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1 04 L'effetto fotoelettrico L'effetto fotoelettrico fu osservato, inconsapevolmente, da Hertz e deve il suo nome a Righi. Valse il Premio Nobel sia a Lenard (1905) perché lo studiò che ad Einstein (1921) perché lo interpretò. Nel 1887 Heirich Hertz dimostra sperimentalmente sia l'esistenza delle onde 10 elettromagnetiche, sia che la loro velocità è uguale a quella della luce (-µ m/s), conferendo, così, validità alla teoria elettromagnetica di Maxwell. Hertz pensò di generare le onde facendo scoccare una scintilla tra due sfere metalliche, utilizzando il rocchetto di Ruhmkorff (due bobine accoppiate, un trasformatore sostanzialmente, con un primario di poche spire, R",ed un secondario con moltissime spire, R# ). Un interruttore interrompe periodicamente, con elevata frequenza,l'alimentazione in continua del primario. Nel secondario è allora indotta una tensione che sta a quella del primario nel rapporto R# ÎR" e che può quindi raggiunfere parecchi kv. Ai terminali del secondario Hertz collegò due sfere metalliche di circa 30 cm di diametro distanti tra loro di circa 1,5 m. Al centro di esse, collegate ciascuna al filo delle sfere grandi, collocò due piccole sferette, la cui distanza si poteva regolare con una vite micrometrica (realizzò, in pratica, quello che comunemente è chiamato spinterometro - in greco spinther significa scintilla). Le due sfere grandi fungevano da armature di un condensatore, e quando la carica su di esse raggiungeva un certo valore, il campo elettrico faceva scoccare una scintilla oscillante tra le sfere piccole. Figura 1. Schema sperimentale dell'esperimento di Hertz. La scintilla era il generatore delle onde elettromagnetiche previste da Maxwell. Come ricevitore Hertz predispose una spira metallica interrotta per un piccolo tratto (Figura 1). L'eventuale scintilla che si fosse formata tra le estremità della spira interrotta avrebbe confermato la propagazione dell'onda elettromagnetica attraverso la stanza. Ciò effettivamente avvenne ed Hertz lo comunicò pubblicamente in un discorso tenuto ad Heidelberg il 20 settembre del 1889: "Le scintille sono microscopicamente brevi", disse, "a malapena di un centesimo di millimetro di lunghezza. Durano soltanto un milionesimo di secondo circa. Sembra quasi assurdo ed impossibile che siano visibili; ma in un 1

2 ambiente perfettamente buio sono visibili ad un occhio che sia stato a riposare per bene nell'oscurità". La principale limitazione nella sensibilità del rivelatore derivava dalla possibilità di vedere la minuscola scintilla che in esso scoccava. Fu proprio nel tentativo di ridurre tale fattore limitante che Hertz si imbatté in qualcosa di strano. Infatti, per rendere più visibile la piccola scarica elettrica, decise di osservarla al buio ponendo la spira rivelatrice in una scatola. La cosa inaspettata fu la netta riduzione della scintilla in tali condizioni. Allora, con mirabile metodicità, rimosse progressivamente le varie pareti della scatola, osservando in corrispondenza le eventuali variazioni della scintilla: e così trovò che l'unica parete che provocava l'effetto osservato era quella che schermava direttamente la scintilla del ricevitore da quella del trasmettitore. Fatto ancora più strano fu la constatazione che l'entità della riduzione della scintilla determinata dalla parete in questione non dipendeva dalla posizione di questa lungo la linea congiungente le due scintille! Fortemente incuriosito dallo strano fenomeno osservato, Hertz diede avvio ad una serie sistematica di esperimenti, giungendo a comprendere che la piccola scintilla che scoccava nel ricevitore risultava maggiormente intensa quando questo veniva raggiunto dalla luce ultravioletta emessa dalla forte scintilla nel trasmettitore. La comprensione di tale fatto non fu per nulla immediata. Hertz provò ad utilizzare come parete schermante diversi materiali, tra i quali il vetro, che si rivelò efficace nel ridurre la scintilla, ed il quarzo, che la lasciava pressoché inalterata. Osservazioni, queste ultime, che lo misero sulla strada giusta, spingendolo a scomporre mediante un prisma la luce emessa dalla scintilla trasmettitrice ed esponendo quella ricevitrice di volta in volta alle differenti componenti spettrali. Fu in seguito a ciò che raggiunse la certezza che ad intensificare la minuscola scarica del ricevitore era la componente ultravioletta della luce che lo illuminava. A consuntivo di numerosi mesi di minuziosi esperimenti, nel 1887 Hertz scrisse un articolo in cui si limitava a descrivere con precisione quanto osservato, astenendosi esplicitamente dall'ipotizzare alcuna spiegazione dei fenomeni stessi. L'anno successivo, Augusto Righi osserva che sottoponendo a radiazione ultravioletta due elettrodi nasce un arco voltaico; battezza tale fenomeno effetto fotoelettrico. Quattro anni dopo la scoperta dell'elettrone, avvenuta nel 1895 ad opera di Thomson, il fisico tedesco Philip Lenard ipotizza che le particelle emesse dai metalli colpiti dalla luce sono proprio gli elettroni. Quando inizia ad eseguire esperimenti su questo fenomeno, scopre che le condizioni di emissione degli elettroni da parte dei metalli variano da metallo a metallo. La sorpresa maggiore consiste nel fatto che l'intensità luminosa può aumentare senza, però, produrre aumento nell'energia con cui gli elettroni sono emessi. Anzi, scopre che per ogni metallo esiste una particolare frequenza caratteristica; se la radiazione incidente è di frequenza inferiore non si osserva nessuna emissione elettronica. La soglia "fotoelettrica" di zinco e magnesio è nell'uv, quella del sodio nella zona del visibile. Con riferimento alla figura 2, quando la luce colpisce una superficie metallica pulita (il catodo C) vengono emessi elettroni. Se alcuni di questi colpiscono l'anodo A, si instaura una corrente nel circuito esterno. Il numero di elettroni emessi che raggiungono l'anodo può essere aumentato o diminuito rendendo l'anodo positivo o negativo rispetto al catodo. Detta V la differenza di potenziale tra A e C, si può vedere che solo da un certo 2

