata la sua fossa perché potessi ritrovarla... Avvampai, fremetti e dispersi quell'insensata raccolta. Presi con me i due pezzi di carta e, nel momento di dirigermi di nuovo al cimitero, mutai avviso. «No,» mi dissi, «sono indegno di inginocchiarmi sulla tomba di una cristiana; non aggiungiamo profanazione a profanazione.» E per calmare la bufera che tuonava nella mia testa, me ne andai a qualche chilometro da Parigi, in una piccola città dove avevo passato giorni felici nella mia giovinezza presso vecchi parenti, ora da tempo scomparsi. Più di una volta m'era piaciuto tornare per assistere al tramonto del sole vicino alla loro casa. C'era una terrazza ombreggiata da tigli che ridestava in me il ricordo di giovanette, di parenti fra le quali ero cresciuto. Una di loro... Ma come confrontare questo vago amore dell'infanzia con quello che aveva divorato la mia giovinezza? Vidi il

12 sole declinare sulla valle che andava riempiendosi di vapori e di ombre; infine disparve, tingendo di fuochi rossastri le cime dei boschi che bordavano alte colline. La più cupa tristezza si impossessò del mio cuore. Andai a dormire in un albergo dove ero conosciuto. L'albergatore mi parlò di uno dei miei vecchi amici, che abitava in quel paese, e che, in seguito a speculazioni sbagliate, si era ucciso con un colpo di pistola. Il sonno mi portò sogni terribili di cui conservo una memoria confusa. Mi trovavo in una sala sconosciuta e parlavo con qualcuno dell'al di là - forse l'amico del quale ho testé parlato. Dietro di noi c'era un altissimo specchio e gettandovi per caso lo sguardo mi parve di riconoscere A.*** Sembrava triste e pensierosa e, di colpo, sia che uscisse dallo specchio, sia che attraversando la sala vi si fosse riflessa un attimo prima, la sua dolce e amata figura mi fu accanto. Mi tese la mano, lasciò cadere su di me uno sguardo doloroso e mi disse: «Ci vedremo più tardi... a casa del tuo amico.» In un attimo ricordai il suo matrimonio, la maledizione che ci divideva... e mi dissi: «Sarà mai possibile? Ritornerà a me?» «Mi avete perdonato?» le chiesi in lacrime. Ma tutto era scomparso Mi trovavo in un luogo deserto, un'aspra salita seminata dl rocce in mezzo a foreste. Una casa, che mi parve riconoscere, dominava questo desolato paese. Andavo e venivo per sentieri inestricabili. Stanco di camminare tra pietre e rovi cercavo ogni tanto, tra i sentieri del bosco, un percorso più dolce. «Laggiù mi aspettano,» pensavo. Suonò una certa ora... «È troppo tardi,» mi dissi e delle voci mi risposero: «È perduta!» Una tenebra profonda mi avvolgeva, la casa in lontananza brillava come illuminata per una festa e piena di ospiti puntuali. «Perduta!» gridai, «e perché?... Capisco. Ella ha fatto un ultimo sforzo per salvarmi; e io ho mancato il momento supremo in cui il perdono era ancora possibile. Dall'alto dei cieli ella poteva pregare per me lo Sposo divino... Ma che importa la mia salvezza? L'abisso ha avuto la sua preda! Ella è perduta per me e per tutti!...» Mi pareva di vederla come nel balenio di un lampo, pallida e morente, trascinata via da tetri cavalieri... Il grido di dolore e di rabbia che gettai in quel momento mi svegliò tutto ansimante. «Dio mio, Dio mio! Per lei, solo per lei! Dio mio perdono!» gridai buttandomi in ginocchio. Albeggiava. Subito per un impulso al quale non so trovare spiegazione, decisi di distruggere le due carte che avevo preso dal cofanetto il giorno prima: la lettera ahimè, che rilessi bagnandola di lacrime ed il funebre documento che portava il sigillo del cimitero. «Ritrovare ora la sua tomba?» mi ripetevo. «Ma era ieri che dovevo tornarvi - e il mio funesto sogno altro non è che il riflesso della mia funesta giornata.» III La fiamma divorò queste reliquie d'amore e di morte che si riallacciavano alle fibre più dolenti del mio cuore. Sotto il peso delle mie pene e dei miei tardivi rimorsi uscii per la campagna pensando che marcia e fatica avrebbero intorpidito i miei pensieri e forse mi avrebbero assicurato un sonno meno funesto per la notte successiva. Persuaso che il sogno aprisse all'uomo una comunicazione col mondo degli Spiriti speravo... speravo ancora! Forse Dio si sarebbe accontentato di quel sacrificio. - Qui mi fermo; sarebbe troppo orgoglioso pretendere che le mie angosce fossero causate soltanto da un ricordo d'amore. Diciamo piuttosto che, involontariamente, con quel ricordo stornavo i gravi rimorsi di una vita così follemente dissipata; una vita nella quale troppo spesso aveva trionfato il male e di cui ora, sotto il peso della sventura, riconoscevo le colpe. Mi consideravo indegno persino di pensare a colei che tormentavo nella morte dopo averla afflitta nella vita, e alla quale ero debitore di un ultimo sguardo di perdono dovuto unicamente alla sua dolce e santa pietà. La notte seguente riuscii a dormire solo pochi istanti. Una donna che aveva avuto cura di me nei miei giovani anni, mi apparve in sogno e mi rimproverò un errore gravissimo commesso in altri tempi. La riconobbi per quanto apparisse molto più vecchia dell'ultima volta che l'avevo veduta; e pensavo con amarezza che avevo trascurato di andarla ad assistere negli ultimi momenti della sua vita. Mi parve che dicesse: «Non hai pianto tanto per i tuoi genitori quanto per quella donna. Come puoi dunque sperare il perdono?» Il sogno divenne confuso. Immagini di persone conosciute in tempi diversi passarono rapidamente davanti ai miei occhi. Procedevano, si illuminavano, impallidivano e ripiombavano nella notte come i grani di un rosario, di cui il filo si fosse spezzato. In seguito vidi formarsi in modo vago immagini plastiche dell'antichità; si abbozzavano, si fissavano e sembravano rappresentare simboli dei quali solo a stento afferravo il significato. Mi parve che volessero dire soltanto: «Tutto ciò era per insegnarti i segreti della vita e tu non hai capito. Religioni e favole, santi e poeti, tutti si accordavano per spiegarti l'enigma fatale e tu non ne hai colto il significato... Adesso è troppo tardi!» Mi alzai terrorizzato dicendomi: «Ecco il mio ultimo giorno!» A dieci anni di distanza ritornava più che mai positiva e minacciosa l'idea accennata nella prima parte di questo racconto. Dio mi aveva concesso tutto quel tempo per pentirmi e io non ne avevo approfittato. Dopo la visita del convitato di pietra mi ero seduto di nuovo al festino! IV Il sentimento ispiratomi da quelle visioni e dalle riflessioni che ne traevo nelle mie ore di solitudine, era così triste che mi sentivo perduto. Ogni azione della mia vita mi appariva nell'aspetto più sfavorevole e nella sorta di esame di coscienza al quale mi abbandonavo, i fatti più antichi mi si delineavano nella memoria con singolare nitore. Non so

