Enrico di Gand (Henricus de Gandavo)

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1 Enrico di Gand (Henricus de Gandavo) Somma delle questioni ordinarie (Summa quaestionum ordinariarum), art. 21, q. 2: Se Dio comunichi, nell essere, con le creature (Utrum Deus in esse communicet cum creaturis). Quanto alla seconda questione, si argomenta che Dio e la creatura comunicano nell essere, così che l essere sia qualcosa di comune rispetto a Dio e alla creatura, in primo luogo così: ciò per cui più cose differiscono da altro e non tra esse, è qualcosa di comune e identico rispetto ad esse, perché, se non fosse comune, in virtù di esso quelle cose differirebbero l una dall altra e non, congiuntamente (communiter), da una terza. Ma Dio e la creatura, in ragione della loro entità presa in senso assoluto, differiscono congiuntamente, secondo la considerazione, da ciò che non è, che esprime una pura privazione dell essere. Dunque ecc. In secondo luogo si argomenta così: posto che l identico e il diverso dividono tutto l ente, se Dio e la creatura non fossero identici né comunicassero nell ente, differirebbero nell ente e sarebbero diversi l uno dall altra proprio in quanto sono enti. Ma se così fosse, dal momento che secondo il Filosofo l identico e il diverso si riducono all uno e al molteplice, Dio e la creatura sarebbero molteplici nell ente. E di conseguenza, poiché è necessario che ogni moltitudine sia ricondotta a un unità, al di sopra dell ente in cui Dio e la creatura differiscono e in cui sono molteplici dovrebbe esserci qualcosa in cui essi convengano e siano uno. Ma ciò è impossibile, poiché tale nozione precederebbe la nozione di ente, che secondo Avicenna è prima. Dunque ecc. In terzo luogo si argomenta così: ciò che si predica di molti, e che possiede per sé un concetto ulteriore rispetto ai concetti delle cose di cui si predica, è qualcosa di reale e comune rispetto a tali cose, poiché ogni concetto si fonda in una qualche realtà. L ente è tale: secondo Avicenna, infatti, l ente si imprime nell anima in modo primario, prima ancora che in essa si imprimano il concetto della creatura o quello di Dio. Dunque ecc. In contrario si argomenta in primo luogo così: tutte le cose che sono fra loro diverse e che convengono in qualcosa di comune devono necessariamente differire secondo l essere in ciò che rispetto ad esse è comune, come fanno uomo e asino sotto animale. Dunque, se vi fosse un qualche essere comune a Dio ed alla creatura, sotto di esso Dio e la creatura differirebbero secondo l essere. E così in Dio vi sarebbe un duplice essere: uno in cui converrebbe o comunicherebbe con la creatura, e un altro in cui differirebbe da essa. Ma ciò è impossibile: se così fosse, infatti, l essere di Dio non sarebbe assolutamente 1

2 semplice, né Dio sarebbe puro essere, mentre più oltre si mostrerà il contrario. Dunque ecc. In secondo luogo si argomenta così: l accidente in quanto si allontana dalla natura di sostanza, a cui conviene l essere in senso assoluto non si dice ente in senso assoluto. Ma poiché si avvicina alla sostanza in quanto ne è una disposizione, condivide in qualche modo con la sostanza il nome di ente, così che, come dice Aristotele nel VII libro della Metafisica, l accidente si dice ente in quanto è una disposizione di quell ente che è la sostanza, così che, se non si avvicinasse in tal modo alla sostanza, non comunicherebbe con essa nell essere, in modo tale da esser detto ente in quanto è qualcosa di quell ente che è la sostanza. Ma l essere della creatura non si avvicina in nulla alla natura del creatore, poiché tra essi la distanza è infinita. Dunque la creatura non comunica affatto nell essere con il creatore, in virtù di una qualche attribuzione a quest ultimo. In merito a tale questione si deve dire che l ente in quanto non significa una qualche intenzione, come si dirà più avanti, che sia unica e comune rispetto alla sostanza e all accidente, ma significa, nella sua prima significazione, ciascuno dei dieci predicamenti