3 potenziale Z! in poi (detto potenziale d'arresto) la corrente inizia a circolare, aumentando fino a raggiungere un valore massimo, che rimane costante. Questo massimo valore è, come scoprì Lenard, direttamente proporzionale all'intensità della luce incidente. Il potenziale d'arresto è legato all'energia cinetica massima degli elettroni emessi dalla relazione " # Ð 7@ Ñ 7+B œ /Z! Ð"Þ"Ñ # dove 7 è la massa la sua velocità, / la sua carica. Ora, la relazione che lega le due grandezze è proprio quella indicata perché se V è negativo, gli elettroni vengono respinti dall'anodo, tranne se l'energia cinetica consente loro, comunque, di arrivare su quest'ultimo. D'altra parte si notò che il potenziale d'arresto non dipendeva dall'intensità della luce incidente, sorprendendo lo sperimentatore, che si aspettava il contrario. Infatti, classicamente, il campo elettrico portato dalla radiazione avrebbe dovuto mettere in vibrazione gli elettroni dello strato superficiale fino a strapparli al metallo. Usciti, la loro energia cinetica sarebbe dovuta essere proporzionale all'intensità della luce incidente e non alla sua frequenza, come sembrava sperimentalmente. Figura 2: schema dell'apparato per la misura dell'effetto fotoeletrrico. I risultati sperimentali (Figura 3) portano all'individuazione degli elementi caratterizzanti il fenomeno fotoelettrico, che si possono così riassumere: gli atomi emettono elettroni solo e solo se la frequenza della radiazione incidente è superiore al valore della soglia fotoelettricaà l'energia cinetica degli elettroni emessi dipende dalla frequenza della radiazione elettromagnetica incidente e non dalla sua intensitàà il numero di elettroni che fuoriescono in un secondo dipende dall'intensità della radiazione elettromagnetica incidenteà la comparsa della corrente segue immediatamente l'accensione della illuminazione. La teoria dell'effetto fotoelettrico L'interpretazione classica si basa sull'esistenza di una barriera di potenziale che impedisce agli elettroni (liberi) nel metallo di fuoriuscire spontaneamente. Per estrarre un elettrone è necessario effettuare un lavoro (lavoro di estrazione, A! ), che dipenderà dalla natura del metallo. Se si ammette che l'energia incidente sia uniformemente distribuita 3

4 Figura 3: sinistra: andamento della fotocorrente in funzione della differenza di potenziale applicata per due valori dell'intensità della radiazione incidente. centro: andamento della fotocorrente in funzione del potenziale di frenamento per varie intensità luminose; destra: andamento della fotocorrente in funzione del potenziale di frenamento per varie frequenze della radiazione incidente sulla superficie del metallo, occorrerà un certo tempo affinché un singolo elettrone accumuli l'energia sufficiente per superare la barriera di potenziale ed essere emesso. Si può fare una stima grossolana del tempo necessario, supponendo di far incidere su un 2 cm di superficie del metallo un'energia di " erg/s. Usiamo la luce del doppietto del "& " sodio, la cui frequenza è!þ& "! = e come metallo il potassio (K), il cui lavoro di -12 estrazione a questa frequenza è circa # ev (1 ev = erg): avremo, quindi A! $Þ#"! "# erg. 4

5 ) "' L'energia che investe un atomo, di diametro dell'ordine di " Å œ "! cm, è circa "! erg/sec. Assumendo perciò che l'energia sia distribuita uniformemente su di una superficie con diametro di 1 Å e che l'elettrone possa accumulare l'energia, si avrebbe un "# "' % tempo dell'ordine di $Þ# "! erg/ "! erg /s ~ $Þ# "! s, cioè circa 9 ore. Il processo avviene invece in modo pressochè istantaneo. Inoltre, con questo modello, non si riesce a spiegare l'indipendenza della velocità massima degli elettroni dall'intensità della radiazione. Nel 1905 Einstein riesce a spiegare le leggi stabilite per l'effetto fotoelettrico utilizzando l'ipotesi del quanto di luce (più tardi chiamato fotone). Il fotone di frequenza / ha energia 2/ e sarà in gredo di liberare un elettrone dal metallo solo se 2 / A!, ciò che determina la frequenza di soglia /! œaþ! Quando / è > /!, l'elettrone fuoriesce dal metallo con un'energia cinetica data da I-38 œ /Z! œ 2Ð/ /! Ñ L'andamento di I-38 è quindi lineare con /; la pendenza della retta è 2, il cui valore venne quindi misurato e trovato in accordo con il valore ricavato dalla formula di Planck. Aumentare l'intensità del fascio significa aumentare il numero di fotoni enon la loro energia. Per questa interpretazione dell'effetto fotoelettrico Einstein ottenne il premio Nobel nel

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