MARCO BETTINI POLVERE ROSSA

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1 MARCO BETTINI POLVERE ROSSA

2 I Edizione Marco Bettini EDIZIONI PIEMME Spa Milano - Via Tiziano, 32 info@edizpiemme.it - Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

3 I Si svegliò di colpo, scossa dal presentimento orribile che sarebbe stato meglio non ridestarsi affatto. Prima ancora di aprire gli occhi, di capire cos era la sensazione opprimente che le attanagliava la bocca, prima di avvertire il sollievo appena sufficiente dell aria che le riempiva i polmoni, si ritrovò immersa in un incubo nero. Spalancò gli occhi nel tentativo di catturare meglio i contorni della stanza buia. Nessuna luce attenuava l oscurità. Cercò di mettersi a sedere sul letto e si rese conto di avere le mani legate alla spalliera e i piedi immobilizzati. Qualcuno le aveva chiuso la bocca col nastro adesivo. Lottò senza successo contro la costrizione. Le gambe erano divaricate e assicurate con una corda al fondo del letto. Sentì un movimento nella pancia, gonfia e tesa. La tensione si era trasmessa al feto, che scalciava contro le pareti dei muscoli addominali. All ottavo mese di gravidanza, il bambino tradiva una voglia di nascere inadatta alla situazione. Mio Dio pensò fa che non succeda. Non ora. Scrutando nel buio, si aggrappò alla speranza di essere rimasta sola. Sperò che, chiunque l avesse ridotta così, se ne fosse già andato. Suo marito sarebbe tornato di lì a 5

4 poco, ormai, e per un ladro rimanere più a lungo costituiva un rischio troppo grande. Ti prego invocò ancora mentalmente. Non voglio essere violentata. Non voglio che succeda niente al bambino. Paralizzata in una posa che non prometteva niente di buono, Isabella Sassoli cominciò a piangere. Si riteneva una donna coraggiosa. A trentacinque anni, aveva affrontato prove difficili, che la maggior parte dei suoi amici non avrebbe incontrato nell arco di una vita intera. Lutti e malattie avevano segnato i suoi ultimi tempi, dopo una giovinezza troppo felice, che non l aveva preparata ai capricci del caso. Eppure aveva sempre saputo sollevarsi, riprendersi, navigare con coraggio. Ma niente di quello che aveva passato e imparato poteva prepararla a diventare la vittima di un sadico. Mentre le lacrime le rigavano le guance scivolando sul nastro che le serrava la bocca, una figura nera si stagliò davanti a lei, come generata dall oscurità stessa. Ora che gli occhi si erano abituati al buio, Isabella intuì, più che vedere, la forza che emanava da quella visione. In qualche modo capì che l altro era mascherato, con una specie di cappuccio che gli copriva la testa. Se nascondeva la sua identità significava che non voleva essere riconosciuto, e anche che non sarebbe stato costretto ad ammazzarla. Tuttavia, dietro questa precauzione, Isabella avvertì una rabbia trattenuta a stento, e si sentì perduta. Ebbe la percezione di una cosa metallica che fendeva ritmicamente l aria. Chiunque fosse, l uomo si nutriva della paura della sua preda. Assorbiva con avidità il panico che afferra il condannato quando capisce di non poter più sfuggire al carnefice. Isabella Sassoli avrebbe voluto perdere i sensi, ma le tornò di colpo in mente l ultima 6

5 faccia che aveva visto prima di risvegliarsi crocifissa al letto. Incredula, non riusciva ad associare quel volto a questa figura terribile. Impossibile che si trattasse della stessa persona. «Ora» disse una voce che non aveva niente di umano «tiriamo fuori il bastardo.» Isabella Sassoli si sentì mancare. Un brivido di freddo le attraversò il corpo, costringendola a tremare. Fu subito prima che il carnefice pronunciasse la sentenza definitiva. «Ucciderti non è la sola cosa che voglio.» Renato Fabbri mi è sempre piaciuto. Anche se da ragazzini vivevamo nello stesso paese, abbiamo cominciato a frequentarci solo quando ci siamo iscritti all università. Più di vent anni fa. I nostri caratteri differenti ci trasformarono in gemelli complementari. Quanto Renato era estroverso, diretto, comunicativo, io ero silenzioso, riflessivo, cauto nell approccio con gli altri. Nel corso degli anni, abbiamo finito per svolgere due mestieri simili. Renato è magistrato, sostituto procuratore a Rimini. Io, con la mia specializzazione in psichiatria, insegno criminologia all università e presto consulenze ai magistrati che chiedono il mio aiuto nei casi più complessi di stupro e omicidio. Nei paesi anglosassoni il mio mestiere ha un nome specifico: profiler. In Italia sono, a seconda dei casi, un criminologo o un consulente. In qualsiasi modo la si voglia definire, la mia vera abilità è quella di tracciare il profilo psicologico di assassini che non conosco, basandomi quasi esclusivamente sull analisi della scena del delitto. Mi chiamo Andrea Germano e sono una specie di Sherlock Holmes delle menti deviate, il Will Graham che disegna identikit mentali per consentire alla poli- 7