non può essere comune alla sostanza e all accidente in virtù di una qualunque comunanza reale. Di conseguenza, dato che il creatore e la creatura convengono in una qualche unità reale molto meno di quanto non facciano due creature (e cioè la sostanza e l accidente), e dato che, anzi, il modo di essere del creatore dista dal modo di essere della creatura molto più di quanto differiscano il modo di essere di una creatura da quello di un altra, l ente non può in alcun modo essere qualcosa di reale che sia comune a Dio e alla creatura. E per questo si deve dire in senso assoluto che l essere non è qualcosa di reale e comune in cui Dio comunichi con la creatura: se l ente o l essere si predica di Dio e delle creature, ciò accade solo in virtù di una comunanza del nome, e non della cosa, e pertanto non in maniera univoca, secondo la definizione dei termini univoci, né in maniera puramente equivoca, secondo la definizione dei termini equivoci per caso, ma in modo intermedio, cioè analogicamente. Al fine di intendere questo punto si deve osservare che la convenienza di una cosa rispetto ad un altra riguarda soprattutto la forma, e ciò in due modi, in quanto è duplice il modo di avere qualcosa in comune secondo la forma. In primo luogo, secondo la medesima ragione: questa convenienza prende il nome di convenienza di somiglianza e riguarda quelle cose che partecipano realmente (secundum rem) di una medesima forma, al modo in cui due cose bianche partecipano della bianchezza e due uomini partecipano dell umanità. Si tratta di una convenienza di univocità, che però, come detto, non ha luogo tra Dio e la creatura in riferimento all essere. La convenienza del secondo tipo, invece, è una convenienza nella forma secondo ragioni differenti: essa prende il nome di 2

3 convenienza di imitazione e ha luogo universalmente tra ciò che produce qualcosa e ciò che è prodotto, e tra le cause e i causati. Poiché infatti, secondo il Filosofo, ogni agente, per quanto contrario, tende al proprio fine in quanto simile, e, in quanto simile, non produce se non il simile, e poiché ogni agente agisce in virtù della propria forma e produce il causato in un certo essere formale, è necessario che in tutto ciò che è prodotto, come sempre accade nel caso del causato e dell effetto, si trovi una somiglianza della forma dell agente. E se tale somiglianza non si produce secondo la medesima ragione specifica, come accade nel caso del rapporto tra l uomo che genera e dell uomo che è generato, essa si realizzerà tuttavia secondo una certa imitazione, come quando qualcosa è generato dal sole. E anche se ciò che è generato non accede ad una somiglianza specifica con il sole, così da ricevere la forma del sole, esso accede tuttavia ad una certa imitazione della specie del sole, così da ricevere una forma che in qualche modo è rapportabile e corrispondente alla forma del sole. E in generale quanto più l agente è prossimo, senza mediazioni, al prodotto, tanto maggiore è la convenienza di imitazione del producente rispetto al prodotto, mentre è tanto minore quanto più l agente è remoto e separato da più mediazioni. Pertanto, poiché Dio è la causa efficiente di tutte le creature (benché di alcune mediante altre cause: e di esse, da questo punto di vista, Egli è il primo principio più remoto), è necessario che ogni creatura convenga con Dio secondo una certa forma, almeno secondo quella convenienza di imitazione che sussiste tra una forma e un altra. Di conseguenza, poiché, come si vedrà più avanti, la forma divina è l essere stesso, dal quale la creatura mutua il nome di essere per il fatto che l essere divino, come si dirà più avanti, è la sua causa, allora è necessario dire che almeno nell essere la creatura comunica con il creatore in virtù di una convenienza di imitazione. E così il creatore e la creatura, sebbene non comunichino secondo una convenienza di reale somiglianza in qualche forma significata dal nome ente, tuttavia convengono nell ente secondo la convenienza di imitazione che sussiste