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1 CENTRO PER LA FORMAZIONE IN ECONOMIA E POLITICA DELLO SVILUPPO RURALE DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E POLITICA AGRARIA Università degli Studi di Napoli Federico II Collana Working Paper Questa pubblicazione è disponibile on-line al sito del Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale o al sito del Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell Università di Napoli Federico II This publication is available online on the CENTRO website: Per commenti o questioni relative al contenuto di questo paper si prega di contattare gli autori For questions or comments about the contents of this paper, please contact the authors 1

2 La frutticoltura italiana e nuove strategie competitive 1 Francesco de Stefano 2 e Teresa Del Giudice 2 working paper n. 3/2005 5th April 2005 Abstract Good quality production on one side and a lack of competitiveness on another side characterize Italian fruit sector. Main sector limits are poorly investigated: market destination pattern, supply chai fragmentation, structural problems in the food distribution. The article aims to analyze new strategies to increase Italian fruit sector competitiveness in larger and more differentiated markets. Riassunto Keywords: Parole chiave: 1 L articolo è il risultato del lavoro congiunto degli Autori. Comunque, i paragrafi 2 e 5 sono da attribuirsi a Francesco de Stefano, i paragrafi 3 e 4 a Teresa Del Giudice mentre la premessa e le conclusioni sono frutto di riflessioni comuni. Un ringraziamento particolare va ad Eugenio Pomarici per gli utili spunti forniti alla stesura del lavoro. Si ringrazia l anonimo referee per gli utili suggerimenti forniti. La responsabilità di quanto scritto resta comunque degli Autori. 2 Francesco de Stefano è Professore presso il Dipartimento di Economia e Politica Agraria della Università degli Studi di Napoli; Teresa Del Giudice è ricercatrice presso lo stesso Dipartimento. Entrambi gli Autori sono collaboratori del Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale di Portici. 2

3 1. Premessa Il settore ortofrutticolo italiano ha fra i suoi punti di forza una produzione di qualità medio-alta, ma fra quelli di debolezza taluni problemi strutturali e organizzativi che ne limitano la competitività. I dati per il 2004 mostrano, a livello italiano, un comparto con prezzi all origine in diminuzione, con una variazione che per la frutta è del -3%. I consumi rivelano un trend negativo a partire dal 2000, con un -4% nel Il saldo attivo del commercio estero è diminuito di circa il 32% rispetto al 2003, a causa, soprattutto del -12,5% delle esportazioni. In tale scenario, la produzione frutticola mostra specifici segni di sofferenza. Nel periodo la maggior parte delle specie coltivate ha fatto registrare un sensibile calo in termini di quantità prodotte che si è riflesso, senza significative eccezioni, anche in termini di valore, facendo registrare un -4%, rispetto al solo Per quanto riguarda i prodotti leader, le mele e le arance rappresentano in quantità, con eguale contributo, il 44% circa della produzione frutticola nazionale, l uva da tavola il 15% circa, le pesche l 11%. Le pere seguono subito dopo con il 10% circa, i limoni con il 6%, mentre le altre tipologie mostrano quote inferiori al 5% (Istat, 2004). Fra gli elementi critici principali che determinano lo stato di crisi del settore italiano, si possono citare la mancata diversificazione dei mercati di destinazione, la polverizzazione dell offerta, che non sembra ridursi in misura significativa attraverso le Organizzazioni di Produttori, le carenze strutturali della distribuzione e delle organizzazioni interprofessionali e, in tempi recenti, la crescita di ciò che potrebbe essere definita come una forma di contraffazione della produzione, intesa come la presenza sul mercato interno di prodotti provenienti da paesi assai più permissivi di quelli europei, in merito a requisiti igienici, ambientali e sociali delle tecniche impiegate. Prodotti che poi vengono acquistati dai nostri consumatori, solo nella misura in cui essi non sono consapevoli che in realtà essi posseggono attributi qualitativi più scadenti, rispetto a quelli delle nostre produzioni. Per quanto riguarda, invece, le esportazioni agroalimentari, il settore della frutta da solo, ha un incidenza del 10% sul totale. I mercati esteri di sbocco privilegiati sono quelli dell'unione Europea per l 80%, dove la sola Germania copre una quota di ben il 40%, seguita a notevole distanza dalla Francia (10%) e dall Inghilterra (7%) (INEA, 2004a). 3

4 A modificare ulteriormente la situazione interviene il processo di cambiamento che sta interessando, a livello italiano, i modelli d acquisto dei consumatori relativamente al segmento frutta e verdura. In termini di quantità, la GDO (iper e super) ha coperto, nel 2004, una quota pari al 47% delle vendite, il dettaglio ambulante ha realizzato il 18%, il dettaglio specializzato il 16%, i discount solo il 5% (ISMEA, 2004). Nel complesso, rispetto al 2000, la distribuzione moderna avanza del 6% in termini quantitativi e del 23% in termini di valore, mentre il dettaglio tradizionale arretra del 23% nel primo caso e del 6% nel secondo (Iha, 2005). Lo scenario descritto obbliga analisti, operatori e policy maker ad individuare nuove strategie che permettano al settore di incrementare la sua valenza competitiva in mercati sempre più ampi e differenziati. Puntare su una produzione di qualità rappresenta, allo stato attuale e per le motivazioni che verranno meglio enunciate di seguito, la via obbligata per far riemergere dalla crisi il settore. Per tale finalità diviene strategico trovare risposta ad almeno due principali interrogativi. Il primo è relativo alla definizione di che cosa significhi oggi, per i consumatori e per i canali commerciali, un prodotto frutticolo di qualità. Il secondo, una volta individuate le diverse dimensioni della qualità, riguarda la pianificazione e l implementazione di azioni pubbliche e private capaci di guidare il settore nella direzione prescelta. 2. Competitività e aspetti qualitativi È ormai ampiamente acquisito che, in considerazione della multifunzionalità della attività agricola in generale e delle più recenti esigenze delle società occidentali avanzate, un concetto moderno di competitività debba tenere nella massima considerazione tanto gli attributi qualitativi della merci, quanto il fatto che l'offerta del settore agroalimentare è formata, allo stesso tempo, da beni fisici, da servizi di tipo privato e da esternalità di tipo pubblico. Nei mercati agricoli è quindi possibile riconoscere l'esistenza, per così dire, di almeno due differenti modelli di competitività (de Stefano, 2003). Il primo è quello che si potrebbe definire del tipo hard discount, in cui la competitività può essere sostanzialmente identificata con la capacità di vendere a prezzi bassi, ossia di produrre a costi più contenuti di quelli dei concorrenti. 4