13 quale falso pudore mi trattenne dall'entrare in un confessionale; forse il timore di impegnarmi in dogmi e in pratiche di una religione temibile e nei confronti della quale avevo, sotto certi aspetti, conservato pregiudizi razionalistici. I miei primi anni sono stati troppo impregnati dalle idee sgorgate dalla Rivoluzione, la mia educazione è stata troppo libera, la mia vita troppo errabonda perché io possa accettare facilmente un giogo che, sotto molti aspetti, offenderebbe ancora la mia ragione. Fremo se penso quale cristiano sarei se taluni principi desunti dal libero esame dei due ultimi secoli e lo studio delle diverse religioni, non mi fermassero su questa china. Non ho mai conosciuto mia madre; aveva voluto seguire mio padre in guerra come le donne degli antichi Germani; morì di febbre e di fatica in un freddo paese della Germania e mio padre non poté dare un indirizzo alle mie prime idee in materia di religione. Il paese dove fui allevato era pieno di strane leggende e di bizzarre superstizioni. Uno dei miei zii, che ebbe la più grande influenza sulla mia prima educazione, si occupava, per svago, di antichità romane e celtiche. Gli accadeva talvolta di trovare nel suo campo o nei dintorni, statuette di dei e di imperatori che la sua ammirazione di sapiente mi faceva venerare, mentre i suoi libri me ne insegnavano la storia. Un Marte in bronzo dorato, una Pallade o Venere armata, un Nettuno e un Anfitrite scolpiti sopra la fontana del casale e soprattutto la buona e grossa figura barbuta di un Dio Pan sorridente all'ingresso di una grotta fra i festoni dell'aristolochia e dell'edera, questi erano gli dei domestici, i protettori del nostro ritiro. Confesso che essi mi ispiravano allora più venerazione che le povere immagini cristiane della chiesa e i due santi senza forma del portale che taluni dotti pretendevano fossero l'eso e il Cernunno dei Galli. Confuso in mezzo a tanti diversi simboli, chiesi un giorno a mio zio che cosa fosse Dio. «Dio è il sole,» mi rispose. Era il pensiero di un onest'uomo, vissuto tutta la vita da cristiano ma che aveva attraversato la Rivoluzione e che soprattutto apparteneva ad un paese dove molti avevano della divinità la medesima idea. Ciò non impediva che donne e bambini andassero in Chiesa, ed è a una delle mie zie che devo i pochi insegnamenti che mi fecero capire le grandezze e gli splendori del Cristianesimo. Dopo il 1815 un inglese che si trovava nel nostro paese mi fece imparare il Sermone della Montagna e mi regalò un Nuovo Testamento... Cito questi particolari per indicare le cause di una certa mancanza di risolutezza che spesso si accompagna in me al più spiccato spirito religioso. Vorrei spiegare come, lontano per lungo tempo dalla retta Via, mi ci sia sentito ricondurre dal ricordo adorato di una persona morta; e come il bisogno di credere che ella continuasse ad esistere abbia fatto rinascere nel mio spirito il sentimento preciso delle diverse verità che avevo accolto nell'animo con troppa scarsa fermezza. La disperazione e il suicidio sono il risultato di talune fatali situazioni per chi non ha fede nell'immortalità, nelle sue gioie e nelle sue pene; penserò di aver fatto qualche cosa di buono e di utile enunciando semplicemente la successione delle idee attraverso le quali ho ritrovato la pace e una nuova forza da opporre ai mali futuri della vita. Le visioni succedutesi nel sonno mi avevano ridotto in un tale stato di disperazione, che appena riuscivo ad articolare parola; la compagnia dei miei amici mi procurava solo una vaga distrazione; il mio spirito, preso tutto quanto da quelle illusioni, non se ne lasciava distogliere; non riuscivo a leggere, a capire nemmeno dieci righe di seguito. Delle cose più belle mi dicevo: «Che importa! questo non esiste per me.» Uno dei miei amici di nome Giorgio si mise in testa di vincere il mio scoramento. Mi condusse con sé qua e là nei dintorni di Parigi e si rassegnava a parlare da solo mentre io gli rispondevo con qualche frase sconnessa. Il suo volto espressivo, quasi cenobitico, seppe un giorno trovare contro gli anni di scetticismo e di delusioni politiche e sociali, succeduti alla Rivoluzione di Luglio, parole molto eloquenti. Ero stato uno dei giovani di quell'epoca e ne avevo assaporato gli ardori e le amarezze. Mi commossi; lezioni come quelle - mi dissi - non potevano essere date senza un'intenzione della Provvidenza e certo uno spirito parlava in lui... Un altro giorno si pranzava all'ombra di un pergolato nei dintorni di Parigi; una donna venne a cantare al nostro tavolo e non so cosa, nella sua voce stanca ma simpatica, mi ricordò quella di Aurelia. La guardai; anche i suoi tratti avevano una certa rassomiglianza con quelli che avevo amati. La cacciarono via e non osai trattenerla, ma mi dicevo: «Chi sa se il suo spirito non sia in quella donna!» E mi sentii felice dell'elemosina che avevo fatta. Mi dissi: «Ho fatto della mia vita un pessimo uso. Senza dubbio, se i morti perdonano, sarà certo a condizione che ci si astenga per sempre dal male e che si ripari a quello fatto in precedenza. E mai possibile? Da questo momento proviamo ad evitare il male e cerchiamo di rendere l'equivalente di quello che dobbiamo.» Avevo commesso recentemente un torto verso una persona; era una semplice negligenza; ma per cominciare andai a chiedergliene scusa. La riparazione mi procurò una gioia grandissima; ora avevo un motivo per vivere ed agire; riprendevo interesse per le cose del mondo. Ben presto sorsero delle difficoltà: eventi per me inesplicabili sembravano allearsi per contrastare la mia buona risoluzione. La condizione del mio spirito mi rendeva impossibile l'esecuzione dei lavori progettati. Giudicandomi ormai guarito la gente diventava più esigente con me e io, che avevo rinunciato alla menzogna, mi trovavo colto in fallo da chi alla menzogna non si faceva scrupolo di ricorrere. La quantità delle riparazioni da fare mi schiacciava in ragione della mia impotenza. Avvenimenti politici agivano indirettamente sia per affliggermi sia per togliermi la possibilità di mettere ordine nei miei affari. A rendere completo il mio scoramento sopravvenne la morte di un amico. Rividi con dolore la sua casa, i quadri che mi aveva mostrato con gioia un mese prima; passai vicino alla sua bara nel momento in cui la chiudevano. Poiché aveva la mia stessa età mi dissi: «Cosa succederebbe se morissi così di colpo?» La domenica seguente mi alzai in preda ad una sorda sofferenza. Andai a trovare mio padre; la sua domestica era ammalata e lui pareva di pessimo umore. Volle salire da solo in soffitta a prendere della legna e non riuscii a rendergli altro servizio che tendergli un ceppo di cui aveva bisogno. Me ne andai via costernato. Per la strada incontrai un amico che voleva portarmi a colazione a casa sua per distrarmi un po'. Rifiutai e, digiuno, mi diressi verso Montmartre. Il cimitero era chiuso, e lo considerai un cattivo presagio. Un poeta tedesco mi aveva dato delle pagine da tradurre e mi aveva anticipato del denaro su questo lavoro. Mi incamminai verso la sua casa per rendergli la somma.

