Facoltà di Ingegneria Civile ed Industriale Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Chimica Candidato Antonio Valerio Franchi n matricola

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1 Studio dei materiali costituenti le GEMs (Gas Electron Multipliers) nel rivelatore CMS (Compact Muon Solenoid) presso LHC (Large Hadron Collider) al CERN di Ginevra: caratterizzazione ed interazioni con miscele di gas e fluidi di processo Facoltà di Ingegneria Civile ed Industriale Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Chimica Candidato Antonio Valerio Franchi n matricola Relatore Giovanna Saviano Correlatore Marco Valente A/A 2012/2013

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4 1. Reviewer: Giovanna Saviano 2. Reviewer: Stefano Bianco

5 Indice Introduzione Il progetto LHC e l esperimento CMS Il Modello Standard L esperimento LHC Gli esperimenti dell LHC L esperimento CMS Caratteristiche e struttura di CMS I rilevatori di CMS Bibliografia Caratteristiche e funzionamento dei rilevatori GEM I detector installati su CMS I rivelatori di particelle a gas I rivelatori a singola GEM Struttura del detector Definizioni del guadagno Regimi di esercizio e campi elettrici in un rivelatore a singola GEM Parametri e guadagno di un rivelatore a singola GEM I rilevatori a tripla GEM Campi elettrici in un rivelatore a tripla GEM Influenza delle dimensioni in un rivelatore a tripla GEM Guadagno di un rivelatore a tripla GEM Miscele di gas per un rivelatore a tripla GEM.. 33 Bibliografia Assemblaggio, sviluppi e test di un rivelatore a tripla GEM: l approccio ingegneristico allo studio dei materiali in funzione della caratterizzazione, delle interazioni con il sistema e dell aging partendo dallo stato dell arte Introduzione Preparazione di una tripla GEM 10X10 cm Sviluppi e miglioramenti dei rivelatori a tripla GEM: il passaggio alle camere di grandi dimensioni Nuove tecnologie e tecniche di assemblaggio. 45 5

6 3.5. Test Beam Studio dei materiali. 50 Bibliografia Produzione e proprietà delle poliimmidi: stato dell arte e dati sperimentali sul kapton in uso al CERN Introduzione Produzione delle poliimmidi Polimerizzazione con formazione dell acido poliamico Altre tecniche di produzione Trasferimento di cariche Proprietà termiche Temperatura di transizione vetrosa e rilassamento Proprietà elettriche Costante dielettrica Effetto dell umidità Resistività Dati sperimentali sul Kapton in uso al CERN: analisi di spettrografia ad infrarossi Bibliografia Umidità e diffusione all interno della poliimmide: teoria, modellizzazione del foglio GEM e verifica sperimentale Introduzione Il sistema gas di CMS Setup del GGM Algoritmo di controllo Introduzione ai meccanismi di diffusione all interno dei polimeri Il processo di diffusione Le leggi di Fick Altri modelli diffusivi Determinazione del coefficiente di diffusione Analisi preliminare dell esperimento Preparazione dell esperimento presso i laboratori CERN: il sistema di condizionamento dell umidità Svolgimento del test presso i laboratori CERN Realizzazione di un modello di diffusione mediante COMSOL Multiphisics Verifica sperimentale del modello di diffusione dell acqua all interno della GEM Preparazione dell esperimento presso i laboratori INFN Svolgimento del test presso i laboratori INFN Test per il desorbimento dell acqua. 95 Bibliografia

7 6. Analisi delle proprietà e del comportamento meccanico di un foglio GEM Introduzione Analisi preliminari tramite programmi di simulazione Effetto dell umidità Test di trazione uniassiale Bibliografia Interazioni tra polimeri e radiazioni Introduzione Le particelle ionizzanti Interazioni tra elettroni e materiale Potere di arresto di massa Profilo di ionizzazione Interazioni tra fotoni e materiale Interazione e coefficienti di attenuazione Adsorbimento fotoelettrico Scattering ed effetto Compton Produzione di coppie elettroniche Dose assorbita Effetti delle radiazioni ionizzanti nei polimeri Resistenza alle radiazioni da parte di materiali polimerici e compositi Resistenza dei polimeri Resistenza dei compositi Polimerizzazione indotta dal plasma: meccanismi di reazione Addizioni e crescita della catena Reazioni ione-molecola Meccanismo di frammentazione-ricombinazione Polimerizzazione all interno di gas o su superfici di substrati Polimerizzazione indotta dal plasma: cinetica e parametri di processo Bibliografia Setup del test alla Gamma Irradiation Facility (GIF) e studi preliminari al SEM Introduzione Descrizione generale del setup La linea di Reference La linea di Outgassing La linea GIF Funzionamento e fenomeni di aging di rivelatori SWPC e MWPC Struttura dei rivelatori proporzionali a fili Fenomeni di aging dell anodo Fenomeni di aging del catodo Analisi dei fenomeni di polimerizzazione nei rivelatori SWPC e MWPC Configurazione del gas cromatografo Inizio dei test e primi risultati

8 Bibliografia Conclusioni Appendice #1: Principali tecniche di analisi impiegate A.1. Introduzione A.2. La gascromatografia A.2.1. L introduzione del campione A.2.2. Le colonne A.2.3. I rivelatori (o detector) A.2.4. La taratura dello strumento A.3. La spettroscopia ad Infrarossi 170 A.3.1. Lo spettro elettromagnetico A.3.2. Il setup del sistema FTIR A.4. La microscopia a scansione elettronica A.4.1. Le sorgenti del fascio A.4.2. I prodotti di interazione tra il campione ed il fascio. 175 A.4.3. I rivelatori Appendice #2: Raw Data Ringraziamenti Bibliografia

9 Introduzione L esigenza di scoprire la natura e di capire quali sono i meccanismi che regolano l universo hanno rappresentato da sempre quasi un bisogno primario per l uomo. Per raggiungere questi obiettivi, la mente umana ha dovuto spingersi sempre oltre quanto già fosse noto e disponibile, modificando e/o creando strumenti di indagine sempre più avanzati e all avanguardia. Negli ultimi anni molto si è sentito parlare dell acceleratore di particelle LHC (Large Hadron Collider) presso il CERN, situato al confine tra Svizzera e Francia, alla luce delle recenti scoperte di carattere scientifico ottenute dai quattro esperimenti presenti lungo l anello di accelerazione (ALICE, ATLAS, LHCb, CMS). Solo per menzionare le ultime conquiste scientifiche a cui si è giunti, è stato possibile misurare la velocità dei neutrini, particelle elementari di massa infinitesima e prive di carica elettrica, o provare l esistenza del bosone di Higgs, particella prevista dal Modello Standard (vedi capitolo 1) e teorizzata nel 1964, che solamente nel 2012 è stato possibile osservare nella realtà; questo bosone gioca un ruolo fondamentale in quanto portatore di forza del campo di Higgs, responsabile, secondo la teoria, del conferimento della massa ad ogni particella presente nell universo. Queste conquiste scientifiche rappresentano un traguardo non solo della fisica teorica, ma di tutti i settori scientifici e tecnologici: senza lo sviluppo ed il perfezionamento tecnologico dei rivelatori, dei sistemi di controllo e di acquisizione dati e di tutte quelle parti che compongono l acceleratore LHC, non sarebbe stato possibile conseguire i risultati appena citati. Molte delle sperimentazioni effettuate in questi ambiti hanno poi nel tempo ricadute anche nell industria e nelle applicazioni più domestiche. Centinaia di scienziati e tecnici, provenienti da tutto il mondo e specializzati nelle più svariate tipologie di ingegneria, fisica, matematica, hanno dato il loro contributo alla scienza, occupandosi ognuno di una piccola parte dell immenso progetto che è l acceleratore di particelle del CERN. I rivelatori GEM (Gas Electron Multiplier) fanno parte della famiglia dei rivelatori a gas presenti in molti degli esperimenti citati sopra e sono attualmente oggetto di un intenso ed approfondito studio da parte della comunità. L impiego di questi detector di nuova generazione all interno degli esperimenti che ruotano intorno all LHC, ed in particolare di CMS (Compact Muon Solenoid), porterebbe ad un incremento sostanziale delle capacità di risoluzione spaziale e temporale delle particelle in studio. Lo sviluppo di una nuova tecnologia non può prescindere dallo studio e dalla conoscenza dei materiali che sono utilizzati: una conoscenza approssimativa delle caratteristiche e proprietà dei costituenti di un dispositivo sarebbe una grave manchevolezza oltre che un impedimento per lo sviluppo ed un miglioramento delle performance. Da un punto di vista ingegneristico infatti, seguendo un percorso logico, una volta posto un obiettivo e stabilito come deve essere realizzato il sistema necessario a raggiungerlo, 9

10 è basilare scegliere i materiali migliori che permettano, in virtù delle loro differenti proprietà e risposte alle interazioni con l ambiente di lavoro, il raggiungimento dell obiettivo. Tutto questo prevede, alla base, la conoscenza della struttura e delle caratteristiche dei materiali. Non ultimo, nel caso di macchine cosi grandi e complesse, lo sviluppo ed il miglioramento dei materiali non consiste solamente nel potenziamento delle loro caratteristiche, ma anche nel contenimento dei relativi costi di produzione; non a caso il progresso tecnologico implica anche un miglioramento dei mezzi e sviluppa tecnologie di produzione via via più semplici, sempre tenendo in considerazione l aspetto economico. In generale, la ricerca nel campo dei materiali prevede come punto di partenza le conoscenze pregresse e materiali già noti ed applicati in precedenza nello stesso settore e si pone come obiettivo la formulazione di proposte completamente innovative, o anche solamente limitandosi all ottimizzazione delle soluzioni già note e già implementate tra loro, come spesso avviene nei complessi esperimenti della fisica delle particelle ad alta energia. Nel caso delle GEM ci troviamo proprio di fronte ad un oggetto che, pur essendo utilizzato in vari esperimenti, solamente da poco è oggetto di una particolare attenzione in virtù delle potenzialità ancora non del tutto note. Per questo motivo, è nata una nuova sensibilità da parte della comunità dei fisici riguardo i materiali che costituiscono i rivelatori, materiali intesi non solo come un mezzo per ottenere i segnali da analizzare (traguardandoli completamente), ma come un elemento che, interagendo con l intero sistema di rivelazione, subisce trasformazioni e invecchiamento che necessitano di essere considerati ed analizzati secondo le proprie regole e protocolli tipici dell ingegneria dei materiali e chimica. Oggetto del lavoro di tesi è, appunto, l organizzazione e l ottimizzazione di un sistema di caratterizzazione dei materiali delle GEM da un punto di vista ingegneristico che accompagni le usuali campagne di monitoraggio di questo tipo di rivelatori. In particolare è stata affrontata la progettazione di un sistema che contemporaneamente permette di monitorare le trasformazioni dei materiali e dei gas durante l interazione delle miscele di gas e di fluidi del sistema, e di afre lo stesso in una fase successiva durante l irraggiamento dovuto all attività del rivelatore stesso. I rivelatori GEM, come si vedrà in dettaglio nei capitoli 2 e 3, presentano una coppia di elettrodi, posti rispettivamente nella parte superiore ed inferiore della camera, e tra i quali sono inseriti tre strati, intervallati tra loro, di un layer di poliimmide microforato e rivestito da entrambe le parti di rame. Fino ad oggi, poco era stato fatto dal punto di vista della caratterizzazione dei materiali per il dispositivo in questione, avendo la collaborazione scientifica preferito compiere la scelta dei migliori materiali in modo da ottenere il più corretto funzionamento del dispositivo, basandosi su precedenti esperienze e macchine, tali da garantire le caratteristiche desiderate, e basandosi sul fatto che l integrazione dei rivelatori così costituiti con l elettronica e tutto il complesso sistema di CMS non richiedeva particolari cambiamenti o adattamenti. Ed in generale, questo discorso è valido per tutti gli sviluppi dei rivelatori solitamente impiegati nel campo della fisica delle particelle ad alta energia. Tuttavia a seguito dell intensificarsi della collaborazione dei fisici con gli ingegneri dei materiali, avviata anche con laureandi e dottorandi del nostro dipartimento, è stata decisa la programmazione di una caratterizzazione completa di questi materiali, in vista anche di un futuro studio di progettazione di materiali e compositi specifici. Ciò che quindi ci si prefigge nella tesi è di descrivere in primo luogo i principali aspetti e caratteristiche dei materiali che compongono le GEMs, considerandoli nel loro peculiare 10

11 ambiente di applicazione per poi soffermarsi in particolare su quei parametri che possono maggiormente essere coinvolti nelle problematiche di interazioni ed invecchiamento, come per altro di trasformazione dei materiali. Attraverso test condotti prima sui singoli materiali che costituiscono i fogli sopra citati e successivamente sull intera struttura, si esamineranno le diverse proprietà quali l igroscopicità, le proprietà meccaniche dei costituenti del detector, confrontando i valori dei parametri che descrivono il comportamento del solo polimero e dell intera struttura (fori e rivestimento di rame), ed il comportamento nei confronti dell acqua. All interno del detector è inviata una miscela di gas composta da Ar/CF4/CO2: questi componenti, nel momento in cui si verifica il passaggio di una particella ed a seguito degli elevati valori del campo elettrico applicato tra gli elettrodi, subiscono ripetute ionizzazioni; gli elettroni che si vanno formando sono poi raccolti sull anodo, trasferendo all elettronica l informazione circa il passaggio della particella. In particolare, è stata rilevata la presenza del fluoro come inquinante prodotto durante il progresso di flussaggio dei gas; questa presenza, unita alle condizioni regnanti nell ambiente di lavoro in cui il rivelatore sarà posizionato, si è dimostrata fino ad oggi molto gravosa per l integrità strutturale ed il corretto funzionamento del dispositivo. Infatti, a seguito delle ionizzazioni che avvengono all interno della miscela gassosa è possibile ottenere ioni di fluoro, molto reattivi e che facilmente portano alla formazione di composti altamente corrosivi come l acido fluoridrico (HF). Nella fase dello studio che implicherà il monitoraggio dei materiali durante il flussaggio si cercherà di comprendere quanto già evidenziato per situazioni analoghe all interno di altri detector di particelle, casi in cui, ad esempio, a seguito delle condizioni di esercizio si andavano ad innescare delle reazioni di polimerizzazione in seno al volume di gas flussato all interno delle camere o a modificare i parametri resistenziali, ed in generale le caratteristiche, dei materiali costituenti il rivelatore; nell esempio citato si trattava di RPC (Resistive Plate Chamber, costituiti da lastre di Bakelite). Gli aspetti fino ad ora presentati sono solo alcuni tra le molte possibili situazioni, interazioni ed eventuali problemi che si possono presentare in fase di esercizio, considerando anche che il periodo di presa dati con questi rivelatori è ipotizzato dell arco di decine di anni, che gli i lunghi periodi shutdown, che consentono apertura ed eventuali riparazioni e sostituzioni degli oggetti, sono molto distanziati tra di loro; sono inoltre da considerare le problematiche per l abbattimento dei i costi di esercizio (non trattati nel presente lavoro) dovuti alle miscele di gas e che richiedono, in futuro, di istituire un apposito sistema di filtrazione e di gestione degli esausti. Si può capire come questa tesi costituisca, pertanto, il primo passo, significativo ma non esaustivo, della comprensione di tutte le problematiche che avvolgono il mondo dei rivelatori di particelle. Per tale motivo questo lavoro non pretende di esaurire completamente tutti gli aspetti relativi alle proprietà ed ai comportamenti dei materiali costituenti il detector, sia per la vastità dell argomento in questione, sia perché molti degli studi e dei test che saranno descritti nel corso dell opera richiederanno un lungo tempo di esercizio del sistema (anche di quello progettato scale-down per lo studio di materiali ed interazioni) e di analisi prima che si possano dare conclusioni e porre le giuste basi per una progettazione dei materiali adeguata ed appropriata. 11

12 Capitolo 1 Il progetto LHC e l esperimento CMS 1.1. Il Modello Standard Fin dall antichità l uomo ha indagato la natura che lo circonda, cercando di comprenderne la sua origine e la sua costituzione; ad esempio, già nell antica Grecia, Democrito parlò per primo di atomi, indicando in questi le particelle fondamentali ed elementari. Successivamente, la diffusione della chimica nel 600, con l acquisizione di strumenti di indagine sempre migliori, permise di scendere ancora di più nel particolare, individuando all interno dell atomo delle particelle ancora più piccole: un nucleo, composto da neutroni (di carica neutra) e protoni (di carica positiva), ed una nube di elettroni (di carica negativa) che ruotano intorno a questo. Durante il XX secolo si è scoperto che le stesse particelle che compongono il nucleo degli atomi sono a loro volta composte da sub particelle elementari, dette quark. La scoperta di queste nuove entità è il frutto di enormi studi, ricerche ed esperimenti che sono stati condotti specialmente a partire dagli anni 60. Attualmente sono note più di 200 particelle elementari, includendo anche le rispettive antiparticelle: a tutti questi costituenti fondamentali sono stati assegnati i nomi delle lettere dell alfabeto greco e romano, in base alle loro caratteristiche e al loro comportamento nei confronti delle forze cui risultano sensibili. L insieme di queste particelle elementari, incluse le forze fondamentali porta alla definizione del Modello Standard, che costituisce ad oggi l ipotesi più accreditata e all avanguardia sulla costituzione del mondo per come lo conosciamo. Secondo tale modello la materia è formata da due famiglie di particelle (i quark ed i leptoni) ed è possibile, per queste ultime, individuare quattro interazioni fondamentali, ognuna delle quali è trasportata da altre particelle, dette Mediatori (il fotone per la forza elettromagnetica, il bosone per la forza nucleare debole, il gluone per la forza nucleare forte ed il gravitone per la forza gravitazionale). Esistono sei leptoni (elettrone, muone e tau, ognuno dei quali presenta un proprio neutrino) e sei quark (up, down, charm, strange, top e bottom); ognuna di queste particelle è dotata poi della sua corrispettiva antiparticella (Fig. 1.1). Completa il Modello Standard il bosone di Higgs, manifestazione del campo di Higgs, necessario per spiegare il meccanismo attraverso il quale le particelle acquisirono massa. 12

13 Fig. 1.1: Schema riassuntivo di leptoni e anti-leptoni. Una delle caratteristiche dei leptoni risiede nel fatto che tali particelle possono vivere per conto proprio, non necessitando di legarsi ad altre particelle; inoltre questi non sono sensibili alla forza elettromagnetica forte. I precedenti aspetti non appartengono invece ai quark, particelle elementari anch esse ma che si trovano sempre in gruppo a costituire gli adroni, a loro volta suddivisi in mesoni e barioni. Un altra caratteristica propria dei quark, e del tutto sorprendente se confrontata con le teorie sui costituenti la materia che hanno regnato per secoli, è che queste particelle sono dotate di carica frazionaria rispetto all elettrone: i quark possono pertanto possedere carica 2/3 o -1/3, mentre le corrispettive antiparticelle, dette antiquark, carica rispettivamente -2/3 o 1/3. I quark più diffusi in natura, sotto forma di altre particelle, sono l up e il down; tutti gli altri necessitano di un grande quantitativo di energia per non decadere in particelle più leggere e la causa di ciò risiede nella loro massa notevolmente maggiore rispetto a quella dei quark up e down. Troviamo perciò i quark top, strange, charm e beauty; come nel caso dei leptoni, anche per ogni quark esiste il corrispettivo anti-quark (Fig. 1.2). Fig. 1.2: Schema riassuntivo di quark e anti-quark. Come detto, secondo il Modello Standard (Fig. 1.3), tutte le interazioni che riguardano le particelle sono dovute al reciproco scambio dei Mediatori di Forza; è possibile distinguere quattro forze fondamentali, ognuna con il proprio mediatore: gravità: questa interazione, la cui intensità relativa è pari ad 1, ha effetto estremamente piccolo rispetto alle altre forze, essendo proporzionale alla massa 13

14 delle particelle. La particella mediatrice è stata indicata col nome di gravitone e, ad oggi, ancora non è stata scoperta. forza elettromagnetica: questa interazione interessa solo le particelle dotate di carica elettrica, che dunque determina quanto un determinato corpo sia sensibile a tale forza. La forza elettromagnetica presenta un intensità relativa pari a e presenta un raggio di azione molto esteso; la particella mediatrice di questa interazione è il fotone, completamente privo di massa e distinto in base alla propria lunghezza d onda e alla propria frequenza. forza nucleare forte: tale interazione è responsabile dell esistenza stessa del nucleo degli atomi, dove si trovano a convivere i protoni (tutti dotati di carica positiva e quindi destinati a respingersi a vicenda a seguito della forza elettromagnetica), e permette ai quark di unirsi tra loro per formare gli adroni. Questa interazione è di tre ordini di grandezza più intensa della forza elettromagnetica, ma presenta un raggio di azione estremamente limitato. La particella mediatrice di questa interazione è il gluone. forza nucleare debole: rispetto alla forza nucleare forte, tale interazione presenta un intensità relativa pari a ed è la responsabile dell esistenza di quark e leptoni leggeri. Infatti, come già detto a proposito dei leptoni, tutte le particelle più grandi, in termini di massa e dunque di energia, tendono a decadere spontaneamente per dare vita a particelle più leggere. Le particelle mediatrice della forza nucleare debole sono i bosoni: a seconda della loro carica (positiva, negativa e neutra), questi si dividono rispettivamente in W +, W - e Z 0. Fig. 1.3: Il Modello Standard: il gravitone (interazione gravitazionale) agisce su tutte le particelle. Il gluone (interazione forte) agisce su i tutti i quark, il fotone (interazione elettromagnetica) agisce su tutte le particelle dotate di carica elettrica, quindi su tutti i quark e su elettrone, muone e tau. I bosoni intermedi W +, W - e Z 0 (interazione debole), agiscono su tutte le particelle. L unico mattone mancante di questo modello è il bosone di Higgs (da Scienza per tutti, INFN ) 1.2. L esperimento LHC L'LHC (Large Hadron Collider) è l'acceleratore di particelle più grande e potente finora realizzato: questo è stato costruito presso il CERN (Conseil Européen pour la 14

15 Recherche Nucléaire) di Ginevra. Questa macchina, entrata in funzione nel Settembre 2008, è stata progettata per accelerare protoni fino al 99, % della velocità della luce e farli successivamente scontrare, raggiungendo un'energia, nel centro di massa, di 14 TeV; tali livelli di energia non sono mai stati raggiunti fino ad ora in laboratorio. L acceleratore è stato costruito all interno di un tunnel lungo 27 km, scavato ad una profondità media di 100 m sotto il livello del mare e situato al confine tra Francia e Svizzera. Il tunnel fu costruito negli anni 80 per ospitare il precedente acceleratore di elettroni e positroni (LEP, Large Electron Positron Collider): questo permetteva di accelerare particelle fino a raggiungere un energia di 90 GeV, successivamente portata a 200 GeV. Sviluppo dell LHC e principali esperimenti presenti All interno dell LHC due fasci di particelle circolano in direzioni opposte e vengono fatti collidere tra loro; le particelle vengono preparate nella catena di acceleratori del CERN ad un energia di 0.45 TeV e sono poi iniettati dentro l acceleratore all interno di due tubi ad ultra-vuoto per minimizzare gli urti fra i protoni dei fasci e gli atomi d aria, massimizzando in tal modo la durata e l intenistà di ogni pacchetto di particelle. Intorno all acceleratore sono presenti dei forti campi magnetici (fino a 4 Tesla) che hanno il compito di guidare i fasci nel loro percorso ed accelerarli ad ogni giro (fino a raggiungere un energia di 8 TeV, con una luminosità, ossia il numero di collisioni al secondo, di cm -2 s -1 ). Tali campi sono generati da bobine magnetiche costituite da materiali super conduttori (niobio-titanio) mantenuti in un particolare stato di superconduzione, in cui sono nulle le perdite e le resistenze di energia. In tal modo è possibile raggiungere i Ampère; per conseguire tale scopo, sono richiesti raffreddamenti dei magneti molto spinti (-271 C, 1.9 K), conseguibili grazie all impiego di elio liquido superfluido. LHC rappresenta oggi il sistema criogenico più grande esistente ed il punto più freddo dell universo. Le collisioni dei due fasci di particelle, chiamate adroni e costituite da protoni e ioni pesanti (Pb), hanno lo scopo di ricreare condizioni analoghe a quelle presenti dopo il Big Bang. Ogni fascio è preparato all interno dei laboratori del CERN: seguendo un percorso che prevede una serie di piccoli acceleratori di dimensioni sempre più grandi e potenze crescenti (Fig. 1.4), si arriva in fine all LHC. I fasci sono costituiti da circa 3000 pacchetti di particelle, a loro volta contenenti particelle. 15

16 Fig. 1.4: Schema degli acceleratori dell LHC LEIR: il primo blocco di accelerazione delle particelle (CERN) Nei punti in cui i due fasci si incrociano, il numero di collisioni risultanti risulta essere estremamente basso (20 su 2*10 11 particelle); tuttavia, poiché le collisioni sono più di 30 milioni al secondo, la quantità di informazioni che possono essere raccolte è sorprendente; ovviamente l analisi degli eventi e la loro selezione è possibile soltanto impiegando dei sistemi appositi (Triggers), che permettono di selezionare solo quelle collisioni che si pensa possano contenere informazioni sulla nuova fisica. Gruppi di fisici da tutto il mondo hanno il compito poi di analizzare gli urti, monitorando la materia generata ad ogni impatto: le collisioni hanno luogo infatti in determinati punti dell LHC, ognuno dei quali raccoglie al suo interno un particolare esperimento e strumenti dedicati allo scopo. Gli esperimenti che ruotano intorno all attività del Large Hadron Collider sono ospitati in gigantesche caverne e sono costituiti da numerosi rivelatori che utilizzano le più diverse tecnologie; l intento è di studiare le numerosissime particelle prodotte nelle collisioni, grazie alla trasformazione di una parte dell'altissima energia in massa. Il primo scopo della ricerca è stato raggiunto con l osservazione del bosone di Higgs, particella mancante a confermare il paradigma del Modello Standard. Tra gli ulteriori scopi degli studi vi sarà la ricerca dell'esistenza di nuove particelle, la caratterizzazione della materia che compone il restante 96% dell universo, l indagine 16

17 sull esistenza di nuove dimensioni spaziali (oltre alle tre spaziali e quella temporale). Le alte energie in gioco nell LHC permetteranno, inoltre, di compiere studi sulla presenza di nuova fisica, ovvero di particelle non previste dal Modello Standard, ma in ogni caso previste da modelli e teorie successive: queste permetterebbero di riunire tutte le forze esistenti in natura in un unica grande teoria. Nel Febbraio 2013 è stato previsto uno stop temporaneo delle collisioni per permettere un upgrade dell acceleratore (primo shutdown, LS1): in seno ad un anno è mezzo, è previsto di portare la potenza dell LHC fino a 13 TeV, oltre chiaramente a modificare e perfezionare tutte le sue componenti. In questo periodo di ammodernamento anche tutti gli esperimenti che ruotano intorno all LHC avranno modo di perfezionare i propri sensori e detector, mentre i fisici avranno modo di analizzare tutta la campagna dati raccolta dal 2009 fino ad oggi. Sono state previste altre due fasi di spegnimento che avranno la funzione di aumentare le potenzialità dell acceleratore e delle macchine che lo compongono: in una prima fase (2018, LS2) si provvederà ad aumentare l energia e la luminosità dell LHC rispettivamente fino a 14 TeV e cm -2 s -1, mentre in un secondo momento ( , LS3) saranno amplificate le potenzialità dei detector, in specie la loro risoluzione. In particolare, gli studi presentati in questo lavoro di tesi sono focalizzati sull upgrade del sistema dei muoni previsto per LS Gli esperimenti dell LHC I sei esperimenti presenti nell LHC (Fig. 1.5) sono frutto di una collaborazione internazionale di scienziati provenienti da ogni parte del mondo; ogni esperimento si configura come un ente a sé, occupandosi di specifici quesiti e sfruttando una propria tecnologia ed appositi detector. I due esperimenti più grandi sono ATLAS (A Toroidal LHC ApparatuS) e CMS (Compact Muon Solenoid): questi si prefiggono di verificare l esistenza del bosone di Higgs e della supersimmetria. L'esperimento LHCb è invece progettato per studiare la fisica dei mesoni B, mentre ALICE (A Large Ion Collider Experiment) è ottimizzato per lo studio delle collisioni tra ioni pesanti. I due rivelatori più piccoli sono TOTEM e LHCf, specializzati per studiare le collisioni che producono particelle a piccolo angolo rispetto alla direzione dei fasci. I rivelatori facenti parte di ATLAS, CMS, ALICE e LHCb sono installati in quattro profonde caverne sotterranee posizionate intorno all anello costituente l LHC; i detector impiegati nell esperimento TOTEM (TOTal Elastic and diffractive cross section Measurement) sono posizionati vicino ai rivelatori di CMS, così come LHCf si trova vicino ad ATLAS. 17