5 Il secondo modello potrebbe essere chiamato del tipo alta qualità, ed ammette prezzi di vendita relativamente più sostenuti, unitamente ad un livello qualitativo ben più elevato dei beni e servizi prodotti, tanto dalle singole aziende, quanto, nel loro insieme, dalle aree geografiche nelle quali esse sono ubicate. Va sottolineato che, fra le due concezioni di competitività ora richiamate, non esiste in realtà alcun contrasto, mentre le differenze che esse mostrano dipendono sostanzialmente da due ordini di motivi. Da una parte, le diverse capacità di produrre beni di qualità, servizi e esternalità positive messe in mostra da sistemi agricoli differenti. Queste ultime sono più sviluppate in un sistema agricolo come quello esistente nel nostro paese mentre lo sono assai di meno, ad esempio, nelle agricolture americane, anche se queste possono essere caratterizzate da più elevati livelli tecnologici o di efficienza produttiva. È in proposito addirittura possibile distinguere fra quello che può essere definito come il modello italiano di agricoltura, rispetto a quello che si potrebbe chiamare il modello americano. Allo stesso tempo bisogna riconoscere che ben diversa è la considerazione attribuita dai consumatori italiani e americani ai caratteri di qualità, autenticità e sanità degli alimenti e alle esternalità producibili in agricoltura. Ossia, sussistono altrettante sensibili differenze fra quello che potrebbe essere chiamato il modello alimentare italiano e quello che potrebbe essere definito come americano. In proposito è opportuno aggiungere che qualunque società realmente avanzata, con l ulteriore crescita del proprio reddito, è destinata a divenire sempre più sensibile alle esigenze qualitative del consumo (de Stefano, 2000; Miele et al., 2001). Se questo è vero, allora si potrebbe concludere che il modello alimentare italiano, in cui tali esigenze sono particolarmente avvertite, appare più moderno di quello americano. Da ciò si desume che, quando si desideri misurare i livelli di competitività di sistemi agricoli diversi, occorre distinguere almeno fra due situazioni profondamente differenti: quelle che vanno analizzate ricorrendo ad un approccio del tipo alta qualità, come sono quelle assimilabili a sistemi agro-alimentari di tipo italiano, e quelle che invece richiedono di essere esaminate con riferimento al più tradizionale modello hard discount, per le quali è di rilevanza assoluta la capacità di vendere a prezzi minimi. È opinione ormai diffusa che l agricoltura italiana appare oggi capace di dare al mercato risposte convincenti in termini di qualità, trasparenza e professionalità. Allo stesso 5

6 tempo si osserva che alcuni paesi cosiddetti emergenti in settori in cui il made in Italy è tradizionalmente forte, sembrano in condizione di presentare sul mercato prodotti a prezzi notevolmente più bassi di quelli italiani. Da qui l esigenza di predisporsi a fronteggiarli puntando specialmente sulla qualità, e su produzioni a più alto tasso d innovazione, di creatività e di valore di piacere e di godimento da parte del consumatore (Cicia et al., 2005; Del Giudice e de Stefano, 2002). In altre parole, l esistenza di tali due dimensioni della competitività, unitamente alla capacità della nostra offerta agricola di raggiungere elevati livelli qualitativi, suggerisce un esplicita strategia per lo sviluppo delle nostre produzioni e la loro affermazione sui mercati nazionali ed esteri. L obiettivo della valorizzazione delle produzioni agroalimentari italiane in genere richiede ovviamente che le nostre merci riescano ad essere sempre più competitive sui mercati interni ed internazionali. In prospettiva tale competitività va anzi esaltata a livello del più ampio mercato globale sul quale le merci sono chiamate a confrontarsi. Il conseguimento di questo obiettivo presuppone perciò l aumento dei livelli di competitività del tipo, a secondo delle situazioni, alta qualità oppure hard discount. Per certi prodotti, quali ad esempio le commodities, o per certi mercati, quali quelli di massa, non vi è dubbio che sia il secondo modello ad essere vincente. In questi casi l offerta agricola italiana non sembra in grado di assicurare grandi potenzialità di miglioramento. La migliore strategia politico-agraria sembra quindi essere quella di garantire che, almeno sui mercati interni, l agricoltura nazionale possa limitarsi, per così dire, a giocare prevalentemente in difesa. Ciò significa predisporsi a eliminare le distorsioni sul mercato dei fattori, onde limitarne i prezzi alle aziende agricole, a rimuovere gli ostacoli al buon funzionamento delle aziende stesse e a promuovere e diffondere il progresso tecnico ed organizzativo, allo scopo di contenere per quanto possibile i costi di produzione. Il discorso è ben diverso per quanto attiene il miglioramento dei livelli della competitività del tipo alta qualità per quei prodotti e mercati nei quali questa strategia sembri poter essere vincente. Questa volta la diffusione crescente del modello alimentare italiano suggerisce che la valorizzazione delle produzioni agricoloalimentari possa essere cercata proprio percorrendo questa via. Elemento essenziale di tali produzioni può addirittura essere la loro appartenenza alla categoria del cosiddetto 6