14 Girando attorno alla barriera di Clichy fui testimone di una disputa. Tentai di separare i contendenti senza riuscirvi. In quel preciso momento un operaio di grande corporatura passava su quella stessa piazza dove la disputa aveva avuto luogo, portando sulla spalla sinistra un bambino vestito di un abito color giacinto. Mi immaginai che fosse San Cristoforo che reggeva il Cristo e di essere condannato per aver mancato di energia nella scena appena accaduta. Da quel momento, preda alla disperazione, vagai per i terreni incolti che separavano il sobborgo dalla barriera. Per la visita progettata era ormai troppo tardi: ritornai dunque di strada in strada verso il centro di Parigi. All'angolo di rue de la Victoire mi imbattei in un prete, e, smarrito come ero, gli chiesi di confessarmi. Mi rispose che non era della parrocchia e che stava andando a passare la sera da amici; ma che, se avessi voluto parlargli all'indomani, a Notre- Dame, non avevo che da chiedere dell'abate Dubois. Disperato, piangente mi diressi verso la chiesa di Notre-Dame de Lorette dove mi gettai ai piedi dell'altare della Vergine implorando il perdono delle mie colpe. Qualche cosa dentro di me bisbigliava: «La Vergine è morta, le tue preghiere sono inutili.» Mi inginocchiai negli ultimi stalli del coro e feci scivolare da un mio dito un anello d'argento che portava incise sul castone queste tre parole: Allah! Maometto! Alì! Subito nel coro si accesero molte candele ed ebbe inizio un uffizio al quale tentai di partecipare in ispirito. Quando fu all'ave Maria il prete interruppe l'orazione a metà e la ricominciò sette volte da capo senza che potessi ritrovare nella mia memoria le parole successive. Infine la preghiera ebbe termine ed il prete fece un sermone che pareva alludesse a me solo. Quando si spensero i lumi mi alzai e mi diressi versi gli Champs-Élysées. Arrivato a Place de la Concorde il mio pensiero era di uccidermi. A più riprese mi diressi verso la Senna, ma qualche cosa mi impediva di portare a termine il mio proposito. Le stesse brillavano nel firmamento; ad un tratto mi parve che tutte insieme si spegnessero come i ceri che avevo visto in chiesa. Credetti che i tempi fossero compiuti e fosse giunta la fine del mondo annunciata dall'apocalisse di San Giovanni. Mi pareva di vedere un sole nero nel cielo deserto e un globo rosso di sangue sopra le Tuileries. Mi dissi: «Ecco, la notte eterna incomincia e sarà terribile. Che cosa succederà quando gli uomini si accorgeranno che non c'è più il sole?» Tornai per rue Saint-Honoré commiserando i passanti attardati in cui mi imbattevo. Arrivato nei pressi del Louvre camminai fino alla piazza dove mi attendeva uno strano spettacolo. Attraverso nubi continuamente incalzate da un vento veloce, vidi diverse lune passare con rapidità estrema. Pensai che la terra fosse uscita dalla sua orbita e che errasse per il firmamento come una nave senza alberi, avvicinandosi e poi allontanandosi dalle stelle che ora ingrandivano ora rimpicciolivano. Per due o tre ore me ne rimasi a contemplare quel caos e finalmente mi diressi verso les Halles. I contadini stavano giungendo con le loro derrate e io mi dicevo: «Quale sarà il loro stupore quando vedranno che la notte continua a prolungarsi...» Tuttavia qua e là i cani abbaiavano e i galli cantavano. Stremato rincasai e mi gettai sul letto. Quando mi svegliai fui stupito di rivedere la luce. Al mio orecchio arrivava una sorta di coro misterioso, e voci infantili ripetevano, insieme: «Cristo! Cristo! Cristo!...» Pensai che nella chiesa vicina (Notre-Dame-des-Victoires) avessero riunito un gran numero di bambini per invocare il Cristo. «Ma Cristo non c'è più!» mi dicevo, «e ancora non lo sanno!» L'invocazione durò per circa un'ora. Infine mi alzai e me ne andai sotto i portici del Palais-Royal. Mi dicevo che probabilmente il sole aveva abbastanza luce per illuminare il mondo ancora per tre giorni, consumando però la propria sostanza; e in realtà trovavo questo sole freddo e scolorito. Calmai la mia fame con un piccolo dolce per avere la forza di andare fino alla casa del poeta tedesco. Entrando gli dissi che tutto era finito e che dovevamo prepararci a morire. Il poeta chiamò sua moglie che mi disse: «Cosa avete?» «Non lo so,» le risposi, «sono perduto.» Mandarono in cerca di una carrozza e una giovane mi accompagnò alla clinica Dubois. V Lì il mio male riprese con varie fasi. In capo ad un mese ero ristabilito. Nei due mesi che seguirono ripresi le mie peregrinazioni da un capo all'altro di Parigi. Il viaggio più lungo fu per visitare la cattedrale di Reims. Poco alla volta mi rimisi a lavorare e scrissi anche una delle mie migliori novelle. La scrissi con grande fatica e quasi sempre su foglietti staccati, a matita, seguendo il mio fantasticare o il mio vagabondare. Le correzioni mi mettevano in grande agitazione; pochi giorni dopo che l'ebbi pubblicata fui colto da una insonnia persistente. Passavo l'intera notte passeggiando sulla collina di Mont-martre per vedere l'aurora, e chiacchieravo a lungo con contadini e operai. In altri momenti mi dirigevo verso les Halles. Una notte andai a cenare in un caffè dei boulevards e mi divertii a gettare in aria monete d'oro e d'argento. Poi andai al mercato e incominciai a litigare con uno sconosciuto al quale diedi un manrovescio; non so come, però, questo gesto non ebbe alcun seguito. Ad un certo momento sentendo suonare l'orologio di Saint-Eustache mi sorpresi a pensare alle lotte dei Borgognoni e degli Armagnac e mi parve che intorno a me si levassero fantasmi di guerrieri di quel tempo. Incominciai a litigare con uno scaricatore che portava sul petto una placca d'argento asserendo che era il duca Giovanni di Borgogna. Volevo impedirgli di entrare in una bettola. Per una singolarità che non riesco a spiegarmi, quando vide che lo minacciavo di morte il suo viso si coperse di lacrime. Mi commossi e lo lasciai passare. Mi diressi verso le Tuileries che erano chiuse e proseguii lungo i viali. Poi salì al Lussemburgo e infine ritornai