tra due forme, delle quali una significa l ente in quanto conviene a Dio, e l altra, invece, l ente in quanto conviene alla creatura. L essere, dunque, non conviene a Dio e alla creatura univocamente: esso, infatti, non conviene loro secondo una medesima forma, per significare la quale sia stato imposto il nome ente. E neppure conviene loro in maniera puramente equivoca: quel nome, infatti, non significa la forma di Dio e la forma della creatura con la stessa immediatezza o con la stessa priorità, al modo in cui i termini che sono equivoci per caso significano con la stessa immediatezza o con la stessa priorità entrambi i loro significati, come il nome Aiace nel caso di Aiace Telamonio e nel caso del figlio di Oileo. Esso conviene invece in modo intermedio, cioè analogicamente: significa infatti immediatamente e prioritariamente uno dei suoi significati, mentre significa l altro in virtù di un riferimento e di una relazione o proporzione al primo, e cioè immediatamente e 3

4 prioritariamente la forma in virtù della quale ha l essere Dio, e solo in riferimento ad essa significa la forma in virtù della quale ha l essere la creatura. Lo stesso accade con la sostanza e l accidente: in tal caso, infatti, l ente significa immediatamente e prioritariamente la sostanza, mentre significa l accidente in quanto quest ultimo possiede un ordine e un rapporto alla sostanza. Così, la sostanza si dice ente in prima istanza, mentre l accidente è detto ente in modo subordinato alla sostanza, così che ente significa in primo luogo la sostanza, mentre l accidente mutua il nome di ente dalla sostanza in virtù del suo essere ordinato ad essa, conformemente a quanto si afferma nel VII libro della Metafisica, cioè che «l ente si dice in molti modi» e «il primo di essi è [ ] quello che significa la sostanza [ ] e le altre cose sono dette enti in quanto si riferiscono ad un ente di questo tipo», e a quanto si afferma nel IV libro, cioè che «l ente si dice in molti sensi, ma non equivocamente: tutti i sensi si riferiscono ad una cosa e ad una natura». E in questa maniera l ente predicato nella sua accezione più generale (ens communissime dictum) significa Dio in primo luogo e la creatura secondariamente, così come l ente creato significa in primo luogo la sostanza e secondariamente l accidente. Ma in questi due casi la predicazione ha luogo secondo diverse modalità di attribuzione. Infatti, mentre gli altri enti si attribuiscono alla sostanza come ad un soggetto, tutte le creature si attribuiscono a Dio come ad un fine, ad una forma e ad un principio efficiente, ossia come al fine dal quale sono perfezionate quanto al loro essere buone, come alla forma dalla quale dipende il fatto che di esse si possa dire che sono dotate di un essere essenziale (esse essentiae), come ad un principio efficiente dal quale dipende che ad esse convenga in assoluto l essere dell esistenza attuale (esse actualis existentiae). Infatti, il nome cosa, detto a partire dal verbo pensare, è indifferente rispetto all ente ed al non-ente; nondimeno, per il fatto che a ciò che è concepito mediante il nome cosa corrisponde nel primo agente una ragione esemplare, conformemente alla quale può essere prodotto nell essere attuale in virtù della potenza efficiente di quello stesso agente, ad esso è attribuito un essere essenziale in virtù del quale si dice che la cosa stessa che è concepita è un ente o una qualche essenza. Infatti, ciò che non ha nel primo agente una ragione esemplare è un puro non-essere. Questa cosa, però, che è un ente o una natura e una qualche essenza nella misura in cui le è attribuito l essere per il fatto che nel primo agente le corrisponde una ragione esemplare, è a sua volta indifferente al fatto di essere un ente o un non-ente nell esistenza attuale: ad essa, infatti, l essere dell esistenza attuale (in virtù del quale si dice che la cosa è esistente in atto) è attribuito per il fatto che è fatta da Dio ed è un suo effetto. Infatti, ciò che non è un effetto di Dio, o immediatamente o in virtù della mediazione di altre cause, non esiste assolutamente in atto, poiché, come si dice nel I capitolo del Vangelo di Giovanni, tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Entrambi questi tipi di essere, dunque, convengono alla creatura unicamente in virtù di una qualche attribuzione all ente primo. 4