7 made in Italy, che invece appare del tutto irrilevante per le produzioni appartenenti al modello hard discount. A questo punto è opportuno introdurre un ulteriore differenziazione. Anche quando ci si riferisca alla domanda espressa esclusivamente per i prodotti di qualità, è possibile individuare ancora due ulteriori differenti tipologie. Da una parte i beni di qualità davvero elevata, magari individuati da precisi e riconosciuti disciplinari di produzione, che ne espongano i caratteri qualitativi, le aree di produzione, gli elementi di tipicità, eccetera, fino a giungere talvolta a tutelarne l identità attraverso ben definite denominazioni e marchi. Il consumo di questi beni può risultare necessariamente contenuto rispetto a quello del più ampio mercato comprendente anche le frazioni di minore livello qualitativo o gli altri beni sostitutivi, al punto da costituire un segmento di eccellenza della domanda complessiva, capace di spuntare prezzi relativamente più elevati. In secondo luogo i beni di qualità comunque apprezzabile, anche se forse meno elevata, non necessariamente protetti da marchi di alcun genere, ma capaci di dare vita a livelli di consumo ben più sostenuti dei precedenti, con prezzi magari più contenuti. Questa fascia riguarda consumi comunque di qualità, il cui peso sul mercato complessivo può risultare notevole o addirittura prevalente. Si tratta quindi di una fascia merceologica di grande importanza, o qualche volta addirittura preminente, nella determinazione dei redditi d impresa dei produttori e degli operatori commerciali, nonché dei livelli di occupazione complessiva nel comparto. In definitiva, richiamando quanto fino a questo punto è stato precisato, nel mercato di ogni determinata categoria merceologica risulta opportuno distinguere non più due, ma almeno tre diverse tipologie di prodotti: a. prodotti standard di massa (tipo hard discount); b. prodotti di qualità di più largo consumo; c. prodotti di eccellenza qualitativa e prodotti a denominazione. Questa ripartizione può risultare utile nell esame delle situazioni di una gran parte dei prodotti dell agro-alimentare italiano. Essa appare particolarmente appropriata nell analizzare il mercato, le prospettive e le strategie relative alle produzioni frutticole italiane e pertanto ad essa si farà riferimento nel seguito della presente discussione. 7

8 3. La domanda di certificazione oggi Il segmento prodotti di qualità di più largo consumo e quello relativo ai prodotti di eccellenza qualitativa e a denominazione includono quindi le tipologie di beni sulle quali dovrebbe puntare la frutticoltura italiana per aumentare la propria presenza sui mercati interni ed esterni. Su entrambi tali mercati si va sempre più consolidando la richiesta, da parte dei grandi buyers, di rifornirsi di merci le cui caratteristiche fondamentali siano, in una certa misura, certificate da enti terzi di riconosciuta affidabilità. Oggi, di fatto, quasi tutte le produzioni interessate vengono individuate attraverso forme differenti di certificazione. Con riferimento ai prodotti a denominazione, come i DOP e gli IGP (Reg. CE 2081/92) e ai prodotti biologici (Reg. CE 2092/91), molto e in varie sedi si è già discusso circa le diverse forme di certificazione che li riguardano. Più interessante è analizzare ora le diverse tipologie di certificazione volontaria che coinvolgono i prodotti di qualità di più largo consumo. La prima osservazione da fare in proposito riguarda il fatto che benché tutte le forme di assicurazione di prodotto e di processo presenti oggi nel settore agroalimentare siano di origine volontaria, queste stanno acquisendo, di fatto, una natura obbligatoria perché indispensabili per accedere ai moderni canali di distribuzione (AAVV, 2005; Canavari et al., 2002). Inoltre, mentre negli anni 90, all inizio della diffusione della certificazione, gli standard riguardavano, in modo particolare, le specifiche tecniche di prodotto e le procedure del processo produttivo, oggi le certificazioni investono un numero sempre più elevato di funzioni aziendali e manageriali, coinvolgendo anche l approccio che l impresa ha con l ambiente socio-economico esterno e con quello naturale. Al fine di meglio individuare le diverse dimensioni che, attualmente, sono oggetto di certificazioni e, in modo particolare, di analizzare l evoluzione subita da queste, può risultare utile riferirsi sinteticamente ai diversi standard internazionali esistenti. Negli anni 90, la certificazione riguardava, essenzialmente, quella del sistema di gestione della qualità, regolata dalle norme Iso L obiettivo dello standard era quello di assicurare specifiche di prodotto e di processo, oltre alla capacità dell azienda di gestire le proprie risorse al fine di soddisfare le esigenze dei clienti, attraverso un processo di miglioramento continuo. Nel 2004, in Italia, erano 355 le aziende agricole e 8

9 ben le industrie alimentari certificate Iso 9001 (Magnano, 2005; Canavari et al., 2004). In pochi anni, le esigenze dei clienti intermedi, in termini di tracciabilità, affidabilità e rispetto dei disciplinari di produzione specifici, e quelle dei consumatori finali, in termini di sicurezza, salubrità basso impatto ambientale, contenuto in OGM, gestione dei diritti dei lavoratori e altro, hanno dato origine ad un numero crescente di standard sempre più articolati. Per quanto riguarda la tracciabilità di filiera, lo standard attuale di riferimento è la norma UNI (progettazione ed attuazione dei sistemi di rintracciabilità nelle filiere) che risulta in linea con quanto previsto dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 178/2002, in vigore dal 1º gennaio 2005, in cui il concetto di rintracciabilità da applicare ai fini igienico-sanitari è definito come possibilità di ricostruire e seguire le merci attraverso tutte le fasi di produzione, trasformazione e distribuzione. Pur non comparendo il suo riferimento esplicitamente sulle etichette, la norma UNI è sempre più riconosciuta dalla grande distribuzione organizzata quale agile strumento per redigere i capitolati interni dei prodotti a filiera rintracciata. Per quanto riguarda, invece, le richieste crescenti da parte della moderna distribuzione, le certificazioni Eurepgap (Euro-Retailer Produce Working Group), BRC (Technical Standard for suppliers of retail branded food products) e IFS (International Food Standard, 2000) rappresentano gli standard di ultima generazione. In particolare, il protocollo Eurepgap definisce le buone pratiche agricole (Good Agricultural Practice, Gap) relative agli elementi essenziali per lo sviluppo della best practice nella produzione di prodotti ortofrutticoli (D Alessio et al, 2003). Il protocollo è stato creato dall Eurep (Euro-Retailer Produce Working Group), che unisce alcune tra le più importanti catene commerciali europee, al fine di rispondere alle crescenti esigenze di sicurezza alimentare e di rispetto dell ambiente. La certificazione di prodotto Eurepgap costituisce uno strumento di vantaggio competitivo, soprattutto nelle relazioni Business to Business. Essa presenta i suoi punti chiave nella rintracciabilità, negli aspetti ambientali (storia e gestione dei siti, gestione del terreno e dei rifiuti), nei mezzi tecnici utilizzati (fitofarmaci impiegati, tecniche di irrigazione, protezione delle colture, modalità di raccolta e trattamenti post-raccolta), 9