18 Fig. 1.5: Gli esperimenti dell LHC 1.3. L esperimento CMS La caverna CMS, facente parte dell acceleratore LHC e collocata vicino a Cessy (Francia), fu scavata da zero, nell arco di 6 anni e mezzo, in un vecchio punto di accesso del precedente acceleratore LEP. L'apparato sperimentale ha dimensioni notevoli: 21,6 metri di lunghezza per 14,6 metri di diametro per un peso totale di circa tonnellate. Una particolarità del rivelatore CMS è che, contrariamente agli altri detector presenti nei vari esperimenti nell LHC che sono stati costruiti in-situ, è stato realizzato in superficie per poi essere smontato in 15 parti, calato nel luogo prescelto e quindi assemblato nuovamente; per riuscire in questo scopo, fu costruito il carroponte più grande mai realizzato nella storia. Nella costruzione dei pozzi che ospitano tutti gli esperimenti dell LHC, sono sorte non poche difficoltà: ad esempio, si sono verificati problemi dovuti ad infiltrazioni delle falde acquifere, problema poi risolto grazie al completo congelamento della falda per mezzo di azoto liquido, o al galleggiamento delle caverne, dovuto al peso specifico finale che risultava essere inferiore a quello medio della crosta terrestre, nonostante il massiccio peso dei detector. Anche l influenza lunare ha condizionato la messa in opera dell intero apparato: la luna, infatti, solleva la crosta terrestre, dissestando i fasci delle beam pipe, fenomeno già notato e corretto a suo tempo dagli esperimenti del LEP. L obiettivo principale di questo esperimento è scoprire la fisica alla base della rottura simmetria esistente tra le masse delle particelle: secondo il Modello Standard è proprio questa simmetria a permettere di assegnare la massa a tutte le particelle. Anche se esistono diverse teorie a riguardo, la più accreditata è quella proposta da Higgs, la quale mira a spiegare l origine della massa delle particelle elementari, in particolare dei bosoni W e Z. Inoltre, secondo tale teoria, esisterebbe una nuova particella subatomica (il bosone di Higgs per l appunto) la cui esistenza può essere dimostrata osservando i prodotti del suo decadimento; nel 2011 l apparato CMS è riuscito a confermare l esistenza di questa particella, identificando e monitorando con estrema precisione l energia di muoni, elettroni, fotoni e jets in un ampio intervallo di valori (80 GeV-1 TeV). 18

19 Gli altri obiettivi di CMS sono gli studi sulla formazione del plasma di quark e gluoni, sulla violazione di CP e sul quark top Caratteristiche e struttura di CMS Le principali caratteristiche del design di CMS: un ottimo sistema di rivelazione dei muoni; un ottima calorimetria elettromagnetica; un sistema di tracciamento delle particelle con alta risoluzione; un calorimetro adronico con sufficiente risoluzione in energia e buona ermeticità. Queste caratteristiche sono possibili grazie al campo magnetico solenoidale di elevata intensità (4 Tesla, circa 10 5 volte il campo magnetico terrestre), che permette di curvare le particelle cariche e che consente la misura del loro impulso e del segno della loro carica, accoppiato ad un sistema di rivelazione dei muoni a più strati, un calorimetro elettromagnetico costituito da cristalli scintillanti ed un potente sistema di tracciamento interno basato su una granularità fine di microstrips e rivelatori a pixel. L apparato di CMS consente una misura molto buona dell energia di muoni, elettroni, di altre particelle cariche e di fotoni tipicamente con una precisione di circa l 1% a 100 GeV. Una precisione così elevata permette un eccellente risoluzione in massa per stati di massa intermedi fra quelli del bosone di Higgs, dello Z 0, dei mesoni B per le collisioni protoneprotone o per gli stati Y nelle collisioni di ioni pesanti. CMS è essenzialmente un potente e compatto spettrometro, ben adattato alla fisica di LHC, capace di condurre studi sul meccanismo di rottura della simmetria elettrodebole (ricerca del bosone di Higgs e di particelle supersimmetriche), sulla violazione di CP, sulla formazione del plasma di quark e gluoni e molto altro. L uso di un calorimetro a cristalli e di rivelatori a pixel aumenta notevolmente il potenziale di queste ricerche. Un importante aspetto dell intero design del rivelatore è la configurazione e la scelta dei parametri del campo magnetico per la misura dell impulso dei muoni. Sono state considerate sia la soluzione toroidale sia quella solenoidale; la scelta è caduta su quella solenoidale. Infatti, con un campo magnetico parallelo all asse dei fasci, la curvatura delle tracce dei muoni avviene sul piano trasverso a quello dei fasci stessi. In questo piano, le dimensioni trasverse piccole dei fasci determinano la posizione trasversa del vertice con un accuratezza migliore di 20 µm. La curvatura accentuata nel piano trasverso facilita il compito dei trigger basato sul puntamento delle tracce al vertice da cui provengono. Inoltre, a parità di capacità di deflessione delle tracce cariche, le dimensioni di un sistema solenoidale sono minori rispetto al caso toroidale. L apparato di CMS è costituito da diversi rivelatori di particelle disposti secondo gusci concentrici intorno al punto d incrocio dei fasci (Fig. 1.6). CMS è un rivelatore ermetico, il che vuol dire che i rivelatori sono disposti in modo da coprire (quasi) tutto l'angolo solido intorno al punto di interazione. Le parti del rivelatore parallele all'asse del fascio sono chiamate barrel o centrali e sono costituite da superfici cilindriche, mentre quelle perpendicolari al fascio sono dette endcap o laterali e sono costituite da superfici piane a forma di disco. 19

20 Fig. 1.6: Struttura e rivelatori di CMS Il sistema di coordinate cartesiano utilizzato ha l asse Z diretto secondo la direzione dei fasci, l asse X che punta verso il centro dell anello di accumulazione e l asse Y che punta verso l alto. La parte della camera più vicina al raggio di protoni (regione detta ad alto angolo η) costituisce la zona in cui si andranno a posizionare le GEM (Gas Electron Multiplier), detector in fase di studio e di caratterizzazione in questi ultimi anni ed oggetto di questa tesi I rivelatori di CMS Dal punto di interazione verso l'esterno, i rivelatori che costituiscono CMS sono: tracciatore (Tracker): il Tracker è il sistema di rivelazione più vicino al punto d interazione i cui compiti è sono quelli di ricostruire le tracce di particelle cariche ed i vertici primari e secondari, l identificazione dei leptoni insieme al sistema di muoni e dei calorimetri e la rilevazione di decadimenti τ. Il sistema è costituito da due sottosistemi in due gusci cilindrici coassiali: la parte più interna è fatta da rivelatori a pixel di silicio che forniscono una buona precisione nella ricostruzione dei vertici primari, mentre la parte intermedia e quella esterna sono costituite da rivelatori di silicio a microstrip che permettono un efficiente ricostruzione della traccia, una misura precisa dell impulso grazie alla buona risoluzione spaziale e una buona corrispondenza con i rivelatori più esterni. L alta densità delle tracce previste ad LHC richiede rivelatori altamente segmentati; inoltre, poiché la densità delle tracce è maggiore negli strati più interni, la granularità dei rivelatori aumenterà con il diminuire della loro distanza dalla beam pipe. Per ottenere una buona ricostruzione della traccia e una buona risoluzione del momento traverso, è richiesto ai rivelatori un gran numero di canali di lettura. Come conseguenza della sezione d urto totale e dell alta luminosità, i livelli di radiazione previsti per il sistema tracciante sono molto più alti rispetto ai precedenti esperimenti. Per sopravvivere a questi ambienti sia la parte sensibile del rivelatore 20

21 che l elettronica di lettura devono essere fatte con una tecnologia resistente alla radiazione. Infine tutti i rivelatori del Tracker devono avere un buon tempo di risoluzione al fine di distinguere gli eventi che provengono da bunchcrossing (ossia l attraversamento dei fasci di particelle). Per soddisfare queste richieste il Tracker è costruito con rivelatori al silicio in quanto il loro impiego assicura le prestazioni richieste in termini di risoluzione spaziale (fino a pochi µm), rapidità di risposta (dell ordine di 10 ns) e sufficiente tolleranza alle alte dosi di radiazione. calorimetro elettromagnetico (ECAL), costituito da 80'000 cristalli di PbWO4, che ha lo scopo di rivelare elettroni e fotoni. sistema di calorimetri adronici (HCAL e HF), costituito da strati di materiale denso (ottone o acciaio) alternati a strati di materiale plastico o fibra di quarzo, per la misura dell energia degli adroni. sistema di camere per muoni (MUON): il MUON rappresenta il cuore dell esperimento CMS e si compone sostanzialmente di due parti: la parte più interna, detta barrel, e la parte più periferica, detta endcaps. Ogni sotto parte del MUON è assemblata a formare delle sotto stazioni, tra loro intervallate da strati di ferro dolce che fungono da giogo per il ritorno del campo magnetico del solenoide. L identificazione dei muoni e la misura dei loro momenti è affidata a speciali detector a gas: i Drift Tubes (DTs), le Cathode Strip Chambers (CSCs), le Resistive Plate Chambers (RPCs) ed i Gas Electron Multpliers (GEMs). Sezione di CMS Bibliografia [1] L Universo elegante"; Brian Green; Ed. italiana Einaudi; 2000 [2] Studio e ottimizzazione del sistema di purificazione della miscela di gas attualmente in uso nell esperimento CMS dell LHC Collider di Ginevra ; Aurilio R.; Tesi di Laurea Magistrale;

22 [3] A study of materials used for muon chambers at the CMS Experiment at the LHC: interaction with gas, new materials and new technologies for detector upgrade ; Colafranceschi S.; Tesi di Dottorato; 2011 [4] The CMS experiment at the CERN LHC"; S.Chatrchyan et al. (CMS Collaboration); in press on Journal of Instrumentation; 2008 (1) (2) (3) 22

23 Capitolo 2 Caratteristiche e funzionamento dei rivelatori GEM 2.1. I detector installati su CMS Il sistema di rilevazione di muoni CMS assolve le funzioni per cui è stato progettato grazie all ausilio di tre detector (Fig. 2.1): i Drift Tubes (DTs), le Cathode Strip Chambers (CSCs) e le Resistive Plate Chambers (RPCs). I DTs e le CSCs permettono la funzione di tracciamento delle particelle, grazie alla loro estrema precisione, mentre le RPCs sono impiegate come trigger, in virtù della loro eccellente risoluzione temporale. Nei punti in cui il rumore di fondo dei neutroni è relativamente basso, nel range di 1-10 Hz/cm 2, sono stati impiegati i DTs. Nella regione dell endcap, dove invece il rumore di fondo è molto più intenso, con valori di Hz/cm 2, ed il campo magnetico presenta valori molto più elevati rispetto alla regione del barrel, è stato previsto l impiego delle CSCs: queste sono delle camere a multifili, comprendenti un anodo intervallato con strips catodiche, seguendo le coordinate di CMS. L angolo di risoluzione è circa 10 mrad e la miscela gassosa impiegata è Ar/CO2/CF4 (45:15:40 in volume 1 ). Le RPCs sono previste in entrambe le regioni dell endcap e del barrel; queste sono formate da due strati di Bakelite, distanziati di 2 mm e tra i quali fluisce una miscela gassosa; tale configurazione è poi raddoppiata a formare una doppia gap. Tra le due gap è presente un piano di strisce che costituisce la lettura della carica di ionizzazione proveniente dal gas, costituito da una miscela di C2H2F4/iC4H10/SF6 (95.2:4.5:0.3) e presentante un tasso di umidità del 40%, tale da conferire alla bakelite il giusto valore di resistività. Tali tipi di rivelatore, che hanno rappresentato una sostanziale rivoluzione per le prestazioni richieste da CMS, presentano tuttavia problematiche ben note: l alto voltaggio richiesto per il loro funzionamento, responsabile anche di elevati fenomeni di inquinamento, come la produzione di HF; il costo elevato della miscela di gas che bisogna inviare; : da questo momento in poi si ometterà la specifica sul tipo di composizione adottata per le miscela gassose, intendendo sempre delle frazioni volumetriche. 23

24 la necessità di disporre di un preciso valore di umidità relativa; il complesso sistema di filtrazione dei gas richiesto. Anche se inizialmente l uso delle RPCs era previsto anche nella parte ad alto valore di η (Fig. 2.2), tutte queste problematiche hanno portato a pensare di modificare il progetto originario e di inserire nell endcap qualcosa di più innovativo, economico e dalle migliori prestazioni. Fig. 2.1: Sezione trasversale di CMS, mostrante i rivelatori per le funzioni di tracking e triggering: DT (verde), RPC (rosso), CSC (blu) e GEM (giallo) Fig. 2.2: La regione endcap di CMS, ad alto valore di η È nell ottica di sviluppi futuri di questo gigantesco sistema di rivelazione, specie a seguito del secondo shutdown (LS2) previsto per il 2018, che si collocano le GEM: questi dispositivi, infatti, permetterebbero di poter tracciare il percorso della particelle e di 24

25 svolgere nello stesso tempo la funzione di trigger. Tali rivelatori saranno collocati nella regione ad alto valore dell angolo η ( η >1.6), ossia in posizione molto vicina al fascio di adroni destinati alla collisione (Fig. 2.3): è proprio per le caratteristiche richieste da una tale locazione (alta resistenza chimica e alle radiazioni, le condizioni di intensità termica dei neutroni, la bassa energia dei protoni e delle particelle γ, buona risoluzione spaziale e temporale) che le GEM si pongono come rivelatori ideali. Le GEM sono state installate nel 2002 nell esperimento COMPASS (COmmon Muon Proton Apparatus for Structure and Spectroscopy) e successivamente in LHCb: in entrambi i casi il loro utilizzo non ha portato ad apprezzabili segni di deterioramento, conseguendo soddisfacenti risultati in termini di affidabilità e risoluzione. Fig. 2.3: Posizione prevista per i rivelatori GEM (in rosso e arancio nello schema) 2.2. I rivelatori di particelle a gas Le GEM rientrano nella categoria di rivelatori a micro-pattern, sviluppati a partire dagli anni 80 nell ambito della fisica delle particelle ad alte energie. Un rivelatore di particelle è un dispositivo che sfrutta i processi d interazione tra i materiali costituenti il rivelatore stesso e la radiazione in esame. Questa radiazione può avere origine da particelle cariche o meno (in quest ultimo caso è necessario che la particella neutra si converta in una carica elettricamente): tali cariche, per mezzo della forza di Coulomb, durante il loro percorso interagiscono con gli atomi che costituiscono il rivelatore stesso, che quindi può tracciarle e asservire al proprio compito. Più precisamente, le GEM sono rivelatori a gas: questi dispositivi basano il proprio funzionamento sui fenomeni di perdita di energia, da parte della particella e di ionizzazione del gas che è inviato appositamente nello strumento. I rivelatori a micropattern presentano, rispetto ai precedenti dispositivi di rilevazione, una minor distanza tra anodo e catodo, grazie ad una geometria ed una configurazione appositamente studiata. Un rivelatore a gas si configura come una struttura a strati alternati, di geometria simile alla struttura di un condensatore: le armature sono rispettivamente l anodo ed il catodo del sistema, mentre lo spazio tra di esse è occupato da un substrato isolante (dielettrico). La differenza di potenziale tra le due armature permette di convogliare gli elettroni verso la strip metallica costituente l anodo ed in prossimità di questo avviene la 25

26 moltiplicazione degli elettroni stessi, tramite i processi di estrazione primaria nei confronti del gas flussato nel sistema; gli altri ioni sono invece convogliati e raccolti sulla strip catodica. Il segnale raccolto sulla strip anodica è successivamente inviato alla strumentazione elettronica, che ha il compito di elaborarlo e convertirlo nell informazione di interesse. Anodo e catodo sono tra loro molto vicini (fino a 100 μm) e presentano uno spessore dell ordine di qualche μm. Durante il funzionamento del rivelatore e la ionizzazione del gas, avviene anche la polarizzazione dello strato di dielettrico presente tra le due strip; questo fenomeno, definito charging-up e che diviene sempre più apprezzabile all aumentare dei fenomeni di ionizzazione del gas, è dovuto all impossibilità dello strato isolante di neutralizzare le cariche presenti; il risultato è un alterazione del campo in cui lavora il rivelatore, con indubbi problemi di accuratezza ed efficienza. Un altro fenomeno che potrebbe influire sul sistema, fino a danneggiarlo in maniera irreparabile, è il cosiddetto regime di streamer : a seguito di fenomeni di eccitazione, la carica raccolta sulla strip anodica non risulta più proporzionale a quella prodotta durante il processo di ionizzazione del gas, ma presenta un valore maggiore, situazione che facilmente provoca scariche di maggiore entità (situazione di regime non controllato). Ai precedenti svantaggi si contrappongono una serie di importanti vantaggi che i rivelatori a gas hanno permesso di conseguire; i principali sono un maggiore guadagno del sistema (definito più avanti in questo capitolo) e un suo minor aging. Il primo risultato è conseguibile per mezzo di processi a valanga nell estrazione degli elettroni, mentre il secondo è ottenibile grazie alla tipologia di materiale utilizzato nel rivelatore ed alla composizione del gas. Inoltre, si deve segnalare che, essendo l invecchiamento correlato alla carica ottenibile tramite i processi di estrazione, maggiore è il guadagno del rivelatore e più sentito è il fenomeno di aging. Da quanto analizzato, il problema delle condizioni di regime, unito alle interazioni con il gas impiegato per la ionizzazione, costituisce una parametro essenziale nella possibilità di impiegare su lungo periodo tali tipologie di rivelatore I rivelatori a singola GEM Struttura del detector Le caratteristiche evidenziate nel precedente paragrafo costituiscono la base dei rivelatori GEM; tuttavia questi detector costituiscono, rispetto ai semplici rivelatori a gas, un evoluzione sotto moltissimi aspetti. Tra le strip anodiche e catodiche è posizionato un foglio costituito da due sottili strati di Rame (con uno spessore di 5 μm ciascuno) intervallati da uno strato di dielettrico di tipo poliimmidico (con uno spessore di 50 μm). Comunemente, questa tipo struttura viene definita come foglio GEM. A differenza degli altri rivelatori a gas, nella GEM l amplificazione degli elettroni e la conseguente raccolta degli stessi non avviene in un unica struttura. Mantenendo inalterata la funzione dell anodo (ossia di punto di raccolta degli elettroni generati e di invio del segnale alla strumentazione elettronica), la moltiplicazione degli elettroni dal gas ha luogo all interno dei fogli GEM; questi infatti presentano dei fori dove, sfruttando l elevato valore del campo elettrico, è possibile ottenere la ionizzazione del gas e l estrazione delle cariche (Fig 2.4). 26

27 Applicando una differenza di potenziale di V tra i due layer di Rame è possibile ottenere, all interno dei fori, un campo elettrico dell ordine dei 10 2 KV/cm. Al passaggio della radiazione in prossimità del foglio GEM, vengono a crearsi le coppie elettrone-ione: mentre gli ioni sono attirati verso il catodo, gli elettroni indirizzati verso l anodo subiscono una forte accelerazione a seguito del campo elettrico presente intorno al foglio. I valori del campo in questa regione è tale da conferire una grande energia (cinetica) all elettrone che, nel suo percorso, ha modo di ionizzare il gas, estraendo a sua volta altri elettroni secondo un processo a valanga. Fig. 2.4: Processo di moltiplicazione a valanga all interno di un foro del foglio GEM Definizione di guadagno Il numero di elettroni che è ricavabile a seguito dei processi di moltiplicazione è calcolabile grazie alla relazione: ( 2.1) dove n0 è il numero di elettroni in un determinato punto, n il numero degli elettroni calcolati ad una distanza x e αè l inverso del cammino medio, definito come coefficiente di Townsend e dipendente dalla pressione p, dal valore del campo elettrico E e dal tipo di gas (Tabella 2.1): ( 2.2) Tabella 2.1: Parametri A e B che compaiono nel coefficiente di Townsend 27

28 Dalla ( 2.1) è possibile così definire il guadagno del gas G come: ( 2.3) Regimi di esercizio e campi elettrici in un rivelatore a singola GEM Come detto in precedenza (vedi paragrafo 2.2), nei processi di moltiplicazione, gli elettroni e gli ioni si allontanano reciprocamente, sottoposti all attrazione delle strips; ciò provoca la formazione di un campo di dipolo momentaneo che si sovrappone al campo applicato dall esterno. All interno della valanga che si produce durante la moltiplicazione, per effetto della risultante dei campi è possibile che ioni ed elettroni si ricombinino tra loro, dando luogo ad un emissione di fotoni (con energia pari a circa 10 ev). Questo effetto secondario è responsabile del passaggio dal regime proporzionale al regime di streamer: in tale stato, i fotoni che si sono prodotti possono a loro volta generare altre coppie elettrone-ione, con conseguenti altri fenomeni di moltiplicazione a valanga, che vanno ad unirsi alla valanga primaria, o principale, propagandosi con una velocità di 10 8 cm/s. Il regime di streamer è estremamente dannoso per le componenti dei rivelatori: infatti, quando la valanga così prodotta raggiunge l elettrodo questo viene temporaneamente cortocircuitato, ossia si verifica una caduta di potenziale tra gli elettrodi del rivelatore a cui si è dato il nome di scarica dell elettrodo. Un rivelatore GEM è costituito da due elettrodi di rame paralleli tra i quali viene inserito un foglio GEM, ossia una struttura polimerica microforata ricoperta da uno strato di Rame su ambo le superfici (descritta brevemente nel paragrafo 2.3 e poi nel dettaglio nel capitolo 3). L elettrodo superiore funge da catodo mentre quello inferiore da anodo; l anodo inoltre è costituito da un circuito prestampato (PCB, printed circuit board) segmentato a pad o strisce connesse all elettronica di lettura. Applicando una differenza di potenziale tra questi elettrodi è possibile creare le condizioni per la moltiplicazione elettronica. Questa differenza di potenziale genera nel rivelatore GEM tre campi elettrici (Fig. 2.5): campo di deriva ED (1 kv/cm), nella regione compresa tra il catodo e la superficie superiore del foglio GEM: solitamente lo spessore di questa regione è fissato a 3 mm in modo da avere un buon compromesso tra l efficienza della camera e un buona ionizzazione primaria. campo nei canali EH ( kv/cm), nella regione compresa tra le due facce del foglio GEM e perciò interno ai fori: lo spessore di tale regione è pertanto fissato a 50 μm. campo di induzione EI (1 kv/cm), nella regione sottostante il foglio GEM, ossia tra la superficie inferiore e l anodo, solitamente posto a massa: lo spessore di tale regione è solitamente fissato ad 1mm in modo da avere un ampiezza del segnale di corrente elevata ed una diffusione elettronica contenuta. 28

29 Fig. 2.5: Rappresentazione schematica di un rivelatore a singola GEM, con rispettivamente: catodo, campo di deriva, GEM, campo di induzione e anodo Mappa bidimensionale delle linee di campo in un rivelatore GEM con fori biconici Seguendo questa configurazione, nel momento in cui una particella ionizzante attraversa la camera GEM, vendono create le coppie elettrone-ione della regione del campo di deriva; successivamente mentre gli ioni si dirigono verso il catodo, gli elettroni migrano verso l anodo, attraversando il campo nei canali che provoca la loro accelerazione e quindi permette l estrazione a valanga delle altre cariche. Ancora, le cariche prodotte nella valanga vengono attratte dal catodo (se ione) o dall anodo (se elettrone), in modo da liberare in tempi rapidissimi (100 ns) la regione del campo EH; gli elettroni raccolti così sull anodo permettono di formare il segnale di interesse. Molto importante al fine di un corretto segnale è il valore del campo di induzione. Un campo troppo basso non permetterebbe il trasporto efficace degli elettroni verso l anodo: in tale situazione, gli elettroni che comunque sono estratti dal campo presente nei fori del foglio GEM vengono raccolti sull elettrodo inferiore del fogli stesso (e non sul PCB), a causa delle linee di forza che tendono a richiudersi sulla superficie inferiore del foglio. Di conseguenza il segnale registrato sul PCB è nullo. Non è possibile tuttavia aumentare il valore del campo di induzione a piacimento: per valori troppo elevati si potrebbero avere moltiplicazioni non controllate all interno della camera, con il rischio di scariche sugli elettrodi. 29

30 Parametri e guadagno di un rivelatore a singola GEM Fissata la geometria del foglio e della miscela di gas utilizzata, i parametri che condizionano il funzionamento di una camera GEM sono: i campi elettrici di deriva ed induzione; la differenza di potenziale tra anodo e catodo; lo spessore delle regioni di deriva ed induzione. Richiamando le definizioni date a proposito del numero di elettroni estraibili dopo un certo intervallo di spazio e, di conseguenza, il guadagno conseguibile con il gas impiegato (vedi paragrafo 2.3.2), è immediato definire il guadagno di una GEM come: ( 2.4) essendo VGEM la differenza di potenziale applicata all interno della camera e <α> il coefficiente di Townsend, mediato sul cammino dell elettrone all interno del foro, e dipendente dalla miscela di gas e dal campo elettrico. Il guadagno intrinseco di una GEM può essere 10 3 ; tuttavia, poiché non tutti gli elettroni generati all interno dei fori sono efficacemente trasportati sul PCB, il guadagno effettivo risulta essere inferiore a quello atteso I rivelatori a tripla GEM Quanto fino ad ora esaminato riguarda i rivelatori a singola GEM; lo sviluppo di tale detector ha portato alla realizzazione dei camere a tripla GEM, in cui tre fogli GEM, con le stesse caratteristiche compositive e geometriche dei precedenti, sono posti in successione tra il catodo e l anodo (Fig. 2.6). Fig. 2.6: Struttura di un rivelatore a tripla GEM L impiego di una siffatta struttura permette di: amplificare in stadi successivi la carica prodotta dalla particella ionizzante nella regione di deriva; 30

31 raggiungere più elevati valori di guadagno, anche sfruttando gas nobili ad alta pressione (G = 10 5 ); diminuire i fenomeni di scarica sugli elettrodi anche in caso di elevate densità delle particelle; ridurre il ritorno verso il catodo di ioni e fotoni Campi elettrici in un rivelatore a tripla GEM Il principio di funzionamento di tale detector è del tutto analogo a quello presentante un singolo foglio GEM; inoltre, anche in questo caso, non solo la miscela di gas impiegata nel flussaggio, ma anche i fattori geometrici giocano un fattore importante per un funzionamento ottimale della camera. La regione superiore e quella inferiore del detector definiscono rispettivamente la regione di deriva e quella di induzione, in perfetta analogia a quanto esaminato per la camera a singola GEM; le regioni intermedie, chiamate regioni di trasferimento, presentano invece un duplice comportamento: esse si comportano come regione di deriva nei confronti della GEM sottostante e come regione di induzione nei confronti della GEM soprastante (Fig. 2.7). Fig. 2.7: Rappresentazione dei campi e delle regioni di un rivelatore a singola GEM Le stesse considerazioni effettuate per le regioni dove agiscono, rispettivamente, il campo di deriva e quello di induzione, nel caso del rivelatore a singola GEM, sono valide anche per questa nuova configurazione. Per le regioni di trasferimento sono, invece, presenti le stesse problematiche riscontrate per la regione di induzione nel caso del rivelatore con un singolo foglio GEM: per valori troppo bassi del campo elettrico gli elettroni, comunque estratti dal campo presente nei fori, sono raccolti sull elettrodo inferiore alla prima GEM (in questo caso il segnale letto sul PCB è nullo), per valori più elevati aumenta il segnale registrato sull anodo della camera, mentre nel caso di valori troppo elevati del campo di trasferimento si registrano difficoltà nell impilamento degli elettroni nei fogli GEM sottostanti (anche in questo caso il segnale letto sul PCB tende a diminuire). Dunque, in conclusione, il valore del campo elettrico nella regione di trasferimento deve essere tale da permettere una buona 31

32 estrazione degli elettroni dalla GEM superiore e un efficiente impilamento degli elettroni nei fori della GEM successiva; il valore ottimale è 3-5 kv/cm Influenza delle dimensioni in un rivelatore a tripla GEM La scelta delle dimensioni delle varie regioni costituenti il detector segue in prima approssimazione quanto già discusso nel rivelatore a singola GEM: tuttavia, mentre non ci sono differenze per la prima e l ultima regione (deriva ed induzione), le regioni di trasferimento meritano una trattazione apposita. È noto che in una configurazione a tripla GEM un particella incidente può portare alla ionizzazione del gas in ognuna delle quattro regioni disponibili; l unica differenza risiede nel fatto che gli elettroni subiranno differenti stadi di moltiplicazione in funzione della regione in cui sono stati prodotti. In particolare, gli elettroni prodotti nella prima regione di trasferimento generano un segnale di ampiezza minore ed in anticipo di circa 20-30ns rispetto al segnale generato dagli elettroni prodotti nella regione di deriva; questa circostanza, chiamata bi-gem, porta ad allargare la distribuzione temporale degli eventi ed è rilevante nel caso in cui si stiano considerando le prestazioni temporali del rivelatore. Allo scopo di diminuire il fenomeni, le dimensioni della prima regione di trasferimento non sono superiori a 1 mm. Per la seconda regione di trasferimento sono del tutto trascurabili fenomeni di anticipo del segnale, subendo gli elettroni eventualmente prodotti un solo stadio di moltiplicazione. La scelta delle dimensioni di tale regione è correlata al fenomeno delle scariche sul PCB, per passaggio dal regime di valanga a quello di streamer. Quando infatti le dimensioni della valanga primaria sono superiori a coppie elettrone-ione sono frequenti i cortocircuiti sugli elettrodi del rivelatore, anche in virtù della ridotta distanza tra l anodo ed il catodo della camera; per evitare questo fenomeno, si preferisce aumentare le dimensioni della seconda regione di trasferimento in modo da permettere una maggiore distribuzione della nuvole elettronica, distribuire su più fori le cariche prodotte, permettere alla miscela di gas di assorbire gli eventuali fotoni prodotti, essendo questi ultimi i diretti responsabili dei fenomeni di scarica Guadagno di un rivelatore a tripla GEM Il guadagno intrinseco della tripla GEM è calcolabile, in maniera del tutto analoga a quanto fatto per un rivelatore a singola GEM (vedi paragrafo 2.3.4), una volta note le tensioni applicate tra i due elettrodi: ( 2.5) essendo (V GEM) la somma delle tensioni di polarizzazione. Tuttavia, anche in questo caso, il guadagno efficace del rivelatore è inferiore a quello intrinseco, in quanto sono da considerare effetti dispersivi che riducono il numero effettivo degli elettroni registrati sul PCB. I più importanti fenomeni che vanno presi in considerazione solo l efficienza di infilamento (εinf), che rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che entrano nei fori del foglio GEM ed in numero degli elettroni prodotti nella regione sovrastante (Fig 2.8), e l efficienza di estrazione (εestr), che rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni estratti dei fori ed il numero di elettroni prodotti nei fori stessi (Fig. 2.9). 32