5 La distinzione tra i due casi menzionati sopra riguarda anche un altro aspetto. Infatti, la sostanza precede l accidente sia secondo l ordine della cosa che secondo l ordine della nostra conoscenza, poiché essa è causa degli accidenti e cade nella loro definizione, così che, in entrambi i modi, sia per quanto attiene alla cosa che per quanto attiene alla nostra conoscenza, l ente significa in primo luogo la sostanza, ed è espressamente imposto per significarla, mentre significa l accidente solo secondariamente. Nel caso di Dio e della creatura, invece, l ordine della cosa e l ordine della nostra conoscenza divergono. Dio, infatti, precede la creatura per quanto riguarda l ordine della cosa e della natura. Al contrario, per quanto riguarda l ordine della nostra conoscenza secondo lo stato presente, e la conoscenza naturale pura e distinta è la creatura che precede Dio, poiché è a partire dalle creature che noi addiveniamo alla conoscenza di Dio. Pertanto, appare manifesto che, secondo l ordine delle cose, l essere si dice di Dio prima che della creatura. E tuttavia, poiché l ordine dell imposizione è conforme all ordine della nostra conoscenza, in quanto nessuno impone un nome se non conosce la cosa, secondo l ordine della nostra conoscenza e dell imposizione del nome l essere si predica in primo luogo delle creature e secondariamente di Dio: il caso del nome ente, infatti, è del tutto simile, come vedremo più avanti, al caso degli altri nomi che, tratti dalle creature, attribuiamo a Dio. E ciò accade molte volte il fatto cioè che ciò che è primo e più degno in senso assoluto, non è ciò che primo secondo l uso corrente del nome. Al primo argomento contro questa conclusione secondo il quale Dio e la creatura differiscono nell essere dal non-ente e non fra loro, e di conseguenza convengono nell essere si deve rispondere che ciò è vero secondo la convenienza di imitazione che sussiste tra la forma della creatura e la specie di Dio, indicate l una e l altra con il nome di ente, ma non, come s è detto, secondo la convenienza di somiglianza. Al secondo argomento secondo il quale, se Dio e la creatura sono diversi nell ente, la loro diversità deve essere ricondotta all unità si deve rispondere che è vero. Tale diversità, però, non deve essere ricondotta ad una terza unità, altra rispetto a quella molteplicità, come conclude l obiezione (il che, del resto, non è neppure sempre necessario); ma deve essere ricondotta all unità di uno dei termini di quella molteplicità. In tal senso tutto ciò che è nella creatura, come detto, si riconduce per una certa attribuzione a Dio, e ogni molteplicità di enti si riduce all unità dell ente primo, allo stesso modo in cui ogni numero si riduce all unità prima dalla quale trae origine e che contiene in sé. Al terzo argomento, secondo il quale l ente, preso in senso assoluto, è concepito prima del concetto di quell ente che è Dio o è la creatura, si deve rispondere che non è vero. Infatti, l uomo non può mai concepire alcun concetto dell ente in senso assoluto un concetto che sia unico, semplice, comune a Dio e alla creatura e ulteriore rispetto al concetto di Dio e della creatura senza che 5