10 nella salute e sicurezza dei lavoratori e nelle loro condizioni di lavoro, negli elementi relativi alla gestione aziendale. Gli standard BRC Technical Standard for suppliers of retail branded food products e IFS International Food Standard, 2000 hanno, invece, l obiettivo di riassumere in un unico standard tutti i requisiti comunemente richiesti dai distributori per la valutazione dei fornitori. In particolare, lo standard BRC è stato implementato dal British Retail Consortium (associazione comprendente il 90% dei venditori al dettaglio inglesi), e l IFS è stato creato dai retailer tedeschi. Lo schema BRC, oramai istituzionalizzato in Inghilterra e conosciuto in tutta Europa, è lo strumento operativo più utilizzato da tutti i retailer stranieri (Inghilterra, Germania e Francia) della GDO per qualificare i propri fornitori riducendo i costi complessivi del processo e innalzando il livello di sicurezza. Esso è, infatti, un protocollo completo, che copre tutte le aree concernenti la sicurezza/salubrità del prodotto e mette in chiaro i requisiti e gli obblighi del cliente e del fornitore. Anche l IFS, di più recente introduzione, sta seguendo la stessa strada. Esso è stato progettato dal BDH, unione dei retailer tedeschi (Unione Federale delle Associazioni del Commercio tedesche). Come il BRC, anche l IFS ha come elementi fondamentali l adozione da parte delle imprese di un piano HACCP, di un sistema di gestione della qualità, di standard specifici per gli ambienti esterni al sito produttivo, di piani di controllo di prodotto e di processo e di requisiti igienici e comportamentali relativi al personale e ai visitatori. Altra certificazione di nuova generazione riguarda la responsabilità sociale e etica dell impresa secondo lo standard SA8000 (Social Accountability 8000). Questo è uno standard internazionale che elenca i requisiti per un comportamento eticamente corretto delle imprese e della filiera di produzione verso i lavoratori. Il SA8000 si ispira ai principi sanciti dall'onu, dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e della International Labour Organisation. I punti principali sui quali si basa la SA8000 sono l abolizione del lavoro minorile, di quello forzato, del lavoro come riscatto di debiti, la creazione di un ambiente di lavoro sicuro e sano, la possibilità per i lavoratori di avere un addestramento adeguato e di creare associazioni e, infine, prevedere una retribuzione che tenga conto degli standard 10

11 legali e dell'industria ed essere sufficiente per soddisfare i bisogni primari dei lavoratori e dei suoi familiari. Lo standard internazionale di certificazione del rispetto dei diritti dei lavoratori è sempre più richiesto sul mercato. La ricerca di trasparenza, da parte dei clienti (consumatori e fornitori), sempre più spesso porta le aziende ad affrontare l'iter per la certificazione SA8000. L Italia detiene una presenza notevole di realtà certificate. Delle 258 imprese, a livello mondiale, dov è operativo lo standard, 56 aziende sono italiane. Fra queste vi è Coop Italia, la prima azienda UE ad aver ottenuto la certificazione etica. Un numero ancora esiguo, ma destinato a crescere sempre più. I motivi che spingono le aziende a ottenere la suddetta certificazione sono l'interesse verso una migliore immagine sui mercati, la tutela del marchio, la conoscenza dei comportamenti sociali dei fornitori, la probabilità di avere rapporti di lavoro stabili, il miglioramento dei rapporti con i rappresentanti sindacali e il valore della produzione derivante dal suo livello etico (De Meo, 2003; Prestamburgo e Torquati, 2004). Agli standard descritti in precedenza, vanno aggiunte alcune forme di certificazione meno diffuse, ma comunque utili a capire le tendenze recenti del settore. Fra queste è interessante menzionare il protocollo NaturÈs choice, ideato da TESCO, il più grande retailer inglese e ai vertici della distribuzione mondiale. Tale distributore ha, da tempo, deciso che benché sia membro di Eurepgap, richiederà una certificazione aggiuntiva ai suoi primary suppliers, attraverso il rispetto di un protocollo di produzione privato. Il NaturÈs choice, dedicato esclusivamente agli ortofrutticoli freschi, definisce le migliori pratiche agricole da seguire relativamente ad aspetti quali l uso razionale di fitofarmaci e delle risorse naturali, la protezione della salute umana e dell ambiente, il riciclaggio dei materiali usati e la conservazione della biodiversità e del paesaggio. In Italia, già numerose aziende stanno per cominciare l iter di certificazione. Tale strategia, però, non è affatto nuova. Agli inizi degli anni 90, Coop italia, con la linea di ortofrutta fresca QC (qualità controllata), fu un antesignano del successivo Eurepgap. Altri protocolli che, sempre più, risultano presenti nel mercato agroalimentare sono le diverse patenti non OGM per alimenti, mangimi e sementi e i bollini ambientali ISO 14001, Emas (sistema comunitario di ecogestione) e l EPD (Environmental product declaration) (AAVV, 2005; Wall et al., 2001). Come nel caso di altre forme di 11