33 Fig 2.8: Efficienza di infilamento: Fig. a) Raccolta con successo degli elettroni Fig. b) Infilamento non ottimale degli elettroni Fig 2.9: Efficienza di estrazione: Fig. a) Nessuna estrazione degli elettroni (nessun segnale) Fig. b) Estrazione corretta degli elettroni (segnale) Il guadagno effettivo, alla luce di questi fattori, risulta pertanto: ( 2.6) per una singola GEM, mentre è: ( 2.7) per un rivelatore a tripla GEM Miscele di gas per un rivelatore a tripla GEM Solitamente, in base alle esigenze dell esperimento cui un dato rivelatore è destinato, sono impiegate differenti miscele di gas. I parametri che regolano la scelta della miscela da flussare sono, ad esempio, il guadagno, la risoluzione, le prestazioni temporali, la stabilità di funzionamento, la resistenza alla radiazione. Per un rivelatore a tripla GEM, sono in genere impiegati i gas nobili, per la loro non elettronegatività e forte stabilità: questi infatti non catturano gli elettroni prodotti durante la moltiplicazione a valanga e ciò porta ad aumentare non solo il guadagno raggiungibile, ma anche a ridurre eventuali effetti secondari indesiderati. Inoltre, con tali gas, i processi 33

34 di moltiplicazione si instaurano per più bassi valori del campo elettrico, con notevoli risparmi in energia e consumi. Il gas nobile più largamente impiegato nelle camere GEM è l Argon, vista la sua facile reperibilità ed il suo basso costo; inoltre anche l energia di ionizzazione dell Ar, notevolmente bassa (I = ev), è favorevole alle prestazioni del detector. Tuttavia l impiego di solo Argon non permetterebbe di raggiungere guadagni troppo elevati, come permesso dal sistema, senza entrare in regime di streamer permanente: infatti si andrebbe a generare una scarica a causa da processi di estrazione secondari dal catodo, a seguito dell accumulo su di esso degli ioni o a seguito dei fotoni provenienti dal gas. Per ottenere un guadagno più elevato, e ridurre questo effetto indesiderato, è necessario inviare assieme all Ar dei gas poliatomici: questi gas, detti quencher, permettono di assorbire, infatti, i fotoni prodotti durante il processo di moltiplicazione elettronica. L energia termica ad essi associata viene pertanto convertita in urti elastici, oppure impiegata per dare luogo a dissociazioni radicali che portano successivamente alla formazione di molecole più piccole e semplici (depolimerizzazione) o più grandi e complesse (polimerizzazione). Alla reazione di polimerizzazione sono associati i principali inconvenienti dell impiego di gas poliatomici: i prodotti che possono formarsi possono non essere necessariamente aeriformi e, quindi, possono andarsi ad accumulare sugli elettrodi della camera. Questo accumulo, nel tempo, porta alla formazione di un sottile strato isolante (effetto Malter) che altera le prestazioni del detector. Ciò specialmente se il gas impiegato è di tipo organico. I principali gas impiegati come quencher sono CO2, CH4, CF4, iso-c4h10 ed altri idrocarburi. La miscela oggi ritenuta essere la candidata ideale per le GEM è quella composta da Ar (45% in volume), CO2 (15% in volume) e CF4 (40% in volume). Quest ultimo in particolare non è né infiammabile, né corrosivo, né tossico e mostra delle ottime compatibilità con i materiali (metallici e non) che costituiscono il rivelatore; inoltre il suo impiego permette di raggiungere discreti valori di guadagno ed elevate velocità di deriva anche per bassi valori del campo elettrico. Tuttavia, in presenza di acqua, la radiazione incidente può catalizzare una serie di reazioni che portano alla formazione di acido fluoridrico. Si è notato che l HF può da un lato prevenire la formazione di polimeri, eventualmente anche rimuovendoli dagli elettrodi, ma dall altro, e specie per quantità più elevate, può corrodere i metalli che costituiscono il rivelatore stesso, con ovvie conseguenze sul sistema. Bibliografia [2] Studio e ottimizzazione del sistema di purificazione della miscela di gas attualmente in uso nell esperimento CMS dell LHC Collider di Ginevra ; Aurilio R.; Tesi di Laurea Magistrale; 2011 [3] A study of materials used for muon chambers at the CMS Experiment at the LHC: interaction with gas, new materials and new technologies for detector upgrade ; Colafranceschi S.; Tesi di Dottorato; 2011 [4] The CMS experiment at the CERN LHC"; S.Chatrchyan et al. (CMS Collaboration); in press on Journal of Instrumentation;

35 [5] Studio dei materiali e interazione con i gas presenti nei rilevatori a muoni per l'esperimento CMS"; C.Pucci; Tesi di Laurea Specialistica; [6] Sviluppo di rivelatori a GEM in vista dell upgrade dell esperimento Totem ; Intonti R.A.; Tesi di Laurea Magistrale; 2011 [7] Technical Proposal A GEM Detector System for an Upgrade of the CMS Muon Endcaps ; CMS Internal Note; 2012 [8] The RPC detectors and the muon system for the CMS experiment at the LHC ; Bruno L.; Tesi di Dottorato; [9] Characterization of GEM detectors for application in the CMS muon detection system ; Bianco S., Piccolo D. et al; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ; 2010 (2) (3) (4) 35

36 Capitolo 3 Assemblaggio, sviluppi e test di un rivelatore a tripla GEM: l approccio ingegneristico allo studio dei materiali in funzione della caratterizzazione, delle interazioni con il sistema e dell aging partendo dallo stato dell arte 3.1. Introduzione In questo capitolo saranno analizzati i passaggi costruttivi che portano alla realizzazione di un rivelatore a tripla GEM: come spiegato nel capitolo 2, è infatti tale tipologia di detector quella più performante dal punto di vista del guadagno e quindi quella da impiegare per gli sviluppi futuri dell esperimento CMS. Saranno prima illustrate le fasi principali per la realizzazione di una camera GEM 10X10 cm 2 : anche se si tratta di fasi ormai superate, per motivi di sviluppo o di compatibilità con le nuove dimensioni dei rivelatori, i principi teorici che risiedono alla base sono comunque validi e costituiscono un buono strumento per capire quelle che sono le fasi principali di costruzione. Nei successivi paragrafi saranno invece analizzati i miglioramenti e le nuove configurazioni dei rivelatori GEM, alla luce degli studi compiuti a partire dai detector 10X10 e sull esperienza maturata dalle camere GEM già installate su altri esperimenti come TOTEM, ATLAS o LHCb. Saranno altresì messe in luce le principali differenze con i precedenti rivelatori, sia dal punto di vista costruttivo che della realizzazione. Saranno inoltre analizzati i test cui una camera GEM deve essere sottoposta prima di essere ritenuta idonea al suo impiego; una descrizione dei test sarà fornita all interno del primo paragrafo, dove si affronta la costruzione di una camera 10X10 cm 2. Nell ultimo paragrafo sarà invece descritto il Test Beam, con il quale si ispeziona la risoluzione e la performance del rivelatore. Si fa notare che, nonostante i rivelatori 10X10 cm 2 siano ormai superati, preferendo altre configurazioni, questi rappresentano ancora oggi una base imprescindibile per i successivi sviluppi, studi e test sulle camere GEM, in virtù delle loro dimensioni più 36

37 contenute e della loro più semplice, veloce ed economica realizzazione; sotto certi aspetti, rappresentano l impianto di laboratorio di questi rivelatori. Lo studio delle modalità di assemblaggio del detector è stato inoltre essenziale per capire le possibili problematiche che coinvolgono i materiali impiegati. Infatti, soltanto dopo aver analizzato i vari passaggi costruttivi è stato possibile individuare quali tematiche affrontare e quali test mettere in piedi per caratterizzare i materiali e definirne il comportamento Preparazione di una tripla GEM di 10X10 cm 2 La prima fase di costruzione del rivelatore riguarda la preparazione del cosiddetto foglio GEM. I due elettrodi di rame, di 5 μm, sono deposti fisicamente sottovuoto su di un layer di poliimmide dallo spessore di 50 μm. I processi di deposizione da fase vapore (Physical Vapor Deposition o PVD) sono, in generale, processi che interessano a livello atomico la struttura del materiale: con tale tecnica, il materiale da depositare viene fatto evaporare da una sorgente solida o liquida in forma di atomi o molecole, trasportato in forma vapore fino al substrato di interesse dove, alla fine, è fatto condensare. Solitamente l ambiente di lavoro prevede delle condizioni di sottovuoto o di plasma. Generalmente il PVD è impiegato per creare rivestimenti di poche decine o centinaia di nanometri, permettendo di creare anche depositi a strati differenti; le forme del substrato possono variare da piatte a geometrie molto complesse e la velocità di crescita del deposito varia a seconda dei casi da 0.1 a 10 nm al secondo. Nel caso dei fogli che andranno a costituire il rivelatore GEM, si ha a che fare con un processo di sputtering, che non prevede una vaporizzazione termica del materiale che andrà a creare il rivestimento (detto target), bensì un estrazione di tipo fisico degli atomi superficiali della superficie del rame tramite un bombardamento di ioni creati da un plasma a bassa pressione (inferiore a 0.1 Pa) e posto o nelle immediate vicinanze della superficie del target, o essere distribuito nell intera regione tra il materiale che viene fatto evaporare e quello dove si andrà a creare il ricoprimento. Questo plasma è solitamente costituito da gas inerte (argon) e più raramente da ossigeno o azoto; in questo ultimo caso si ha uno sputtering di tipo reattivo, poiché è possibile avere delle reazioni tra questi gas ed il materiale evaporato dalla superficie del target, in modo da creare composti particolari o favorire i successivi ancoraggi al substrato bersaglio. Lo ione incidente colpisce gli atomi impacchettati della superficie e li disperde in tutte le direzioni, compresa quella che li porta a uscire dal target. Il materiale che andrà a costituire il rivestimento del substrato viene emesso dal bersaglio dopo un gran numero di collisioni e non dopo un singolo urto tra lo ione incidente e gli atomi della superficie del target bersaglio perché non è possibile che un singolo urto porti ad una componente di velocità nella stessa direzione dello ione incidente ma verso posto. La resa del processo, sulla base di semplici considerazioni geometriche, è massima nel caso di urti che avvengono secondo direzioni oblique alla superficie del target: con incidenze non perpendicolari è infatti più facile che gli atomi della specie che andrà a costituire il rivestimento vengano estratti nella direzione del materiale da ricoprire. Inoltre, la resa è maggiore quando gli ioni incidenti hanno massa paragonabile a quella degli atomi del bersaglio perché in questo caso si ha un più efficiente scambio di energia tra ione incidente ed atomo del bersaglio. 37

38 Il materiale viene prevalentemente emesso dal bersaglio sotto forma di particelle elettricamente neutre (atomi non ionizzati, frammenti di molecole, ecc.), per poi ricondensare sulle superfici interne della camera o sulla superficie di un substrato bersaglio appositamente inserito all interno della camera da vuoto, in modo da formare un film molto sottile. Fig. 3.1: Schema descrittivo del processo di sputtering Il polimero su cui viene applicata la deposizione è Apical (anche se nel linguaggio corrente, e nel presente lavoro, è in uso chiamarlo kapton): si tratta di un polimero (Fig. 3.2) altamente performante, appartenente alla classe delle poliimmidi, dalle elevate proprietà termiche e meccaniche, diretto concorrente del più famoso Kapton della società americana DuPont. Tra le caratteristiche fornite dalla casa costruttrice, si segnalano: nessuna propagazione di fiamma; condizioni di lavoro da -270 C a 400 C; eccellenti proprietà meccaniche, alta resistenza al taglio ed alta abrasione; elevata resistenza chimica a solventi organici, acidi, lubrificanti ed idrocarburi; eccellenti proprietà elettriche; grande stabilità termica fino a 400 C; alta resistenza alle radiazioni. Fig. 3.2: Unità ripetitiva del kapton 38

39 Lo studio della struttura e delle proprietà di questo polimero, che da qui in avanti verrà chiamato genericamente kapton, in virtù delle sue proprietà e caratteristiche del tutto simili a quelle del polimero della DuPont, verrà poi affrontato in dettaglio nei prossimi capitoli. Il processo di produzione del foglio GEM, sviluppato presso i laboratori del CERN, sfrutta una tecnica fotolitografica, per mezzo della quale è possibile realizzare la struttura microforata indispensabile per il funzionamento del detector, in quanto responsabile dell amplificazione del campo elettrico e della moltiplicazione elettronica (vedi paragrafo 2.2). L'incisione che verrà praticata dapprima sulla lastra di metallo, per poi interessare anche lo strato polimerico, viene solitamente generata al computer con programmi di grafica o tramite software specifici per la creazione di circuiti stampati. Una volta generato il disegno, questo dovrà essere traferito sulla lamina di rame: per prima cosa si stamperà su fogli trasparenti di acetato, per fissare poi il disegno sulla lamina di metallo, grazie all impiego di un photoresist, nel caso di interesse sotto forma di film polimerico, e di raggi UV-A. Nell'arco di alcuni minuti, le parti di foglio acetato contenenti l inchiostro si comporteranno da schermo e sulla lastrina di metallo verrà rimosso il photoresist non protetto da tale schermatura. Infine, si provvede a rimuovere il lucido dalla lastrina e a sciacquare il tutto in una soluzione di soda caustica per rimuovere il photoresist in eccesso e sviluppare il disegno di interesse che apparirà, via via, sempre più visibile. In seguito si provvede a rimuovere lo strato di rame, e di polimero, in corrispondenza dei punti in cui dovranno essere presenti i fori (parti non presentanti il photoresist). Questa operazione è permessa tramite un etching chimico, tecnica che permette di ottenere la corrosione di un layer grazie all impiego di soluzioni contenti un acido o una base forte; nel caso dei fogli GEM è permesso utilizzando specifiche soluzioni, rispettivamente etilendiammina (C2H8N2), idrossido di potassio (KOH) ed acqua per il kapton e percloruro ferrico (FeCl3) per il rame. Le dimensioni dei fori che possono essere realizzati e la distanza tra di essi non possono essere del tutto arbitrari, essendo presenti dei limiti inferiori oltre i quali non è possibile spingersi: in particolare non è possibile realizzare fori il cui diametro e passo presentino dimensioni inferiori allo spessore della lamina che si sta incidendo. In passato era impiegata una tecnica a doppia maschera: si provvedeva a rimuovere materiale a partire dalla superficie del layer metallico, nei punti in cui si voleva ottenere i fori, prima il rame e successivamente il polimero, coprendo metà dello spessore del foglio GEM, per poi ripetere lo stesso procedimento sulla restante parte del foglio, dopo averlo opportunamente girato. Oggi questa procedura è stata del tutto abbandonata, preferendo procedere con un processo a singola maschera, che non prevede, comunque, il capovolgimento del foglio GEM, ma che sfrutta le varie soluzioni per l attacco chimico in momenti diversi, affidando alla forza di gravità il compito di farle penetrare all interno del sistema. Tale processo è notevolmente più conveniente e accurato del precedente: con la tecnica a due maschere risultava, infatti, notevolmente problematico avere l esatta corrispondenza dei fori su ambo le facce, con il risultato di disallineamenti e quindi perdite di efficienza del sistema, senza considerare il fatto che era necessario capovolgere il foglio, con relativo aumento di costi e di tempi di realizzazione. Con entrambe le tecniche è possibile realizzare dei fori biconici: nel caso della tecnica a doppia maschera si registra una simmetria all interno del foro, con la base comune dei tronchi di cono posta esattamente a metà altezza del foglio, mentre ciò non è conseguibile con la tecnica a singola maschera (Fig. 3.3). 39

40 Fig. 3.3: Fasi e differenze tra la tecnica a doppia maschera e a singola maschera Il processo a singola maschera, come si vedrà, non solo costituisce l unica via di realizzazione di detector con dimensioni superiori ai 40 cm, ma è sicuramente più compatibile con le esigenze industriali, nell ottica di una futura produzione di massa dei rivelatori GEM. Una volta terminate le operazioni di preparazione delle superfici, il foglio GEM è sottoposto a trazione in un apposito strumento, detto tendi-gem (Fig. 3.4), in uso presso il CERN: dopo aver centrato la parte attiva della GEM (ossia la parte contenete il layer di rame) al centro di un piano, si provvede ad avvitare delle speciali ganasce che, bloccando il polimero nella sua parte terminale (zona non attiva), permettono il tensionamento della struttura. Fig. 3.4: Tendi-GEM Successivamente, si provvede ad incollare con colla epossidica (Araldite 2012) delle cornici di vetronite di dimensioni idonee a contornare la parte attiva della GEM: questi frame, il cui spessore è di circa 1mm, richiedono un tempo di incollaggio di circa 30 minuti e sono parte integranti della configurazione meccanica della camera, costituendo le varie gap del rivelatore. Terminata l operazione di incollaggio è possibile rimuovere il foglio GEM dalla piano di tensionamento e tagliare la parte di kapton eccedente la cornice, ovviamente ad esclusione dei vari contatti di alimentazione. Anche la strip costituente il catodo del rivelatore viene realizzata come i fogli GEM: quest elettrodo è costituito da kapton ramato (su una sola faccia), non forato, che viene prima teso e a cui poi viene incollato il frame di vetronite. 40

41 Come si vedrà negli sviluppi che sono stati apportati alle camere GEM, tale modo di procedere non è più utilizzato: oggi si preferisce operare senza l impiego dei frames ed anche la tecnica di tensionamento ha subito delle profonde trasformazioni. Seguono poi vari test per verificare la correttezza dell operazione e l affidabilità del prodotto. Per prima cosa viene misurata la resistività tra le due facce del foglio GEM: questa deve essere superiore a 2 GΩ, in modo da limitare, nel tempo e nello spazio, le possibili scariche elettriche alla massima tensione di alimentazione. In secondo luogo si passa ad un ispezione visiva, prima generale e poi approfondita al microscopio, per verificare l eventuale presenza di difetti fotolitografici. Anche i fori sono ispezionati (Fig. 3.5), in modo da verificarne l esatta geometria ed allineamento: ciò viene fatto posizionando il foglio GEM su un tavolo luminoso ed osservando come la luce si propaga all interno dei fori. Come ovvio, la presenza di pochi difetti è indispensabile per un corretto funzionamento del rivelatore; tuttavia una certa tolleranza è ammessa, in quanto non sono così stringenti le tolleranze geometriche richieste. Fig. 3.5: Alcuni possibili difetti dei fori nel foglio GEM Terminati i test, è possibile procedere all assemblaggio vero e proprio del rivelatore, che consiste nell impilare i tre fogli GEM tra il catodo e l anodo, rispettivamente elettrodo superiore ed inferiore; il PCB è inoltre segmentato in strip (forma rettangolare) o pad (forma circolare), solitamente con passo di 0.8 mm, ed è collegato all elettronica che ha il compito di elaborare il segnale raccolto su di esso. Il montaggio del detector, così come tutte le saldature tra gli elettrodi ed i punti di alimentazione dell alta tensione (HV), è eseguito in una camera pulita, a temperatura ed umidità controllata, rispettivamente di C e 40% di umidità relativa (RH), e soggetta a ventilazione per raccogliere gli eventuali fumi prodotti durante le operazioni di saldatura. Le operazioni di saldatura necessitano di particolare attenzione, in quanto potrebbero indurre il cosiddetto effetto corona, per il quale la corrente elettrica fluisce tra un conduttore ad elevato valore di potenziale elettrico ed un fluido neutro circostante: quando infatti il gradiente di potenziale supera un certa soglia, necessaria per ionizzare il fluido isolante ma inferiore al valore richiesto per originare un arco elettrico, si ha la trasformazione dell isolante in plasma, con conseguente conduzione di elettricità. Ciò porta ad una perdita di energia nelle linee di trasmissione della alta tensione e può degradare seriamente il sistema. Per rimediare a questo problema, tutte le saldature vengono ricoperte da scotch di kapton che, in virtù alle buone caratteristiche isolanti di cui è dotato, impedisce di esporre i punti di saldatura alle parti conduttive del PCB. Una volta terminati tutti i collegamenti ed aver pulito con alcool isobutilico, si può procedere all assemblaggio del rivelatore: ciò è permesso sfruttando dei fori appositamente realizzati in precedenza ai quattro angoli di ciascuna cornice GEM. I tre fogli sono pertanto posizionati in cascata al catodo ed il tutto viene serrato con viti di nylon, che permettono anche l ancoraggio alla base del contenitore, in modo da garantire la tenuta del gas. Inoltre, tra ogni piano sono inseriti dei dadi, anch essi di nylon e con 41

42 uno spessore di 0.5 mm, che fungono da distanziatori; regolando il numero e lo spessore di ciascun distanziatore è possibile determinare l estensione delle regioni di deriva, trasferimento e induzione, tenendo conto di quanto detto nel capitolo 2 a proposito delle loro restrizioni. La struttura così realizzata è successivamente impilata sopra il piano di lettura. La base ed il coperchio del rivelatore sono stretti con viti e dadi: questa soluzione, al contrario dell incollaggio, permette di riaprire in futuro la camera, in modo da poter sostituire eventuali parti danneggiate, compiere operazioni di controllo e correggere le distanze interne con maggiore facilità. Si fa notare che la cover progettata per il rivelatore GEM è in alluminio, seguendo in tutto e per tutto quanto realizzato in passato per le RPCs. I bordi della camera presentano dei connettori che permettono l entrata e l uscita del gas; la tenuta di tutto il sistema è assicurata da un O-ring posizionato lungo il perimetro di base. La copertura del rivelatore GEM è realizzata con kapton (Fig. 3.6), supportato da un telaio in Mylar (Fig. 3.7): il tutto è tale da creare una finestra in corrispondenza della parte attiva del rivelatore. Una volta chiuso il detector si eseguono vari test per verificarne la tenuta e rilevare possibile fughe. Fig. 3.6: Foglio di kapton per realizzare la finestra del rivelatore Fig. 3.7: Copertura in Mylar 3.3. Sviluppi e miglioramenti dei rivelatori a tripla GEM: il passaggio alle camere di grandi dimensioni In questo paragrafo saranno raccontati gli sviluppi che hanno portato alla realizzazione di detector GEM dal profilo trapezoidale, seguendo quello che è il modello 42

43 delle RPCs. Non bisogna infatti dimenticare che, originariamente, era previsto l utilizzo delle Resistive Plate Chambers anche nella regione ad alto angolo η; solo in un secondo momento si è pensato di impiegare le GEM, viste le loro migliori prestazioni e caratteristiche risolutive e resistenziali, in tale regione. Il primo rivelatore GEM ad essere realizzato è stato nel 2009: questo detector rappresentava il risultato di numerosi studi che cercavano di legare tra loro parametri come le risoluzione temporale, il tipo di miscela di gas da impiegare, il campo di induzione ed il trasporto delle cariche. Il rivelatore, chiamato Timing GEM (Fig. 3.8), presentava una configurazione interna, o geometria, di 3/1/2/1 mm (drift/trasf1/trasf2/ind), era realizzato con una tecnica di etching a doppia maschera e permetteva una risoluzione di 4.5 ns grazie all impiego di una miscela di Ar/CO2/CF4 (45:40:15). Fig. 3.8: Visione d insieme e configurazione del Timing GEM Tale prototipo di rivelatore è stato successivamente migliorato nel 2009 (Single-Mask GEM), alla luce della nuova tecnologia a singola maschera che permetteva di ottenere più facilmente le specifiche di simmetria ed allineamento richieste dal sistema. Entrambi tali detector presentavano dimensioni 10X10 cm 2 ed i fogli subivano uno stretching di tipo termico. Nel 2010 veniva realizzato l Honeycomb GEM: questi prevedeva l inserimento di una struttura a nido d ape (Fig. 3.9) tra ogni singolo foglio GEM costituente il detector, operazione che portava a non necessitare più di distanziatori e supporti all interno del rivelatore. Tale configurazione nasceva dall esigenza di permettere uno stretching dei fogli, operazione che fino ad allora era condotta termicamente; inoltre era possibile incrementare la velocità di produzione del detector, anche se si registravano delle perdite di efficienza. La geometria di questo modello era 6/2/2/2 mm (drift/trasf1/trasf2/ind) e l efficienza era complessivamente del 75%. Fig. 3.9: Fig a) Struttura a nido d ape Fig b) Honeycomb GEM 43

44 Tra il 2010 ed il 2011 sono stati realizzati dei detector GEM di grandi dimensioni: il GE1/1 I ed il GE1/1 II. Entrambi presentavano un profilo trapezoidale (Fig. 3.10) con un area di 990X( ) mm 2, seguendo il design previsto per le prime RPCs. I fogli GEM erano prodotti direttamente dentro il CERN; questi presentavano un anima di kapton (50 μm), un rivestimento (superiore ed inferiore) di rame (5 μm) ed erano prodotti per mezzo di una tecnica fotolitografica a singola maschera. Al fine di limitare la capacità di scarica nel momento in cui si verificava una scintilla, la parte superiore di ogni GEM veniva divisa in 35 settori di circa 100 cm 2 ciascuno. L elettrodo di raccolta, presentante un foglio di kapton di 300 μm ed un rivestimento di 5μm in Cu, era incollato direttamente ad un supporto di 3 mm in alluminio, facente parte della scatola che raccoglieva il detector stesso. Tra il primo ed il secondo prototipo di rivelatore si apportarono dei miglioramenti in quanto a risoluzione, tempo di risposta e conteggi delle particelle; la configurazione geometrica era di 3/1/2/1mm per il secondo modello, contro una struttura di 3/2/2/2 mm (drift/trasf1/trasf2/ind) del primo (Fig. 3.11). Fig. 3.10: Profilo trapezoidale dei nuovi detector GEM per CMS Fig. 3.11: Struttura dei rivelatori GEM GE1/1 I e GE1/1 II Fig. a) Costituenti della camera GEM Fig. b) Configurazione geometrica 44

45 In vista di una futura produzione in serie dei detector, nel 2011 si è stretta una collaborazione con una società koreana (New Flex), per la produzione di Triple-GEM a doppia maschera, di area 8X8 cm 2 : i risultati ottenuti sono stati molto positivi al punto che, attualmente, la compagnia sta rivolgendo la proprie energie nella produzione dei GEM di grandi dimensioni con profilo trapezoidale Nuove tecnologie e tecniche di assemblaggio Approfittando della prima fase di upgrade dell LHC e viste le potenzialità dei detector GEM, la collaborazione scientifica ha deciso di concentrare i propri sforzi e le proprie attenzioni verso una produzione in larga scala dei detector di grandi dimensioni a profilo trapezoidale. Si vogliono, qui, illustrare i principali cambiamenti che hanno permesso oggi di ipotizzare una produzione di massa; non si tratta solamente di modifiche dal punto di vista del processo produttivo, ma anche di ottimizzazioni di tempi e costi, aspetti ovviamente importantissimi quando si intende automatizzare ed incrementare una produzione. Il primo aspetto che si vuole trattare riguarda le modalità di etching. L originaria tecnica di realizzazione a doppia maschera, in precedenza impiegata per le GEMs di dimensioni 10X10 cm 2, non è trasferibile a dimensioni maggiori: il motivo, come già in precedenza ribadito, risiede nel fatto che con la tecnica a doppia maschera si hanno problemi di allineamento dei fori sul foglio GEM, con ovvie conseguenze sul rendimento del detector. Per superare questo problema è stata sviluppata pochi anni fa la tecnica a singola maschera, ed è stata con successo testata su detector a geometria quadrata, sia di piccole che grandi dimensioni; in seguito tale procedimento è stato traferito sui più recenti modelli trapezoidali. La tecnica a singola maschera permette con successo di ridurre tempistiche e costi di realizzazione, consentendo inoltre di ottenere una maggiore precisione nella realizzazione del foglio GEM; se, quindi, da un lato lo sviluppo di tale tecnica è stato un esigenza per poter giungere a realizzare i modelli trapezoidali, dall altro è stato possibile raggiungere quegli standard necessari alla produzione in serie. Lo studio e le continue ricerche hanno permesso di modificare anche le tecniche di tensionamento e stretching dei fogli GEM. Nel 2011, infatti, è stata introdotta una nuova tecnica per ridurre i tempi di produzione dei detector GEM di grandi dimensioni: si tratta del self-stretching (Fig. 3.12), testato prima su prototipi di piccole dimensioni ed in seguito traferito su quelli di forma trapezoidale. Questa tecnica prevede di applicare manualmente la tensione di stretching, mentre in passato ciò veniva fatto per via termica; inoltre il self-stretching non prevede né l impiego di colle, né la presenza di distanziatori nella parte attiva del foglio. Fig. 3.12: Schema concettuale del self-stretching 45