6 concepire un qualche concetto di Dio o della creatura. Nessun concetto può infatti essere tale [cioè: unico e comune a Dio e alla creatura, e ulteriore rispetto ai loro concetti], e se l uomo concepisce qualcosa del genere, ciò che egli concepisce o appartiene soltanto all essere di Dio, o appartiene soltanto all essere della creatura. Tuttavia, per quanto riguarda il nome, entrambi [cioè: l essere di Dio e l essere della creatura], possono essere espressi, indifferentemente e simultaneamente, dal significato di ciò che è essere. Pertanto, tutte le volte che il nome ente compare in un enunciato sia esso un enunciato espresso esteriormente o semplicemente concepito nella mente rende sempre l enunciato stesso molteplice e bisognoso di distinzione; così come distingue Aristotele nel I libro della Fisica, opponendosi a Parmenide e Melisso, quando dice, a proposito dell enunciato l ente è, che esso significa o l ente che è sostanza oppure l ente che è accidente. Di conseguenza, ogni concetto reale mediante il quale, concependo l essere senza ulteriori qualificazioni (simpliciter), si concepisce qualcosa di una data cosa, è o il concetto di quella cosa che è Dio o il concetto di quella cosa che è la creatura, e non il concetto di qualcosa di comune ad entrambi. Tuttavia, sembra che si tratti di un concetto comune a coloro che non sono in grado di distinguere i molteplici sensi dell ente, e l essere del creatore dall essere della creatura, così come non è stato in grado di fare neppure Platone, quando ha posto che l ente è un genere, come se al nome ente corrispondesse un concetto unico e comune. Ma nulla del genere è invece sembrato a coloro che si sono rivelati più sottili di lui e che sono stati in grado, come Aristotele, di distinguere l ente e di discernere i suoi significati. D altra parte, la ragione per cui è sembrato che sotto il nome di ente si concepisse qualcosa di comune sta nel fatto che sia che si concepisca qualcosa che è la cosa divina sia che si concepisca qualcosa che è la creatura poiché si concepisce l essere senza concepire in maniera determinata e distinta ciò che appartiene a Dio o alla creatura, non lo si concepisce se non in maniera indeterminata, cioè senza determinare il concetto all essere di Dio o a quello della creatura. È in quanto ha fatto riferimento al concetto distinto di Dio o della creatura che Avicenna ha potuto ritenere (se ha ritenuto correttamente) che il concetto di ente precede il concetto di Dio o quello della creatura. Occorre tuttavia comprendere che quella indeterminazione è qualcosa di completamente differente nel caso dell essere di Dio e nel caso dell essere della creatura. L indeterminazione, infatti, è di due tipi: una si dice in senso negativo, e l altra in senso privativo. Si dà una indeterminazione negativa quando ciò che è indeterminato non è tale da poter essere determinato, al modo in cui si dice che Dio è infinito in quanto non può essere limitato. Si dà invece una indeterminazione privativa quando ciò che è indeterminato è tale da poter essere determinato, al modo in cui il punto è detto infinito quando non è determinato dalle linee dalle quali può essere determinato. 6

7 Secondo questa duplice indeterminazione, si deve comprendere che, quando si concepisce l essere senza qualificazioni (simpliciter) e indeterminato che appartiene a Dio, l indeterminazione con cui si ha a che fare è negativa, poiché l essere di Dio è tale da non poter essere in alcun modo determinato; così che, dopo aver inteso nelle creature questo dato essere e quel dato essere, se intendi l essere che è privo di qualificazioni per negazione (esse simpliciter per abnegationem) il quale non appartiene né a questa realtà determinata, né a quella, né a qualsiasi altra realtà determinata, intendi l essere di Dio, conformemente a quel che dice Agostino nell VIII libro del trattato Sulla Trinità: «intendi questo bene e quel bene. Se intendi il bene privo di qualificazioni, intenderai Dio». Allo stesso modo, intendi questo dato ente e quell ente; se invece intendi l ente privo di qualificazioni, intendi Dio. E ciò a condizione di concepire, come detto, l essere che è privo di qualificazioni e che è indeterminato secondo l indeterminazione negativa. Se invece si concepisce l essere in maniera indeterminata secondo l indeterminazione che consiste nella privazione di quelle cose in virtù delle quali quell essere è tale da poter essere determinato, si concepisce l essere che appartiene alla creatura: l essere della creatura, infatti, è