12 certificazione, anche questi standard stanno vivendo un processo di diffusione che dalle industrie agro-alimentari si sta, sempre più, espandendo al settore primario. 4. Rilevanza del segmento di qualità nell offerta frutticola italiana L individuazione della reale importanza della qualità nel quadro di una strategia complessiva di sviluppo dell ortofrutticoltura italiana richiede che si riesca, in via preliminare, a definire il peso di questo specifico segmento sul complesso della offerta attuale e potenziale del paese. Compito tutt altro che agevole, quando si pensi che non solo la definizione dei caratteri qualitativi dell offerta è imprecisa, ma le informazioni statistiche in proposito risultano tuttora molto carenti. Rinviando alle tre diverse tipologie qualitative dell offerta complessiva individuate nel paragrafo 2, sembra a questo punto opportuno esaminare, da un punto di vista quantitativo, come variano le rispettive dimensioni passando dai prodotti standard di massa ai prodotti di qualità fino a quelli di eccellenza qualitativa e a denominazione. Il primo segmento dei prodotti standard di massa, come prima sottolineato, fa capo al modello competitivo hard discount e, conseguentemente la qualità diventa sinonimo di standardizzazione e di capacità di vendere a prezzi bassi. Il secondo segmento, quello dei prodotti di qualità di più largo consumo è, forse, il più interessante dei tre. La sua rilevanza dipende dalle esigenze sempre più chiare e pressanti della domanda in termini di sicurezza igienico-sanitaria, buon rapporto qualità/prezzo, facile reperibilità, soddisfacimento delle istanze della moderna distribuzione in termini di costi, sicurezza, standardizzazione e fidelizzazione della clientela (de Stefano, 2000). Nel caso della frutta fresca, in tale segmento possono essere inclusi prodotti che presentano standard qualitativi costanti, medi o alti, che sempre di più possano essere facilmente riconosciuti dal mercato e garantiti dai venditori. Ciò presuppone il ricorso e la diffusione di assicurazioni e certificazioni varie, incluse quelle relative ai metodi di coltivazione più rispettosi dell ambiente e alla presenza di residui in quantità e qualità non dannosa per la salute umana. La produzione frutticola venduta dalle più importanti catene distributive, come quella coperta dal marchio Naturae per Conad o Prodotti con Amore per Coop o dai marchi Alegra, Almaverde, Alto Adige, Amica Frutta, 12

13 Cogli e Gusta, La Trentina, Melinda, Naturalissima, Solo Sole, Vitalia rappresenta un esempio dell evoluzione del segmento descritto. Altra caratteristica interessante della tipologia prodotti di qualità di più largo consumo, è l evoluzione che le diverse dimensioni della qualità stanno subendo negli ultimi anni. Come si è visto queste riguardano una forte attenzione alla tracciabilità lungo tutta la filiera, alla logistica utilizzata, alla gestione aziendale, alla selezione dei fornitori da parte della GDO, agli aspetti etici della gestione dei lavoratori, alla tutela della biodiversità e così via. Il crescente utilizzo delle innumerevoli forme di certificazione più sopra riportate, che divengono meno volontarie in quanto la vendita del prodotto a catene commerciali italiane o estere è sempre più condizionata dalla loro presenza, rappresenta la prova più evidente del cambiamento descritto. Tale fenomeno ha visto il settore ortofrutticolo fra i più coinvolti e dinamici. Ultimo segmento è quello dei prodotti di eccellenza qualitativa e a denominazione. A tale tipologia, come già accennato, fanno capo i prodotti tutelati da marchi comunitari, quali DOP e IGP (Reg. CE 2081/92), i prodotti ottenuti con metodi di produzione biologici (Reg. CE 2092/91) e gli innumerevoli prodotti tradizionali. In questo caso, la qualità diventa sinonimo di eccellenza, di forte legame con il territorio di tradizionale produzione, di forte attenzione all ambiente e alla tutela delle antiche culture e tradizioni. Le produzioni descritte rappresentano l eccellenza del settore agroalimentare italiano e l essenza stessa del made in Italy. La caratteristica principale di tale tipologia è però la sua ancora relativamente contenuta dimensione, sia economica, che fisica. Limitatamente alle sole produzioni a marchio, che tuttavia comprendono, come prima descritto, solo una frazione del segmento di qualità al quale ci si sta qui riferendo, è possibile ricordare che a livello italiano vi sono 42 denominazioni tutelate riferite a ortofrutticoli che rappresentano il 28% del numero totale di DOP e IGP nazionali. In termini di valore al consumo della produzione, però, queste rappresentano solo il 3% (circa 261 milioni di euro) del giro d affari dei prodotti tutelati italiani (Mipaf, 2005). La scarsa incidenza del comparto deriva soprattutto dall elevata differenza esistente fra la produzione potenziale, corrispondente a quella che si potrebbe conseguire marchiando tutta l ortofrutta ottenibile nelle aree designate dai disciplinari di produzione, e i volumi effettivamente certificati. Nel 2003, l ortofrutta certificata era 13

14 pari, in quantità, a circa tonnellate, di cui circa l 88% ascrivibili alla sola Mela Val di Non. (Felice, 2005). Emblematico è il caso della frutta DOP e IGP campana, commercializzata per una quota pari al solo 13% di quella potenziale. L incidenza di tale segmento sul comparto frutticolo nazionale è quindi, in termini di quantità, di poco superiore all 1% e, in termini di valore, pari circa al 5%. Per quanto riguarda, poi, l incidenza della superficie frutticola condotta con metodi di coltivazione biologici, questa risulta, per il 2003, pari a circa ha, ossia il 7% della superficie biologica nazionale. In termini di fatturato, la frutta biologica ha avuto, per il 2003, un giro d affari di 250 milioni di euro, pari all 8% del fatturato totale della frutta. Conseguentemente, allo stato attuale, benché i segnali del mercato siano incoraggianti, anche il ruolo del bio nella valorizzazione del comparto sembra ancora modesto (Cicia et al., 2005). Comunque, essendo ancora in corso di applicazione gli interventi agro-ambientali previsti dai nuovi Piani di Sviluppo Rurale delle diverse regioni italiane, è possibile che tale comparto cresca a tassi maggiori rispetto al passato. Ultima tipologia da analizzare è rappresentata da quella produzione che, condotta con tecniche a basso impatto ambientale, viene definita integrata. Per avere un indicazione, se pure in forma aggregata e approssimativa, è possibile fare riferimento alla superficie interessata dalle misure agro-ambientali, previste sia dal Reg. 2078/92 che dai Piani di Sviluppo Rurale. Per l Italia i dati riferiti al 2002 riportano circa ha interessati dai piani di concimazione e di lotta fitopatologia integrata predisposti dalle autorità regionali (INEA, 2004b). Non si dispone ancora del dato riferito alla sola frutticoltura, ma la modesta estensione generale della superficie permetterebbe di considerare anche questa tipologia ancora poco presente nel comparto interessato. Non vi sono, infine, dati disponibili sulla dimensione di quel segmento particolarmente importante che, nel presente lavoro, è stato definito come quello dei prodotti di qualità di più largo consumo. Infatti, mentre la frutta tutelata da denominazioni comunitarie e quella ottenuta con metodi di produzione biologici vanno a formare il segmento dei prodotti di eccellenza qualitativa e prodotti a denominazione, la frutticoltura integrata, così come individuata dalle sole misure agro-ambientali regionali, rappresenta solo una parte minore del più ampio e diversificato segmento. Con tale approccio, non è possibile considerare tutta quella produzione che è oggetto delle innumerevoli certificazioni citate in precedenza e 14