15 a fare colazione da un amico. Andai poi verso Saint-Eustache dove mi inginocchiai religiosamente davanti all'altare della Vergine pensando a mia madre. Le lacrime che versavo placavano il mio animo e, uscendo dalla chiesa, comperai un anello d'argento. Poi mi recai a trovare mio padre e gli lasciai un mazzo di margherite perché non era in casa. Poi raggiunsi il Jardin des Plantes. C'era molta gente e restai per un bel po' a guardare l'ippopotamo che sguazzava in una vasca. Poi ancora andai a visitare il museo di osteologia. I mostri raccolti lì dentro mi fecero pensare al Diluvio e, quando uscii, un acquazzone spaventoso si rovesciava sul giardino. «Che sciagura!» pensai, «tutte queste donne, tutti questi bambini si bagneranno!...» E aggiunsi: «Ma è peggio ancora, è il diluvio che incomincia!» Nelle strade vicine l'acqua aumentava ancora; scesi correndo per rue Saint-Victor e, col pensiero di arrestare quello che credevo il diluvio universale, gettai in una pozza profonda l'anello comperato a Saint-Eustache. In quel preciso momento il temporale si calmò e un raggio di sole incominciò a brillare. La speranza tornò nel mio cuore. Per le quattro avevo un appuntamento col mio amico Giorgio e mi diressi verso la sua casa. Passando davanti a un mercante di anticaglie comperai due parafuoco di velluto coperte di geroglifici: erano, così mi parve, la consacrazione del perdono celeste. Arrivai puntualmente da Giorgio e gli confidai la mia speranza. Ero bagnato e stanco. Cambiai abito e mi sdraiai sul suo letto. Durante il sonno ebbi una meravigliosa visione. Mi sembrava che mi apparisse una dea e che mi dicesse: «Io Maria, e insieme tua madre, sono sempre la stessa che, sotto tutte le forme, hai sempre amato. Ad ogni tua prova ho lasciato cadere una delle maschere con le quali velo i miei tratti e molto presto mi vedrai quale realmente sono.» Fra le nuvole, dietro di lei, si schiudeva un frutteto meraviglioso, una luce dolce e penetrante illuminava quel paradiso, mentre io, al suono della sua voce naufragavo in un'incantevole ebbrezza. Poco dopo mi svegliai e dissi a Giorgio: «Usciamo.» Attraversando il Pont des Arts gli spiegai la migrazione delle anime e gli dicevo: «Questa sera mi sembra di avere in me l'anima di Napoleone che mi ispira e mi incita a grandi cose.» Nella rue du Coq comperai un cappello e mentre Giorgio si faceva dare il resto della moneta d'oro che avevo gettata sul banco, continuai a camminare ed arrivai al portico del Palais-Royal. Lì mi parve che tutti mi guardassero. Mi era entrata in testa la fissazione che non ci fossero più morti; percorrevo la Galerie de Foy dicendo: «Ho commesso un errore» ma quale fosse questo errore non riuscivo a capire per quanto interrogassi la mia memoria che però credevo quella di Napoleone... «Qui,» dissi passando davanti al Caffè de Foy, «devo aver lasciato qualche cosa da pagare» e con questa convinzione entrai. In uno degli avventori mi parve riconoscere il vecchio Bertin dei «Debats». Poi attraversai il giardino e guardai divertito i girotondi delle bambine: uscii dai portici e mi diressi verso rue Saint-Honoré. Entrai in un negozio per comperare un sigaro e quando ne uscii, la folla era così compatta che rischiai di essere soffocato. Tre miei amici me ne liberarono garantendo per me e mi fecero entrare in un caffè mentre uno di loro cercava una carrozza. Fui condotto all'hospice de la Charité. Nella notte il delirio aumentò soprattutto verso il mattino quando mi accorsi di essere legato. Riuscii a liberarmi della camicia di forza e passeggiai per le grandi sale. La certezza di essere divenuto simile a un dio e di avere il potere di risanare mi indusse a imporre le mani su alcuni malati e per avvalorare ancora questo potere, mi avvicinai ad una statua della Vergine e le tolsi la corona di fiori artificiali. Camminavo a grandi passi parlando ad alta voce dell'ignoranza degli uomini che credono di poter guarire con la sola scienza e, veduto su un tavolo un flacone di etere, lo trangugiai tutto di un fiato. Un assistente, il cui volto potevo paragonare a quello degli angeli, provò a fermarmi; ma, sostenuto come ero da una forza nervosa, stavo per buttarlo a terra quando mi arrestai dicendo che non riuscivo a capire quale fosse la mia missione. Accorsero dei medici, mentre continuavo i miei discorsi sull'impotenza della loro arte. Io scesi la scala benché non avessi scarpe e giunto davanti ad un'aiuola vi entrai calpestando l'erba. Uno dei miei amici era venuto a vedermi; uscii allora dall'aiuola e, mentre parlavo con lui, mi gettarono sulle spalle una camicia di forza, mi fecero salire in carrozza e mi condussero in una casa di cura fuori Parigi. Capii, trovandomi tra gli altri alienati, che tutto fino ad allora per me non era stato che illusione. Tuttavia le promesse che attribuivo alla dea Iside si sarebbero realizzate solo attraverso una serie di prove che ero destinato a subire. Le accettai dunque con rassegnazione. L'ala della casa dove mi trovavo dava su uno spiazzo ombreggiato da noci. Da un lato c'era una collinetta dove uno dei prigionieri camminava in tondo da mattina a sera. Altri, come me, si limitavano a percorrere il terrapieno e la terrazza che terminava in una scarpata erbosa. Su un muro, posto ad occidente, erano tracciate delle figure di cui una raffigurava la luna con occhi e bocca disegnati geometricamente e sopra era stata dipinta una specie di maschera; sul muro di sinistra si vedevano disegnati dei profili, uno dei quali rappresentava una sorta di idolo giapponese. Più lontano una testa di morto era graffita nell'intonaco. Sul lato opposto due pietre da taglio, scolpite da qualcuno degli ospiti del giardino, rappresentavano con una certa arte delle piccole maschere. Due porte davano sulle cantine e mi immaginavo che fossero vie sotterranee come quelle che avevo veduto all'entrata delle Piramidi. VI Dapprima mi immaginai che le persone riunite in quel giardino avessero tutte una qualche influenza sugli astri e che l'uomo che camminava senza posa in tondo regolasse i movimenti del sole. Un vecchio, che portavano lì solo in certe ore del giorno, e che consultando l'orologio faceva dei nodi, sembrava dovesse essere la persona incaricata di controllare il trascorrere delle ore. A me stesso attribuii un influsso sul moto della luna; mi parve che quest'astro avesse ricevuto dall'onnipotente un colpo di folgore e che questo colpo avesse tracciato sulla sua faccia la maschera che