tale da poter essere determinato in virtù di quelle nature per cui le creature differiscono l una dall altra. Come si è già visto, in effetti, ciò che si dice ente senza qualificazioni per il fatto che ad esso corrisponde una ragione esemplare nel primo ente deve essere determinato sulla base di una duplice natura, in virtù della quale non si dice <più> che è essere senza qualificazioni, ma che è qualcosa ovvero la natura della sostanza e quella dell accidente. Il nome di sostanza, infatti, nomina qualcosa che è ente senza esistere in altro come in un soggetto; il nome di accidente, invece, nomina l ente che esiste in altro come in un soggetto. E conformemente a ciò, la sostanza e l accidente costituiscono i diversi generi dei predicamenti, come si vedrà più avanti, così che ad ogni creatura, in quanto è una cosa predicamentale, il fatto di essere ed il fatto di essere qualcosa convengono in virtù di principî differenti: l essere, infatti, le conviene in virtù della partecipazione per attribuzione all ente primo in quanto è ente; l esser qualcosa, invece, le conviene in virtù della determinazione della propria natura, secondo quel che dice Boezio nel trattato Sulle ebdomadi, e cioè che «tutto ciò che è, per essere, partecipa di ciò che è l essere; mentre partecipa di altro per essere qualcosa». Così, spiegando l affermazione del trattato di Boezio Sulla Trinità, secondo la quale Dio è «la forma che è l essere stesso e dalla quale dipende l essere», il commentatore dice: «cioè la forma che non mutua la predicazione è da altro e che la comunica a tutte le altre cose in virtù di una qualche partecipazione estrinseca». «Quando infatti» (come egli dice al principio dell esposizione del trattato Sulle ebdomadi) «diciamo l uomo è, o il corpo è, o cose simili, i teologi intendono che tali enunciati si dicono in virtù di una denominazione estrinseca a partire dall essere del suo principio. Non dicono infatti che il corpo è in virtù 7

8 della corporeità, ma che esso è qualcosa, né che l uomo è in virtù dell umanità, ma che è qualcosa. E allo stesso modo, di tutto ciò che è in virtù dell operare del primo principio, si dice che è in virtù di quella essenza principale ed increata, mentre si dice che è qualcosa in virtù del suo proprio genere, qualunque esso sia». Ciò tuttavia, come si vedrà più avanti, non si dice se non in virtù di una certa partecipazione dell essere divino, in quanto contiene in sé le perfezioni di tutti gli enti. È in questo modo che l essere indeterminato per negazione conviene a Dio e l essere indeterminato per privazione conviene alla creatura. E dato che l indeterminazione per negazione e l indeterminazione per privazione sono affini, poiché entrambe tolgono la determinazione una, tuttavia, soltanto secondo l atto; l altra, invece, simultaneamente secondo l atto e secondo la potenza, coloro che non sono in grado di distinguere tra ciò che differisce in questo modo concepiscono come una stessa cosa l essere privo di qualificazioni e indeterminato, sia esso inteso nella prima o nella seconda accezione, ovvero come proprio di Dio o come proprio della creatura. Infatti, la natura dell intelletto che non è in grado di distinguere quelle cose che sono simili fa sì che esso concepisca come una sola cosa quelle cose che invece non costituiscono, in verità, un unico concetto. Vi è pertanto un errore in tale concetto. Infatti, il vero concetto, quando si concepisce in prima istanza l essere indeterminato senza qualificazioni, in ragione della sua indeterminazione non pone assolutamente nulla né determina alcunché, in modo tale che nulla di positivo risulti realmente comune a Dio e alla creatura, ma soltanto qualcosa di negativo, e che se anche si desse un sostrato positivo della negazione, sarebbe in un caso e nell altro ben diverso, come ciò che è per essenza e ciò che è per partecipazione: ciò che il retto intelletto distingue bene, successivamente, quando concepisce l essere indeterminato o in senso negativo o in senso privativo. E