15 dei disciplinari di produzione stabiliti da importanti clienti intermedi. Volendo solo tentare di fornire una stima grossolana dell incidenza di tale segmento qualitativo è possibile ipotizzare che la frutta fresca venduta nella GDO sia, nel suo complesso, per quanto esposto nei paragrafi precedenti, certificata almeno per standard minimi di produzione. Premesso questo,sembra legittimo formulare la seguente stima. I dati sugli acquisti di frutta fresca nei super e ipermercati, pubblicati da ISMEA (2004) e riferiti al 2003, indicano che attraverso tali canali viene acquistato, in quantità, il 47% del prodotto, ossia circa migliaia di tonnellate. Di queste, considerando che la produzione nazionale ha un incidenza dell 81% sulla disponibilità complessiva di frutta fresca, circa 958 migliaia di tonnellate potrebbero essere considerate di origine italiana. A tale quantità si dovrebbero aggiungere le esportazioni italiane (2.453 migliaia di tonnellate) che, in base agli attuali scenari competitivi internazionali, sembra lecito supporre rispettino almeno standard minimi di qualità. Ciò porterebbe il segmento dei prodotti di qualità di più largo consumo, insieme alla limitata quantità di frutta tutelata da DOP e IGP, a migliaia di tonnellate, pari al 37% circa della produzione nazionale. Tale percentuale aumenta se, invece di considerare le dimensioni quantitative del segmento, si considera il suo valore. Infatti, considerando un prezzo medio alla produzione di 0,60 /kg, pari al prezzo medio stimato da ISMEA per la frutta fresca nel suo complesso maggiorato di solo il 10%, l incidenza del segmento analizzato sale a circa il 47% (2.046 milioni di euro) della PLV del comparto. Considerando che in tale incidenza vengono compresi anche i prodotti a denominazioni DOP e IGP, è facile attendersi che il segmento prodotti di qualità di più largo consumo potrebbe oggi da solo rappresentare, in valore circa il 40-50%della produzione nazionale di frutta fresca, quello dei prodotti di eccellenza qualitativa e a denominazione il 10-15% e, infine, quello dei prodotti standard di massa il restante 35-50%. 5. Contraffazione nell agro-alimentare italiano: un problema emergente anche per la frutticoltura? Chiunque si occupi, per qualsiasi ragione, della problematica del commercio dei prodotti italiani di qualità sa che un argomento che va acquisendo dimensione sempre più preoccupante, è quello delle contraffazioni, alle quali sono a vario titolo soggette le nostre produzioni, tanto sui mercati interni quanto su quelli esteri. Da tali contraffazioni 15

16 non vanno esenti i prodotti del nostro comparto agro-alimentare, con effetti facilmente comprensibili per produttori e consumatori. Le conseguenze per i primi possono essere riassunte in termini tanto di mancato sviluppo del comparto stesso, quanto di reddito delle imprese e di occupazione per coloro che, in via diretta o indotta, prestano la loro opera al suo interno. Per i consumatori, invece, tali conseguenze hanno in linea generale a che fare con la non reale rispondenza dei prodotti acquistati a taluni importanti requisiti per i quali i prodotti stessi erano stati oggetto di decisioni di acquisto. Più in dettaglio e con riferimento all intero settore agro-alimentare del paese la tipologia delle contraffazioni può essere ripartita in tre principali categorie, delle quali la prima è la più antica e allo stesso tempo la più conosciuta, la seconda è andata acquisendo importanza e notorietà solo di recente, mentre della terza, allo stato attuale, si parla ancora poco o addirittura nulla. Le contraffazioni del primo tipo hanno a che fare con le infinite e talvolta complesse manipolazioni e adulterazioni che le merci alimentari subiscono, potremmo dire da che mondo è mondo, all interno dei mercati di distribuzione, passando spesso attraverso processi di trasformazione di varia intensità. Adulterazioni il cui effetto è, in definitiva, sempre quello di frodare produttori e consumatori, determinando allo stesso tempo processi illegittimi di trasferimento di reddito da queste categorie di operatori a coloro che ne sono gli autori. È ampiamente noto che, in alcuni casi tutt altro che rari, tali processi determinano addirittura conseguenze dannose a carico della salute dei consumatori finali ed effetti fortemente negativi sulla crescita economica dei comparti interessati. È per questi motivi che, in qualsiasi paese civile, le categorie che subiscono gli effetti di tali contraffazioni si sentono legittimate a richiedere alle pubbliche istituzioni un certo grado di tutela, mentre l intervento dello stato nell agro-alimentare si propone sempre, fra l altro, la finalità di controllare i mercati e di scoraggiare o reprimere tali processi. Questo fenomeno, che con esplicito riferimento al comparto ortofrutticolo del fresco e del trasformato interessa tanto i nostri mercati nazionali quanto quelli di esportazione, è ampiamente noto, anche se non sempre esistono precise indicazioni circa la sua reale dimensione. Tanto noto da poter essere in questa sede accantonato, pur nella consapevolezza che, per i motivi sopra accennati, la sua importanza non deve essere assolutamente sottovalutata, sia allo stato attuale che in prospettiva. 16