16 vedevo. Alle conversazioni dei guardiani e a quelle dei miei compagni attribuivo significati mistici. Mi sembrava che costoro fossero i rappresentanti di tutte le razze della terra e che il nostro compito fosse stabilire su nuove basi il moto degli astri, dando al sistema un maggiore sviluppo. Un errore doveva essersi insinuato, secondo me, nell'ordine generale dei numeri e tutti i mali dell'umanità dipendevano da questo fatto. Pensavo ancora che gli spiriti celesti avessero preso forme umane e assistessero a quel raduno generale, mentre apparentemente si dedicavano a faccende volgari. Il mio compito mi sembrava consistere nel ristabilire l'armonia universale per mezzo dell'arte cabalistica e nel cercare una soluzione evocando le forze occulte delle diverse religioni. Oltre ai luoghi dove passeggiare, avevamo una sala i cui vetri, rigati verticalmente, davano su un panorama verdeggiante. Guardando oltre quei vetri la linea degli edifici esterni, vedevo le facciate e le finestre frastagliarsi in mille padiglioni ornati di arabeschi e sormontati da merli e guglie che mi ricordavano i chioschi imperiali sulle rive del Bosforo. E questo riconduceva il mio pensiero a inquietanti immagini orientali. Verso le due fui fatto entrare nel bagno e io mi credetti servito dalle Walkirie figlie di Odino, le quali volevano innalzarmi all'immortalità spogliando poco per volta il mio corpo da tutte le impurità. La sera passeggiavo pieno di serenità ai raggi della luna e alzando gli occhi verso gli alberi mi pareva che le foglie si arrotolassero capricciosamente formando immagini di cavalieri e di dame portati da destrieri dalle ricche gualdrappe. Secondo me erano le trionfanti figure dei miei antenati. Questo pensiero mi riportò a quello di una vasta cospirazione di tutti gli esseri animati per ristabilire il mondo nella primitiva armonia; e pensai che questi esseri comunicassero attraverso il magnetismo astrale: che una vasta catena collegasse tutto intorno alla terra le intelligenze devote a questa comunicazione generale e che i canti, le danze, gli sguardi, attraendosi gli uni con gli altri, esprimessero quell'unica aspirazione. La luna era per me il rifugio delle anime sorelle che, sciolte dal corpo mortale, lavoravano più alacremente alla rigenerazione dell'universo. Già mi pareva che il tempo di ogni giornata fosse aumentato di due ore; così, alzandomi alle ore stabilite dagli orologi della casa, non facevo che aggirarmi nel regno delle Ombre. I compagni che mi stavano intorno mi sembravano addormentati e simili agli spettri del Tartaro, fino all'ora in cui per me si alzava il sole. Allora salutavo l'astro con una preghiera e la mia vita reale aveva inizio. Dal momento in cui ebbi la certezza di essere sottomesso alle prove dell'iniziazione sacra, una forza invincibile penetrò nel mio spirito. Mi giudicavo un eroe che viveva sotto lo sguardo degli dei; tutto nella natura prendeva nuovi aspetti e voci segrete sorgevano dalla pianta, dall'albero, dagli animali, dagli insetti più umili, per avvertirmi e incoraggiarmi. Il linguaggio dei miei compagni aveva tortuosità misteriose che riuscivo a capire, gli oggetti senza forma e senza vita, si prestavano essi stessi ai calcoli del mio spirito; le combinazioni di sassolini, le forme di angoli, di fessure o di aperture, il frastaglio delle foglie, i colori, gli odori e i suoni mi suggerivano armonie fino allora sconosciute. «Come ho potuto,» mi dicevo, «vivere così a lungo fuori della natura e senza identificarmi in lei? Tutto vive, tutto agisce e tutto si corrisponde; i raggi magnetici emanati da me e dagli altri attraversano senza ostacolo la catena infinita delle cose create; è una rete trasparente che ricopre il mondo e i cui fili, di grado in grado, si riallacciano ai pianeti e alle stelle. Prigioniero in questo momento della terra, mi intrattengo con il coro degli astri che partecipa alle mie gioie e ai miei dolori!» Rabbrividii pensando che questo mistero avrebbe potuto essere scoperto. «Se l'elettricità,» mi dissi, «che è il magnetismo dei corpi fisici, può subire le direzioni impostele dalla legge, a più forte ragione gli spiriti ostili e tiranni possono asservire le intelligenze e usare le loro forze divise per dominare. In questo modo gli dei antichi sono stati vinti e asserviti da nuovi dei: è così,» mi dissi ancora, riandando ai miei ricordi sul mondo antico, «che i negromanti dominavano popolazioni intere le cui generazioni si succedevano prigioniere sotto il loro intramontabile scettro. O sciagura! nemmeno la Morte ha il potere di affrancarle! poiché viviamo nei figli come abbiamo vissuto nei padri e la scienza implacabile dei nostri nemici sa riconoscerci dappertutto. L'ora stessa della nostra nascita, il punto della terra dove si viene alla luce, il primo gesto, il nome, la camera - e tutte quante le consacrazioni e tutti quanti i riti che ci vengono imposti, tutto quanto collabora ad instaurare una serie felice o funesta dalla quale dipende l'intero avvenire. Ma, se tutto questo è già terribile secondo i soli calcoli umani, considerate cosa possa essere, ricollegato alle formule misteriose su cui si fonda l'ordine dei mondi. Giustamente è stato detto che nulla è indifferente, nulla è impotente nell'universo. Un atomo può tutto distruggere, un atomo può salvare tutto.» Oh terrore! ecco l'eterna distinzione del bene e del male! Che cosa è mai l'anima? La molecola indistruttibile, il globulo gonfio di appena un po' d'aria che ritrova il suo posto nella natura, oppure è il vuoto stesso, immagine del nulla che sparisce nell'immensità? O sarebbe forse la particella fatale destinata a subire, in ogni sua trasformazione, la vendetta degli esseri potenti? Fui così costretto a chiedermi conto della mia vita e anche delle mie esistenze anteriori. Dimostrando a me stesso che ero buono, dimostravo che avevo dovuto esserlo sempre. «E se fossi stato cattivo la mia vita attuale non sarebbe forse una espiazione sufficiente?» Tale pensiero mi rassicurò ma non mi tolse il timore di essere classificato per sempre nella schiera dei dannati. Mi sentivo immerso in un'acqua fredda mentre acqua più fredda ancora gocciolava dalla mia fronte... Riandai col pensiero all'eterna Iside, alla sacra madre e sposa; tutte le mie aspirazioni, tutte le mie preghiere si fondevano nel suo magico nome, mi sentivo rivivere in lei e talvolta mi appariva nelle sembianze della Venere antica e qualche volta in quelle della Vergine dei cristiani. La notte mi riportava più distintamente questa amata apparizione e tuttavia mi dicevo: «Cosa mai può lei, vinta, forse oppressa, per i suoi poveri figli?» Sera dopo sera la falce della luna, lacera e pallida, si assottigliava e sarebbe ben presto scomparsa; forse non l'avremmo mai più rivista in cielo! Tuttavia mi pareva che quest'astro fosse il rifugio di tutte le anime sorelle della mia e la vedevo popolata di ombre dolorose destinate a rinascere un giorno sulla terra...