46 La tecnica del self-stretching prevede di posizionare i tre fogli GEM, presentanti dei fori pensati per lo scopo lungo tutto il loro perimetro, all interno del box di alluminio che costituisce la camera stessa, per poi procedere al tensionamento grazie alla rotazione di viti posizionate per lo scopo; una volta tensionati i fogli, si procede al posizionamento dell anodo (readout) ed alla chiusura della camera (Fig. 3.13) Fig. 3.13: Realizzazione di una camera a tripla GEM con la tecnica del self-stretching Fig. a) Foglio GEM Fig. b) Frame per lo stretching del foglio Fig. c) Montaggio dei fogli GEM Fig. d) Stretching Fig. e) Fogli GEM dopo l operazione di stretching Fig. d) Detector comprensivo di readout ed ingressi/uscite dei gas Una volta definita e perfezionata la tecnica di tensionamento, il lavoro di CMS ha portato alla creazione del CMS Proto III, un detector 30X30 cm 2 che si presentava come step intermedio tra i detectors di piccole dimensioni (10X10 cm 2 ) e quelli di grandi dimensioni e trapezoidali. In questo rivelatore, la superficie di ogni singolo foglio GEM era divisa in nove settori ad alto voltaggio (HV), con una geometria di 3/1/2/1 mm (drift/trasf1/trasf2/ind). Durante il Giugno 2012 è stato possibile incrementare l efficienza dei rivelatori GEM realizzati ed impiegati da CMS, fino a valori del 98%, conseguendo inoltre una migliore risoluzione spaziale. La causa di un tale upgrade risiede nell impiego di nuovi chip, chiamati VFAT2 (Fig. 3.14): questi sono stati sviluppati per le readout di sensori al silicio o a gas e sono capaci di fornire sia indicazioni di triggering che di tracking. Grazie ai loro 128 canali di input ed basso valore di rumore, tali chips sono stati con successo testati nell esperimento TOTEM e successivamente si è deciso di impiegarli anche per le readout dei rivelatori GEM. 46

47 Fig. 3.14: Chip VFAT2 La sintesi di tutti i precedenti miglioramenti ha portato a realizzare nel 2012 un prototipo GEM di grandi dimensioni e dal profilo trapezoidale: si tratta del rivelatore GE1/1 IV. Come detto in precedenza, le differenze tra i nuovi modelli ed i precedenti risiedono nella differente tecnica di tensionamento (self-stretching, con l impiego di sei viti per la base minore, nove per quella maggiore, venti per i lati obliqui) e nell introduzione dei chip VFAT2; inoltre nel GE1/1 IV è prevista anche la presenza di un divisore resistivo in materiale ceramico che permette di ottimizzare i voltaggi ed i campi elettrici, conseguendo più alte performance temporali. Come i precedenti rivelatori, il GE1/1 IV presenta un profilo trapezoidale di 990X( ) mm 2 ed è realizzato con una tecnica fotolitografica a singola maschera. Il foglio GEM è diviso in 35 settori ad HV ed il catodo è realizzato con un layer di kapton (30 μm), ricoperto da un substrato di 5μm di rame; la geometria del detector è 3/1/2/1 mm (drift/trasf1/trasf2/ind), che tra tutte le configurazioni si è rilevata essere quella che permette le migliori performance temporali di risoluzione. Anche i Laboratori Nazionali di Frascati dell INFN hanno partecipato allo sviluppo di nuovi prototipi di rivelatori GEM, realizzando presso il CERN una camera di grandi dimensioni a profilo trapezoidale e presso i laboratori di Frascati un detector 10X10 cm 2. Tabella riassuntiva sui vari prototipi di rivelatore GEM realizzati per CMS 3.5. Test Beam Una volta assemblato il rivelatore e verificato il suo corretto funzionamento (corrette specifiche geometriche e costruttive delle sue componenti, trasmissione dei 47

48 segnali elettrici, assenza di fughe di gas, ) lo strumento finale di validazione del detector risiede nel cosiddetto Test Beam; in altre parole, tale test si prefigge di simulare l attività che dovrà essere svolta dal detector, testando sia quella che è la risposta in termini di risoluzione spaziale, sia quella in termini di risoluzione temporale. È grazie alle campagne di Test Beam che è stato possibile individuare la giusta miscela gassosa da inviare al rivelatore, così come la sua configurazione interna. Tutti i rivelatori che sono stati sviluppati in precedenza sono stati testati con questa procedura. Ci si prefigge, qui, di descrivere sommariamente quelle che sono le modalità di conduzione del test. Nel Test Beam è previsto l invio di un raggio di muoni/pioni da 150 GeV attraverso un telescopio costituito da una serie di rivelatori a tripla GEM (Fig. 3.15); solitamente il telescopio è composto da tre rivelatori GEM di 10X10 cm 2 flussati al loro interno con una miscela di Ar/CO2 (70:30) in modo da mantenere il loro guadagno costante al valore di 10 4 ; questi rivelatori vengono impiegati come riferimento per quanto riguarda la funzione di tracciamento (o rivelazione) delle particelle. All interno del telescopio sono presenti, inoltre, altre due camere GEM, di struttura e dimensioni diverse, che costituiscono i rivelatori effettivamente testati. Scopo del Test Beam è quello di individuare le zone del detector interessate nella lettura delle particelle, quantificandone allo stesso tempo anche il numero. Ai capi del telescopio sono inoltre posizionati due scintillatori che costituiscono il riferimento per la funzione di triggering degli eventi. In tal senso, si provvede a confrontare le risposte ottenute da due scintillatori, posti ai capi del telescopio e che sono impiegati come riferimento, e dai vari rivelatori GEM testati. Quando ovviamente GEM e scintillatore concordano sul medesimo risultato (passaggio di una particella), il test ha esito positivo. Fig. 3.15: Struttura del telescopio per il Test Beam 48

49 Le GEM facenti parte del telescopio presentano 256 strip, con un passo di 0.4 mm, in entrambe le direzioni del piano trasversale alla direzione del fascio di muoni/pioni; per convenzione è chiamata direzione x quella orizzontale, mentre è indicata direzione y quella verticale. Durante i test si determina l accuratezza della rivelazione di un cluster (o pacco) di particelle inviato attraverso il detector, sia in termine di posizione (sulla superficie) che di numero di conteggi (delle particelle) (Fig. 3.16). Fig. 3.16: Tipico profilo di muoni e pioni ottenuto dalle Tracker GEM nel telescopio Per quanto riguarda la specifica di tracking del rivelatore, i Test Beam hanno permesso di indicare la miscela Ar/CO2/CF4 (45:15:40) come la più performante: è con un tale mix che si ottiene un miglior guadagno ed una migliore distribuzione e registrazione delle dimensioni delle particelle. Si è anche notato che minori dimensioni della regione di induzione, come anche della prima regione di trasferimento, permettono di ottenere dei risultati leggermente più soddisfacenti rispetto alle altre configurazioni (Fig. 3.17). Fig. 3.17: Andamento del guadagno (a sinistra) e delle dimensioni delle particelle (a destra) per una tripla GEM in funzione di diverse configurazioni interne e di differenti miscele gassose Come già menzionato in precedenza, i rivelatori GEM saranno installati all interno dell esperimento CMS nella regione ad alto η, posta nelle immediate vicinanze del fascio di particelle e quindi al punto di collisione delle stesse (vedi paragrafo 2.1). A causa della loro posizione, le GEM dovranno rapportarsi a condizioni di lavoro molto estreme, quali, ad esempio, la presenza di elevati valori dei campi elettrici e magnetici e le interazioni di tipo chimico e/o radiogeno. Per tale motivo, sono stati anche condotti dei test impiegando 49

50 un intenso campo magnetico. I risultati ottenuti hanno evidenziato che, mentre la determinazione delle dimensioni delle particelle non è affetta dalla direzione del campo magnetico impiegato, lo stesso non si può affermare circa la loro distribuzione (Fig. 3.18). Fig. 3.18: Performance del prototipo GE1/1 II sottoposto ad un campo magnetico durante il Test Beam; dimensioni delle particelle (a sinistra) e loro distribuzione (a destra) per differenti direzioni del campo applicato I Test Beam hanno permesso anche di ottenere il miglio risultato per quanto riguarda la funzione di triggering del detector: anche in questo caso, a seconda del tipo di miscela gassosa impiegata e dei vari rapporti tra i suoi costituenti, è possibile ottenere una risposta diversa del rivelatore. Tuttavia, contrariamente a quanto notato per la funzione di tracciamento, la risposta temporale non sembra essere influenzata dal tipo di configurazione interna del rivelatore (Fig. 3.19). Inoltre, i miglioramenti dal punto di vista dell elettronica, con l installazione dei chip VFAT2, hanno permesso inoltre di ottenere un minimo ritardo temporale tra quanto registrato dallo scintillatore e dal rivelatore GEM (4 ns). Fig. 3.19: Risoluzione temporale per una tripla GEM in funzione del campo di induzione (a sinistra) e del campo di drift (a destra) in funzione di differenti miscele gassose 3.6. Studio dei materiali Obbiettivo e scopo del lavoro di tesi sarà appunto fare chiarezza sulle caratteristiche dei diversi materiali presenti nel rivelatore e intraprendere un percorso 50

51 organico di caratterizzazione e di verifica dei cambiamenti nei materiali dovuti alle condizioni di esercizio del sistema. Dopo avere esaminato le modalità di assemblaggio ed i relativi test cui il detector GEM è sottoposto, infatti, sarà opportuno, se non d obbligo, studiare quelle che sono le modifiche ed i comportamenti dei materiali di cui il rivelatore è composto: non è affatto pensabile che, a seguito dell esercizio dello stesso, le proprietà e le caratteristiche dei materiali si mantengano inalterate nel corso del tempo. Come sarà analizzato nel corso della tesi, le interazioni con i parametri ambientali, quali temperatura, umidità e pressione, e con i gas di processo flussati all interno della camera sono responsabili di un cambiamento delle proprietà e del comportamento dei materiali stessi, modifiche che possono essere anche disastrose per il funzionamento del detector. Inoltre, si deve analizzare, monitorare e predire il comportamento dei materiali nel corso del tempo, essendo il detector GEM destinato ad un periodo di esercizio molto lungo ed in condizioni severe: la presenza di agenti radiogeni, infatti, già di per sé potenzialmente dannosa per i materiali, è responsabile dell instaurarsi di una serie di meccanismi di reazioni che coinvolgono in primo luogo la poliimmide che costituisce il foglio GEM. Nel corso degli studi si osserverà come queste reazioni di polimerizzazione, permesse dalla contemporanea presenza di radiazioni e plasma, rappresentino un serio problema per tutti i detector a gas, costituendo il principale meccanismo di deterioramento e malfunzionamento del rivelatore; a questo fenomeno si è soliti dare il nome di invecchiamento o ageing. Per poter analizzare e comprendere fino in fondo i meccanismi che intervengono nella modifica dei materiali è tuttavia necessario esaminare preventivamente quelle che sono le caratteristiche degli stessi materiali impiegati: senza una preliminare analisi delle proprietà non solo sarà impossibile cercare di comprendere quali cambiamenti intervengono nella loro struttura o nelle proprietà stesse, ma sarà del tutto impossibile capire in quale direzione di analisi muovere le proprie indagini. Inoltre, lo studio delle proprietà dei materiali, unito alla conoscenza delle caratteristiche del rivelatore e degli obiettivi che esso deve soddisfare, permetterà stabilire la gravità o meno delle modifiche subite dai materiali, cercando eventualmente di trovare delle soluzioni che ne minimizzo gli effetti. Particolare rilievo sarà dato allo studio della poliimmide che costituisce i fogli GEM, essendo, almeno in prima analisi, il materiale più soggetto a modifiche durante il periodo di esercizio del detector. Infatti, come noto, i polimeri presentano proprietà completamente differenti rispetto ai metalli (in questo caso il rame che riveste ambo le facce del layer polimerico), non solo dal punto di visto meccanico, elettrico e di interazione con i gas inviati alla camera e con gli agenti ionizzanti, ma anche e soprattutto dal punto di vista della resistenza e dell invecchiamento e dell ageing. Non saranno tuttavia, trascurati tutti i materiali utilizzati nella costruzione, come le colle, tubi di raccordo, materiale per la parte relativa all elettronica e lettura dei segnali, viti di serraggio del rivelatore e tensionamento dei fogli GEM (vedi paragrafo 8.5). Bibliografia [7] Technical Proposal A GEM Detector System for an Upgrade of the CMS Muon Endcaps ; CMS Internal Note;

52 [9] Characterization of GEM detectors for application in the CMS muon detection system ; Bianco S., Piccolo D. et al; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ; 2010 [10] GEM and Micromegas production ; De Oliveira R; Collaboration meeting in Stony Brook (NY, USA); 2012 [11] Construction of the first full-size GEM-based prototype for the CMS high-η muon system ; Abbaneo D. Bianco S. et al.; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ; 2010 [12] Construction and performance of large-area triple-gem prototypes for future upgrades of the CMS forward muon system ; Bianco S., Benussi L. et al.; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC),IEEE, pp ; 2011 [13] Test beam results of the GE1/1 prototype for a future upgrade of the CMS highη muon system ; Abbaneo D. Abbrescia M. et al.; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ;

53 Capitolo 4 Produzione e proprietà delle poliimmidi: stato dell arte e dati sperimentali sul kapton in uso al CERN 4.1. Introduzione Le poliimmidi aromatiche (PIs) sono ben conosciute per le alte caratteristiche resistenziali dal punto di vista termico e termo-ossidativo, per la loro elevata stabilità anche in ambienti corrosivi o ionizzanti, le eccellenti proprietà elettriche e meccaniche. In questo capitolo si illustreranno le principali tecniche di produzione delle poliimmidi di rilevanza industriale. Si metteranno in luce poi quelle che sono alcuni aspetti delle loro proprietà termiche, viscoelastiche, ottiche ed elettriche, senza dimenticare di analizzare anche le loro caratteristiche meccaniche (vedi capitolo 6), soffermandosi anche sulle proprietà del foglio GEM e sui valori meccanici richiesti per il suo corretto assemblaggio. Inoltre sarà dato spazio alle modalità di interazione tra la poliimmide e l umidità ambientale, analizzando i meccanismi di trasporto interessati e modellizzando l adsorbimento della stessa all interno del foglio GEM (vedi paragrafo 5.6) Produzione delle poliimmidi Le reazioni di condensazione o addizione che portano alla formazione delle PIs prevedono la ripetizione di segmenti unitari e la formazione di legami immidici eterociclici. La condensazione delle PIs è basata sulla reazione tra una diammina aromatica con una dianidride aromatica. Un polimero fusibile precursore, prodotto dalla precedente reazione, è convertito nella poliimmide finale, successivamente non più trattabile, con allontanamento di acqua. Tale tipo di reazione può dare luogo a polimeri sia termoplastici che termoindurenti. 53

54 L addizione delle PIs è basata su un lento aumento di peso di oligomeri contenenti gruppi immidici nella catena e gruppi reattivi (non saturi) nella parte terminale: questi gruppi danno luogo a polimerizzazioni termiche tramite estensioni delle catene stesse e formazioni di crosslinks, senza la generazione di prodotti secondari. La reazione di poliaddizione permette la formazione di soli polimeri termoindurenti Polimerizzazione con formazione dell acido poliamico Solitamente le poliimmidi sono sintetizzate attraverso una reazione di condensazione in due step (Fig. 4.1); secondo questo metodo, una dianidride aromatica reagisce inizialmente con una diammina, anch essa aromatica, all interno di un solvente dipolare aprotico per formare un precursore solubile: l acido poliamico (PAA). Successivamente, il solvente polare dissolve l intermedio di reazione, favorendo in tal senso la polimerizzazione. Il PAA, che può precipitare non appena ha inizio la reazione di immidizzazione, è costretto sotto riscaldamento a riarrangiare la propria struttura, formando struttura ad anello o dando luogo ad immidizzazioni; in entrambi i casi si registra un allontanamento di acqua. Fig. 4.1: Sinterizzazione delle PIs per mezzo della formazione dell acido poliamico; Ar e Ar indicano i gruppi aromatici L immidizzazione termica è conseguita attraverso vari step a differenti temperature: tipicamente, il film di acido poliamico è prima blandamente riscaldato, per eliminare le tracce di solvente e per favorire una piccola immidizzazione, per poi essere portato a più alti valori di temperatura (superiori anche a 200 C) che permettono la completa immidizzazione del bulk polimerico. Le temperature raggiunte nell ultimo stadio sono notevolmente superiori a quelle di transizione vetrosa e ciò permette di avere una buona mobilità della e, quindi, una completa immidizzazione. Le poliimmidi aromatiche che presentano differenti linearità e rigidità della loro catena possono essere sintetizzate a partire da differenti monomeri; le poliimmidi risultanti sono chiamate con il nome dei loro rispettivi monomeri (Tabella. 4.1a/b). L impiego di monomeri puri, l assenza di acqua e di umidità nell ambiente di reazione, la scelta del solvente ottimale ed una bassa temperatura di reazione sono le condizioni ottimali per l ottenimento di un elevato peso molecolare. Si fa inoltre notare che, essendo molte delle poliimmidi insolubili, la classica determinazione del PM per messo di cromatografia non è applicabile. 54

55 Una delle limitazioni nella sintesi delle poliimmidi per mezzo dell acido poliamico risulta sensibile alla reazione d idrolisi che può verificarsi a seguito di una depolimerizzazione; la vita di tale intermedio risente molto delle condizioni ambientali, e perciò il processo di produzione non è di agevole controllo. Tabella. 4.1a: Acronimi, strutture chimiche e nomi delle più comuni dianidridi aromatiche Tabella. 4.1b: Acronimi, strutture chimiche e nomi delle più comuni diammine aromatiche Altre tecniche di produzione Anche se il precedente metodo è quello industrialmente più impiegato (tra l altro responsabile della formazione del kapton) vale la pena esaminare velocemente altre due modalità di sintesi delle poliammidi. Un modo per dare forma a questi polimeri è procedere per mezzo di un precursore estere-acido (Fig. 4.2): dalla reazione tra una dianidride aromatica con etanolo, catalizzata attraverso un ammina terziaria, è possibile ottenere tale intermedio di reazione e, successivamente, addizionare a questo la diammina, con rimozione di acqua ed etanolo. L effetto della temperatura permette in ultimo di ottenere elevati pesi molecolari e la chiusura delle strutture ad anello. 55

56 Fig. 4.2: Reazione che procede per mezzo di un precursore estere-acido; Ar e Ar indicano i gruppi aromatici, mentre R indica i gruppi alifatici Un vantaggio di tale tecnica, rispetto alla reazione che implica il PAA, è che l intermedio che qui si forma è idroliticamente stabile: ciò permette una lunga vita del composto ed un miglior controllo del processo di produzione. Un altra classe di poliimmidi, impiegata principalmente come interstrato dielettrico per le applicazioni di microelettronica e come cristalli liquidi nell applicazioni da display, è quella che comprende le poliimmidi parzialmente alifatiche. Tale categoria di polimeri è composta da tre sottoclassi, in funzione di quale gruppo (dianidride e/o diammina) sia alifatico o meno (Tabella 4.2). Tabella 4.2: Esempi di diammine alifatiche e cicloalifatiche 4.3. Trasferimento di cariche Una delle principali caratteristiche delle poliimmidi è il loro colore: questo è strettamente collegato alla struttura chimica del polimero ed in particolare ai trasferimenti di cariche (Charge Transfer Complexes, CTCs) tra un elettron donatore, la diammina, e un accettore di elettroni, la dianidride. Studi effettuati nel corso degli anni 80 hanno evidenziato che, ad un aumento della forza del CTC, segue un aumento dell intensità del colore della poliimmide. Ovviamente hanno 56

57 molta influenza su questi trasferimenti di carica i tipi di legami e strutture presenti all interno catena polimerica: doppi legami, anelli aromatici, elementi con doppietti non condivisi permettono di stabilizzare e trasferire meglio le cariche, aumentando di fatto la forza dei CTCs. Si è osservato che è necessario un certo allineamento delle catene, nell ordine di poche unità ripetitive (Fig. 4.3), affinché si possa avere lo scambio delle cariche, che può essere visto come un interazione tra un acido ed una base di Lewis. Fig. 4.3: Meccanismo di trasferimento CTC È stato inoltre ipotizzato che queste interazioni abbiano influenze sulle proprietà fisiche delle poliimmidi aromatiche: alcuni studiosi hanno osservato, ad esempio, che riducendo la forza del CTC, oltre alla riduzione dell intensità di colore, diminuisce anche la solubilità e la fusibilità del polimero. Inoltre è stato osservato che il meccanismo CTC gioca un importante ruolo nel valore assunto dalla temperatura di transizione vetrosa, in quanto l aumento delle forze di attrazione all interno della catena, come anche la maggiore rigidezza e stabilità di quest ultima, permettono di incrementare il valore di Tg. Anche altre proprietà e caratteristiche, come la costante dielettrica e la resistenza ad attacchi termo-ossidativi, possono subire una riduzione. Un altro possibile tipo di interazione tra le catene polimeriche costituenti la poliimmide è il PLP (Preferred Layer Packing): in questa situazione, parti dei gruppi di diammina e della dianidride di una catena possono scambiare cariche con le rispettive parti di un altra catena (Fig. 4.4). Questo tipo di interazione, presente nei polimeri cristallini, si è notato avere poca influenza sulla Tg, ma sembra invece essere responsabile di una riduzione della densità di impaccamento all interno del polimero. Fig. 4.4: Meccanismo di trasferimento PLP 4.4. Proprietà termiche Le poliimmidi sono note per la loro eccellente stabilità termica: questi polimeri sono pertanto comunemente impiegati in condizioni in cui sono presenti elevate temperature di 57

58 esercizio. Questa grande caratteristica di stabilità, specie per temperature superiori ai 300 C, è permessa da fattori come la stabilizzazione delle cariche per risonanza, i forti legami degli anelli aromatici presenti, le interazioni intramolecolari tra gli atomi costituenti la catena, la simmetria molecolare. Si è notato che, all aumentare dei gruppi alifatici o della flessibilità della struttura, si verifica una riduzione della stabilità termica del polimero. Sulla resistenza ad ambienti di esercizio severi incidono anche le condizioni di produzione del polimero, la struttura chimica di quest ultimo, la presenza di tracce di solvente residuo e l adsorbimento di umidità. Importante, specie per le conseguenze che possono derivarne, è il valore del coefficiente di espansione termica lineare (Coefficient of Thermal Expansion, CTE): come noto, questo coefficiente indica l entità di espansione del materiale quando sottoposto a riscaldamento. Il CTE è definito come il rapporto tra l allungamento relativo in una direzione e la differenza di temperatura, ossia: ( 4.1) dove α è il coefficiente lineare di espansione, l0 è la lunghezza iniziale del campione, Δl e ΔT sono rispettivamente le differenze di lunghezza e temperatura. Il CTE assume molta importanza in tutte quelle applicazioni di carattere elettrico, in cui le poliimmidi sono impiegate come strato isolante: a seguito del riscaldamento per effetto Joule, il polimero andrà in contro ad un aumento delle sue dimensioni e ciò deve in qualche modo essere compatibile con i layer conduttori (Au, Cu, Al...)a cui la poliimmide è ancorata. Una dilatazione differenziale dei due materiali oltre un certo valore porterà inevitabilmente alla perdita di adesione e, perciò, ad un fallimento del sistema. Anche in questo caso, la rigidità della catena, la simmetria e la forza dei legami interni possono diminuire il valore del coefficiente di espansione termica. Molti studiosi hanno cercato di correlare la struttura chimica delle poliimmidi con il valore del CTE: i risultati ottenuti mostrano che la presenza di gruppi alifatici incrementa il valore del coefficiente di espansione lineare, presentando questi gruppi, nella loro struttura, degli spazi flessibili che diminuiscono complessivamente le intensità delle forze intermolecolari presenti lungo la catena Temperatura di transizione vetrosa e rilassamento La temperatura di transizione vetrosa (Tg) è quella temperatura alla quale il comportamento reologico del polimero subisce un brusco cambiamento. La Tg costituisce un processo di non equilibrio ed il suo valore dipende dalla velocità di riscaldamento o da quella di raffreddamento, come anche dalla struttura chimica del polimero: a polimeri lineari o che presentano deboli legami sono concessi maggiori movimenti all interno della catena, e ciò diminuisce la temperatura di transizione vetrosa. Inoltre, anche la composizione chimica, il peso molecolare e la presenza di plasticizzanti (che alterano le interazioni intermolecolari e la percentuale di volume libero) influenzano la Tg. L elevato valore della temperatura di transizione vetrosa delle poliimmidi aromatiche è da attribuirsi alla loro rigida e lineare struttura: la rigidità della catena può diminuire con l incorporazione di unità flessibili, come eteri, metileni e chetoni, all interno della struttura, mentre la linearità può venire meno se le addizioni agli anelli aromatici 58

59 avvengono in posizione orto o meta. Inoltre, anche lo scambio di cariche elettroniche nel meccanismo CTC (vedi paragrafo 4.3) permette di aumentare il valore della Tg. Al di sotto della temperatura di transizione vetrosa, molti dei movimenti di riarrangiamento dei polimeri sono congelati; tuttavia dei piccoli movimenti sono comunque concessi. Questi piccoli movimenti fanno parte dei processi di rilassamento secondari, chiamati rilassamento β, rilassamento γ e così via man mano che la temperatura diminuisce; ovviamente la temperatura di transizione vetrosa è solitamente associata al rilassamento α. Nella figura seguente sono mostrati i movimenti solitamente concessi all interno di un polimero e caratterizzanti i vari fenomeni di rilassamento: dove A rappresenta i movimenti locali all interno della catena polimerica, B le rotazioni intorno ai gruppi sostitutivi, C i movimenti all interno degli stessi gruppi sostitutivi e D i movimenti dovuti a plasticizzanti o all adsorbimento (o desorbimento) di piccole molecole all interno della struttura polimerica. È da notare che non è così facile individuare l esatto numero e posizione dei punti in cui sono permessi i movimenti all interno del polimero. Come è stato poco fa evidenziato, i fenomeni di rilassamento secondari sono influenzati, in generale, dall adsorbimento di piccole molecole: tuttavia, poiché sono le potenziali rotazioni intorno ai legami ed i possibili movimenti all interno delle catene a determinare la possibilità o meno dei fenomeni di rilassamento, la presenza o meno di molecole penetranti non può influire in tal senso. Ciò che succede è che, in funzione del tipo, del numero e delle modalità di adsorbimento di tali molecole, cambia l entità del rilassamento, non il range di temperatura in cui invece esso ha luogo. La letteratura raccoglie studi sui fenomeni di rilassamento all interno delle poliimmidi fin dal 1970, quando questi polimeri divennero oggetto di numerose attenzioni visti i potenziali campi applicativi. È stato osservato che i fenomeni di rilassamento secondari all interno dei movimenti locali delle diammine, delle dianidridi, degli eventuali gruppi sostituenti e delle molecole adsorbite all interno del polimero; inoltre si è giunti alla conclusione che il rilassamento β era dovuto alla rotazione dell anello fenilico della diammina (Fig. 4.5). Infatti, variando volta per volta la dianidride (mantenendo costante la presenza della diammina), si osservò che i fenomeni di rilassamento secondario si verificavano sempre all interno dello stesso range di temperatura. Fig. 4.5: Rotazione degli anelli fenilici all interno della diammina 59

60 Successivamente, ripetendo l esperimento, ma invertendo il gruppo fisso, fu possibile notare che il range di temperatura alla quale si verificava il rilassamento era differente e che questo variava in funzione dei vari sostituenti, influenzando questi gruppi le potenziali rotazioni intorno agli anelli fenilici; mentre piccoli sostituenti, come Cl, -CH3, -OCF3 poco influivano le possibili rotazioni, di fatto abbassando di poco le temperature di rilassamento, gruppi più ingombranti, come -CF3 o p-fenil, avevano un effetto più marcato. Il rilassamento β influenza le proprietà meccaniche dei polimeri, in particolare le loro risposte a stress-deformazione e la loro resistenza all impatto. In generale, per le strutture polimeriche, si registra un diverso comportamento meccanico (duttile o fragile) in funzione della temperatura; per le poliimmidi, non appena si raggiungono i valori di temperatura di rilassamento β, è possibile registrare un incremento della deformazione percentuale a rottura. Poiché molte delle poliimmidi aromatiche commerciali sono fornite in forma di film, è presente in esse un orientamento biassiale: la deformazione indotta durante il processo di formazione cambia la struttura morfologica della molecola, con il risultato che il film prodotto esibisce un maggiore valore del modulo elastico ed un migliore bilancio delle proprietà lungo il piano di orientazione del film, rispetto a quello non orientato. Inoltre, i fenomeni di rilassamento possono influenzare la risposta meccanica del polimero; tuttavia, è stato dimostrato che l orientazione solitamente presente nei film di poliimmidi di tipo PMDA/ODA (di cui anche il kapton fa parte) permette non solo di contrastare i fenomeni di rilassamento β, ma anche di influenzare il valore dell allungamento percentuale a rottura Proprietà elettriche Costante dielettrica Le poliimmidi sono molto spesso impiegate in applicazioni elettriche in virtù della loro natura poco conduttiva; frequenti sono le situazioni in cui uno strato di film poliimmidico è posto a contatto con due superfici metalliche conduttive: in tal caso al polimero è affidato il compito di dielettrico, di strato isolante. La continua ricerca di strutture nuove e sempre più compatte, dalle dimensioni sempre più piccole, nel rispetto delle proprietà dielettriche delle poliimmidi, ha visto negli ultimi anni la comparsa di strutture di dimensioni submicromiche: ciò reso possibile grazie all impiego di metalli poco resistenti, come il rame, in unione a polimeri dalla bassa costante dielettrica, come le poliimmidi contenenti fluoro. Una simile configurazione è ottenibile ricoprendo la superficie polimerica di un sottile strato (qualche μm) di metallo, depositato per evaporazione o sputtering, e successivamente modificato attraverso processi fotolitografici, che hanno il compito di traferire i circuiti elettronici sulla nuova superficie; questo è poi quello che solitamente avviene nella costruzione del foglio GEM. Una delle proprietà elettriche di maggiore importanza, visto lo scopo cui le poliimmidi impiegate come isolante sono destinate, è la costante dielettrica o permettività. Un modo per calcolare, teoricamente, la permettività dei polimeri è attraverso la relazione proposta da Van der Waals: ( 4.2) 60