17 Al secondo tipo di contraffazione è stato di recente attribuito il termine sintetico ed efficace di agropirateria. Esso interessa in misura particolare taluni importanti mercati esteri e sta ad intendere la pratica, molto diffusa, di proporre in vendita merci che sembrano di provenienza o di fabbricazione italiana, ma che in realtà di italiano hanno solamente il nome o l aspetto, o magari neppure questi. In qualche caso si tratta di vere e proprie sofisticazioni, ma il più delle volte il fenomeno è da ricollegare solo al fatto che l agro-alimentare italiano gode di buona reputazione e si avvale di una decisa preferenza espressa a sua favore dalla domanda esistente localmente. Per cui è sufficiente che una merce venga sommariamente ritenuta di tipo italiano affinché il mercato la premii con un atteggiamento preferenziale che sovente conduce al pagamento di prezzi maggiori di quelli realizzati in confronto con merci dall apparenza non-italiana. Un differenziale di prezzo non trascurabile, che è stato addirittura stimato dell ordine anche del 30 70%. Sta di fatto che, come è ormai noto, negli USA appena il 10% dei prodotti alimentari che vengono venduti come italiani provengono realmente dal nostro paese. E se è vero che su quel mercato l esportazione dall Italia delle nostre produzioni autentiche è in aumento, è altrettanto vero che la concorrenza esercitata a loro danno dalle produzioni locali di imitazione finisce per limitarne considerevolmente le vendite. Di positivo vi è tuttavia da sottolineare che, su un mercato la cui dimensione annua complessiva può essere valutata pari a circa 150 miliardi di Euro, le merci autenticamente italiane pesano per meno dell 1%, mentre quelle di imitazione italiana rappresentano attualmente oltre il 10%. La qual cosa, mentre rende visibile la dimensione della implicita contraffazione effettuata attualmente ai nostri danni, lascia ottimisti sull ampiezza del potenziale di espansione delle nostre esportazioni agroalimentari già oggi esistente su quel mercato. Essendo già presente, infatti, una estesa domanda per produzioni di tipo italiano sarebbe sufficiente sostituire anche solo una parte dei prodotti di imitazione con quelli autentici, provenienti dall Italia, per conseguire una immediata e sensibile espansione del nostro mercato di esportazione. Da ciò l intuitiva conclusione circa il notevole ed immediato potenziale di espansione delle nostre esportazioni. Del terzo tipo di contraffazione si parla assai di meno e solo di recente, ma esso sembra destinato a divenire rapidamente un problema di estrema gravità, in considerazione della 17

18 sua probabile diffusione dovuta alla globalizzazione dei commerci, che sta interessando tutti i livelli dell agro-alimentare. Esso riguarda esplicitamente anche il comparto ortofrutticolo italiano e in prevalenza il suo mercato interno, che è poi di gran lunga il più importante in termini di generazione di reddito e di occupazione agricola, anche se ovviamente si presenta assai meno dinamico dei mercati di esportazione (Tosi, 2005). Per comprendere nella giusta misura il significato e le implicazioni di quanto qui si afferma, occorre riportare l attenzione a quanto più sopra riferito circa le nuove esigenze dei consumi di paesi avanzati e relativamente ricchi come il nostro, insieme al moderno modo di produzione agro-alimentare che lo caratterizza. È stata anche illustrata la crescente sensibilità che i consumatori italiani ed europei oggi dimostrano nei confronti non solo dei tradizionali attributi qualitativi dei beni alimentari, ma anche di quelli riguardanti la loro igienicità, sanità e sicurezza. Una parte crescente di tali consumatori si sta inoltre dimostrando tutt altro che neutrale rispetto alle condizioni sociali, nelle quali i processi produttivi si svolgono. Al punto che grandi acquirenti, come la GDO, sempre più spesso preferiscono evitare di acquistare beni che siano stati prodotti in condizioni palesemente non accettabili secondo i più elementari standard sociali. Le aziende frutticole italiane operano ormai secondo rigidi protocolli ambientali, che le portano sempre più diffusamente a adottare tecniche a più basso impatto tanto che certi processi di produzione e molti fattori produttivi di sintesi sono stati posti al bando dalla normale pratica agricola. Esse tendono inoltre, o sono sempre più spesso obbligate, a seguire una normativa sul mercato del lavoro molto restrittiva rispetto a quella adottata in altre parti del mondo, e in particolare nei paesi cosiddetti emergenti. E operano in condizioni sociali per fortuna assai diverse da quelle che caratterizzano la maggioranza dei paesi in ritardo di sviluppo. L opportunità di adeguarsi alle esigenze igieniche dei consumatori moderni e a quelle sociali delle società più avanzate, quali quelle europee, si riflette pesantemente sui costi di produzione delle imprese e porterebbe necessariamente ad un regime di prezzi europei che, in condizioni di mercato chiuso, tenderebbe a coprire tali maggiori costi. La situazione verrebbe però a cambiare se fosse possibile importare a prezzi più limitati le stesse produzioni offerte dalla frutticoltura italiana. Dove per stesse produzioni deve ovviamente intendersi un prodotto di pari livello qualitativo, ossia che possieda 18