6 zia di catturare criminali veri. Sono lo strizzacervelli di assassini e stupratori che, senza saperlo, quando uccidono e violentano, iniziano con me una seduta psicanalitica a distanza. Abbiamo un obiettivo in comune. Loro desiderano essere capiti, e il modo migliore per riuscirci è farsi catturare. Io voglio toglierli di mezzo e quindi cerco di aiutarli a tradirsi. Nel mio mestiere i predatori diventano prede. Do la caccia agli squali e devo essere abbastanza accorto da non lasciarli avvicinare troppo. La maggior parte dei poliziotti e dei carabinieri definisce così il mio mestiere: cazzate. Tutte cazzate. Gli investigatori sono convinti che per prendere un assassino siano fondamentali soprattutto due cose: lavoro e intuito. Il loro intuito, non quello di un altro, come me, per esempio. Che perciò gli sto quasi sempre, inevitabilmente, sulle palle. Collaborano malvolentieri. Soprattutto perché, quando mi calo dentro un indagine, vuol dire che hanno già fatto un buco nell acqua. E chi sono io per riuscire dove loro hanno fallito? Adesso mi trovo qui, dal mio amico Renato, che non incontravo da sei anni, anche se ogni tanto ci sentiamo al telefono. Mi ha invitato a cena, nella sua bella casa sulle colline di Rimini, ma sappiamo entrambi che c è una ragione precisa. Un caso di omicidio che si è verificato in ottobre, per quel che ricordo dai giornali, e che in oltre quaranta giorni di indagini non ha prodotto niente di interessante. Nemmeno l ombra di un indagato. Il che significa niente da offrire ai media, niente di consolante per il pubblico, niente medaglie per gli inquirenti. In attesa di sederci a tavola, scambio due chiacchiere con Maria, la figlia adottiva di Renato. Ha venti anni, ed 8

7 è una bellissima ragazza di colore. Renato e sua moglie Gaia l hanno incontrata dieci anni fa, durante un viaggio in Guinea, e ne sono rimasti conquistati. Hanno fatto l impossibile per portarla in Italia e adottarla, piegando ai loro desideri, con una certa disinvoltura, leggi e regole sulle adozioni internazionali. Non so come, alla fine ce l hanno fatta. Maria è diventata la loro figlia minore, poiché avevano già un maschio, Enrico, all epoca sedicenne. Entrambi i ragazzi sono ottimi studenti e, da quel che ho visto, affiatati con i genitori. Tra fratello e sorella, invece, non sembra esserci molta confidenza. Considerata la differenza di sesso, d età, e di esperienze nell infanzia, è evidente che, pur avendo vissuto dieci anni nella stessa famiglia, appartengono a mondi distanti. Tuttavia nel loro atteggiamento traspare un profondo rispetto per la diversità dell altro. Maria è seduta di fronte a me, che sono sprofondato sul divano. Indossa una maglietta e una gonna che arriva quasi al ginocchio, ma non mortifica affatto le sue lunghe gambe, esaltate dalle calze trasparenti nere. È alta, per essere una donna, molto snella ma allo stesso tempo formosa, con un viso e una figura da fotomodella. Però ha un seno abbastanza pronunciato. Diciamo che, come potenziale indossatrice, starebbe più dalle parti di Naomi Campbell piuttosto che di Kate Moss. Se non fosse la figlia del mio miglior amico, nutrirei pensieri molto poco paterni nei suoi confronti. Tuttavia il luogo e la situazione mi aiutano a mantenere il distacco. «Papà dice che fai lo psicologo» mi sorride Maria. «Veramente psichiatra» preciso. «È molto diverso?» chiede con un sorriso disarmante. Vorrei spiegarle che sì, è diverso, e inoltre io sono specializzato nell indagare menti criminali, ma mi limito 9

8 a un cenno d assenso. Le esibizioni di orgoglio professionale hanno poco senso con una ragazza di vent anni. «Più o meno la stessa cosa» mi arrendo. «Perché, sai, mi devo iscrivere all università e psicologia mi sembrava una cosa interessante.» «Ai miei tempi» per un attimo mi rendo conto di aver appena creato una barriera quasi insormontabile tra noi «per specializzarsi in psichiatria occorreva una laurea in medicina. E adesso insegno criminologia alla facoltà di legge. Quindi non ne so molto del corso di studi di psicologia. Però, se la cosa ti interessa, perché no? Sono convinto che l università bisogna sceglierla in base alla passione, senza fare tanti calcoli.» «Perché ero un po incerta tra psicologia e informatica.» La connessione tra le due materie mi sfugge, ma sono sicuro che lei la vede chiaramente. Deve essersi accorta della mia sorpresa. «Enrico, mio fratello, no, fa informatica e le cose che studia mi piacciono, anche se c è veramente molta matematica. Però i computer, i software, i linguaggi di programmazione mi intrigano un casino.» La conversazione sta prendendo una piega un tantino surreale. Non a causa delle parole che diciamo. È che sto qui su un divano a parlare con una bellissima ragazza di colore, e più parla e si muove sulla poltrona più mi pare bella eruttata dall Africa nera. Però parla con un leggero accento romagnolo, educata ed elegante, mescolando piccoli scivolamenti della esse a frasi impeccabili per costruzione e sintassi. Chissà perché mi dà l impressione che uno di noi due, ma non necessariamente lei, sia un Ufo. Per fortuna, a salvarmi dallo spaesamento, arriva Gaia. 10