61 dove rappresenta l effetto sulla costante dielettrica di ogni tipo di atomo e di ogni tipo di interazione intermolecolare; a sua volta, tendo conto dei gruppi polari e di quelli non polari, è possibile scrivere: ( 4.3) La precedente relazione di VdW presenta un errore del 2-5% quando applicata ai polimeri più comuni. I polimeri polari, contenenti ad esempio gruppi come CCl, NH, CN esibiscono maggiori valori delle permettività rispetto ai polimeri non polari. Inoltre, il valore della costante dielettrica non subisce sostanziali cambiamenti quando l idrogeno è sostituito da gruppi metilici o fenilici; tuttavia, i legami ad idrogeno sembrano mostrare un maggiore effetto sul valore della permettività. Molti studi sono stati portati avanti per cercare di correlare la struttura chimica delle poliimmidi con il comportamento dielettrico: si è notato, ad esempio, che le poliimmidi contenenti F mostrano migliori proprietà dielettriche rispetto alle corrispettive non fluorurate e che le poliimmidi che presentano un forte impaccamento molecolare possiedono delle elevate proprietà dielettriche perché è molto basso in loro l adsorbimento dell umidità esterna Effetto dell umidità Un analisi più approfondita deve essere compiuta sull effetto dell umidità nei confronti delle proprietà dielettriche, non solo per le applicazioni cui solitamente le poliimmidi sono destinate, ma anche alla luce dell interazione che i fogli GEM possono avere con questa; le possibili condizioni di contatto tra la poliimmide e l umidità ed uno studio più approfondito dei fenomeni di trasporto all interno della struttura GEM saranno affrontati nei paragrafi e 5.7. Da un punto di vista del tutto generale, alti livelli di acqua adsorbita su supporti dielettrici polimerici possono portare ad un grande cambiamento delle proprietà fisiche e chimiche, ad una perdita di adesione nei confronti del supporto metallico o a fenomeni di corrosione nei confronti dello stesso. Numerosi studi sono stati condotti per ricavare una relazione tra le proprietà elettriche e l umidità adsorbita; ad esempio, per il kapton sono disponibili dati ufficiali sulla variazione della costante dielettrica e del fattore di dissipazione a seguito di un aumento dell umidità (Fig. 4.6a/b). Fig. 4.6a: Andamento della costante dielettrica in funzione di RH per un film di kapton tipo HN (25 μm) 61

62 Fig. 4.6b: Andamento del fattore di dissipazione in funzione di RH per un film di kapton tipo HN (25 μm) Applicando l equazione di Clausius-Mosotti è possibile collegare tra loro parametri macroscopici e microscopici; per film dielettrici è valida: ( 4.4) dove è il numero di dipoli per unità di volume della specie i-esima, il valore della permettività nel vuoto mentre il valore della permettività misurata ad un preciso valore di umidità relativa. È stato inoltre osservato che il valore del momento di dipolo dell acqua adsorbita è molto simile a quello dell acqua libera: ciò vuol dire l adsorbimento dell umidità è controllato più dalla presenza e dalla disponibilità di frazioni di vuoto e volume libero all interno del polimero che dalla presenza di legami ad idrogeno (Fig. 4.7), che possono formarsi sia tra gli ossigeni di due diammine o tra quelli di una diammina ed una dianidride. Tuttavia, la presenza di legami ad idrogeno tra le molecole di acqua e catene polimeriche tra loro parallele porta non solo a stabilizzare l adsorbimento dell umidità, ma anche a fenomeni di rilassamento associati ai dipoli dell acqua e non a quelli intrinseci della catena poliimmidica. Fig. 4.7: Siti preferenziali dell adsorbimento dell acqua nelle poliimmidi PDMA-ODA; i legami ad idrogeno possono formarsi tra due dianidridi o tra una diammina ed una dianidride 62

63 In letteratura è possibile trovare numerose espressioni che consentono, ad esempio, il calcolo della costante dielettrica ε per una poliimmide (o per un polimero in generale) nota la quantità di acqua presente al suo interno: essendo la costante dielettrica per un polimero anidro, la costante dielettrica dell acqua e la frazione volumetrica dell acqua all interno del polimero considerato. A titolo di esempio si riportano i valori relativi alle variazioni della costante dielettrica, ottenute sfruttando le precedenti relazioni, per il solo kapton nel caso in cui sia stato adsorbito un 4% di umidità (la scelta del valore di RH non è casuale e si rimanda ai paragrafi 5.6 e 5.7 per una sua più completa trattazione e spiegazione): Dati Risultati Come facilmente si può osservare dai risultati appena ottenuti e dai grafici rilasciati dalla casa costruttrice (Fig. 4.6a/b), le variazioni delle caratteristiche elettriche con l umidità sono molto limitate (Fig. 4.8); ciò, insieme al piccolo aumento di peso che avviene a seguito con l interazione con ambienti umidi, costituisce un buon punto di forza per il sistema dei rivelatori GEM, confermando una saggia scelta dei materiali che sono stati utilizzati da questo punto di vista. Fig. 4.8: Valori di alcune proprietà elettriche per kapton a contatto con RH = 4% 63

64 Resistività Come noto dai fondamenti di fisica e di elettrotecnica, è definita resistenza R il rapporto tra la tensione applicata V e la corrente che fluisce all interno del sistema; nel caso dello strato polimerico impiegato come isolante tra due layer metallici, V è la tensione ai capi dei due conduttori, mentre I è la corrente che attraversa il film polimerico. A sua volta la resistenza R è legata al valore della superficie attraversata dalle corrente A, dallo spessore h dello strato di isolante e alla resistività ρ (misurata in Ωcm) secondo la relazione: ( 4.5) Il valore della resistività è condizionato dalla temperatura, secondo una legge di tipo Arrhenius: ( 4.6) È stato osservato che sia i polimeri che i dielettrici inorganici sono caratterizzati da un fattore pre-esponenziale negativo: questo vuol dire che all aumentare della temperatura si riduce il valore della resistività (comportamento del tutto opposto a quanto invece mostrato dai metalli) Dati sperimentali sul Kapton in uso al CERN: analisi di spettrografia ad infrarossi Le tecniche solitamente impiegate per studiare la cinetica ed i meccanismi di degradazione di tali polimeri sono le analisi termogravimetriche (TGA), la gas cromatografia (GC), con o senza spettrometro di massa (MS) e la spettrografia ad infrarossi: questo metodo di analisi, in particolare la spettrografia ad IR mediante la trasformata di Fourier (FTIR), permette di avere importanti informazioni sul tipo di legami chimici presenti all interno della molecola e sui vari gruppi funzionali che la caratterizzano. Per potere condurre uno studio esaustivo sulle modifiche che si verificheranno nel kapton a seguito delle interazioni con i fluidi di processo (miscela GEM e umidità), così come per la presenza di severe e drastiche condizioni di esercizio, è stata ritenuta imprescindibile l acquisizione di informazioni circa la struttura chimica del polimero al suo stato iniziale, ossia prima del suo impiego all interno del rivelatore. È stato quindi deciso di analizzare lo strato di polimero e di ripetere in un secondo momento lo stesso tipo di analisi sia per campioni sottoposti ad irraggiamento, sia per fogli GEM posti in serie a test di outgassing dei singoli materiali che compongono il detector stesso. Come approfondito in Appendice, la FTIR è molto impiegata nella caratterizzazione dei polimeri, permettendo di determinare le transizioni dei livelli energetici delle molecole che li costituiscono: in questo modo è possibile avere informazioni sull orientazione dei gruppi funzionali che li caratterizzano, le conformazioni strutturali e morfologiche. Solitamente la regione indagata per la caratterizzazione dei materiali polimerici è quella che prevede lunghezze d onda di cm -1 : questa regione di frequenze permette di coprire tutti gli assorbimenti di energia dovuti alle vibrazioni fondamentali dei principali 64

65 gruppi funzionali dei materiali organici. Inoltre, i vari gruppi funzionali che caratterizzano questi materiali presentano un adsorbimento energetico che è caratteristico non solo nella posizione ma anche in intensità. Per finire, i legami caratteristici che sono presenti all interno del kapton risultano essere indipendenti dallo spessore del materiale analizzato (Tabella 4.3) Tabella 4.3: Bande di assorbimento degli infrarossi per kapton H per differenti spessori del campione (vs: molto forte, s: forte, w: debole) L analisi con spettroscopia ad infrarossi del polimero impiegato per la costruzione delle camere GEM è stata eseguita con uno spettrometro Perkin Elmer Spectrum One (Fig. 4.9), sfruttando una sorgente di infrarossi a medie numero d onda (MIR, cm -1 ), un detector in LiTaO ed un divisore del fascio di luce (beamsplitter) in boruro di potassio; la risoluzione impostata è stata di 4 cm -1 e si è analizzato il campione in trasmittanza. Fig. 4.9: Spettrometro Perkin Elmer Spectrum One Lo spettro per il campione polimerico esaminato (Fig. 4.10) è del tutto conforme a quanto ci si aspettava dai dati disponibili in letteratura: non sono emersi particolari difetti dovuti alla produzione dello stesso, né tracce di inquinanti o composti che hanno reagito con lo stesso. Questo spettro costituirà lo standard di riferimento per le successive analisi sul materiale nel caso in cui, durante l esercizio del sistema, il kapton subisca trasformazioni chimiche, acquisisca nuove molecole o crei nuovi legami. 65

66 Fig. 4.10: Spettrogramma per il campione di kapton in esame Sono state condotte alcune ricerche bibliografiche volte a fornire un idea su quanto potrebbe verificarsi durante il naturale funzionamento del detector; ovviamente, trattandosi di un rivelatore innovativo nel campo della fisica delle particelle e non essendo i materiali impiegati, nel contesto delle condizioni di lavoro cui tutto il sistema di rivelazione di CMS è inserito, mai stati caratterizzati prima, non è stato possibile trovare molti documenti e studi utili allo scopo. Tuttavia, importanti informazioni circa le interazioni subite dal kapton ad opera di ioni pesanti, hanno comunque permesso di predire quelle che potrebbero essere le modifiche cui lo strato di poliimmide potrà andare soggetto. In particolare, le modificazioni indotte nel kapton a seguito dell esposizione a radiazioni da ioni pesanti sono state spesso associate alla liberazione di composti e specie volatili, decomposizione dei gruppi carbonilici, formazione di crosslinks e radicali liberi all interno del materiale, formazione di insaturazioni e di scissioni della catena polimerica. Analisi condotte con la FTIR hanno inoltre validato il fatto che queste modifiche dipendono molto poco dal tipo di ione che si sta considerando, mentre mostrano un influenza decisamente maggiore parametri come l energia associata alla radiazione e la sua fluenza (definita come il numero di particelle o fotoni incidenti sull unità di superficie di un corpo irraggiato). Inoltre, dopo il bombardamento sono state osservate anche delle variazioni circa la capacità di adsorbire fluidi esterni, come l umidità, e di catturare energia, sotto forma di legami coniugati. L esposizione a fasci di 75 MeV costituiti da ioni O + hanno evidenziato una riduzione in intensità dei picchi associati ai legami caratteristici presenti all interno del polimero (Fig. 4.11): ciò è sinonimo di cambiamenti morfologici che hanno interessato il materiale. Una significante riduzione del numero dei legami carbonilici nel range delle numero d onda tra i 2500 ed i 3500 cm -1 è dovuta alla presenza di acqua adsorbita dal polimero che ha subito irraggiamento: il fatto poi che questa banda sia molto estesa e che appaia a basse frequenze, minori di quelle che interessano lo stretching dei gruppi OH (3600 cm -1 ), normalmente molto evidente nelle analisi condotte su campioni di kapton vergine, è un ulteriore conferma della presenza di acqua adsorbita all interno della struttura. Inoltre non lasciano spazio ad equivoci i picchi presenti tra i 1640 ed 1615 cm -1 e che testimoniano la presenza di legami H-O-H. 66

67 Fig. 4.11: Spettro FTIR per esposizione a ioni O + di kapton tipo H (25 µm) per differenti valori di fluenza: a) 9.1*10 11 b) 5.6*10 12 c) 1.8*10 14 ioni/cm 2 La dimerizzazione (ossia l unione) dei gruppi carbonilici presenti nelle poliimmidi è una delle principali conseguenze degli irraggiamenti con ioni ad alta energia. Nei materiali vergini le presenza di gruppi carbonilici è rivelata da caratteristici picchi intorno ai 1703 cm -1 e, solitamente, una diminuzione delle intensità associate a questi picchi è sinonimo di una riduzione del numero stesso dei gruppi funzionali. Sarebbe logico aspettarsi che l intensità dei picchi diminuisca proporzionalmente con l aumento della fluenza; tuttavia, a causa dell adsorbimento di acqua all interno del polimero, è possibile osservare un comportamento completamente differente, che prevede un aumento dell intensità a seguito di un aumento della fluenza. Infatti, l acqua che viene trattenuta all interno del polimero va creando legami fisici sia con i gruppi carbonilici che con gli atomi di ossigeno presenti all interno della struttura. Le modifiche indotte da questo fluido sono le stesse che è possibile osservare in seguito ai crossilinking (vedi paragrafo 7.6): la formazione dei crossilinks porta ad una soppressione dei processi di dimerizzazione dei gruppi carbonilici ad alti valori di fluenza e riducono, inoltre, la possibilità di scissione dei legami C-N e C-C. Analisi compiute su campioni sottoposti ad irraggiamento con ioni di nichel (a 80 MeV) e con ioni di litio (a 50 MeV) hanno evidenziato (Fig. 4.12) le stesse modifiche ed interazioni all interno della struttura polimerica desunte per il bombardamento con ioni O +, a prova che le modifiche cui il kapton va in contro sono indipendenti dalla natura degli ioni impiegati. 67

68 Fig. 4.12: Spettri FTIR per esposizione a ioni Ni + (alla pagina precedente) e ioni Li + (in questa pagina) di kapton tipo H (25 µm) per differenti valori di fluenza: per gli ioni Ni + a) 5.0*10 10 b) 5.0*10 11 c) 3.0*10 12 ioni/cm 2 per gli ioni Li + a) 5.0*10 4 b) 1.0*10 5 c) 5.0*10 5 ioni/cm 2 È pertanto possibile trarre dalla bibliografia le seguenti conclusioni: l irraggiamento con ioni ad alta energia causa dimerizzazione dei gruppi carbonilici, aumento dell adsorbimento dell acqua all interno del materiale, formazione di crosslinks ad opera dell acqua stessa. nessuna formazione di materiali diversi o prodotti di reazione (da analisi FTIR); la natura dello ione inviato non ha influenza sul tipo di modifiche che si registrano nella poliimmide (analisi FTIR). Analisi sul kapton dopo i test di outgassing e di irraggiamento potranno confermare o meno queste ipotesi iniziali. Bibliografia [14] Scienza e ingegneria dei materiali. Una introduzione"; Ed.Italiana EdiSES; 2006 [15] APICAL Polyimide Technical Data; Kaneka Americas Holding, Inc. [16] Kapton HN Technical Info; DuPont [17] High-performance Polymers: Chemistry and Applications, Volume 3 ; Rabilloud G.; Editions Technip; 2000 [18] Structure-Property Relationships and Adhesion in Polyimides ; Eichstadt A.E.; Tesi di Dottorato;

69 [19] POLYIMIDES: chemistry & structure-property relationships literature review ; Ratta V.; 1999 [20] Polyimides: Synthesis, Characterization and Adhesion ; McGrath J.E., Taylor L.T., Ward T.C., Wightman J.P.; CASS Review Series Volume 1; 1992 [21] Macromolecules ; Echigo Y.; Iwaya Y.; Tomioka, I., Yamada, H.; ACS Publications, 28, 4861; [22] Macromolecules ; Hsiao B.S., Kreuz, J.A., Cheng S.Z.D.; ACS Publications, 29, 135; 1996 [23] Polyimides: Synthesis, Characterization, and Applications Volume 1 ; Fryd M.; Plenum: New York, pp ; 1982 [24] Dielectric Spectroscopy of Polymers ; Hedvig, P; Adam Hilger: Bristol; [25] Polymers for Microelectronics: Resists and Dielectrics ; Eftekhari A., St. Clair A.K., Stoakley D.M., Sprinkle D. R., Singh, J.J; ACS Symposium Series 537, American Chemical Society: Washington, D.C., pp ; [26] Introductory Fourier Transform Spectroscopy ; Bell, R.J.; New York: Academic Press; [27] Modern Infrared Spectroscopy ; Stuart B., Gorge B., McIntyre P.; John Wiley & Sons. Chichester; 1998 [28] Influence of Surface Modified MWCNTs on the Mechanical, Electrical and Thermal Properties of Polymide Nanocomposites ; B.P. Singh Æ Deepankar Singh ÆT.L. Dhami; Nanoscale Research Letters, 3, pp ; 2008 [29] FTIR Analysis of high Energy Ion Kapton-H Polymide ; Maneesha Garga & J.K. Quamara; Indian journal of Pure & Applied Physics; Vol. 45, pp ; 2007 (5) (6) 69

70 Capitolo 5 Umidità e diffusione all interno della poliimmide: teoria, modellizzazione del foglio GEM e verifica sperimentale 5.1. Introduzione In questo capitolo si affronterà il problema dell interazione tra le GEMs e l umidità ambientale; particolare rilievo sarà dato alla poliimmide ed al suo comportamento nei confronti dell acqua, che nel caso dell applicazione al rivelatore GEM proviene dall umidità dell aria. Come si vedrà successivamente, la presenza di acqua all interno di un polimero porta ad un profondo cambiamento delle sue proprietà, ad esempio elettriche e meccaniche che sono di particolare importanza nel caso in studio; nel caso infatti di rivelatori GEM, le proprietà elettriche dei materiali resistivi utilizzati sono responsabili della creazione di un idoneo campo elettrico per ottenere le ionizzazioni a valanga del gas, mentre le proprietà meccaniche sono significative per ottenere strutture durature ed indeformabili, che non tendano nel tempo ad imbarcarsi o modificare il proprio profilo. Per tale motivo è di particolare importanza comprendere a fondo le modalità che portano all adsorbimento di tale composto e le relative implicazioni nei cambiamenti delle sue caratteristiche, per non menzionare l importanza che questi mutamenti hanno nel trascorrere del tempo sul funzionamento del rivelatore determinandone l invecchiamento. Una delle modalità con cui la poliimmide può entrare in contatto con l acqua risiede nelle procedure di trattamento dei fogli GEM in uso al CERN: questi, dopo essere stati lavorati per assumere la forma finale (applicazione del photoresist e formazione dei fori per la moltiplicazione elettronica), sono infatti lavati con acqua demineralizzata ad alta pressione. Inoltre, è inevitabile l interazione con l umidità dell aria nel momento in cui la camera viene assemblata, essendo i fogli soggetti alle condizioni ambientali. Un altra possibile sorgente di umidità è costituita dalle eventuali perdite del detector stesso, che per quanto minimizzate possono sempre essere presenti, e dal sistema gas in uso presso l esperimento CMS: questo lavora in circuito chiuso (Closed Loop, CL) e provvede, al momento, a rifornire le RPCs della miscela di gas necessaria al loro 70

71 funzionamento. Le GEMs, una volta installate su CMS, sfrutteranno tale sistema di gas, opportunatamente modificato, essendo diversa la miscela che bisogna inviare in tali detector rispetto alla miscela inviata alle RPCs. Pur non essendo previsto l impiego di aria in tale configurazione, sono inevitabili alcune perdite attraverso il complesso sistema di tubazioni, connessioni e detector; ciò inevitabilmente porta all ingresso di aria all interno del loop. Dopo aver brevemente descritto il sistema gas installato su CMS, saranno in breve richiamati i fondamenti di diffusione all interno dei polimeri. Seguirà poi la descrizione della prova di laboratorio realizzata prima presso il CERN e poi presso i laboratori di Frascati, per ricavare il coefficiente di diffusione dell acqua all interno della poliimmide. Questo dato sarà poi inserito nel modello di diffusione, sviluppato con un programma di calcolo apposito, che descrive tale fenomeno di trasporto per l intero foglio GEM Il sistema gas di CMS I rilevatori GEM che saranno installati all interno di CMS necessitano, come noto, della presenza di una miscela di Ar/CO2/CF4 per il loro funzionamento. L approvvigionamento della miscela GEM sarà permesso grazie ad un idoneo sistema gas, comprendente tubazioni, connessioni, centraline di controllo, flussimetri per la regolazione dei flussi, dispositivi per la miscelazione dei tre composti nelle proporzioni richieste in modo da poter essere successivamente distribuiti, come miscela, ad ogni camera. Il flusso stimato per il sistema di rilevatori GEM è di circa 700 nl/h ed il sistema di gas per le GEMs impiegherà parte del sistema di gas, già presente su CMS, realizzato in precedenza per il funzionamento delle RPCs. Dovendo impiegare gas relativamente costosi, il sistema da realizzare sarà in closed loop: saranno, perciò, necessarie delle sezioni di filtrazione ottimale per la miscela, al fine di recuperare il più possibile i gas di interesse, in aggiunta alle connessioni di ingresso della miscela fresca e dello spurgo della quota parte di gas esausto; sarà necessario installare inoltre un sistema di miscelazione (Fig. 5.1) per ottenere la miscela Ar/CO2/CF4 (detta anche miscela GEM) così come bisognerà prevedere delle unità di recupero del CF4. Il tutto sarà integrato da sistemi di controllo elettromeccanici e da linee di lavaggio dei rivelatori e standby durante i periodi di shutdown impieganti azoto, entrambi già presenti all interno della caverna ospitante l esperimento di CMS. Fig. 5.1: Layout del sistema di miscelazione 71

72 Il sistema di gas già presente in CMS è quello che provvede al rifornimento delle RPCs della miscela necessaria al loro funzionamento; si tratta di un sistema in loop chiuso, che prevede l immissione di un 10% di miscela fresca e la presenza di numerosi sistemi di filtrazione e controllo. Il punto di lavoro delle RPCs, così come la corrente circolante all interno di questi detector, è strettamente correlato alle variabili ambientali, come ai rapporti dei componenti costituenti la miscela di gas che si vuole impiegare, alla presenza di polveri ed inquinanti, provenienti sia dell esterno che dall interno del sistema (prodotto dei fenomeni di scarica o di reazione tra il gas ed i materiali che costituiscono il detector). Trattandosi di strutture resistive, tutti i fattori appena citati influenzano le proprietà elettriche di tali rivelatori, e quindi il loro punto di lavoro; in aggiunta, fattori come l umidità e la temperatura, se non esattamente controllate, sono responsabili anche della formazione di correnti non volute (dark currents, vedi paragrafo 8.3) in quanto responsabili di false informazioni su quanto si sta monitorando (in breve, tali correnti sono registrate dal sistema del rivelatore come informazione circa il passaggio di una particella, quando in realtà ciò non si è verificato). Per finire, la Bakelite, materiale di cui le RPCs sono costituite, è molto sensibile all umidità, mostrando un comportamento estremamente idrofilo: in presenza di forti tenori di umidità si registra, ad esempio, il problema dell imbarcamento della struttura ad opera dell acqua che è stata adsorbita al suo interno, situazione ovviamente che deve essere evitata. Per tale motivo è stato previsto l installazione del Gas Gain Monitoring (GGM), un sistema di controllo online che provvede a individuare in tempo reale qualsiasi fluttuazione si possa verificare all interno del closed loop in modo da mantenere costante il guadagno delle RPCs e prevedere eventuali crisi del sistema anticipando lo spegnimento del sistema in caso di rischio per le camere Setup del GGM Il GGM è stato realizzato dall INFN di Frascati ed integrato nel 2010 in sistema gas a loop chiuso presente in CMS (Fig. 5.2). L INFN si è avvalso anche della collaborazione di dottorandi e laureandi del corso di laurea in Ingegneria Chimica che si sono avvicendati nel tempo. Il sistema prevede l impiego di un telescopio formato da 12 RPCs, presentanti una singola gap di Bakelite (2 mm di spessore) e ciascuna con un area di 50X50 cm 2, all interno del quale sono inviati i raggi cosmici; la risposta di riferimento del passaggio di tali raggi è fornita da quattro delle RPCs presenti, posizionati a coppia ai capi del telescopio. Installato in superficie nei pressi della caverna di CMS, in modo da minimizzare i tempi di risposta, il telescopio di RPCs è suddiviso in 3 sottosistemi: Fresh Gas, Before Purifiers e After Purifiers. Al primo sottosistema è inviata la stessa miscela fresca che viene integrata nel CL di CMS; composto da due RPCs, il Fresh Gas è impiegato come riferimento di tutto il sistema di monitoraggio. Al secondo e terzo sottosistema sono inviate, rispettivamente, un piccola parte della miscela di gas proveniente dalla sezione prima e dopo i filtri di purificazione; entrambi i sottosistemi si compongono di tre RPCs ciascuno. 72

73 Fig. 5.2: Intregrazione del GGM al sistema CL di CMS Lo scopo del GGM è di monitorare in tempo reale qualsiasi variazione possa verificarsi in una delle tre sezioni del CL, analizzando i segnali provenienti da ogni sottosistema e comparandolo con la risposta che ci si attende dalle RPCs installate in CMS e permettere, così, di correggere eventualmente i parametri. Per tale motivo, il Gas Gain Monitoring lavora in continuo, collezionando 10 4 eventi ogni 30 minuti e correggendo in modo tempestivo le variazioni che si registrano. Tutti i parametri ambientali sono monitorati (T, P, RH) grazie a sensori che sono installati prima e dopo ogni detector, visto il loro effetto sulle proprietà dei materiali impiegati e sul punto di lavoro del rivelatore stesso; il sensore di temperatura ha una sensibilità ± 1 C nel range di temperature tra 0 e 40 C, il sensore di umidità presenta invece una sensibilità di ± 1% per nel range di RH tra 2% e 98%, mentre il sensore di pressione ha una sensibilità di ± 1 mbar per la nell intervallo mbar Algoritmo di controllo Il sistema GGM sfrutta un algoritmo per correggere le variazioni dovute ad una o più condizioni ambientali. Più precisamente, è stato previsto di intervenire sulla differenza di potenziale applicata (Veff) ad ogni RPC presente su CMS in modo da mantenerne costante il guadagno; ad ogni possibile variazione delle condizioni ambientali (P e/o T) si ha l invio di un segnale ad alto voltaggio V al sistema di detector. L algoritmo impiegato è: ( 5.1) dove p0 è 965 mbar e T0 è 293 K. Tuttavia, si è notato che la formula in precedenza riportata interviene in maniera troppo incisiva nel sistema, di fatto portando ad una riduzione di Veff maggiore di quanto sia realmente necessario; per tale motivo è stato corretto l algoritmo di controllo giungendo alla relazione ( 5.2) Il parametro αt che è necessario ad ogni detector è ricavabile dalle varie curve Q(p,T) vs Veff per il dato detector (Fig. 5.3); in generale, fittando i dati a disposizione in modo da tenere conto delle effettive escursioni termiche presenti durante l anno sia in CMS che 73

74 nell area di controllo del CL (circa 3 C, corrispondente a circa 90V) è possibile ottenere αt = 0.40 ± Fig. 5.3: Andamento della carica anodica in funzione di V eff 5.3. Introduzione ai meccanismi di diffusione all interno dei polimeri L importanza degli aspetti diffusivi all interno di polimeri ha sempre destato grande interesse dal punto di vista industriale: basti pensare alla quantità di studi e pubblicazioni presenti in letteratura, ai numerosi esperimenti che sono stati realizzati per determinare i coefficienti e le costanti che caratterizzano il fenomeno. Le modalità e le caratteristiche di diffusione di piccole molecole all interno dei materiali, e nello specifico all interno di matrici polimeriche, ha particolare importanza in diversi settori scientifici e dell ingegneria: basti pensare alla medicina, alle separazioni grazie a membrane, al confezionamento dell industria alimentare, all estrazione di solventi e contaminanti. Molte di queste operazioni sfruttano a proprio vantaggio la presenza di membrane polimeriche, più o meno dense e porose, in cui sono di fondamentale importanza fattori quali la solubilità e la diffusività del composto penetrante nel polimero, la morfologia, i riempitivi e la plastificazione del polimero stesso. L importanza della diffusione all interno delle strutture polimeriche è evidenziata anche dell impiego di quest ultime come isolanti: quando un polimero è messo a contatto con l umidità esterna, inevitabilmente avviene uno scambio di materia, in questo caso di acqua, tra l aria, che ne contiene in quantità più o meno elevata, e l isolante, che auspicabilmente ne dovrebbe essere povero; il risultato è che col tempo, il polimero conterrà al suo interno alcune frazioni di acqua, con un cambiamento non indifferente delle proprietà elettriche, fattore che potrebbe anche compromettere l integrità del sistema originario. Anche le caratteristiche meccaniche sono influenzate dalla presenza di acqua all interno della struttura polimerica. Anche in questo caso, frazioni di acqua possono penetrare nel polimero grazie a processi diffusivi a partire dall umidità esterna. 74