17 La mia stanza si trovava in fondo a un corridoio abitato da un lato dai pazzi, dall'altro dai domestici della casa. Ed era la sola ad avere il privilegio di una finestra aperta sul lato del cortile alberato che serve durante il giorno da passeggio. I miei sguardi indugiavano con piacere su un noce rigoglioso e su due gelsi della Cina. Al di là, attraverso inferriate dipinte di verde, si scorgeva vagamente una strada molto frequentata. Ad occidente l'orizzonte era più vasto; c'è da quella parte una specie di casale dalle finestre coperte di verzura e ingombre di gabbie, di cenci messi ad asciugare e dove di quando in quando si affaccia il profilo di una giovane o di una vecchia massaia, e la testa rasata di un bambino. Gridano, cantano ridono a squarciagola; mettono allegria o tristezza, secondo le ore e le impressioni. Ho ritrovato in questa camera quanto è rimasto dei miei averi; i resti confusi di alcuni mobili dispersi o rivenduti da vent'anni. Un vero cafarnao come quello del Dottor Faust. Una vecchia tavola a tre gambe a teste d'aquila, una mensola sostenuta da una sfinge alata, un cassettone del Seicento, una libreria del Settecento, un letto col baldacchino di quella medesima epoca, a cielo ovale ricoperto di lampasso rosso (il baldacchino però non è stato possibile montarlo); uno scaffale rustico stipato di maioliche e di porcellane di Sèvres, in gran parte abbastanza malandate, un narghilé che avevo portato da Costantinopoli, una grande coppa di alabastro, un vaso di cristallo; pannelli di legno provenienti dalla demolizione di una vecchia casa che avevo abitata nell'area del Louvre coperti di pitture mitologiche eseguite da amici oggi celebri; due grandi tele nel gusto di Prudhon raffiguranti la Musa della storia e quella della commedia. Per diversi giorni mi divertii a riordinare tutto quanto e a creare nella mia stretta mansarda un insieme bizzarro metà palazzo, metà catapecchia, abbastanza tipico della mia vita errabonda. Al di sopra del mio letto appesi le mie vesti arabe, i miei due cachemires, abilmente rattoppati, una fiasca da pellegrino un carniere da caccia. Sopra la libreria si spiega una grande carta del Cairo; al mio capezzale una mensola di bambù sostiene un vassoio indiano verniciato nel quale posso disporre i miei oggetti da toilette. Ritrovavo con gioia questi umili resti dei miei alterni anni di miseria e di fortuna. A loro si ricollegavano tutti i ricordi della mia vita. Solo una piccola incisione su rame alla maniera del Correggio, rappresentante Venere e Amore era stata messa da parte, e con essa dei trumeaux con cacciatrici e satiri e una freccia che avevo conservato in ricordo delle compagnie dell'arco del Valois alle quali, in gioventù, avevo appartenuto; le nuove leggi mi avevano obbligato a vendere le armi. Insomma ritrovavo li quasi tutto quello che avevo posseduto negli ultimi anni. I miei libri, ammasso bizzarro della scienza di ogni tempo, storia, viaggi, religione, cabala, astrologia da rallegrare le ombre di Pico della Mirandola, del saggio Meursius, e di Nicola Cusano, la torre di Babele in duecento volumi, me li avevano tutti lasciati! Ce n'era da rendere pazzo un saggio; cerchiamo se ce n'è da far rinsavire un pazzo... Che gioia è stata per me riordinare nei cassetti il cumulo di appunti e di corrispondenza personale o pubblica, oscura o illustre che casualmente gli incontri o i viaggi in paesi lontani avevano messo insieme. Nei rotoli avvolti con più cura, ritrovo lettere arabe, reliquie del Cairo e di Istanbul. Oh felicità! Oh mortale tristezza! quei caratteri ingialliti, quegli appunti sbiaditi, queste lettere sgualcite sono il tesoro del mio unico amore... Rileggiamo... Molte lettere mancano, altre sono strappate o cancellate, ed ecco quello che ritrovo.... Una notte parlavo e cantavo in una sorta di estasi: un inserviente della clinica venne a prendermi nella mia cella e mi fece scendere in una camera al piano terreno dove mi rinchiuse. Io continuavo, in piedi, il mio sogno e mi credevo rinchiuso in una specie di chiosco orientale. Ne ispezionai tutti gli angoli e alla fine mi accorsi che era ottagonale. Un divano correva lungo tutte le pareti che mi pareva fossero di un vetro spesso, al di là del quale vedevo brillare tesori, scialli, arazzi. Attraverso il graticcio della porta vedevo un paesaggio illuminato dalla luna e mi pareva scorgere sagome di tronchi d'albero e di rocce. Certo dovevo avere già soggiornato li, in qualche precedente esistenza, e mi pareva di riconoscere le profonde grotte di Ellora. Poco per volta una luce bluastra entrò nel chiosco e vi disegnò immagini strane; mi parve allora di trovarmi in mezzo a un immenso carnaio dove la storia universale era tracciata a caratteri di sangue. Di fronte a me era dipinto un gigantesco corpo di donna; ma le parti del suo corpo erano tagliate come a colpi di sciabola. Altre donne di razze diverse, dai corpi sempre più possenti, ricoprivano le altre pareti di un ammasso sanguinolento di membra e di teste, imperatrici, regine giù giù fino alle più umili contadine. Era la storia di tutti i delitti, e bastava posare gli occhi su questo o su quel punto, per vedere disegnarsi una tragica rappresentazione. «Ecco ecco,» mi dicevo, «il frutto della potenza affidata agli uomini. Poco per volta hanno distrutto e fatto a pezzi il tipo eterno della bellezza; e così le razze perdono di giorno in giorno forza e perfezione...» E vedevo infatti lungo una linea d'ombra che si infiltrava attraverso uno spiraglio della porta, le declinanti generazioni delle razze future. Alla fine fui distolto da questa lugubre contemplazione. Il volto bonario e pietoso del mio ottimo medico mi rese al mondo dei vivi. Egli mi fece assistere a uno spettacolo che mi interessò vivamente. Fra gli ammalati si trovava un giovane, ex soldato d'africa, che da sei settimane rifiutava di prendere cibo. Per mezzo di un lungo tubo di gomma introdotto nello stomaco gli facevano ingerire sostanze liquide nutritive. Era incapace di parlare e di vedere. Questo spettacolo mi impressionò molto. Preda fino ad allora del cerchio monotono delle mie sensazioni e delle mie sofferenze morali, mi imbattevo in un essere indefinibile, taciturno e paziente, seduto come una sfinge dinnanzi alla soglia suprema dell'esistenza. Presi a volergli del bene per la sua sventura e per il suo abbandono e la simpatia e la pietà che sentivo per lui mi portarono qualche sollievo. Mi pareva, posto così tra la morte e la vita, come un interprete sublime, un confessore predestinato ad intendere quei segreti dell'anima che la parola non avrebbe osato trasmettere o sarebbe stata incapace di esprimere. Era l'orecchio di Dio senza la mescolanza di pensiero estraneo. Passavo ore ad esaminarmi mentalmente con la testa china sulla sua e le sue mani nelle mie. Mi sembrava che i nostri due spiriti fossero uniti da una sorta di magnetismo e fui incantato la prima volta che una parola uscì dalle sue labbra. Tutti stentavano a crederci, e io attribuivo alla mia ardente volontà quel principio di guarigione. Quella medesima notte