9 «Cinque minuti ed è pronto. Ce la fai a resistere?» mi chiede. Il suo modo di mettere le persone a proprio agio è estremamente gradevole. Ha un eleganza innata e un talento naturale nello stemperare le tensioni. Mano a mano che facevo esperienza nel mio lavoro, ho pensato spesso a lei. Credo che, se mai le fosse interessato, sarebbe stata una poliziotta formidabile. Ai tempi dell università io studiavo medicina e Renato giurisprudenza. Gaia faceva parte della compagnia di ragazzi che frequentavamo allora, nella provincia lombarda. Un gruppo di pendolari tra casa e Milano, che pensava solo a laurearsi in fretta e divertirsi in gruppo al sabato sera. Mentre, a ventuno anni, noi eravamo ancora ragazzi, con la testa molto orientata verso divertimenti elementari, lei era già una donna. Sapeva cosa cercava, quale direzione prendere per trovarla, e insieme a chi. Voleva Renato. E, nonostante lui avesse fama di sciupafemmine, lei aveva deciso di prenderselo, e ci era riuscita senza grande sforzo. Quando la coppia si formò, assistemmo alla precoce e progressiva trasformazione del nostro amico in un uomo sensato, studioso, e proiettato verso una vita di lavoro e responsabilità. Gaia lo aveva pilotato verso i doveri e i piaceri degli adulti, ma dal nostro punto di vista, almeno all inizio, ci aveva tolto un amico, e un compagno di bevute, di eccessi, di canne e feste sconsiderate. Enrico era nato quando i suoi genitori non avevano ancora ventidue anni. Fu il momento in cui le nostre vite si divaricarono all improvviso, e non poteva essere altrimenti. Ma finché Renato non aveva vinto il concorso in magistratura, a soli venticinque anni, i contatti tra noi erano rimasti frequenti. La toga aveva costretto i 11

10 Fabbri a cambiare diverse volte città, prima di approdare a Rimini e intanto avevo fatto in tempo a laurearmi in medicina e specializzarmi in psichiatria. Il lavoro che ci aveva inizialmente allontanati diventò la scusa per tornare a frequentarci, seppure in rare occasioni. Da allora, ci eravamo rivisti almeno una volta all anno. Ognuno nel suo ambito, eravamo attratti dall anima nera della società e ci piaceva parlarne. «Ti trovo in gran forma» mi stuzzica Gaia. In realtà sono stanco, negli ultimi dieci giorni ho dormito poco, ma dimostro sempre sei o sette anni meno dei miei quarantasette abbondanti. Anche lei, in effetti. «Resti sempre la mamma più bella che conosco.» «Con l età sei diventato galante.» «Avresti dovuto sposarmi quando era il momento.» «Mica me l hai chiesto» si schermisce lei. La risposta che mi viene in mente, indegna di uno psichiatra, lo ammetto, è questa: Neanche Renato te l ha chiesto, ma l hai voluto a tutti i costi. Dico, invece: «Sono sempre stato un cretino. Fin da giovane i sintomi erano evidenti. E tu eri troppo intelligente per non accorgertene». Maria ci guarda leggermente sconcertata dalla poltrona. Non è abituata a vedere la mamma flirtare, benché in modo innocente. O forse, bella com è, ha già imparato che non esistono corteggiatori innocenti. Gaia ride e mi prende sotto braccio, scortandomi in sala da pranzo. Quando è allegra è irresistibile. «Immagino che tu ti tenga così in forma con una dieta ferrea. Però stasera ti prego di fare eccezione. Renato ha cucinato personalmente la pasta e il dolce. Se non mangi si arrabbia. Sai com è il tuo amico.» Certo che lo so. Lo conosco così bene da sapere 12