75 5.4. Il processo di diffusione Le leggi di Fick La diffusione è un processo secondo il quale una specie si muove in maniera randomica all interno di un sistema. Molte analogie possono essere trovate tra diffusione e conduzione di calore: sulla base di queste similitudini, Fick studiò all inizio in maniera quantitativa la diffusione all interno di un mezzo isotropo. La prima legge di Fick, valida nel caso di stato stazionario è: ( 5.3) dove J è il flusso della specie penetrante (ossia il rapporto tra la portata, solitamente molare, di tale specie e la sezione attraversata, calcolato in mol/m 2 s), c la concentrazione (mol/m 3 ), D è il coefficiente di diffusione (se il flusso J e la concentrazione c sono entrambi espressi nelle stesse unità di materia, allora D è indipendente da questa unità di misura, e le sue dimensioni sono cm 2 s -1 ), e x la distanza; è chiamato gradiente di concentrazione (lungo l asse x). La prima legge di Fick può essere applicata solo in problemi di stato stazionario, ossia in situazioni in cui la concentrazione c non è funzione del tempo. Nel caso in cui fosse necessario considerare non solo la variazione spaziale della concentrazione, ma anche la sua dipendenza temporale (studio in caso non stazionario), il processo di diffusione può essere descritto dalla seconda legge di Fick: ( 5.4) che mostra come la concentrazione c vari, all interno del sistema in cui sta diffondendo, in funzione dell asse x (diffusione in un unica dimensione) e del tempo t. Profilo di concentrazione: Fig. a) stato stazionario Fig. b) caso non stazionario Il valore del coefficiente D è ricavabile, in quest ultimo caso, solo dopo un adeguata trattazione matematica dell equazione differenziale alle derivate parziali ( 5.4); una soluzione molto nota e ben adattabile a processi di media e lunga estensione temporale è stata sviluppata da Crank nel 1975, studiando la cinetica di adsorbimento di composti su superfici polimeriche: 75

76 ( 5.5) dove 2l è lo spessore del film polimerico che è immerso in un ambiente (infinito) contenente la specie penetrante, ct è la concentrazione all interno del polimero al dato istante di tempo t, c è la concentrazione all equilibrio (ad esempio a saturazione). L=2l è la distanza tra i due bordi del film polimerico, di coordinate x0 e x1. L integrazione della precedente equazione permette di ricavare come la massa di specie penetrante Mt, vari all interno del film in funzione della distanza x e del tempo t, sempre comparando con il valore della massa all equilibrio, M : ( 5.6) Quest ultima equazione può essere semplificata nel caso di processi che avvengono in piccoli intervalli di tempo (diffusioni molto veloci): ( 5.7) Avendo considerato sempre uno spessore L = 2l. Plottando il rapporto in funzione di t 1/2 (Fig. 5.4) si ottiene una retta, nella cui pendenza compare il coefficiente di diffusione D; l errore che si commette nell applicare tale forma semplificata è circa 0.1% quando il rapporto è inferiore a 0.5. Fig. 5.4: Andamento tipico dell aumento di peso per processi veloci; plot del rapporto M t/m in funzione di t 1/2 Nel caso di processi molto lenti, in cui bisogna considerare lunghi intervalli di tempo, e nel caso in cui sia, è possibile giungere alla forma semplificata: ( 5.8) dove, è possibile ricavare il coefficiente di diffusione dalla pendenza della retta di regressione (Fig. 5.5), avendo in precedenza linearizzato nella forma: ( 5.9) 76

77 Anche in questo caso, la procedura mostra un errore inferiore allo 0.1% e pertanto del tutto trascurabile. Fig. 5.5: Andamento tipico dell aumento di peso per processi lenti; plot di ln(1- M t/m ) in funzione di t Un altro parametro che molto influenza il processo di diffusione è lo spessore del film all interno del quale penetra la specie di interesse: il valore di questa grandezza molto incide sulla cinetica diffusiva, incrementando notevolmente i tempi necessari per portarsi al valore di equilibrio Atri modelli diffusivi Nel precedente paragrafo, sono stati esaminati e sviluppati i casi di diffusione di tipo Fickiano; esistono tuttavia dei casi in cui il processo diffusivo non segue le leggi di Fick. Rifacendosi agli studi presenti in letteratura, si consideri un film polimerico posto all interno di una fase liquida o vapore contenente la specie penetrante. Se il processo di diffusione seguisse la legge di Fick, l equazione che descriverebbe l adsorbimento della massa da parte del film polimerico sarebbe: ( 5.10) dove k è una costante che dipende dalla costante di diffusione e dallo spessore del film, mentre n è definito come ordine del meccanismo di diffusione. Il meccanismo di diffusione Fickiano si osserva all interno di una matrice polimerica quando T >> Tg (temperatura di transizione vetrosa); in tal caso ci si aspetta che il rapporto sia proporzionale alla radice del tempo, e perciò n = 0.5. In base al valore del coefficiente n, sono stati suddivisi i vari meccanismi diffusivi: n<0.5 diffusione pseudo-fickiana n=0.5 diffusione fickiana (caso I) 0.5<n<1 diffusione anomala n=1 caso II n>1 supercaso II 77

78 La diffusione caso II è il secondo meccanismo di diffusione più importante per i polimeri: in tale meccanismo di trasporto, si verificano movimenti di bordo, con una cinetica di adsorbimento lineare (esattamente con modalità opposte alla legge di Fick). Studi di letteratura, hanno evidenziato la presenza di un grande fronte di penetrazione che avanza con velocità costante. Un esponente compreso tra 1 e 0,5 significa che si è in presenza di una diffusione anomala. Sia il caso II sia la diffusione anomala sono normalmente osservabili per polimeri in cui la temperatura di lavoro è inferiore a quella di transizione vetrosa; la differenza principale tra questi due meccanismi risiede nella diversa velocità di diffusione della specie penetrante Determinazione del coefficiente di diffusione Analisi preliminare dell esperimento Uno dei metodi per determinare le cinetiche di diffusioni, per processi che seguono la seconda legge di Fick, è quello gravimetrico, ossia basato su pesature dirette del polimero in esame, impiegando una microbilancia analitica. Operando in tal senso, il campione è posto in un ambiente controllato, in cui sono presenti condizioni ambientali costanti, come ad esempio, umidità controllata, pressione di vapore costante, immersione in un fluido; periodicamente il campione è estratto da quest ambiente e successivamente pesato, dopo aver eventualmente asciugato la superficie, specie se il campione era immerso in un liquido. Dopo la misura del peso si pone nuovamente il campione nel suo ambiente di condizionamento. Si ripete tale procedura fino a quando il peso non raggiunge un valore pressoché costante, segno del raggiungimento dell equilibrio. Una volta noti pesi e tempi è possibile interpolare i risultati (come evidenziato in precedenza) e ricavare il coefficiente di diffusione D. È buona norma condizionare, se possibile, preventivamente il campione, ad esempio ponendolo in stufa o in ambiente secco per allontanare le frazioni di specie penetrante, ad esempio acqua, presenti all interno del polimero. La conduzione di tale test è teoricamente molto semplice, essendo la microbilancia analitica uno strumento molto affidabile e preciso, specie nel caso di campioni di grandi dimensioni; ovviamente, al diminuire delle dimensioni, aumenta l errore che si commette nella misura, in particolare quando lo spessore scende al di sotto dei 50μm. Nel caso di spessori troppo sottili, infatti, una parte della specie penetrante che in precedenza era stata adsorbita può essere rimossa dal campione, sia durante la rimozione dall ambiente controllato (per effettuare la misura del peso), sia durante l eventuale pulizia della superficie (per rimuovere la condensa superficiale); inoltre, per film sottili si registrano più rapide velocità di diffusione, che portano alla necessità di più frequenti e veloci misure delle variazioni di peso; inoltre, per tali campioni, le variazioni di peso percentuali possono essere talmente piccole da non poter essere apprezzate. Ovviamente, più il campione è manipolato, e più aumenta l errore che si compie nella misura. A tutto questo si deve aggiungere che, nell aprire l ambiente controllato per effettuare la misura del peso, si vanno a modificare le condizioni presenti al suo interno. Nel caso, ad esempio, che si voglia condurre l esperimento ad umidità controllata, dovranno regnare all interno del recipiente delle condizioni di equilibrio, tali da mantenere l umidità relativa (RH) ad un valore costante, probabilmente diverso dal valore di umidità esterna. È ovvio che, aprendo tale ambiente, si modificheranno le condizioni interne: seppur in 78

79 temporaneamente, si registrerà una variazione della cinetica di diffusione, almeno fino al raggiungimento del precedente valore di equilibrio Preparazione dell esperimento presso i laboratori CERN: il sistema di condizionamento dell umidità Scopo dell esperimento è stato quello di ricavare il coefficiente di diffusione dell acqua nella poliimmide, per poi poterlo utilizzare nella modellizzazione, tramite un apposito programma, il meccanismo di diffusione all interno di un foglio GEM. Viste tutte le problematiche in precedenza esaminate, numerosi studiosi e tecnici hanno trovato vie alternative per poter misurare, in funzione del tempo, la variazione di peso del campione in esame: come riportato in letteratura, alcuni test prevedono di modificare l ambiente in cui regnano le condizioni ambientali controllate e costanti inserendovi all interno la microbilancia analitica o, sempre mantenendo il campione nell ambiente di condizionamento, di ricavare indirettamente il valore mediante la misura di altre proprietà, come quelle elettriche, e correlare queste alla percentuale di specie penetrante (ad esempio monitorare come aumenta la conducibilità di un layer polimerico all aumentare della quantità di acqua adsorbita). Si è preferito comunque procedere secondo la via normativa, ossia effettuando delle misure dirette di peso e cercando di limitare gli errori sperimentali, primo fra tutti il cambiamento delle condizioni regnanti nell ambiente chiuso per effetto della rimozione del campione per le varie pesate. Rispetto alle norme standard ufficiali (normative ASTM D570-98) che prevedono di effettuare pesate di campioni in precedenza immersi interamente in acqua, si è preferito riprodurre le stesse condizioni ambientali con le quali le GEMs entreranno in contatto, e quindi i campioni sono stati esposti ad un ambiente umido e non immersi in acqua, sono stati poi successivamente pesati. Per fare ciò, è stato messo a punto un sistema di controllo dell umidità alternativo alle usuali tecniche di condizionamento. Solitamente, infatti, un determinato valore di umidità all interno di un ambiente chiuso (costituito da un recipiente di vetro, con coperchio removibile e diaframma ceramico forato posto a ¼ dell altezza del recipiente) è raggiunto ponendo una miscela di sali, con o senza acqua, ed aspettando il raggiungimento dell equilibrio; in funzione della miscela salina e della presenza o meno di acqua, è possibile ottenere il dato valore di RH. Tale modo di procedere è tuttavia molto lungo e poco adattabile al tipo di test che si vuole condurre, dovendo in teoria aspettare ad ogni pesata il raggiungimento delle condizioni di equilibrio, necessità che porta o a misure imprecise nel momento in cui il campione è posto nuovamente nell ambiente chiuso (qualora si volesse compiere il test in maniera continuativa) o a ricominciare dall inizio l esperimento, ricondizionando il film polimerico, inserendolo nuovamente nell ambiente in cui regnano le condizioni di equilibrio (qualora si volesse discretizzare il test, azzerando il tempo ad ogni pesata). Il sistema è stato realizzato da me in collaborazione con personale del laboratorio di chimica della sezione Surfaces, Chemistry and Coatings (SCC) del CERN in cui sono studiate le tecniche di deposizione e le caratteristiche dei materiali esposti a tale trattamenti. Il controllo dell umidità avviene per mezzo della regolazione di due differenti circuiti, rispettivamente di aria umida ed aria secca: da una bombola di aria, si provvede grazie ad un connettore a T a creare due differenti percorsi: uno da origine all aria secca, attraverso il passaggio in due contenitori di gel di silice che provvedono a deidratare il gas, mentre il secondo circuito permette di ottenere aria umida, sfruttando l azione combinata di un 79

80 gorgogliatore (in cui è inserita acqua) e del suo eventuale riscaldamento, grazie ad un agitatore magnetico termo regolatore (il gorgogliatore, in vetro, è posto all interno di un becher contenente acqua e regolato dall agitatore). Entrambi i circuiti, che si ricongiungono prima di immettere la miscela di aria secca/umida all interno dell ambiente chiuso, sono stati dotati di flussimetri per la regolazione dei flussi, onde poter non solo raggiungere e mantenere più agevolmente i determinati valori di umidità, ma anche per evitare di avere eccessive perdite e condense all interno delle tubazioni, realizzate in materiale polimerico (Fig. 5.6a/b/c). Fig. 5.6a: Layout del sistema di condizionamento dell aria Fig. 5.6b: Componenti del sistema di condizionamento dell umidità 80

81 Fig. 5.6c: Visione d insieme del sistema di condizionamento dell umidità Test condotti su questo sistema hanno permesso di raggiungere valori di RH 10%, inviando solo aria secca, e valori di RH 95%, inviando solo aria umida e termostatando il gorgogliatore a 70 C; entrambe le condizioni prevedono di non operare con il massimo valore di flusso, per evitare di avere perdite e/o condense all interno delle tubazioni. Per favorire l esposizione uniforme dei campioni al flusso entrante e per evitare il contatto del film polimerico con le pareti del recipiente o con il fondo del diaframma, sono state fissate due pinzette metalliche alla base ceramica, sfruttando a proprio vantaggio i fori presenti; allo stesso modo si è fissato un igrometro (con termometro incorporato), per tenere sotto controllo i valori dell umidità presente all interno dl recipiente (Fig 5.7). Fig. 5.7: Recipiente di vetro con igrometro impiegato per il test; nell immagine è anche visibile la connessione di ingresso per l aria condizionata ad umidità controllata 81

82 Il giorno prima del test, si è provveduto a simulare delle ipotetiche misure di peso per avere un indicazione sul tempo necessario per svolgere tale azione (ossia di prendere il campione, porlo sulla bilancia, pesare e riporlo nel contenitore) ed osservare come l umidità interna al sistema variasse durante la misura. Infatti, durante la pesata, viste le dimensioni del tubo di ingresso dell aria all interno del recipiente e la sua fragilità, l ingombro dato dai campioni e la necessità di compiere il più velocemente possibile la misura della variazione di peso, il recipiente restava per un certo tempo senza coperchio, temporaneamente poggiato su un analogo recipiente posto nelle vicinanze. Scegliendo di condurre il test ad un valore di umidità relativa non troppo basso (rispetto le condizioni esterne, che ovviamente mutavano durante l arco della giornata), e cercando di compensare l inerzia del sistema (ad esempio modificando il valore del flusso qualche decina di secondi prima dell apertura del recipiente, in modo da avere all atto della chiusura, un valore omogeneo), è stato possibile mantenere il valore di RH all interno di un range abbastanza stretto Svolgimento del test presso i laboratori CERN Per la conduzione del test, sono stati ritagliati due provini di kapton Apical delle dimensioni di 10X15.3 cm 2 (Sample I) e 10X15.2 cm 2 (Sample II), entrambi con uno spessore di 50 μm. La bilancia impiegata (Fig. 5.8) è un modello XP204 Analytical Balance, con una capacità massima di 220 g, una minima di 8 mg ed una tolleranza di 0.1 mg. All interno della bilancia era presente un cestino di metallo, fornito in dotazione con lo strumento, che, opportunatamente registrato come tara, permetteva una più agile e sicura misura dei campioni inseriti, impedendo che i campioni venissero a contatto con le pareti o la base dello strumento, situazione che avrebbe portato ad una misura totalmente erronea. La precisione della misura di peso era stata in precedenza determinata tramite la lettura di peso di numerosi campioni posti in ambiente condizionato: per questo strumento di misura è stata trovata una deviazione standard σ = 0.2 mg. Fig. 5.8: XP204 Analytical Balance Dopo un primo condizionamento in stufa per circa 36 ore a 110 C, sono state effettuate misure di peso, per avere la misura del campione anidro al tempo zero: i pesi erano di ( ± 0.1) mg (Sample I) e ( ± 0.1) mg (Sample II). 82

83 Il range adottato per l esperimento è stato di RH = 45-50% e T = C, mentre gli intervalli di tempo nei quali sono stati effettuati le misure sono stati man mano allungati, sia per evitare di contaminare i campioni, sia per limitare gli errori sperimentali, sia perché nel tempo la cinetica di diffusione subisce un forte rallentamento. Si segnala inoltre che, per confrontare i dati che si sarebbero ottenuti, si è scelto appositamente di effettuare le misure a diversi intervalli temporali per i due campioni (ad esempio il Sample I è stato inizialmente monitorato ogni 10 min, mentre il Sample II ogni 20 min). L esperimento è durato complessivamente 10 ore: dopo tale intervallo di tempo è stato possibile affermare con notevole sicurezza che ormai si erano raggiunte le condizioni di equilibrio, non notando sostanziali variazioni di peso dei campioni da almeno qualche ora. Durante la conduzione del test, si sono registrati dei problemi con il Sample II che, durante la sua 7 a misura, all atto della rimozione dal supporto metallico, si è stappato (non del tutto) a partire dal centro lungo il lato di dimensioni maggiori: nonostante le attenzioni volte in seguito a fermare al meglio il campione, per evitare di far toccare a questo pezzo le pareti del contenitore o di farlo piegare su se stesso, le misure sono state affette da sicuro errore, come mostrano anche le statistiche di regressione dei punti in seguito effettuate. I dati ottenuti ed il valore del coefficiente di diffusione sono conformi a quanto ci si aspettava da prove aventi lo stesso scopo ma condotte in differenti condizioni o con diverse modalità (solitamente monitorando grandezze indirette quali ad esempio le proprietà elettriche), trovate in lettura. La correlazione utilizzata per tale geometria, ricavata dalla letteratura dagli studi di Crank (1975), è (lo spessore del film polimerico è L = 2l): ( 5.11) adeguamene linearizzata nella forma: ( 5.12) Di seguito sono riportati i risultati e le correlazioni per il primo campione (Sample I) (Tabella 5.1, Fig 5.9a/b/c) per il secondo campione (Sample II) (Tabella 5.2, Fig. 5.10a/b/c). 83

84 Tabella 5.1: Risultati di ogni misura di peso per il Sample I e delle manipolazioni matematiche per il fitting seguente. M(t) è calcolato come differenza tra W_polymer(t) W_polymer(t=0) Fig. 5.9a: Andamento a saturazione del Sample I Fig. 5.9b: Fitting dei dati della regressione del Sample I 84

85 Fig. 5.9c: Fitting dei parametri e coefficiente di diffusione per il Sample I; a il coefficiente angolare della retta di regressione e b il suo termine noto, σ sono le deviazioni standard, DF i gradi di libertà, SS la somma dei quadrati, MS la media dei quadrati, F il rapporto e P un parametro che deve essere inferiore a 0.05 Tabella 5.2: Risultati di ogni misura di peso per il Sample II e delle manipolazioni matematiche per il fitting seguente. M(t) è calcolato come differenza tra W_polymer(t) W_polymer(t=0) Fig. 5.10a: Andamento a saturazione del Sample II 85

86 Fig. 5.10b: Fitting dei dati della regressione del Sample II Fig. 5.10c: Fitting dei parametri e coefficiente di diffusione per il Sample II; a il coefficiente angolare della retta di regressione e b il suo termine noto, σ sono le deviazioni standard, DF i gradi di libertà, SS la somma dei quadrati, MS la media dei quadrati, F il rapporto e P un parametro che deve essere inferiore a 0.05 É stato trovato, per il Sample I esample II rispettivamente: ed un valore medio: ( 5.13) 86

87 5.6. Realizzazione di un modello di diffusione mediante COMSOL Multiphysics Una volta ricavato il coefficiente di diffusione, tenendo conto della particolare applicazione del kapton e del suo essere inserito in un composito, è stato possibile modellizzare il meccanismo di trasporto all interno del foglio GEM. Per fare ciò, si è impiegato un programma apposito (COMSOL Multiphysics 4.3) che permettesse di risolvere per via numerica, nella fattispecie tramite un analisi agli elementi finiti, l equazione alle derivate parziali costituita dalla seconda legge di Fick. Nell analisi dei fenomeni di trasporto presenti nel sistema, si è considerata la sola diffusione di H2O a partire dalla superficie dei fori: infatti l acqua non può diffondere all interno del polimero a partire dalle facce superiori ed inferiori dove è presente il layer di Cu (che si comporta al riguardo come una barriera impermeabile). Si è inoltre trascurata la presenza di qualsiasi film intorno alla superficie del foro perché il gas è continuamente flussato all interno della camera e quindi attraversa con continuità i fori, permettendo di avere sempre una concentrazione costante e uniforme sulla superficie del foro: tale concentrazione rappresenta il massimo valore di acqua che è possibile ottenere all interno della struttura, ossia il valore di concentrazione in condizioni di completa saturazione (dopo un tempo teoricamente infinito). Inoltre, è stata presa in considerazione la situazione per cui all interno del polimero sia trascurabile il trasporto di vapore acqueo e che tutta l acqua che vi diffonde, e che proviene dall umidità esterna, condensi sulla superficie di scambio gas-solido (ossia sulla superficie interna dei fori presenti nel foglio). La relazione che permette di ricavare il valore di concentrazione presente sulla superficie di una poliimmide (kapton) in funzione dell umidità esterna è stata ricavata dalla letteratura, ed è: ( 5.14) essendo c1 espressa in grammi di acqua su grammi di polimero. La relazione impiegata è di tipo empirico ed è compatibile con i dati ufficiali rilasciati dall azienda costruttrice: nel caso infatti di RH = 100%, la massima quantità di acqua presente nel polimero è pari ad un 4.43%, perfettamente confrontabile con il 3% dichiarato dalla DuPont per il Kapton da essa prodotto, commettendo pertanto un errore minimo. La precedente relazione non è tuttavia applicabile per valori troppo piccoli di umidità relativa; considerando però che l ambiente in cui si troverà a lavorare il detector non prevede valori di RH superiori ad un 4%, è possibile applicare la precedente formula compiendo un errore del 10%. Il valore di umidità scelto è quello che si avrebbe nel caso in cui si avessero entrate di aria all interno del sistema gas pari al 10%, di certo non verificabili nella realtà sia per motivazioni economiche, sia per motivi di funzionamento del detector. Tuttavia, vale la pena ricordare velocemente che, all atto della costruzione del rivelatore, i fogli GEM sono esposti all aria in cui, certamente, il valore di umidità è molto maggiore di quello impiegato per nel modello qui presentato; pertanto anche la quantità di acqua presente al raggiungimento dell equilibrio sarà superiore a quella derivabile solo da possibili perdite del sistema di flussaggio di gas. Nello sviluppare il modello, è stata presa in considerazione l effettiva geometria del foglio GEM (dimensioni e forma dei fori, loro passo, tecnica di realizzazione a singola e doppia maschera), decidendo di studiarne solo il più piccolo elemento di volume elementare (Fig. 5.11a/b/c). 87

88 Fig. 5.11a: Geometria di un foglio GEM e particolare analizzato (in bianco e nero) Fig. 5.11b: Geometria elementare di una GEM realizzata con un processo a singola maschera Fig. 5.11c: Geometria elementare di una GEM realizzata con un processo a doppia maschera 88

89 Nelle precedenti figure sono state colorate in azzurro le superfici di scambio gas-solido, le uniche che permettono il passaggio della specie penetrante all interno della struttura; per tutte le altre facce è stata impostata la condizione di assenza di flusso: tale condizione, senz altro valida per le facciate superiori ed inferiori, dove si ha il layer di rame, è dovuta al fatto che tali superfici sono l elemento di separazione tra due geometrie elementari dove avvengono gli stessi fenomeni di trasporto, ma in direzione opposta (pertanto i flussi si annulleranno avendo verso contrario ma stesso valore). Il coefficiente di diffusione inserito è stato quello ricavato dalla prova di laboratorio messa in opera al CERN ( 5.13). I risultati ottenuti per le due geometrie sono perfettamente analoghi, essendo minima la differenza di geometria tra le due tecniche costruttive del foglio GEM. La simulazione ha evidenziato che è sufficiente un tempo di 12 ore per raggiungere praticamente la saturazione completa del campione (Fig. 5.12a/b/c/d), partendo da un valore nullo di acqua al suo interno. Fig. 5.12a: Profilo di concentrazione dopo s all interno della geometria considerata, con RH = 4% Fig. 5.12b: Andamento nel tempo della concentrazione per vari punti della geometria considerata, con RH = 4% 89

90 Fig. 5.12c: Andamento nel tempo della concentrazione per gli stessi punti considerati in Fig. 5.10b, con RH = 40% Fig. 5.12c: Andamento nel tempo della concentrazione per gli stessi punti considerati in Fig. 5.12b, con RH = 100% Come è possibile osservare dai grafici in Fig. 5.12b/c/d, il tempo richiesto per giungere alla saturazione, nel caso in cui si assicuri un valore costante di concentrazione all interfacies, è indipendente dal valore di RH presente nell ambiente esterno: infatti, essendo la diffusione all interno del polimero lineare (legge di Fick) e fissata la condizione al contorno sulla concentrazione, l intero problema in esame è anch esso lineare e quindi il tempo caratteristico dipende solo dalla geometria (dimensione e forma) e dal valore del coefficiente di diffusione. Per concludere, nel caso più catastrofico preso in analisi, la quantità di acqua presente nel foglio GEM sarà pari ad un 0.097% del suo peso, ossia mg: per un tale valore, le proprietà elettriche del Kapton (Fig. 5.13), così come quelle meccaniche, subiscono variazioni infinitesimali, che di certo non compromettono la stabilità ed il corretto funzionamento del sistema. Pertanto, la scelta della poliimmide come materiale isolante è più che giustificata. 90

91 La trattazione dell influenza delle proprietà elettriche e di quelle meccaniche in funzione all esposizione con l umidità sarà trattata separatamente (vedi rispettivamente paragrafi 4.6, 6.2 e 6.) Verifica sperimentale del modello di diffusione dell acqua all interno della GEM Una volta completato il modello di diffusione ed avere ottenuto le informazioni circa il tempo necessario per ottenere la saturazione del sistema, il logico passo successivo è consistito nel validare quanto ottenuto in via teorica, verificando pertanto che il modello costruito per descrivere le modalità di trasporto dell acqua all interno della poliimmide rispecchiasse la realtà dei fatti. Per conseguire questo obiettivo si è deciso di allestire un sistema di misura presso i laboratori INFN di Frascati, cercando inoltre di migliorare quanto già era stato fatto presso il CERN, specialmente per quel che riguarda le modalità di pesata e l introduzione di errori nella misura Preparazione dell esperimento presso i laboratori INFN Viste le problematiche emerse durante il test per la determinazione del coefficiente di diffusione messo in piedi presso i laboratori del CERN, in particolar modo il dover aprire e chiudere continuamente il vessel per poter effettuare le misure di peso, è stato deciso di allestire la prova per la validazione dei risultati ottenuti dal modello di diffusione presso il laboratorio ASTRA sito a Frascati (INFN, sezione di Frascati). Per la conduzione di questo test è stato semplificato il setup per le misure del peso, allestendo un sistema (Fig. 5.13a/b) che permettesse di ottenere delle pesate in continuo: per fare ciò è stata sfruttata una bilancia analitica che presentasse un gancio cui poter appendere il campione. In particolare, è stato predisposto un filo le cui estremità sono state collegate una al campione in analisi, l altra al piattino di misura della bilancia, sfruttando un apposita fessura presente nella parte inferiore della bilancia stessa. Successivamente le misure di peso sono state registrate mediante una telecamera posta davanti il display della bilancia analitica e collegata ad un computer (Fig. 5.13b); mediante un apposito programma di acquisizione di immagini si è provveduto, poi, a catturare e registrare tutte le immagini. 91

92 Fig. 5.13a: Componenti del sistema allestito presso i laboratori INFN Fig. 5.13b: Dettaglio delle modalità di acquisizione dei dati (in rosso) e della strumentazione per il monitoraggio delle condizioni ambientali regnanti all interno del recipiente di vetro (in verde) Il condizionamento dell ambiente cui esporre il foglio di GEM è stato ottenuto impiegando lo stesso tipo di vessel sfruttato per la prova allestita presso i laboratori del CERN; tuttavia, rispetto a quest ultima, non si è impiegato un sistema di aria, bensì una miscela di sali ed acqua, preventivamente inserita per condizionare uniformemente l ambiente chiuso. In particolare è sono stati usati 170 ml di acqua in cui è stato inserito del carbonato di potassio, lasciando saturare il sistema e permettendo la formazione di corpo di fondo. 92