da questo punto di vista, il primo argomento in contrario procedeva giustamente. Al secondo argomento che sembra mostrare che Dio e la creatura non comunicano in alcun modo nell essere, né in virtù di una partecipazione né in virtù di una imitazione, poiché la distanza tra il creatore e la creatura è infinita si deve invece rispondere che la creatura, sebbene non si avvicini al creatore in maniera tale da costituire qualcosa della sua natura o una sua disposizione (al modo in cui, come suggerisce l obiezione, l accidente si avvicina la sostanza), tuttavia gli si avvicina in quanto è qualcosa di esso come esemplato o effetto che reca in sé una certa imitazione di esso, in virtù della quale comunica con esso nell essere come l accidente comunica con il soggetto. Non tuttavia nel senso che il nome di ente significhi qualcosa di comune ad entrambi l intelletto abbia astratto da essi, come se, concependo quell ente che è Dio e quell ente che è la creatura, io possa eliminare questo e questo e intendere l ente che è comune ad essi, nello stesso modo in cui, quando intendo quest uomo, Socrate, e 8

9 quest uomo, Platone, potrei eliminare questo e questo e intendere l uomo senza qualificazioni. Ciò che vale in questo caso non si applica al caso precedente, poiché in questo caso si dà secondo la specie una forma naturale dell umanità che esiste in entrambi [scil. in Socrate e Platone] suddivisa e determinata dalle loro rispettive materie. Per questo, lasciando da parte le materie e le determinazioni della forma che dipendono da esse, è possibile intendere la stessa forma priva di qualificazioni in quanto è resa universale dall intelletto ed è una similitudine essenziale dei suppositi Socrate e Platone. La stessa cosa non può invece accadere nel primo caso, dove non si dà una sola forma naturale che esista nella creatura e nel creatore, suddivisa e determinata in entrambi. Per questo, eliminando qui questo e questo, non posso mai concepire qualcosa di unico, reso comune <a Dio e alla creatura> dall intelletto, che sia la similitudine di entrambi; concepisco invece qualcosa che è determinato ad uno di essi oppure all altro, non secondo una sola e medesima indeterminazione, ma, come detto, secondo una duplice indeterminazione. Ma poiché la natura in virtù della quale la creatura possiede il suo essere è una imitazione della natura in virtù della quale Dio ha l essere (non dico una similitudine, così come l umanità in Socrate è propriamente una similitudine dell umanità in Platone, o è simile ad essa), allora l essere della creatura è anch esso una imitazione e una qualche conformità all essere del creatore; e questa loro conformità è la comunanza che la creatura e il creatore hanno nell essere, la quale non è una comunanza reale in qualche realtà unitaria significata dal nome ente. Di conseguenza, se non vi fosse questa imitazione dell essere del creatore da parte dell essere della creatura, si dovrebbe dire che fra essi non c è alcuna comunanza nell ente se non quella del nome; e così l ente sarebbe puramente equivoco rispetto al creatore e alla creatura, quando è invece analogo, come si è detto. Qualcosa di simile vale per l accidente, che partecipa dell essere in virtù della sostanza poiché è una sua disposizione; ed è per questo che si produce una certa comunanza di analogia nell ente, la quale non avrebbe luogo se l accidente non avesse l essere in virtù della sostanza, ma in virtù del <suo> essere senza esistere nella sostanza. In tal caso, infatti, l essere si predicherebbe della sostanza e dell accidente in maniera puramente equivoca, come si predica della qualità e della quantità, a meno che non si ammetta che la qualità possieda il suo essere in un soggetto mediante la quantità. E in questo senso l ente si predica dell una prima che dell altro, e dell uno mediante l altra, e perciò in qualche modo analogicamente. [Traduzione di Francesco Marrone e Pasquale Porro, per uso interno al corso] 9

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