11 perfettamente che di quello che mangio non gliene frega proprio nulla. Renato ama la compagnia, le chiacchiere. Per quanto sia orgoglioso della famiglia, ogni tanto credo che ci si senta un po stretto. Forse ha dovuto rinunciare un po troppo presto alla leggerezza e alla stupidità dei vent anni, costretto a calarsi subito nel ruolo del padre. Io, a quel tipo di irresponsabilità, non ho ancora rinunciato. Non ho mai avuto una moglie, e attualmente non ho neppure una compagna. Non sono mai stato padre. Una volta ci sono andato vicino. Ero anche contento, ma poi lei ebbe un aborto spontaneo. Mi accorsi di essere contento lo stesso. Mi mancava la vocazione, probabilmente. La dedizione assoluta che ti porta ad adottare una bambina africana di dieci anni, che non spiccica una sola parola d italiano, come Maria, per trasformarla in una studentessa modello nel giro di altri dieci anni. Sebbene Maria sia più anziana dei suoi compagni di classe frequenta la quinta liceo scientifico ricordo l orgoglio di Gaia e Renato, quando la bambina andava alle medie e i professori si dichiaravano stupiti di come avesse annullato in meno di due anni qualsiasi gap linguistico e culturale, per diventare la più brava. Ruolo che, prima di lei, aveva già ricoperto Enrico. In casa Fabbri c è posto solo per l eccellenza. Mi chiedo se il motivo reale per cui non mi sono mai fatto una famiglia sia l inquietudine che mi avrebbe afferrato se mio figlio non fosse venuto così bene come quelli del mio amico. Sarei stato un padre all altezza? In teoria sì, ma in pratica? Psicologi, psichiatri e psicanalisti corrono rischi, con i figli. Di solito sono genitori invasivi, difficili da sopportare per un bambino. Peggio ancora, per un adolescente. C è il pericolo di tirar su disadattati 13

12 che cercano disperatamente uno spazio per esprimersi. Forse mio figlio non ce l avrebbe mai fatta a liberarsi di me. A tavola ci raggiungono anche Renato ed Enrico. Fisicamente, non potrebbero assomigliarsi di più. Nel modo di fare, però, il ragazzo mi ricorda molto di più Gaia. Mi sorride anche lui. «È un piacere rivederti. Ho ancora il computer che mi hai regalato.» «Ma sarà un pezzo d antiquariato» ribatto sorpreso. «Sì. Aveva una memoria piccolissima, che oggi non basterebbe per la ram, però conteneva un programmino di scrittura leggero, semplice, fantastico. È diventato il mio diario. Mi costringe a misurare ogni parola. Ci scrivo solo le cose fondamentali, le idee irrinunciabili.» «Ogni tanto ti toccherà cancellare per mancanza di spazio.» «Sì, trasferisco tutto sull altro pc. Ma per me è fondamentale scrivere su quello vecchio.» «Sono lieto di averti regalato una cosa che usi ancora.» «Io molto di più.» In effetti, sembra che sua madre lo abbia clonato. Come lei, è determinato a piacere e sa mettere a suo agio l interlocutore. Come lei, ci scommetto, ti dice subito qualcosa di personale per nascondere meglio i suoi pensieri. Ho sempre creduto che Gaia coltivasse una personalità nascosta dietro quegli occhioni da geisha. Lei è il tipo capace di sorriderti mentre la guardi togliere le viscere a un coniglio, perché tanto si tratta di un operazione che va assolutamente fatta se si vuole preparare la cena. 14

13 Per lavoro, vedo tutti i giorni orrori ben peggiori, tuttavia non sarei mai capace di sventrare un animale morto. Soprattutto, non mi riuscirebbe mai di farlo come lei. In allegria. Penso proprio che dietro il perfetto equilibrio apparente di Gaia si nasconda una natura passionale e violenta. Un aspetto che coltiva in segreto: disdicevole da proporre in compagnia. O magari è il mio lavoro che mi condiziona a vedere doppie e triple personalità anche in chi non soffre di patologie psichiche gravi. Renato arriva a tavola togliendosi il grembiule. Una piccola ostentazione, per farmi capire che ha cucinato per me. Forse ha ragione Gaia. Il mio amico vuole che apprezzi la sua opera. Mi spiega subito il perché. «Ti ho detto che l anno scorso mi sono iscritto a un corso di cucina?» «Lo imparo adesso.» «Cercava qualcosa che lo distraesse dai codici» interviene Gaia. «Io non gli basto più» ammicca. Renato non la segue nel discorso. Ha l entusiasmo cieco dei neofiti. «Ho seguito anche le lezioni da sommelier. Ecco il risultato.» Mi mostra una bottiglia di Sangiovese dei colli romagnoli. Fino a una quindicina d anni fa il Sangiovese locale, da non confondere con il Cannaiolo che costituisce la base di tanti vini toscani, faceva piuttosto schifo. Era uno dei vini tipici più bolsi che fossero mai stati prodotti. Poi gli indigeni hanno deciso di fare sul serio, e di dare un impronta irripetibile al loro totem enologico. Diverse cantine si sono messe a produrre Sangiovese con tutti i crismi. «Dieci euro a bottiglia» mi spiega Renato, non per 15