93 All interno del contenitore in vetro sono state anche disposte delle sonde per la lettura della temperatura e dell umidità (Fig. 5.13b) e tali da fornire informazioni su questi parametri ogni minuto con acquisizione automatica. Come validato da precedenti misure effettuate prima della prova in questione, il condizionamento dell ambiente con la miscela di sali e la presenza di un condizionatore nella stanza dove il test è stato condotto, permettono di ottenere dei valori molto stabili dei parametri ambientali (Fig. 5.14), cosa assai gradita al fine di ridurre il più possibile gli errori sperimentali durante la misura. Fig. 5.14: Andamento di temperatura ed umidità relativa all interno del recipiente in vetro durante la conduzione del test acquisite in continuo mediante termoigrometro In ultimo, dopo aver condotto alcuni test per verificare la stabilità del sistema di misura così allestito, ci si è accorti che, a causa del peso esiguo del campione in analisi, unitamente alle piccole oscillazioni del filo fissato alla bilancia (che normalmente viene utilizzata con il campione sul piatto superiore e chiuso completamente) e presentante all altra estremità il foglio di GEM in analisi, non era possibile ottenere delle misure molto precise, almeno per quanto riguardava il decimo di milligrammo; essendo proprio questa la cifra significativa avente maggiore importanza per il tipo di misura che si voleva ottenere, si è deciso di posizionare un campione di peso noto (un bullone di piccole dimensioni) sul piatto superiore della bilancia, in modo da equilibrare maggiormente le oscillazioni dovute alla libertà del filo Svolgimento del test presso i laboratori INFN Per la conduzione dell esperimento è stato preparato un campione di foglio GEM, così come prodotto presso il CERN, dalle dimensioni 105 mm X 50 mm X ( ) µm, in precedenza condizionato in stufa a (105 ± 5) C per 36 ore. La bilancia impiegata (Fig. 5.15) è un modello Gibertini E42 S, per la quale precedenti misure dello stesso campione hanno evidenziato una deviazione standard σ = 4.1 mg. Come detto in precedenza, è stato predisposto un filo, ancorato alla parte inferiore del piatto per la misura del peso, presentante una pinzetta che permettesse l ancoraggio del campione da analizzare; sia il filo che la pinzetta in questione rientrano all interno dello zero dello strumento di misura. Non appena rimosso il campione dal suo ambiente di condizionamento è stata effettuata una sua pesata, in modo da ottenere il peso al tempo zero; per il foglio di GEM in analisi è stato registrato il valore di ( ± ) g, mentre il bullone posizionato sul piattino della bilancia aveva una peso di mg. 93

94 Fig.5.15: Bilancia analitica Gibertini E42 S Per questo test è stato adottato un range di RH = 37-38% e T = C, acquisendo le immagini dalla bilancia ogni 5 min. I risultati ottenuti (Tabella RD.1 in Appendice) evidenziano l effettivo andamento a saturazione (Fig. 5.16) per il foglio GEM in analisi: in poco più di 8 ore è possibile giungere alla saturazione del campione, confermando in tal modo quanto in precedenza ottenuto con la modellizzazione tramite COMSOL. Fig. 5.16: Andamento a saturazione per il foglio GEM analizzato In particolare, le misure effettuate hanno evidenziato la presenza di g di acqua a saturazione all interno del campione analizzato, risultato del tutto comparabile con quanto ottenibile sia dai dati rilasciati dalla casa produttrice, sia dalla relazione ( 5.14), per un valore di RH = 37.5%: essendo α = 0.30 il grado di vuoto dovuto alla presenza dei fori all interno del foglio di kapton, la densità del kapton, e i pesi del kapton e 94

95 dell acqua, ω = 0.03 la quantità di acqua presente nel polimero a saturazione (dato rilasciato dalla casa costruttrice) e il peso molecolare dell acqua Test per il desorbimento dell acqua Una volta esaminati l adsorbimento e la diffusione dell acqua all interno del foglio GEM, l ultimo aspetto che rimaneva da indagare riguardava le modalità con cui questo fluido viene desorbito dal sistema. L importanza di questo ultimo aspetto risiede sia negli effetti (già evidenziati) che l acqua manifesta sulle proprietà elettriche e meccaniche del foglio GEM, sia nelle possibili interazioni che si possono instaurare i gas inviati al rivelatore. Come noto (vedi paragrafo 2.4), all interno del detector viene flussata una miscela di Ar/CO2/CF4 e proprio la presenza di fluoro può compromettere seriamente l integrità del sistema quando, a seguito delle ripetute ionizzazioni, viene a trovarsi come ione o radicale (vedi paragrafo 7.8), entrambi molto reattivi e che facilmente tendono a formare acido fluoridrico con l acqua. Il primo studio che è stato compiuto, riguarda la determinazione della frazione di acqua residua all interno del kapton e del foglio GEM. Come mostrato in figura 4.7, i legami ad idrogeno tra acqua e kapton possono formarsi tra due dianidridi o tra una diammina ed una dianidride e, trattandosi di legami chimici di seconda specie, ci si aspetta che non sia possibile rimuovere completamente la quantità di acqua presente nel polimero solo inviando del gas secco all interno del rivelatore. Non potendo tuttavia procedere con un condizionamento delle GEM intere in stufa, assume particolare importanza il poter stabilire quale sia la quantità di acqua residua e rilasciata nel sistema in seguito al condizionamento, specie per il pericolo di formazione di HF, altamente corrosivo. Per questo motivo, impiegando lo stesso setup allestito per la verifica dell adsorbimento dell acqua condotto presso i laboratori dell INFN (vedi paragrafo5.7), si è cominciato col testare un campione di kapton (10.4X13.2 cm 2, spessore 50 µm) in precedenza condizionato in stufa per 36 h, per acquisirne il peso in totale presenza di acqua ( ± g); successivamente il campione è stato esposto per il medesimo arco di tempo ad un ambiente ad umidità controllata (RH = 40%) a 22 C. Durante il test il campione è stato esposto ad un ambiente secco e sono poi stati acquisiti i pesi fino al raggiungimento di un plateau stabile, esattamente come fatto in precedenza per le prove di adsorbimento. Per questo test è stato adottato un range di RH = 1-2% impiegando del silica gel, acquisendo le immagini dalla bilancia ogni 10 min, per un arco di tempo di 21 ore, e registrando i valori di umidità presenti all interno dell ambiente di esposizione (Fig. 5.17); i risultati ottenuti (Tabella RD.2 in Appendice) hanno evidenziato che sono necessarie circa 13 ore per raggiungere un plateau stabile per il campione testato (Fig. 5.18). 95

96 Fig. 5.17: Andamento dell umidità relativa all interno del recipiente in vetro durante la conduzione del test misurato con igrometro Fig. 5.18: Andamento a desaturazione per il foglio kapton analizzato Dai dati riportati emerge che non appena l umidità relativa comincia a diminuire in valore è possibile rimuovere la maggior parte dell acqua presente all interno della struttura; tuttavia, solo con una valore di umidità prossimo allo zero è possibile espellere la quantità residua del fluido in questione, per giungere al plateau. In queste condizioni è presente una quantità in peso di acqua pari all 80% rispetto alla stessa in condizioni di equilibrio, a testimonianza che non è possibile scindere i legami che si formano tra il polimero ed il fluido. Nel nostro caso questo si rivela essere positivo in quanto non viene facilmente rilasciata acqua che potrebbe interagire nel sistema formando composti indesiderati (ad esempio HF). In vista di nuove prove che saranno allestite, è necessario ridurre al minimo l influenza delle condizioni dell umidità presenti nel vessel, anche di pochi percentuali, per ridurre gli errori sperimentali sulle misure di peso. I risultati che saranno qui presentati sono solo preliminari, volendo essere il punto di partenza per un successivo studio che permetta di fornire, unitamente alla caratterizzazione meccanica dei materiali, una procedura standard per l assemblaggio ed il condizionamento del rivelatore, tali da permettere l esercizio del detector senza pericoli per il sistema. Sarebbe infatti auspicabile potersi trovare nelle condizioni in cui lo scambio di acqua tra il gas inviato al rivelatore ed i materiali che lo compongono, fosse il più ridotto possibile, in modo da limitare la formazione di acido fluoridrico ed un cambiamento, seppure ridotto, delle proprietà dei materiali. Successive prove saranno allestite per monitorare il desorbimento del foglio GEM impiegando come mezzo di essicamento sia la miscela di gas nelle stesse condizioni di esercizio del sistema e successivamente con gas secco e caldo. Con questo si vuole rispondere alla esigenza di portare il valore di umidità delle camere quanto più basso possibile, e soddisfare alla 96

97 richiesta, quindi, di fornire un sistema di condizionamento che permetta di asciugare le camere anche quando assemblate e complete o dopo cicli di lavoro. Bibliografia [17] Performance of the Gas Gain Monitoring system of the CMS RPC muon detector and effective working point fine tuning ; Colafranceshi S., Bianco S. et al.; IOPscience, JINST 7 P12004; 2012 [18] Gas flow simulations for gaseous detectors ; Bianco S, Saviano G. et al.; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ; 2010 [19] Sensitivity and environmental response of the CMS RPC Gas Monitoring system ; Piccolo D; Saviano G. et al.; Journal of Instrumentation, 4 (8); 2009 [20] Measurement of Moisture Absorption Ratio of FRP ; Yoshinobu Shimamura, Takashi Urabe, Akira Todoroki and Hideo Kobayashi; Key Engineering Materials (Volumes ) [21] The Mathematics of Diffusion ; John C., Oxford University Press; 1979 [22] Diffusion in Polymer Solids and Solutions ; Karmi M.; published in Mass Transfer in Chemical Engineering Processes, Markoš J., INTECH, Cap. 2; 2011 [23] Water in Polymers ; Deodhar S.; Luner P.; ACS Symposium Series 127, American Chemical Society: Washington, D.C., 1980; p 273. [24] Diffusion In and Through Polymers ; Vieth W.R.; Hanser, New York; [25] Diffusion in Polymers ; Neogi, P.; Marcel-Dekker: New York; [26] Standard Test Method for Water Absorption of Plastic ; ASTM Iternational, Designation: D [17] High-performance Polymers: Chemistry and Applications, Volume 3 ; Rabilloud G.; Editions Technip; 2000 [27] Water sorption behavior of polyimide thin films with various internal linkage in the dianidride component ; Jongchul S., Haksoo H.; Polymer Degradation and Stability, ELSIEVER, 77, pp ; 2002 [28] Effects of precursor origin on water sorption behaviors of various aromatic polymides in thin films, Han H., Chung H. Gryte C.C., Shin T.J., Ree M.; Polymers, ELSIEVIER, 40, pp ; 1999 [29] Water Permeation of Polymers Films. I. Polymide ; Sacher E., Susko; Material and Engineering Analysis, IBM Corporation System Division Endicott, New York;

98 [30] COMSOL Multiphysics ; Vers. 4.3, Copyright by COMSOL, Inc. (7) 98

99 Capitolo 6 Analisi delle proprietà e del comportamento meccanico di un foglio GEM 6.1. Introduzione In questo capitolo saranno affrontati gli aspetti meccanici che riguardano i materiali costituenti il foglio GEM, focalizzandosi sul loro comportamento a trazione. La stima dei principali parametri meccanici del composito (modulo di Young, coefficiente di Poisson, coefficiente di espansione termica, coefficiente di espansione igroscopica) è di vitale importanza per poter definire delle corrette procedure di assemblaggio del rivelatore. È noto che i fogli GEM sono sottoposti ad un tensionamento (vedi paragrafo 3.2 e 3.4) necessario a garantire rigidezza e parallelismo alla struttura per ottenere un corretto processo di moltiplicazione elettronica; uno degli aspetti più importanti da tenere sotto controllo nella geometria del detector è il profilo dei fori presenti nel foglio GEM, in quanto sono sufficienti piccolissime distorsioni o modifiche dello stesso per compromettere, anche seriamente, il funzionamento del rivelatore. Inoltre, è necessario che i fogli, una volta correttamente sottoposti a tensionamento, mantengano il più a lungo possibile la configurazione loro imposta. In questo caso, l influenza di agenti esterni, come ad esempio l adsorbimento dell acqua (vedi paragrafo 5.6) potrebbe non garantire una risposta meccanica adeguata nel tempo, come, ad esempio, un rilassamento del foglio le cui cause possono essere ascritte a diversi fattori tra i quali l umidità e la dose di radiazione. In prima approssimazione è possibile stimare le principali proprietà meccaniche dei fogli GEM partendo dalle proprietà dei singoli componenti e valutando anche gli effetti della perforazione; tali stime unitamente a prove sperimentali riguardanti i molteplici aspetti in gioco servono a chiarire, per quanto possibile, il quadro complesso delle sollecitazioni alle quali i fogli GEM sono sottoposti. Si vuole precisare che non tutti i possibili aspetti e prove di cui una corretta caratterizzazione meccanica necessita saranno affrontati in questo capitolo; una campagna di test è stata progettata e per questa si sta provvedendo alla realizzazione dei provini per i quali è necessaria la costruzione di appositi fogli GEM da tagliare successivamente nelle misure idonee per i provini. Questa operazione richiede necessariamente più tempo di quanto a disposizione per questo lavoro. Sono riportati di 99

100 seguito gli studi preliminari, i risultati ottenuti per mezzo di programmi di simulazione e i primi test sperimentali effettuati, il cui scopo è stato quello di meglio inquadrare il problema ed individuare procedure e range di operazione per le prove successive Analisi preliminari mediante programmi di simulazione Durante l assemblaggio del detector (vedi paragrafo 3.2), i fogli GEM sono tensionati in modo da ottenere le giuste caratteristiche di parallelismo; nel processo di stretching non è possibile procedere senza delle linee guida, pena il non corretto funzionamento del rivelatore; pertanto si rende necessaria la applicazione di una procedura standard che assicuri i requisiti meccanici indispensabili al corretto funzionamento. Per questo motivo sono stati compiuti studi per cercare di stabilire quale sia la massima tensione applicabile alla struttura, evidenziando le conseguenze che tali sforzi apportano sui strati di cui il foglio GEM è composto. Simulazioni, eseguite con programmi ad elementi finiti, hanno evidenziato che i fori per la moltiplicazione elettronica, aventi una simmetria esagonale (Fig. 6.1), permettono comunque di considerare il foglio GEM come un materiale isotropo, anche se a livello locale si manifesta una certa anisotropia. Fig. 6.1: Il grafico della tensione equivalente (Huber-Hencky-von Mises) del deposito di rame relativa ad una trazione biassiale rivela la complessiva simmetria esagonale. Precisamente, al livello microscopico le GEM sono altamente anisotrope poiché al livello della trama gli stress e le deformazioni locali dipendono fortemente dalla direzione lungo la quale è applicato il carico esterno; pertanto, lo stesso carico applicato lungo due direzioni ortogonali porta alla formazione di differenti stress locali e campi di trazione. I fattori di concentrazione degli sforzi, sono facilmente calcolabili per le due direzioni principali ortogonali della trama. A scopo esemplificativo se considera un solo foro (Fig. 6.2) si ottengono degli SCF (Stress Concentration Factor) pari a 3 (trazione) e -1 (compressione). 100

101 Fig. 6.2: Distribuzione degli stress per una geometria circolare Viceversa la trama esagonale unitamente ad una solidità non piccola rendono gli SCF ancora più elevati: ( 6.1) Infatti per il foglio GEM si ha una solidità d/p (con d = diametro dei fori = 70 µm e p = passo = 140 µm) pari a ½, valore che non permette di applicare il principio di Saint- Venant (valido solo quando d/p << 1, ossia quando si hanno fori tra loro molto lontani), secondo il quale i fattori di concentrazione degli sforzi risultano essere indipendenti dalla trama del piano, consentendo di definire localmente un comportamento di isotropia. Dunque, riassumendo, per il foglio GEM si deve tenere conto della mutua influenza che i fori esercitano tra di loro durante l applicazione di una sollecitazione meccanica. I valori in precedenza ottenuti per i fattori di concentrazione degli sforzi sono sottostimati; impiegando un metodo di risoluzione a base polinomiale, invece, è possibile ottenere i seguenti valori del fattore di concentrazione degli sforzi: ( 6.2) dove alcuni di essi risultano essere in accordo con quanto ottenibile da differenti studi teorici compiuti su modelli e sistemi simili. A causa della simmetria esagonale i fattori di concentrazione degli sforzi per carichi uniassiali sono gli stessi ogni 60 (Kx e Ky), mentre si hanno ripetizione di Kxy ogni 30. È opportuno sottolineare che il calcolo dei fattori di concentrazione degli sforzi lungo le direzioni di giacenza dei fori risultano essere di difficile determinazione, anche impiegando una mesh di analisi molto semplice: l unica soluzione risiede nel compiere molte analisi in una grande porzione del foglio per averne una misura adeguata. 101

102 Nel caso di un tensionamento uniassiale del foglio GEM, la distribuzione degli sforzi porta ad ottenere delle tensioni =+3 a 90 e 270 e a 0 e 180 sia per lo strato di kapton che per i due rivestimenti di rame: tale compressione (pari al valore del tensionamento applicato) può produrre instabilità a livello locale. Pertanto la applicazione di una tensione simultanea nelle due direzioni ortogonali evita tale stato di compressione oltre a consentire una notevole riduzione dello stato tensionale equivalente che si riduce a = +2 per il semplice principio di sovrapposizione degli effetti. Per la trama esagonale le cose sono più complesse data la mutua influenza tra i fori adiacenti; ad esempio, supponendo di effettuare il tensionamento dello strato di kapton con una tensione σ = 86.5 MPa, essendo la tensione di snervamento per uno strato di rame di spessore 5 µm ed impiegando i fattori di concentrazione degli sforzi ( 6.2), è possibile ricavare per un tensionamento uniassiale: ( 6.3) che risultano essere ben al di sopra dello snervamento tensionamento biassiale si ha:. Al contrario, per un ( 6.4) entrambi inferiori allo snervamento. Il modo migliore per effettuare lo studio delle proprietà meccaniche dell intero foglio GEM, in virtù della sua geometria e composizione (ossia al fatto che ci trova di fronte ad un materiale composito), è quello di definirne le caratteristiche in termini di materiale equivalente. In altre parole, ciò che si prefigge è definire le proprietà di una struttura che non presenti la trama di fori al suo interno in modo da poter poi trasferire con successo le proprietà ed i valori trovati al sistema reale in studio. Per il singolo strato, di kapton o di rame, è possibile ottenere i seguenti valori: ( 6.6) avendo indicato con il pedice perf perforated i valori relativi alla struttura presentante i fori. Il passaggio alla situazione finale presente nell intero foglio GEM è abbastanza agevole: è sufficiente, in regime elastico, applicare la regola delle miscele, ipotesi che prevede di effettuare una media pesata di quelle che sono le proprietà meccaniche dei singoli strati di rame e kapton: ( 6.7) ( 6.8) ( 6.9) 102

103 dove α è la frazione in volume ossia, in cui e sono gli spessori in gioco. I risultati a cui si perviene, nel piano di stress, sono: ( 6.10) (6.11) dove, applicando la ( 6.6), risulta un modulo di Young equivalente pari a: ( 6.12) Infine, applicando la ( 6.5), il risultato che si ottiene è: ( 6.13) È quindi anche possibile determinare la tensione biassiale corrispondente al primo snervamento locale del deposito di rame: ( 6.14) Considerando un fattore di sicurezza di circa 0.8 si ottiene dalla precedente che ripartita tra i tre strati fornisce lo stato tensionale sia del kapton che del rame: ( 6.15) I valori ( 6.15) dovrebbero essere, quindi, assunti come il limite imponibile durante il tensionamento dei fogli, da condursi in modalità biassiale, per non avere una variazione della geometria dei fori e loro deformazioni permanenti Effetto dell umidità Per concludere questa parte preliminare sulle proprietà meccaniche, è stato indagato anche l effetto dovuto alla diffusione dell acqua, proveniente dall umidità ambientale, all interno del foglio GEM (vedi paragrafi 5.6 e 5.7): in particolare, si prenderà in esame l espansione volumetrica che si registra per effetto dell umidità. Il coefficiente di espansione igroscopica (Coefficient of Hygroscopic Expansion, CHE) per un foglio GEM è facilmente calcolabile facendo la ragionevole assunzione che l espansione della struttura sia dovuta solamente allo strato di materiale polimerico. Un analisi preliminare del problema permette di affermare che l espansione del kapton è fortemente limitata dallo strato di rame presente nella parte superiore ed inferiore del foglio e, pertanto, gli stress che si andranno a registrare sono di compressione per lo strato polimerico e di trazione per il layer metallico. Scendendo in dettaglio, il coefficiente di espansione igroscopica del kapton impiegato per la produzione dei fogli GEM è: ( 6.16) 103

104 mentre l elongazione che si registra per la parte dello strato di kapton libera di espandersi quando esposta ad un aumento di umidità (Δ%RH > 0) è calcolabile come: ( 6.17) Questa espansione dipende ovviamente dalle condizioni iniziali di umidità relativa; è possibile affermare che le variazioni di RH portino agli stessi effetti che si potrebbero registrare a seguito di variazioni della temperatura: pertanto, un aumento di entrambi i fattori, rispetto alle condizioni iniziali, ha come conseguenza un espansione della struttura, mentre una loro diminuzione è responsabile di una compressione. A causa del rivestimento di rame presente, all interno di un foglio GEM non è possibile avere la libera espansione o contrazione del layer polimerico; si registreranno comportamenti differenti tra i due strati ed in particolare lo strato di kapton sarà sottoposto a stress biassiali di compressione, mentre il rame a stress di trazione: ( 6.18) essendo ε < εfree la dilatazione globale che interessa il foglio GEM sottoposto ad un cambiamento del valore di RH, identica per entrambi i materiali che costituiscono il rilevatore. Poiché nessun carico esterno è applicato alla struttura ( ), unendo le espressioni ( 6.8) e ( 6.18) è possibile ottenere: ( 6.19) risultato valido sia nel caso in cui si consideri la presenza dei fori all interno della struttura, sia nel caso in cui si faccia l assunzione che essi siano assenti (si ricordi che il fattore di 0.53 interessa entrambi i materiali presenti nel sistema). Da quanto appena analizzato, emerge pertanto che, sotto le stesse condizioni di variazione di umidità relativa Δ%RH, la dilatazione igroscopica che interessa il foglio GEM è volte la dilatazione che sia avrebbe nel singolo strato di polimero. Ad esempio, per lo stesso valore di umidità relativa (Δ%RH = 4%) impiegato nel modello di diffusione (vedi paragrafo 5.6), ipotizzando di avere un foglio GEM di lunghezza 1 m e ricordando che il modulo di Young per entrambi i materiali è più piccolo di un fattore 0.53 (a causa della presenza dei fori) si ottiene: ( 6.20) 104

105 Il risultato appena ottenuto mostra chiaramente quanto l espansione igroscopica sia del tutto trascurabile se confrontata con l equivalente stress uniforme che interessa un foglio GEM ( 6.14) e che porta ad un elongazione in direzione biassiale di circa 1 mm per metro di lunghezza. Per una variazione di RH pari al 4%, dividendo tra loro i risultati ( 6.20) e ( 6.15), si ha che la variazione di stress che interessa lo strato di kapton è pari al 3.1%, di per sé quasi irrilevante, è ben bilanciata dalla piccola variazione di stress che interessa invece il rame (0.5%), con il risultato finale che la variazione in elongazione risultante è veramente piccolissima. È opportuno, però, sottolineare il fatto che le conclusioni ora ottenute sono valide solamente se non è presente il rivestimento di rame nella zona dove il kapton è libero di espandersi Test di trazione uniassiale Nell impossibilità per il momento di procedere ad un tensionamento biassiale durante la costruzione del rivelatore, si è pensato che avere delle informazioni circa il massimo sforzo uniassiale sopportabile dal sistema costituisse un importante dato di cui disporre. Ad esempio è noto che, in generale, per un polimero, le variazioni delle proprietà meccaniche dovute all assorbimento di umidità sono evidenziabili da semplici prove di rottura a trazione; in questo caso specifico è doveroso sottolineare che il meccanismo di rottura è fortemente condizionato sia dalle imperfezioni del deposito di rame sia dalla presenza dei fori; malgrado ciò le prove compiute presso la facoltà di Ingegneria dell università La Sapienza di Roma seguendo la normativa ASTM D882-02, hanno rivelato una trascurabile dipendenza delle principali proprietà meccaniche del foglio GEM dalla umidità; tale indipendenza è sostanzialmente dovuta al ruolo dominante dei due strati di rame nel composito. Per ognuna delle prove sono stati testati quattro campioni (10 mm X 100 mm X 50 µm per il kapton, 10 mm X 110 mm X 60 ( ) µm per il foglio GEM), ; inoltre tutti i campioni, anche quelli relativi al foglio GEM, sono stati vincolati allo strumento nella parte presentante solo il kapton. Il primo confronto che si vuole prendere in considerazione riguarda i campioni di solo kapton e il foglio GEM (Fig. 6.3), entrambi condizionati per 36 ore in stufa a 100 C: come atteso, il rivestimento di rame aumenta il modulo di Young rispetto al solo polimero. Tuttavia la presenza dei fori all interno del materiale compromette del tutto la resistenza dello stesso, diminuendo di quasi il 40% il valore dello stress a rottura e del 17% il valore di deformazione (percentuale). Il motivo di questo risiede nel fatto che ogni foro presente nella struttura si comporta come un difetto per la stessa, amplificando i valori di stress applicati localmente e permettendo il propagarsi della frattura in direzione casuale; conseguentemente la duttilità del foglio GEM rispetto al solo kapton risulta largamente diminuita. 105

106 Fig. 6.3: Confronto dei risultati del test di trazione uniassiale per campioni di kapton e foglio GEM Successivamente si sono voluti confrontare gli stessi campioni dopo un precedente condizionamento in ambiente umido (7 giorni al 99.5% di umidità), per verificare come un tale adsorbimento modifichi le caratteristiche (Fig. 6.4); similmente ai campioni non condizionati, è stata registrata una diminuzione del 36.5% del massimo carico a rottura e del 21% dell elongazione Fig. 6.4: Confronto dei risultati del test di trazione uniassiale per campioni di kapton e foglio GEM, entrambi esposti a condizionamento in ambiente umido Il confronto delle risposte per campioni secchi e condizionati mostra che l effetto dell umidità è decisamente più evidente sui singoli fogli di kapton (Fig. 6.5) anziché sui fogli GEM (Fig. 6.5); in particolare per il kapton si ha un sensibile aumento della tensione pari al 9% e questo è in contrasto con quanto usualmente dichiarato dalle principali case produttrici di kapton; anche se tale discrepanza dovrebbe meritare più approfondite analisi, l aspetto saliente di tali prove è invece manifestamente espresso dalle risposte ottenute per i campioni di foglio GEM, per il quale l aumento di tale tensione è appena del 1% e le curve tensione-deformazione rimangono molto vicine in un campo abbastanza vasto oltre il limite elastico. 106

107 Questo risultato conferma quanto detto in precedenza circa l influenza dell acqua sulle proprietà meccaniche: la presenza di questo fluido all interno del materiale comporta trascurabili variazioni nelle principali proprietà meccaniche del foglio GEM, che si mantengono sostanzialmente costanti anche per campioni fortemente saturati ad elevati livelli di umidità relativa. Esistono tuttavia fondamentali remore, anch esse suscettibili di più approfonditi studi come di seguito accennato, riguardanti gli effetti della stessa umidità sullo scorrimento viscoso del composito. Fig. 6.5: Confronto dei risultati del test di trazione uniassiale per campioni di kapton anidri e condizionati in ambiente umido Fig. 6.6: Confronto dei risultati del test di trazione uniassiale per campioni di foglio GEM anidri e condizionati in ambiente umido È inoltre da approfondire l aumento della deformazione relativa (33%) che si registra per il campione di foglio GEM esposto ad alti valori di umidità (Fig. 6.6); questo aumento può essere dovuto sia al kapton (che sembra essere considerevolmente influenzato dalla stessa umidità) sia dagli altri fattori citati precedentemente che influenzano il meccanismo di rottura. 107

108 Infine, sono stati confrontati tra loro anche i valori ottenuti per provini di kapton non condizionati in ambiente umido e ricavati secondo la direzione longitudinale e trasversale al piano di trazione (Fig. 6.7): per questi sono state notate minime differenze nei valori di rottura e di deformazione (inferiori entrambi al 10%). La necessità di questo confronto risiede nell importanza di stabilire l orientazione migliore dello strato di poliimmide per la realizzazione dei fogli della camera, che risulterebbe più vantaggiosa se effettuata secondo la direzione trasversale, piuttosto che in quella longitudinale, come è oggi prassi. Fig. 6.7: Confronto dei risultati del test di trazione uniassiale per campioni di kapton ricavati secondo le direzioni longitudinali e trasversali Per la caratterizzazione dal punto di vista meccanico dei foglio GEM si prevede nel futuro di allestire ulteriori prove il cui fine è quello di definire le modalità di creep sia per il kapton che per il foglio GEM, per entrambi sia in ambiente umido che secco, monitorati per almeno una settimana; inoltre è interesse anche focalizzarsi sullo studio delle modifiche che la geometria dei fori potrà subire. Questo ultimo obiettivo si articolerà in due step: prima verranno analizzati in microscopia a scansione elettronica (SEM) dei campioni di foglio GEM, in precedenza inglobati, che sono stati mantenuti ad un certo valore medio di stress all interno di un determinato range di pressione (Fig. 6.8) ottenuto dalla prove di cui abbiamo appena discusso, e successivamente si provvederà a ripetere la prova di trazione uniassiale monitorando in continuo la deformazione dei fori (fino alla rottura del provino) con l ausilio della microscopia. 108