18 feci un sogno incantevole; il primo dopo molto tempo. Ero in una torre così profonda verso la terra, e così alta verso il cielo che tutta la mia esistenza sembrava dovesse consumarsi nel salire e nello scendere. Già le mie forze erano esaurite e stavo per perdermi di coraggio quando una porta laterale si aprì e uno spirito apparve dicendomi: «Vieni fratello!» Non so perché ebbi l'idea che dovesse chiamarsi Saturnino. Aveva i tratti del mio povero ammalato ma come trasfigurati e intelligenti. Ci trovavamo in una campagna rischiarata dalla luce delle stelle; ci fermammo a contemplare questo spettacolo e lo spirito mise la mano sulla mia fronte come avevo fatto io il giorno precedente quando cercavo di magnetizzare il mio compagno; subito una delle stelle che stavo contemplando nel cielo incominciò ad ingrandirsi e la divinità dei miei sogni apparve sorridente in un costume quasi indiano come già altre volte l'avevo vista. Si mise a camminare tra noi due e sull'orma dei suoi passi i prati verdeggiavano, fiori e foglie sbocciavano dal suolo. Mi disse: «La prova alla quale eri sottoposto è finita: queste innumeri scale che ti stancavi a scendere e a salire erano i lacci delle antiche illusioni che ostacolavano il tuo pensiero; e ora ricordati del giorno in cui implorasti la Vergine santa e in cui, credendola morta, lasciasti che il delirio si impossessasse del tuo spirito. Era necessario che il tuo voto le fosse portato da un'anima semplice e libera dai legami della terra. E tu l'hai trovata vicino a te. Per questo mi è consentito di venire e di farti coraggio.» La gioia che questo sogno infuse nel mio spirito mi procurò un risveglio delizioso. Cominciava ad albeggiare e volli avere un segno tangibile dell'apparizione che mi aveva consolato e scrissi sul muro queste parole: «Tu questa notte mi hai visitato.» Registro qui, sotto il titolo di Memorabili, le impressioni di vari sogni che fecero seguito a quello che ho appena ricordato. Memorabili Sopra un picco scosceso dell'alvernia ha echeggiato la canzone dei pastori Pauvre Marie! regina dei cieli, a te piamente si rivolgono. Questa rustica melodia è giunta all'orecchio dei coribanti che cantando a loro volta escono dalle grotte segrete dove l'amore dette loro riparo. Osanna! pace in terra e gloria nei cieli! Sulle montagne dell'himalaia un piccolo fiore è nato - Non ti scordar di me! - Il tremulo sguardo di una stella si è posato un attimo su di lui e una risposta si è fatta udire in un dolce idioma straniero: Myosotis! Una perla d'argento brillava sulla sabbia, una perla d'oro scintillava nel cielo. Il mondo era creato. Casti amori, divini sospiri! infiammate la santa montagna... perché avete fratelli nelle valli e timide sorelle si nascondono in seno ai boschi! Boschetti profumati di Pafo voi non valete questi asili dove si respira a pieni polmoni l'aria vivificante della patria! «Là-haut, sur les montagnes / le monde y vit content; / le rossignol sauvage / fait mon contentement!» Oh! come è bella la mia grande amica! È tanto grande che perdona al mondo; è tanto buona che mi ha perdonato. L'altra notte dormiva in non so quale palazzo e io non potevo raggiungerla. Il mio sauro scuro si piegava sotto di me, le redini spezzate ondeggiavano sulla sua groppa sudata e dovetti fare sforzi enormi perché non si sdraiasse a terra. Questa notte il buon Saturnino mi è venuto in aiuto e la mia amica ha preso posto accanto a me sulla bianca cavalla dalle gualdrappe d'argento. Mi ha detto: «Coraggio fratello! è l'ultima tappa.» E i suoi grandi occhi divoravano lo spazio mentre i suoi lunghi capelli, impregnati dei profumi dello Yemen, fluttuavano nell'aria. Riconobbi i tratti divini di... Volavamo verso il trionfo e i nemici erano ai nostri piedi. L'upupa messaggera ci guidava nel più alto dei cieli e l'arco di luce risplendeva nelle mani divine di Apollo. Il corno incantato di Adone risuonava attraverso i boschi. Oh morte! dov'è mai la tua vittoria se il Messia vincitore cavalcava tra noi due? La sua veste era di giacinto color zolfo e polsi e caviglie scintillavano di diamanti e rubini. Quando la sua verga leggera toccò la porta di madreperla della nuova Gerusalemme, tutti e tre fummo inondati di luce. Allora sono disceso fra gli uomini per annunciare la buona novella. Esco da un dolcissimo sogno: ho rivisto trasfigurata e radiosa colei che avevo amata. Il cielo si era aperto in tutta la sua gloria e vi ho letto la parola perdono tracciata col sangue di Gesù Cristo. Una stella ad un tratto ha brillato e mi ha rivelato il segreto del mondo dei mondi. Osanna! pace in terra e gloria nei cieli! Dal profondo delle tenebre mute hanno risuonato due note, una grave e l'altra acuta e l'orbe eterno improvvisamente si è messo a girare. Sii tu benedetta oh prima ottava che desti inizio all'inno divino! Da domenica a domenica stringi tutti i giorni nella tua magica rete. I monti cantano alle valli, le fonti ai torrenti, i torrenti ai fiumi, i fiumi all'oceano; l'aria è vibrante e la luce screzia armoniosamente i fiori nascenti. Un sospiro, un fremito d'amore esce dal seno turgido della terra e il coro degli astri si dispiega all'infinito; si allontana e ritorna su se stesso, si assottiglia e si spande e semina lontano i germi delle nuove creazioni. Sulla cima di un monte azzurro un piccolo fiore è nato - Non ti scordar di me! - Il tremulo sguardo di una stella si è posato un attimo su di lui e la risposta si è fatta udire in un dolce idioma straniero: Myosotis! Sii maledetto, Dio del Nord, - che spezzasti con un colpo di martello la sacra tavola composta dei sette metalli più preziosi! Ma non sei riuscito a rompere la Perla rosa che riposava nel centro. E rimbalzata sotto il ferro ed ecco ci siamo armati per lei... Osanna!