14 ineleganza ma per farmi capire quanto poco costa una simile prelibatezza, sempre che qualcuno sia così avveduto da trovarla sul mercato. «Lo fanno qui vicino. È fantastico.» Assaggio. Chiudo gli occhi. Mando il sorso in giro per la bocca e lo spedisco in fondo al palato. Lussureggiante. Come direbbero gli esperti, ha un sentore di more che si impone. «Veramente buono» azzardo. Segue un brindisi, e ci mettiamo a tavola. Come primo, pasta con le sarde. Una cosa semplice, si direbbe. Mi va bene che, invece di riempirmi il piatto, il mio amico mi versi una dose omeopatica. Sa che non sono una gran forchetta. Ho maggiori probabilità di arrivare in fondo se le portate sono scarse. E comunque, appena metto in bocca due maccheroni, mi è chiaro che Renato ha creato un capolavoro. Sono fatti a mano, e hanno assorbito alla perfezione il pomodoro, le sarde, il salato e l amaro. Verrebbe voglia di non ingoiarli per non perdere un solo aroma. Mi arrendo alla necessità e li mando giù. Svuoto il piatto in due minuti: mi verrebbe da chiederne ancora. Ma ho idea che sia meglio tacere e affidarsi allo chef. Gaia, che non è una fanatica della nouvelle cuisine come pare diventato il marito, mi viene in soccorso. «Ne vuoi ancora?» «Grazie, volentieri» rispondo sollevato. Renato si fionda di nuovo in cucina, e torna con un altra dose di maccheroni che basterebbero a sfamare almeno un paio di grilli. Forse ha in serbo molte portate e vuole assicurarsi che non me ne perda neanche una. Procedo a masticare, dire sciocchezze e mandar giù Sangiovese. La cena avanza tra battute di 16

15 Gaia e risate dei ragazzi alle mie risposte. Si capisce che ammirano molto i genitori. Renato è indaffaratissimo tra piatti e pentole. Mi propone cappelletti al sugo, che naturalmente sanno di sfoglia appena tirata, anche se la vera opera d arte è proprio il sugo di pomodoro. Ci ha messo dentro un ingrediente che lo rende indimenticabile, non capisco quale. Seguono voul-au-vent ai frutti di mare. Alla fine sono esausto, anche se ammetto che le porzioni minime mi hanno aiutato ad arrivare in fondo. I ragazzi stanno occhieggiando l orologio da un po. Hanno i loro impegni. Enrico attende che io abbia finito l ultimo cucchiaino di gelato alla crema, condito con l aceto balsamico. Poi si alza con la faccia contrita, come se restare seduto fosse il suo più gran desiderio, ma sapete com è, fuori c è una strafiga che lo aspetta e, a malincuore, gli tocca assentarsi. «Spero di rivederti presto» mi dice. «Vedrai che ci sarà l occasione» ribadisco come se a lui gliene importasse davvero. Maria ne approfitta per seguire il fratello e congedarsi a sua volta. Chissà perché, mi bacia sulle guance e in questo modo mi fa involontariamente assaggiare il suo odore. Sotto a un deodorante quasi neutro, emana un profumo speziato, dolce e piccante allo stesso tempo. O forse è un effetto del Sangiovese. Sono contento che i ragazzi ci lascino anche perché, per quanto piacevole, la cena ha avuto momenti imbarazzanti, dovuti semplicemente al fatto che sappiamo tutti perché sono qui. Non è solo un incontro tra vecchi amici. Renato mi ha chiamato per affidarmi un lavoro, e significa che è successo qualcosa di terribile. Lo so io, lo sa l intera famiglia Fabbri. A tavola nessu- 17

16 no ne ha lontanamente accennato, ma nei momenti di silenzio pareva che una presenza ingombrante si fosse insinuata tra noi. I ragazzi sembrano molto partecipi dei problemi dei genitori. E Renato, credo, ne ha uno piuttosto grosso. Quaranta giorni fa, i telegiornali ne hanno parlato, una donna è stata assassinata a coltellate a Rimini. Una donna incinta. Ma del colpevole non c è traccia. Probabilmente gli investigatori si sono arenati. Per questo sono qui. Posso aiutarli, e Renato lo sa. Mi serve un quadro chiaro della situazione, sapere cos è successo esattamente, inserire i fatti in una cornice che li renda comprensibili. Ho il sospetto che la morte della donna, si chiamava Isabella Sassoli, nasconda qualcosa di peggio di quello che ho letto sui giornali. L assassino l ha massacrata a coltellate. Se Renato ha deciso di chiedere la mia consulenza, però, deve esserci altro. Il mio amico vuole affidarmi un incarico ufficiale. Dall impegno che ci ha messo nel preparare la cena e da quanto è rimasto in silenzio mentre mangiavamo, direi che ci tiene parecchio. Tra poco mi dirà quanto. «Il caso non è mio, il che può sembrare strano, visto che ti ho chiamato qui. Però ho parlato sia con il procuratore capo che con il sostituto che segue l inchiesta e sono d accordo. Ci serve uno come te, l indagine è praticamente ferma.» Seduti nello studio di Renato, tra librerie antiche, stipate di minacciosi tomi di diritto penale, e sedie di legno intarsiato, mi sento un viaggiatore nel tempo. Anche lo scrittoio dell Ottocento contribuisce all effetto complessivo, appena attenuato dal computer parcheggiato in un angolino del ripiano. Sono stupito. Renato mi ha convocato per assegnarmi, di fatto, la consulenza 18