19 non solo identici attributi merceologici e organolettici, ma anche di eguale contenuto igienico, ambientale e sociale. Cosa che ben difficilmente si verifica per le produzioni che provengono da paesi assai più permissivi di quelli europei, in merito alle condizioni igieniche, ambientali e sociali nelle quali ha luogo la produzione agricola. Se ciò è vero, allora i prodotti di altri paesi, disponibili per essere importati, magari a prezzi più bassi di quelli del nostro mercato interno, non sono in realtà gli stessi beni che noi produciamo. Essi vengono acquistati dai nostri consumatori, solo nella misura in cui essi non sono consapevoli di acquistare merci che in realtà posseggono attributi qualitativi più scadenti, rispetto a quelli delle nostre produzioni. In pratica i paesi dai quali provengono tali merci, dai più modesti caratteri qualitativi, riescono a produrre a costi più bassi dei produttori italiani, e quindi a vendere a prezzi più limitati, proprio perché adottano tecniche di produzione i cui standards igienici, ambientali e sociali, sono inaccettabili per l agro-alimentare europeo. Se questi paesi fossero costretti a adottare tecniche produttive capaci di garantire gli stessi standards qualitativi europei, con tutta probabilità le loro merci non riuscirebbero ad essere competitive con quelle dei nostri agricoltori. Questi paesi, in altri termini, operano nei riguardi dei mercati europei in condizioni che potrebbero essere definite di dumping igienico, ambientale e sociale. È noto infatti il significato che si attribuisce a questo termine. Esso, per i paesi esportatori, si riferisce alla riduzione del prezzo di esportazione al di sotto del livello che esso dovrebbe raggiungere in funzione di tutti i suoi costi di produzione nel paese d origine. L Organizzazione Mondiale del Commercio definisce come dumping l esportazione di beni a prezzi più bassi del loro livello normale, laddove quest ultimo può essere stimato come il livello che copra tutti i costi di produzione, incluso un ragionevole profitto. Nello stesso modo viene definito come margine di dumping la differenza fra il prezzo d esportazione e tale livello normale. Naturalmente tale differenza va calcolata in maniera equa, ossia fra prezzi relativi a mercati confrontabili, come si dice, nello spazio, tempo, forma e qualità. Qualora i mercati non fossero confrontabili nel senso ora indicato, la differenza fra i prezzi non darebbe luogo ad un confronto equo. Con riferimento alla qualità, il calcolo del livello normale dei prezzi di merci provenienti da paesi diversi, presuppone quindi che esse posseggano davvero identici attributi qualitativi. Se ciò non è, occorre 19

20 considerare come normale il prezzo capace di coprire tutti i costi di produzione, inclusi quelli necessari per rendere le merci del paese esportatore effettivamente confrontabili sul piano qualitativo con quelle del paese importatore. Il margine di dumping misura perciò, la differenza esistente fra il prezzo reale di esportazione e quello normale, calcolato nel modo ora indicato. Tale prezzo normale cioè, non può prescindere dai maggiori costi cui si andrebbe incontro, se nel paese esportatore si adottassero le stesse norme igieniche, ambientali e sociali esistenti nel paese importatore. Qualora i prezzi di esportazione non coprano, invece, queste ultime categorie di costi, si potrebbe legittimamente assumere che ci si trovi in presenza di comportamenti di dumping igienico, ambientale e sociale. L esportazione di merci a prezzi di dumping, non rappresenta quindi la capacità di un paese di essere più competitivo, ma costituisce anzi, una pratica distorsiva della concorrenza, capace a lungo termine di danneggiare sensibilmente i comparti produttivi dei paesi nei quali le merci vengono vendute. Le norme che regolano il funzionamento dell Organizzazione Mondiale del Commercio mirano, fra l altro, proprio all eliminazione delle pratiche considerate distorsive della concorrenza, fra le quali il dumping, che va quindi considerato inaccettabile, almeno quanto l uso di sussidi all esportazione. Viceversa, proteggere i mercati interni con misure di effetto non superiore all entità del margine di dumping, dovrebbe essere considerato assolutamente legittimo, sia per proteggere i produttori da pratiche distorsive del commercio, sia per tutelare i consumatori da merci che, rispetto a quelle nazionali, appaiono evidentemente contraffatte dal punto di vista igienico, ambientale e sociale. 6. Conclusioni Il momento di crisi che sta vivendo la frutticoltura nazionale impone la riconsiderazione degli elementi sui quali si articola la problematica del settore. In termini generali la capacità per l offerta agricola di essere competitiva dipende largamente dal successo dei produttori nel comprendere le nuove dimensioni qualitative fra gli attributi fondamentali e riconoscibili delle merci presentate alla vendita. La qual cosa riporta in primo piano l esigenza della certificazione dei prodotti di qualità come 20

21 elemento necessario per agevolare o addirittura permettere il loro collocamento. Il quesito che si pone oggi, quindi, non è più quello dell opportunità della certificazione, ma eventualmente quello di scegliere quali attributi delle merci siano da certificare. L area e i compiti della certificazione si sono allargati di molto fino ad includere aspetti che qualche anno fa avremmo avuto difficoltà a considerare, ma le esigenze indicate in proposito dagli acquirenti ed in particolare dalla grande distribuzione non lasciano dubbi. Sulla base della classificazione proposta nei paragrafi precedenti, due sono le tipologie per le quali la frutticoltura italiana potrebbe risultare competitiva a livello nazionale e internazionale. La prima è quella rappresentata dai cosiddetti prodotti di eccellenza qualitativa e a denominazione. Tuttavia, allo stato attuale, la PLV stimata per i prodotti frutticoli a denominazione e per quelli biologici è ancora molto bassa, anche se caratterizzata da notevoli potenzialità. Il problema della valorizzazione e della promozione della frutticoltura italiana, non si identifica quindi e non si esaurisce con quello di tali frazioni dell offerta complessiva. L altra tipologia, di notevole interesse, è quella che abbiamo chiamato dei prodotti di qualità di più largo consumo. Essa risulta particolarmente importante per diversi ordini di motivi. Innanzi tutto perché, nonostante le difficoltà di pervenire ad una sua valutazione precisa, si può considerare che poco meno della metà della produzione italiana appartenga a questo segmento. I risultati economici che si ottengono per i prodotti di qualità di più largo consumo sono quindi destinati a caratterizzare le vicende e le prospettive dell intero comparto frutticolo. Il secondo motivo perché, essendo esclusi dai DOP e dagli IGP molti dei leader della frutticoltura italiana, come le pesche, le nettarine e le fragole, tali prodotti richiedono di essere valorizzati attraverso una differente strategia di qualità, peraltro proseguendo lungo un percorso che sembra già iniziato. Il terzo motivo è legato ai cambiamenti dei comportamenti di acquisto dei consumatori. Costoro sempre di più acquistano la frutta presso la GDO, dove da un lato è più facile e più sicuro reperire produzioni biologiche e integrate e dall altro è più difficile, per produttori non sufficientemente organizzati vendere il prodotto. Conseguentemente, le strategie che sembrerebbero più efficienti per la frutta italiana che abbiamo definito di eccellenza (DOP, BIO, Integrato) sono quelle che richiedono uno sforzo organizzativo- 21

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