19 Il macrocosmo, o grande mondo, è stato costruito con arte cabalistica, il microcosmo, o piccolo mondo, è la sua immagine riflessa in tutti i cuori. La Perla rosa è stata tinta col sangue reale delle Valchirie. Maledizione a te, dio-fabbro che hai voluto spezzare il mondo! Nondimeno il perdono del Cristo è stato pronunciato anche per te! Benedetto dunque anche tu, o Thor, il gigante - il più potente dei figli di Odino! Sii benedetto in Hela, tua madre, poiché sovente il trapasso è dolce - e in Loki tuo fratello, nel tuo cane Gramur! Benedetto anche lui il serpente che avvolge il mondo! egli allenta le sue spire e a fauci spalancate aspira il fiore anxoka, il fiore color zolfo - il fiore splendente del sole. Che Iddio preservi il divino Balder, figlio di Odino e di Freya la bella!... Mi trovavo in ispirito a Saardam che avevo visitato l'anno passato. La neve ricopriva la terra. Una bambina camminava scivolando sul suolo gelato e si dirigeva, credo, verso la casa di Pietro il Grande. Il suo profilo maestoso aveva qualche cosa di borbonico. Il collo, di un candore abbagliante, usciva fuori da una pellegrina di piume di cigno. Con la piccola mano rosata proteggeva dal vento un lume acceso e andava a bussare alla porta verde della casa quando una gatta magra che usciva di lì si impigliò nelle sue gambe e la fece cadere. «Oh ma non è che un gatto,» disse la bambina rialzandosi. «Un gatto è pur sempre qualche cosa,» disse una dolce voce. Ero presente alla scena e sul braccio tenevo un gattino grigio che incominciò a miagolare. «È il figlio di questa vecchia fata,» disse la bambina ed entrò nella casa. «Questa notte il mio sogno si era trasportato dapprima a Vienna. Si sa come su ogni piazza di questa città si innalzino delle colonne chiamate perdoni: ammassi di nubi marmoree che raffigurano l'ordine salomonico e sostengono dei globi dove, sedute troneggiano delle divinità. Di colpo, oh meraviglia! incominciai a pensare all'augusta sorella dell'imperatore di Russia, della quale avevo visitato (a Weimar) il palazzo imperiale. Mi apparvero, in una melanconia piena di dolcezza, le brume colorate di un paesaggio della Norvegia rischiarato da una luce grigia e mite. Le nubi divennero trasparenti e davanti a me vidi aprirsi un abisso profondo nel quale tumultuosamente turbinavano i flutti del Baltico. Sembrava che quella fenditura del globo dovesse inghiottire tutta quanta la Neva dalle azzurre acque. Pronte a staccarsi e a sparire nel baratro le navi di Kronstadt e di Pietroburgo si agitavano sulle ancore. Quando dall'alto una luce divina illuminò questa scena di desolazione. Subito, sotto il vivido raggio che squarciava la nebbia, vidi apparire la roccia che sostiene la statua di Pietro il Grande Sopra quel solido piedestallo andavano raggruppandosi delle nuvole che si alzavano fino allo zenit. Erano cariche di immagini radiose e divine tra le quali si distinguevano le due Caterine, e l'imperatrice Sant'Elena accompagnata dalle più belle principesse di Moscovia e di Polonia. Tenevano i loro dolci sguardi rivolti verso la Francia e ne riducevano la distanza con lunghi telescopi di cristallo. Con questo capii che la nostra Patria diventava l'arbitra della questione d'oriente e che quelle donne ne stavano aspettando la soluzione. Il mio sogno terminò con la dolce speranza che la pace ci sarebbe stata finalmente donata. A questo punto osai intraprendere un audace tentativo. Decisi di registrare il sogno per scoprirne il segreto. Perché, mi dissi, armato di tutta la mia buona volontà, non forzare queste mistiche porte e dominare finalmente le mie sensazioni anziché subirle? Non è possibile dominare questa chimera allettante e terribile e imporre una regola a questi spiriti della notte che irridono alla nostra ragione? Il sonno assorbe un terzo della nostra vita. Consola le pene dei nostri giorni o punisce i piaceri; ma mai ho trovato nel sonno il riposo. Dopo un torpore di qualche istante ha inizio una nuova vita, libera dalle leggi del tempo e dello spazio e simile, non v'è dubbio alcuno, a quella che ci aspetta dopo la morte. Chi sa che tra le due esistenze non ci sia un legame e che non sia possibile all'anima annodarlo fin d'ora? Da quel momento non feci altro che cercare il significato dei miei sogni e tutte le mie riflessioni da sveglio furono influenzate da questa inquietudine. Mi parve di capire che tra il mondo esterno e quello interno esistesse un legame e che i rapporti apparenti fossero falsati dalla disattenzione e dal disordine della mente, e che solo così si potesse spiegare la bizzarria di certe immagini rassomiglianti ai riflessi deformi di oggetti reali che tremolano nelle acque agitate. Tali erano le ispirazioni delle mie notti; mentre i miei giorni passavano dolcemente in compagnia dei poveri ammalati divenuti miei amici. La certezza di essere oramai purificato dagli errori della mia vita passata mi dava infinite gioie morali; la certezza dell'immortalità e della coesistenza di tutti coloro che avevo amati era entrata quasi materialmente in me e benedicevo l'anima fraterna che, dal profondo della disperazione, mi aveva riportato sulle strade luminose della religione. Lo sventurato giovane, la cui vita intellettiva era così regredita, era curato in modo che, a poco a poco, il suo torpore si era andato attenuando. Avevo saputo che era nato in campagna e passavo ore intere a cantargli antiche canzoni paesane cercando di dar loro l'espressione più commovente. Ebbi la consolazione di vedere che le capiva e che, in parte riusciva a ripeterle. Un giorno, finalmente, aperse per un attimo gli occhi e vidi che erano azzurri come quelli dello spirito che mi era apparso in sogno. Un mattino, pochi giorni dopo, tenne gli occhi spalancati e non li chiuse più. Si mise a parlare a lunghi intervalli, mi riconobbe, mi diede del tu chiamandomi fratello. Ma non voleva ancora decidersi a mangiare. Un giorno, mentre tornavamo dal giardino, mi disse: «Ho sete.» Andai a cercargli da bere; il bicchiere toccò le sue labbra senza che egli potesse inghiottire. «Perché,» gli dissi, «non vuoi mangiare e bere come gli altri?» «Perché sono morto,» mi rispose, «sono stato sepolto nel tal cimitero, nel tal posto...» «E adesso dove credi di essere?» «In Purgatorio, compio la mia espiazione.»

20 Tali sono le bizzarre idee causate da certe malattie. Io stesso, dovetti ammetterlo, non ero stato molto lontano da quella strana convinzione. Ma il modo in cui ero stato curato mi aveva restituito all'affetto della famiglia e degli amici e potevo giudicare con più esattezza il mondo delle illusioni dove per qualche tempo ero vissuto. Sono però felice delle convinzioni acquisite, e paragono la serie di prove che ho attraversato a quello che per gli antichi era l'idea della discesa agli Inferi.

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