17 in un indagine di cui non è il titolare. Bizzarro, se non altro. «Non capisco. Sai che mi serve la fiducia incondizionata di chi guida l inchiesta. Altrimenti spreco il mio tempo e la procura i suoi soldi. Tra noi non ci sarebbero stati problemi, ma non conosco...» «Il procuratore e il sostituto Spinesi sono felici di lavorare con te. Ti spianeranno qualsiasi ostacolo.» «E i poliziotti?» «Be, li conosci. Mai incontrato uno che fosse contento di vederti. Però non hanno scelta.» Non me lo ricordavo così freddo. Il mestiere lo ha indurito. Si fa quello che serve, quando serve. Fanculo alle sensibilità professionali e alle difese dell orticello. Vuole un colpevole, anche se l indagine non è sua. Ci tiene quasi troppo. «Sei coinvolto personalmente?» chiedo. «Conoscevi la vittima?» «Preferisco che ti faccia un idea senza condizionamenti. Avremo tempo di riparlarne, se accetti l incarico. Non devi farti influenzare dall amicizia, né dal mio ruolo professionale.» Renato parla come se mi trovassi in un altra stanza. E quello che dice è più preoccupante di come lo dice. «Che c entra l amicizia?» «Niente, ma...» «Se stai per affidarmi una consulenza su un caso che ti vede coinvolto, rifiuto subito. Non mi importa di chi ha ammazzato la, come si chiama, Sassoli. È un problema della procura di Rimini, non ancora un mio problema.» Sto immaginando che Renato, nel gestire il caso, si sia scontrato con colleghi e superiori. E che, nel fare 19

18 un passo indietro, abbia proposto me per riacquisire in qualche modo la padronanza dell inchiesta. «Ti ringrazio. Però insisto per la tua consulenza. Preferisco non spiegarti troppe cose in anticipo. Facciamo così: domattina ti leggi le parti essenziali dell incartamento che ti ho fatto preparare. Quando avrai finito sarai ancora in tempo per rifiutare, ma non credo. L unico che può far luce su questa storia, ormai, sei tu.» «Dirò sì o no dopo aver visto le carte. Se tu smettessi di fare il misterioso, però, sarei più contento.» «C è un motivo preciso per la mia riservatezza. E non dimenticare che parliamo del lavoro di un collega, non del mio.» Inutile tentare schermaglie con Renato. Non si lascia certo mettere nel sacco da uno psichiatra. Quando non si riesce a sfondare, un buon trucco è fingere la resa. E, in ogni caso, gli ho chiesto se conosceva la vittima e non mi ha risposto. Perciò la conosceva. «Cosa puoi dirmi?» «Il fatto più importante: la Sassoli non è stata assassinata come hanno scritto i giornali.» «Accoltellata?» «Ecco, non esattamente.» I misteri aumentano e Renato non mi aiuta a diradarli. Come tattica per indurmi ad accettare la collaborazione è ottima. In realtà accetterei lo stesso, perché mi va di stare un periodo a Rimini e ho bisogno di soldi per un mio progetto particolare. «Hai detto che la procura è felice della mia consulenza. Accetteranno qualsiasi conclusione?» «Senz altro.» «E se non gli piacesse?» «Sempre meglio del niente che ci circonda adesso.» 20

19 «Comunque, avete fatto bene con i giornali» lo incoraggio. «Le indagini sputtanate dalle fughe di notizie sono più di quelle risolte.» «In questo caso non è che abbiamo semplicemente omesso dei particolari. Questo si fa sempre. Invece siamo riusciti a divulgare una versione di comodo, che non assomiglia alla realtà.» Sono perennemente scettico sulla capacità della polizia, o dei carabinieri, o dei magistrati, o degli impiegati della procura, di tacere in merito alle circostanze di omicidi efferati. Di solito, sulla scena di un delitto, si raccomanda la massima riservatezza a tutti. Agenti, becchini, testimoni, sarebbero tenuti a mantenere il segreto. E spesso lo fanno. Per due o tre ore. Oltre, sfibrati dal titanico sforzo di tenere la bocca chiusa, cominciano a parlarne con il portinaio, il panettiere, il barista, il collega e i passeggeri del loro autobus preferito. In capo a un giorno di lavoro, tutta la città comincia a romanzare intorno ai particolari più raccapriccianti, tra la cucina e il salotto. Tutti sanno tutto. L importante è che non lavorino al caso in questione, perché lì le cose si complicano. Magari c è un colpevole ma non c è il movente, oppure il movente è chiaro, tipo la rapina, e il colpevole è ignoto, oppure ci sono troppe tracce e non si capisce quali scartare e quali prender per buone. Resta il fatto che costringere le persone a tacere sembra un impresa superiore alle forze di qualsiasi magistrato. «Come avete fatto a vendere una versione di comodo?» «È stato semplice» fa Renato. «Ci ho pensato io.» «Non è tua l inchiesta.» 21

20 «Sono stato il primo ad arrivare. Ho deciso io chi aveva accesso alla scena del crimine. Ho garantito la massima riservatezza.» «Per questo vuoi me, adesso? Qualcuno che sappia mantenere la giusta distanza dai fatti?» «Ci ho pensato, sì. Ma non solo.» «Cos altro?» «Sei il migliore. E in questa storia serve uno veramente bravo.» Mi hanno dato un bugigattolo dove leggermi la documentazione. Per trovarmi una sistemazione in mezzo agli uffici giudiziari di Rimini c è voluta più di un ora. I primi trenta minuti li ho persi per trovare le stanze della procura. Il nuovo palazzo di giustizia, costruito da pochi anni, è un assemblaggio di parallelepipedi con gli assi centrali che si incrociano. L edificio è un labirinto del cazzo. Gli uffici si trovano in una spina formata da due lunghi rettangoli divisi al centro da uno spazio di vetro. Praticamente, un ferro di cavallo disegnato solo con linee rette. La struttura è stata eretta con due scopi precisi. Il primo: impedirvi di parcheggiare vicino. Nel piazzale c è posto per un centinaio di auto; il triplo sarebbe comunque insufficiente. Il progettista deve aver pensato che, se proprio dovete andare in tribunale, è meglio fermarvi lontano e fare una passeggiata. Ne guadagnerete in salute psicofisica, casomai stessero per condannarvi a una quindicina d anni di galera. Il secondo scopo si deduce dalla pianta interna dell edificio, pieno di lunghissimi corridoi gemelli e cubicoli simmetrici che rendono ogni spazio identico agli altri e impediscono di trovare chiunque uno cerchi. 22

21 Questo effetto di spaesamento è significativo. Si entra nel tempio della giustizia e ci si ritrova in un labirinto senza vie di fuga. In più, le uscite di sicurezza sono sigillate. Bloccate per impedire attentati e l ingresso surrettizio di malintenzionati. Se scoppia un incendio si resta intrappolati dentro, però nessuno può entrare a commettere un crimine. In compenso, davanti alla porta principale, c è una postazione di guardie armate che vigilano su ogni tizio sospetto. I rapinatori pluripregiudicati li lasciano passare. È normale che bazzichino nei tribunali. Se invece vedono me, il loro allarme interno entra immediatamente in funzione. «Buongiorno» mi ha affrontato un tizio di centoquaranta chili affogato in una divisa da poliziotto. «Ciao» gli ho risposto, sforzandomi di emergere dalla faccia cisposa che mi affligge la mattina. Con la barba lunga e l aria accigliata devo essergli sembrato un terrorista islamico, perché ha corrugato la fronte come per dirmi di fare il bravo e non tirare bombe a mano qui e là. Impressionato dalla sua grinta, sono andato dritto all ascensore e sono salito al primo piano senza che nessuno mi controllasse. Per trovare l ufficio del sostituto procuratore Spinesi sono entrato in diciotto stanze uguali che contenevano diciotto tizi uguali, che alla mia domanda su dove si trovasse lo studio del magistrato hanno risposto in modo sempre uguale: la prossima porta. Diciotto volte la prossima porta dopo, sono arrivato davanti a Spinesi. Che è stato molto gentile, cerimonioso, quasi. Giovane, avrà sì e no trent anni, comprensivo, in apparenza entusiasta di poter contare su di me. Gli ho detto 23

22 che mi riservavo di accettare solo dopo aver letto gli atti. Si è subito preoccupato e ha voluto presentarmi il procuratore capo, che naturalmente ci teneva molto anche lui a incontrarmi. Hanno speso un quarto d ora a farmi i complimenti, a dire che Renato aveva parlato benissimo di me e che la mia carriera, in ogni caso, parlava da sola. Potendo, mi avrebbero detto: ci dia una mano perché non sappiamo dove sbattere la testa. Siccome mi piace sentirmi utile, volevo rassicurarli subito e accettare la consulenza. Ma ho preferito tenerli sulla corda. Così ho potuto ritirarmi con il fascicolo delle indagini. L unica cosa che conta. Mi prendo il tempo che serve. Lo leggo e lo rileggo. È sconvolgente. Non so come abbia fatto Renato a impedire che questo caso di omicidio occupasse per settimane le prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali nazionali. Isabella Sassoli non è stata solo uccisa a coltellate. Le è accaduto qualcosa di molto peggio. Secondo il rapporto della polizia, all una e tre quarti circa del ventinove ottobre scorso, Gesualdo Sassoli è tornato a casa, dopo aver trascorso la serata con un amico. Sua moglie Isabella non lo aveva accompagnato perché era incinta di otto mesi, e non voleva stancarsi. Preferiva andare a letto presto. Appena rientrato, il marito aveva cercato di muoversi in silenzio per non disturbare la compagna. Aveva acceso la luce nella sala d ingresso, trovando tutto in ordine. Poi aveva lasciato i vestiti su una sedia, era salito su per le scale senza le scarpe e una volta in cima aveva spento la luce. Era entrato in camera al buio, e si era accostato al letto, camminando sopra qualcosa di umido. Aveva appoggiato una mano sulla coperta e se l era bagnata. 24

23 Improvvisamente allarmato per la moglie, aveva acceso l abat-jour sul comodino. E a quel punto l aveva vista. Sul lato sinistro del grande letto matrimoniale, Isabella era immersa in un lago di sangue. Le mani legate alla spalliera, le gambe divaricate e fissate con una corda al bordo metallico della rete a doghe. Un giro di nastro adesivo le serrava la bocca e le fermava i lunghi capelli biondi intorno alla testa. Al posto della pancia le era rimasto un buco vuoto e nero, dal quale era uscita una quantità impressionante di sangue. Gesualdo Sassoli era stato preso dal panico. Si era infilato nel bagno e aveva tentato di rianimare la moglie con l acqua. Le aveva inutilmente coperto l addome squarciato per fermare l emorragia, ma lei era già morta. Non era riuscito a sciogliere le corde che la legavano, però si era imbrattato di sangue nel tentativo. In preda allo choc, aveva telefonato all amico col quale aveva trascorso la serata. E solo allora, dopo aver abbassato la cornetta del telefono, era stato fulminato da una visione che non avrebbe dimenticato mai più. Il corpo di suo figlio, il feto strappato dalle viscere della mamma, a testa in giù, con le gambe piegate come se fosse un giocattolo rotto. Era riverso sotto la parete a cui si appoggiava il letto, in fondo a una scia di sangue che scendeva dal muro, come se qualcuno ce lo avesse scagliato contro dopo averlo estratto dal ventre di sua madre. Dalla pancia spuntava una specie di manico penzolante. Il cordone ombelicale reciso di netto da una coltellata. Quando la polizia era arrivata aveva trovato Gesualdo Sassoli seduto in giardino, in maglietta, mutande e calzini, imbrattato di sangue, che farfugliava frasi senza 25

24 senso e parlava con un altro uomo. L amico con cui aveva trascorso la serata, mentre qualcuno faceva a pezzi sua moglie e suo figlio. Il sostituto procuratore Renato Fabbri. L unica cosa che gli agenti avevano capito in mezzo al vaneggiamento di Sassoli era un inutile rassicurazione rivolta alla moglie defunta. «Adesso arrivano, Isabella, adesso arrivano.» La presenza di un magistrato aveva semplificato le operazioni. Nessun poliziotto era entrato in casa prima della Scientifica, a inquinare la scena del delitto. Immaginavo che Renato avesse imposto al capo della Mobile, Ettore Mazza, di selezionare gli agenti con i quali avrebbe lavorato al caso, possibilmente tra i più discreti a sua disposizione. Dopo i rilievi e le foto, i cadaveri di mamma e figlio erano stati trasportati direttamente nella sede di medicina legale per l autopsia. Nessun estraneo li aveva visti, neppure tra gli agenti che avevano formato un cordone di sicurezza intorno alla villa dei Sassoli. La notizia diffusa la mattina dopo parlava di una donna incinta assassinata a coltellate nella sua abitazione. Nient altro. Nessun particolare, se non che le indagini procedevano a trecentosessanta gradi e l indiscrezione, lasciata trapelare apposta, dei sospetti su una banda di rapinatori slavi, in realtà mai esistita. Renato sa il fatto suo. Per evitare ingerenze in un inchiesta non c è niente di meglio che solleticare un pregiudizio diffuso. Il pubblico ha già impresso nei circuiti neuronali lo spauracchio dello straniero assassino e i giornali vivono solo per accontentare i lettori. Il mio amico aveva dato alla gente lo spettro che voleva, in modo da tenere gli occhi curiosi lontano dalle indagini. Ricordo dai quotidiani che un gruppo politico aveva 26

25 organizzato una fiaccolata contro gli immigrati, ma la cosa si era andata smorzando con il passare dei giorni. Capisco anche perché Renato abbia lasciato l inchiesta quasi subito. Non solo era un testimone prezioso, essendo arrivato in casa Sassoli prima degli agenti. Costituiva anche l alibi del marito della vittima, inevitabilmente sospettato visto che era stato l ultimo a vedere la moglie viva e il primo a trovarla morta. Come rappresentante dell accusa, Renato non sarebbe stato equidistante dai fatti. Aveva ceduto il passo a un collega, dopo essersi assicurato, insieme al procuratore capo, di secretare gli aspetti più raccapriccianti della vicenda. E qui torno in scena io. Perché, anche se nessuno me l ha detto esplicitamente, è evidente che ci sono due problemi in questo omicidio. Primo: dopo più di quaranta giorni le indagini sono in un vicolo cieco. Secondo: dalle circostanze del delitto si potrebbe dedurre che abbia agito un assassino seriale. Ora, nessun investigatore e nessun profiler parlerà mai di serial killer davanti a un solo omicidio, ma l ipotesi va tenuta in considerazione. Tracciare un ritratto più realistico possibile del colpevole, senza conoscerne il volto e l identità, è esattamente il mio lavoro. Ma può portarci su una strada che non vorremmo mai imboccare. 27

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