109 Fig. 6.8: Zona di interesse per le future prove meccaniche dei fogli GEM cui seguiranno analisi al SEM Bibliografia [31] CMS Trapezoidal GEM Foil Structural Analysis ; Raffone G.; LNF/INFN- 10/20(IR); 2010 [32] CHE and Related Stresses in GEM Foils ; Raffone G.; Brief Note, LNF/INFN; 2013 [33] The yield strength on thin copper films on kapton ; Yu D.Y.W., Spaepen F.; Journal of Applied Physics, Vol. 95, No. 6, pp ; 2004 [34] Standard Test Method for Tensile properties of Thin Plastic Sheeting ; ASTM Iternational, Designation: D [16] Kapton HN Technical Info; DuPont 109

110 Capitolo 7 Interazioni tra polimeri e radiazioni 7.1. Introduzione Inevitabilmente durante il loro periodo di esercizio, i materiali costituenti il detector GEM entrano in contatto con particelle ad alto contenuto energetico e con sostanze ionizzanti; non deve infatti stupire la presenza di un ambiente altamente radiogeno all interno dei vari esperimenti che ruotano intorno all LHC, essendo questi progettati per monitorare e studiare il comportamento di particelle fisiche ad alta energia. Scendendo nel dettaglio, la posizione che sarà occupata dalle GEMs è, all interno di CMS, una delle più esposte alle condizioni radioattive, e quindi più critica. Le radiazioni possono infatti cambiare sostanzialmente non solo le proprietà dei materiali con i quali interagiscono, con inevitabili conseguenze sulla loro tenuta e sul loro corretto impiego, ma possono affliggere e ridurre importanti parametri dei rilevatori, come ad esempio il loro guadagno, con ovvie conseguenze. Le radiazioni, ed in particolare l ambiente plasmatico che si va man mano creando all interno del detector, a seguito della ionizzazione del gas e della separazione delle cariche, sono inoltre responsabili di vere e proprie reazioni che possono coinvolgere i materiali presenti. Scopo di questo capitolo è appunto quello di mettere in risalto i principali aspetti che caratterizzano le interazioni tra materiali e radiazioni, soffermandoci in particolar modo sui polimeri: come si vedrà, queste sostanze possono, a seguito della presenza delle radiazioni e di un ambiente plasmatico, subire dei veri e propri processi di modifica della propria struttura chimica, con formazione di legami interni da un lato, con la rottura di quelli presenti dall altro. Inoltre, la presenza congiunta di particelle ionizzanti ed ambiente plasmatico può portare all innesco di reazioni di polimerizzazione delle sostanze presenti, tramite la formazione di precursori radicalici e/o ionici molto reattivi Le particelle ionizzanti Le radiazioni ionizzanti possono essere definite come quelle radiazioni che possiedono sufficiente energia per convertire almeno una specie elettricamente neutra in una coppia di ioni, ossia che danno luogo ad una specie positiva ed una negativa. Ciò che molto spesso accade è che il quantitativo di energia trasmessa dalla particella ionizzante 110

111 all atomo della specie assorbente comporta un estrazione degli elettroni dai propri orbitali. L energia associata alla radiazione è, a volte, talmente elevata e localizzata che è possibile provocare anche la rottura dei legami chimici che caratterizzano la specie e, dopo un periodo molto breve, favorire il successivo riarrangiamento della struttura. Un secondo meccanismo associato alla radiazione incidente è l eccitazione della specie chimica: gli atomi e le molecole che sono bersaglio delle particelle ionizzanti assorbono energia sufficiente ad aumentare il proprio contenuto energetico, senza tuttavia arrivare alla liberazione di un elettrone o alla formazione di una coppia di ioni. Convenzionalmente è impiegato il termine ionizzante per indicare una generica radiazione responsabile della ionizzazione o dell eccitazione di una specie assorbente. È possibile definire con EI l energia media richiesta per ionizzare un atomo della specie assorbente; molte volte un tale contenuto energetico è anche chiamato potenziale di eccitazione/ionizzazione. Una formula per esprimere il valore di EI, in funzione della valenza della specie è: ( 7.1) L energia media spesa nella produzione di una singola coppia di ioni W include anche l energia impiegata nelle interazioni di eccitazione e dipende sia dal materiale adsorbente che dal tipo di sorgente della radiazione ionizzante. Il rapporto EI/W è circa 0.4 per molti gas organici, valore che permette di asserire che l energia W è più o meno ugualmente ripartita nei meccanismi di ionizzazione che in quelli di eccitazione. Il valore dell energia W nei liquidi e nei solidi è solitamente di non facile determinazione, poiché le cariche di segno opposto sono molto difficili da rilevare su superfici apposite (per fare ciò bisognerebbe separare le cariche di segno opposto e farle migrare verso delle superfici di rivelazione, come ad esempio degli elettrodi); per questo motivo risulta molto più semplice eseguire la misura di W per le fasi gassose. Ancora, nei solidi conduttori, gli elettroni rilasciati a seguito della ionizzazione costituiscono una piccolissima frazione della carica totale presente nel campo elettrico, mentre nei polimeri impiegati come isolanti diviene particolarmente difficile poter rilevare e raccogliere gli ioni che si vanno formando. Inoltre, una frazione dell energia della radiazione incidente può essere impiegata per la creazione di fononi nei materiali solidi. Le radiazioni ionizzanti, solitamente, possono essere distinte in due grandi classi: la prima raccoglie al suo interno particelle cariche come elettroni, fotoni, particelle α e ioni pesanti, mentre la seconda è composta di particelle che non sono elettricamente cariche. Le particelle appartenenti alla prima classe sono responsabili del fenomeno della ionizzazione diretta: esse possiedono un quantitativo di energia sufficiente a dar luogo a ionizzazione durante le collisioni con una specie bersaglio, grazie all instaurarsi di interazioni di Coulomb tra gli elettroni del materiale adsorbente. Le radiazioni della seconda classe sono invece responsabili della cosiddetta ionizzazione indiretta: i raggi X o γ sono responsabili del rilascio degli elettroni secondari mentre i neutroni incidenti rilasciano cariche secondarie che sono raccolte dai nuclei, provocando complessivamente la ionizzazione e l eccitazione nel materiale assorbente. La principale differenza tra la ionizzazione primaria e quella secondaria risiede nel fatto che mentre la prima prevede un numero non elevato di collisioni, ognuna delle quali porta ad una grande perdita di energia, la seconda è costituita da un grande numero di interazioni, ma di poca energia. 111

112 7.3. Interazioni tra elettroni e materiale Potere di arresto di massa Quando un elettrone con sufficiente energia penetra all interno di un materiale, esso perde energia a seguito di due meccanismi: perdite per collisione, dove l energia è trasferita agli elettroni della specie adsorbente a seguito degli urti che si verificano, e perdite per radiazione, dove avviene la conversione dell energia cinetica degli elettroni in fotoni di radiazioni X. Il primo meccanismo riguarda le collisioni anelastiche tra l elettrone incidente e la specie bersaglio. Quando un elettrone dotato di grande energia attraversa un materiale, è possibile che questa particella eserciti delle grandi forze Coulombiane nei confronti delle specie atomiche del materiale, conferendo a queste energia; tale contenuto di energia potrebbe essere poi sufficiente a permettere agli elettroni della specie bersaglio di lasciare il loro atomo di origine, secondo quello che è il fenomeno della ionizzazione, il cui tempo caratteristico è di circa s. In maniera alternativa si potrebbe verificare soltanto l eccitazione degli elettroni della specie assorbente; l energia scambiata durante l interazione sarebbe responsabile soltanto di una traslazione degli elettroni ad un orbitale a più alto contenuto energetico, senza che si verifichi l estrazione di particelle. Il meccanismo appena descritto rappresenta la principale forma di perdita e trasferimento di energia. Scendendo nel dettaglio, se un elettrone, di energia cinetica T, velocità v e massa m0, copre una distanza dx all interno di un mezzo adsorbente (dotato di numero atomico Z, densità ρ e peso molecolare PM), la quantità di energia che andrà persa a seguito delle collisioni anaelastiche sarà pari ad un dt. L equazione di Bethe-Bloch permette di descrivere il potere di arresto in maniera lineare come: ( 7.2) dove k è una costante e B è chiamato numero di arresto atomico. Si è notato che B è approssimativamente costante quando T = 400 KeV, così che, in questo range, il potere di arresto lineare risulta essere inversamente proporzionale al quadrato della velocità; ci si aspetta, pertanto, che a minori velocità dell elettrone incidente sia abbia un maggior tempo di stazionamento di questo nei pressi dell atomo della specie assorbente, con conseguente maggiore probabilità di produrre eccitazione o ionizzazione. Le unità di misure del potere di arresto è solitamente il MeV/cm. Un parametro molto utilizzato, e che permette di esprimere la quantità di energia persa da un elettrone per unità di superficie della specie adsorbente, è il potere di arresto di massa della specie adsorbente; esso è definito come: ( 7.3) e le sue unità di misura sono MeV m 2 /kg. Sc dipende, in prima battuta, dall energia cinetica dell elettrone e mostra piccole variazioni in funzione della composizione della specie polimerica bersaglio: ciò perché gli elementi presenti in tale specie presentano un rapporto che è più o meno costante e pari a

113 Profilo di ionizzazione Nell interazione con un elettrone appartenente ad un atomo di una specie adsorbente, l elettrone incidente può perdere una grande quantità di energia: ciò perché le due masse in gioco sono identiche. È possibile determinare il percorso compiuto dall elettrone incidente all interno del materiale assorbente ricostruendo quello che è solitamente definito come schema di ionizzazione e che prevede di individuare i cambi di traiettoria e le perdite di energia che si sono verificate a seguito degli urti anelastici. Grazie allo schema di ionizzazione è possibile inoltre affermare che, generalmente, è possibile la formazione di coppie di ioni nelle vicinanze del punto in cui avviene l adsorbimento dell elettrone. La distinzione tra l elettrone primario incidente e quello espulso dopo la collisione con il materiale assorbente non è così agevole; convenzionalmente si è soliti definire come primario l elettrone che, durante la collisione, presenta il maggior quantitativo di energia. Per questo motivo, a lungo si è considerato come elettrone primario la particella carica incidente, caratterizzata da un elevata velocità e dotata di energia di pochi MeV, o, in alternativa, l elettrone prodotto a seguito dell interazione tra un fotone incidente ed il materiale bersaglio (in questo caso la sua energia è superiore al centinaio di kev). Viceversa, gli elettroni secondari sono definiti come i prodotti delle due possibili interazioni sopra citate e si è notato che la loro energia varia poco con l energia dell elettrone primario. Complessivamente, circa metà dell energia di tutti gli elettroni secondari ha un valore intorno ai 5eV, suggerendo che non è possibile classe di elettroni sottrarsi all attrazione esercitata dai rispettivi nuclei (positivi); di fatto questi elettroni non sono responsabili di successive interazioni. La restante parte, invece, ha un valore energetico di poche centinaia di ev, sufficiente a permettere l eccitazione fino ad un massimo di tre molecole poste nelle loro vicinanze. Un parametro che permette di descrivere il profilo di ionizzazione è la ionizzazione specifica, anche detta densità di ionizzazione I; questa non è altro che la media del numero di coppie prodotte dalla radiazione ionizzante nell unità di lunghezza da essa coperta. Definendo come W l energia media richiesta per la formazione di una coppia di ioni, si ha: ( 7.4) Il range di incidenza dell elettrone incidente nel mezzo adsorbente è definito come la distanza che questo copre prima che la sua energia scenda al di sotto del livello di eccitazione; formalmente tale range è definito come: ( 7.5) Il calcolo di questa grandezza non è affatto agevole; tuttavia ci sono varie espressioni empiriche che permettono di collegare il range di incidenza con l energia cinetica T; tra queste si cita ad esempio. 113

114 7.4. Interazioni tra fotoni e materiale Interazione e coefficienti di attenuazione Al contrario delle particelle cariche, che dissipano la loro energia in modo contino attraverso una sequenza di molti eventi che portano alla ionizzazione e all eccitazione della specie atomica, i fotoni subiscono fenomeni di assorbimento o diffusione secondo eventi singoli. È naturale pertanto definire una probabilità di interazione puntuale, secondo la legge di assorbimento: ( 7.6) dove I è l intensità del fascio di radiazione di energia E, x lo spessore di penetrazione e μ(e) il coefficiente di attenuazione lineare, ossia la probabilità per unità di lunghezza che la radiazione incidente interagisca con il materiale. Questa probabilità dipende dal numero atomico Z e dalla densità ρ del mezzo adsorbente più che dall energia del fotone E. Se ogni atomo nel materiale presenta un effettiva sezione d urto σ al fascio di fotoni e sono presenti N atomi per unità di volume, la misura della probabilità di interazione del fotone per unità di spessore del mezzo assorbente è: ( 7.7) dove PM è il peso atomico del mezzo e NA il numero di Avogadro. In generale μ aumenta con Z e ρ e decresce con l energia del fotone E. Essendo quello appena descritto un modello probabilistico, è naturale definire il libero cammino medio della radiazione all interno del materiale, detto anche lunghezza di attenuazione e definita come: ( 7.8) In altre parole, tale grandezza rappresenta lo spessore di materiale necessario affinché l intensità della radiazione sia ridotta di un fattore 1/e rispetto a quella incidente. Dipendendo direttamente dalla densità del mezzo, il coefficiente μ assume valore diversi a seconda dello stato fisico e/o del tipo di specie che si sta considerando; inoltre, materiali adsorbenti con lo stesso numero atomico ma differente densità, mostreranno ovviamente un differente μ. Per i motivi appena citati, molto spesso ci si riferisce al coefficiente di attenuazione in termini di unità di massa: esso non è che il rapporto μ/rho. E le sue unità di misura sono pertanto m 2 kg -1. Nel caso di una miscela di differenti atomi, è possibile calcolare il coefficiente di attenuazione a partire dai costituenti della miscela in questione, ossia: ( 7.9) dove sono i coefficienti di attenuazione per unità di massa delle singole specie e la frazione ponderale. Le principali interazioni che interessano le radiazioni e la materia sono l effetto fotoelettrico, la diffusione Compton e la produzione di coppie elettroniche: questi tre 114

115 processi svolgono un ruolo fondamentale nel trasferimento di energia agli elettroni del mezzo attraversato. Il coefficiente μ è la somma dei coefficienti di attenuazione linearie corrispondenti ai fenomeni Compton, fotoelettrico e di produzione di coppie: ( 7.10) L effetto fotoelettrico prevale a basse energie, mentre l effetto Compton è predominante nella regione centrale; a più alte energie è invece dominante la produzione di coppie elettroniche. Si fa notare inoltre che la larghezza della zona centrale diminuisce all aumentare del numero atomico (Fig. 7.1). Fig.7.1: Coefficiente di attenuazione lineare in funzione dell energia Un altro effetto presente nell interazione con la materia è l effetto Rayleight: si tratta di un interazione elastica in cui il fotone è semplicemente deviato di un piccolo angolo, senza perdere energia. Sono anche possibili altre reazioni, dette fotonucleari, in cui un fotone con energia di qualche MeV entra all interno di un nucleo e lo eccita; come risultato di questa interazione il nucleo emette un protone o un neutrone Adsorbimento fotoelettrico In questa interazione il fotone incidente è assorbito da un atomo e conseguentemente viene espulso un elettrone, detto fotoelettrone, da uno degli orbitali atomici (Fig. 7.2). 115

116 Fig. 7.2: schema qualitativo rappresentante l effetto fotoelettrico Indicando con EL l energia di legame di tale elettrone (ossia l energia necessaria per la rimozione dell elettrone dal suo nucleo di appartenenza), con E l energia del fotone e trascurando l energia cinetica acquisita dall atomo, l energia cinetica Te caratteristica del fotoelettrone emesso è: ( 7.11) L assorbimento fotoelettrico è energeticamente possibile quando E > EB e la probabilità è massima quando E = EB. La direzione che viene seguita dall elettrone, quando esso viene rigettato fuori dal suo atomo, dipende dall energia del fotone incidente: a basse energie la direzione risulta generalmente perpendicolare alla direzione del fotone incedente, mentre a più alti valori energetici l elettrone tende a proseguire in linea retta rispetto alla direzione del fotone. La vacanza creatasi in uno degli orbitali atomici in seguito all emissione del fotoelettrone viene occupata da uno degli elettroni più esterni, in modo da compensare l instabilità dell atomo non più neutro e quindi instabile. Questo processo può essere accompagnato dall emissione di una radiazione di fluorescenza, caratteristica della specie che si sta considerando, o dall emissione di un elettrone Auger; la differenza delle energie di legame dei due orbitali si manifesta cioè sotto forma di una radiazione caratteristica oppure viene trasferita ad un elettrone legato che acquista così l energia sufficiente per essere espulso dall atomo. Si è notato che all aumentare di numero atomico Z è sempre più sfavorita l emissione di elettroni Auger. L interazione fotoelettrica dipende dal numero atomico dell atomo che si sta considerando e dall energia del fotone; essa risulta essere proporzionale al rapporto Z 4 /E Scattering ed effetto Compton La diffusione Compton è anche definita come diffusione incoerente, riferendosi al fatto che il fotone interagisce con il singolo elettrone del materiale e non con l intero atomo; il fotone, oltre ad essere deviato dalla sua direzione iniziale, cede parte della sua energia all elettrone, detto anche elettrone Compton, che acquista un energia cinetica T pari alla differenza tra l energia dell elettrone incidente e quello diffuso (Fig. 7.3). 116

117 Fig. 6.3: Cinematica dell effetto Compton L energia del fotone uscente E è ricavabile dalla conservazione dell energia e dell impulso, ottenendo: ( 7.12) dove E è l energia iniziale del fotone, θ l angolo di diffusione rispetto alla direzione originaria, m0c 2 l energia a riposo dell elettrone. Il fotone diffuso può anche non essere riassorbito nel mezzo e, in questo caso, solo l elettrone Compton contribuisce alla cessione energetica. L energia cinetica dell elettone Compton sarà pertanto: ( 7.13) Sostituendo ad E l espressione ( 7.12) appare evidente come la distribuzione energetica di un elettrone Compton vada da zero (per θ = 0) fino ad un valore massimo (per θ = π). Per basse energie del fotone incidente, si può notare che E = E per qualsiasi angolo di diffusione (sperimentalmente ciò si verifica per energie inferiori ai 10-2 MeV): l elettrone quindi riceve una frazione trascurabile di energia nell interazione Produzione di coppie elettroniche Se il fotone incidente presenta un energia superiore a 1.02 MeV, la produzione di coppie (elettrone e positrone) diventa un processo possibile dal punto di vista energetico (Fig. 7.4). In questa situazione, un fotone interagisce con un campo elettrico presente nel mezzo, campo che è prevalentemente quello generato dal nucleo, ma che è in parte anche dovuto alla nube elettronica, generando una coppia elettrone-positrone; la presenza del nucleo garantisce la conservazione simultanea dell energia e del momento. Fig. 7.4: schema qualitativo rappresentante la produzione di coppie 117

118 L equazione di conservazione dell energia, poiché è trascurabile l energia cinetica ceduta al nucleo, è: ( 7.14) essendo T - e T + le energie cinetiche dell elettrone e del positrone, in genere non uguali tra loro. Il fenomeno della produzione delle coppie diviene sempre più probabile con l aumentare dell energia della radiazione; fino ad energie intorno alla decina di MeV è circa proporzionale al prodotto tra l energia del fotone Z Dose assorbita Nei precedenti paragrafi si è visto che il risultato finale dell interazione di un elettrone o di un fotone che sono assorbiti da un materiale è il trasferimento di energia nel dato materiale assorbente sotto forma di ionizzazione o eccitazione. Per meglio comprendere i meccanismi di causa ed effetto è necessario introdurre una grandezza, definita dose assorbita, che fornisce una misura dell energia trasferita per unità di massa: ( 7.15) essendo dε è l energia media acquistata dal materiale assorbente e dm la sua massa; come si nota dalla precedente equazione, la quantità D è una grandezza locale, nel senso che deve essere definita in un preciso punto del materiale. L energia totale ε che viene conferita per la ionizzazione del mezzo è definita come la differenza tra l energia di input, fornita da tutte le particelle ionizzanti (elettroni e fotoni), e l energia di output, ossia l energia che risulta acquisita dal mezzo assorbente. L unità della dose assorbita è il Gray, dove 1 Gy corrisponde all energia di assorbimento di 1 J/kg da parte del materiale Effetti delle radiazioni ionizzanti nei polimeri È possibile distinguere due processi principali a seguito dell interazione tra le radiazioni ad alta energia e la materia: il primo riguarda i nuclei atomici che reagiscono con le radiazioni e permettono un successivo riarrangiamento della struttura della specie bersaglio, mentre il secondo prevede un interazione con gli orbitali elettronici, portando ad una modifica complessiva che non dipende da cambiamenti nella struttura del nucleo, ma bensì dalla struttura elettronica. A seguito dell interazione con le particelle ionizzanti possono verificarsi molti cambiamenti nelle proprietà del mezzo assorbente: tali cambiamenti possono interessare le proprietà fisiche, quelle meccaniche, quelle elettriche o ottiche, a seconda dei casi. Come detto, gli elettroni incidenti possono reagire velocemente con le molecole organiche portando all espulsione di altri elettroni dai loro orbitali, creando così ioni o 118

119 specie eccitate; in questa interazione, un ruolo chiave è ricoperto dalla struttura chimica, dalla densità e dalla configurazione molecolare della specie in questione. Quando, ad esempio, un elettrone attraversa un materiale gassoso, le collisioni con gli atomi che formano il mezzo saranno abbastanza infrequenti; tuttavia interazioni con le strutture atomiche/elettroniche potranno avere luogo anche quando l elettrone incidente si trova ad una distanza tale da poter scambiare energia con i vari atomi. In questi mezzi aeriformi si ha a che fare con elettroni liberi, nel senso che non subiscono effetto di richiamo da parte dei nuclei. Situazione completamente diversa si ha all interno di mezzi liquidi o solidi, in cui le frequenti collisioni che avvengono portano ad un rapido rallentamento dell elettrone; l energia scambiata con le strutture atomiche del materiale assorbente potrà creare uno stato di eccitazione e molto spesso darà luogo alla formazione di radicali. Sia la struttura del mezzo assorbente che la temperatura possono influenzare le interazioni tra elettroni ed atomi: ad esempio gli alcani lineari tendono a rallentare gli elettroni incidenti, i composti paraffinici, o quelli che presentano una struttura circolare, tendono a formare degli ioni mentre le strutture simmetriche richiedono un minor quantitativo di energia per giungere in uno stato di eccitazione o di ionizzazione. Per quanto riguarda la temperatura, questa influenza la mobilità delle molecole dell elemento assorbente, ha influenza sulle cinetiche di reazione e sui possibili riarrangiamenti a livello atomico. I polimeri che presentano una struttura lineare subiscono processi di rottura randomica dei propri legami; il numero di scissioni per dose assorbita τ (in kgy) di radiazione incidente e per grammo di materiale assorbente è: ( 7.16) A seguito dell esposizione ad ambiente radiogeno, le molecole polimeriche possono unirsi tra loro in vario modo e tra quesi i crosslinking costituiscono uno degli argomenti più studiati. Quando questo meccanismo ha luogo, è possibile riconoscere tra due molecole una serie di legami di corta distanza, solitamente trasversali alla catena principale e disposti in maniera più o meno randomica. L insieme di questi legami porterà alla creazione di un network, di una rete. Studi dedicati hanno mostrato che i crosslinks indotti dalle radiazioni risultano essere proporzionali alla dose assorbita: è possibile affermare che per bassi valori energetici della radiazione incidente e per basse densità dei crosslinks, più molecole avranno modo di reagire e partecipare alla costruzione del network, poiché è molto facile che si creino delle interazioni all interno della molecola. La formazione dei crosslinks non solo è responsabile di una modifica della struttura delle molecole originarie, che si riuniscono a formarne una di dimensioni maggiori, ma può portare anche ad un drastico cambiamento delle sue proprietà fisiche, prima tra tutti la viscosità. Inoltre, come la dose assorbita cresce di intensità, è possibile che si vadano instaurando maggiori legami tra differenti parti della molecola originaria, portando alla formazione di loop chiusi e strutture ramificate. Un brusco cambiamento delle proprietà del polimero si verifica quando la densità dei crosslink supera un determinato valore critico (conosciuto come gel point o punto di gelo), al di sopra del quale in cui si va formando un network tridimensionale ed insolubile tra le molecole che fino ad allora non erano del tutto unite tra di loro. Appena al di sotto del punto di gelo una sempre più crescente parte di unità tende ad unirsi per formare il network insolubile. I crosslinks permettono l impiego del polimero a più alte temperature, essendo necessaria più energia per poter scindere i legami che si sono formati all interno della struttura; ovviamente il tempo di esposizione a condizioni di esercizio più severe è commensurato al tipo di polimero in questione ed al tipo di esercizio richiesto. Il modulo elastico risulta 119

120 essere direttamente proporzionale alla densità dei crosslink, a sua volta dipendente dalla dose assorbita; per tale motivo è possibile dare vita a composti che presentano differenti proprietà meccaniche tra il cuore e la superficie, in funzione di una differente esposizione della struttura alle radiazioni. Un polimero che presenta crosslinks manifesta tempi di recupero più lenti rispetto ad un polimero che non sia provvisto. È noto che, quando un polimero al di sotto della temperatura di transizione vetrosa o di fusione è deformato sotto l applicazione di uno stress, si ha la tendenza da parte della struttura a recuperare la deformazione subita quando il carico viene rimosso; più lunghi periodi di esposizione alle condizioni di stress possono dare luogo a deformazioni non recuperabili, definite come creep, o scorrimento viscoso. Nel momento in cui sono presenti i crosslinks, il recupero diviene più lento e perciò vi è una opposizione tra la tendenza al creep (non recuperabile) ed il recupero elastico. Si ricorda tuttavia che l effetto di recupero elastico si riduce al diminuire del peso molecolare. Si è notato che le radiazioni possono dare luogo a reazioni di polimerizzazione, portando alla formazione di radicali responsabili poi dei classici stadi di reazione, in maniera del tutto analoga a quanto succede per le polimerizzazioni chimiche in cui è presente un iniziatore. Rispetto alla via chimica, però, l impiego delle radiazioni permette di ottenere una serie di vantaggi: ad esempio, operando in un ampio range di intensità della radiazione incidente è possibile avere la formazione di prodotti diversi, essendo ogni dose assorbita (in tempo ed intensità) paragonabile ad un diverso iniziatore della reazione. Anche la temperatura, parametro molto importante nella convenzionale polimerizzazione chimica e che influenza più aspetti diversi della reazione, è facilmente regolabile nel caso di polimerizzazioni indotte dalle radiazioni: si è notato infatti che la temperatura non ha alcun effetto sull intensità della dose assorbita e quindi una regolazione di questo parametro avrà ripercussioni sulla sola cinetica della polimerizzazione, costituendo di fatto un vantaggio nella conduzione del processo. La formazione di radicali nei polimeri irradiati è il risultato di una serie di eventi iniziati a partire dall assorbimento di energia proveniente dagli elettroni o fotoni incidenti e dotati di alta energia. Tuttavia, non è sempre l elettrone a creare le condizioni per la formazione di un radicale; tale elettrone potrebbe ad esempio divenire una particella mobile, non più soggetta all interazione dalla molecola originaria, o potrebbe essere catturato e rilasciato in un successivo istante. Gli effetti fisici che sono associati alle condizioni appena descritte includono le radiazioni indotte dalla conduttività e dalla termoluminescenza. Nel primo caso gli elettroni sono liberati in maniera uniforme all interno del polimero, portando ad un aumento della temperatura, mentre nel secondo si ha un primo intrappolamento dell elettrone all interno del materiale (a basse temperature) ed un successivo rilascio di energia (aumento della temperatura indotto anche dalla radiazione incidente). I picchi di luminescenza dipendono dal polimero di interesse e lo spettro risultante è funzione ad esempio del grado di cristallizzazione o delle impurità presenti nella struttura. Molti polimeri, caratterizzati dalla presenza di lunghe catene, possono dare luogo alla formazione di legami temporanei, chiamati entanglements, tra parti diverse della loro struttura; le proprietà meccaniche, come il modulo elastico, la resistenza a trazione, il modulo di deformazione possono cambiare nel corso di questa configurazione. Bisogna sottolineare che esiste una sostanziale differenza tra i crosslinks e gli entanglements: mentre i crosslinks sono legami definitivi ed indipendenti dalla temperatura, i secondi presentano un carattere temporaneo e decrescono rapidamente all aumentare di tale grandezza fisica, essendo la vita media di un legame temporaneo fortemente correlata alla temperatura stessa. 120

121 Oltre alla formazione di crosslinking e/o di scissioni delle catene all interno della macromolecola, in un polimero sottoposto a radiazioni ionizzanti possono verificarsi anche altri tipi di cambiamenti; la natura di queste modifiche è fortemente correlata al tipo di polimero che si sta considerando e al tipo di specie che può essere presente nell ambiente circostante, come ad esempio alcuni additivi e gas, tra cui l ossigeno. Ad esempio, la presenza contemporanea di radiazioni e di aria permette la formazione di ossidi che, molto spesso, costituiscono sostanze indesiderate, essendo termicamente poco stabili e responsabili della sottrazione di materia utile per la formazione dei crosslinks Resistenza alle radiazioni da parte di materiali polimerici e compositi Resistenza dei polimeri Come già detto, uno dei più importanti effetti delle radiazioni nei polimeri è la formazione di legami (crosslinks), ad esempio C-C, tra le varie parti della catena della molecola. Un moderato numero di questi legami può spesso migliorare le proprietà fisiche dei polimeri, al punto che molte molecole di interesse industriale o destinate a particolari usi sono solitamente sottoposte all azione di radiazioni ad alta energia per essere condizionate. Si è notato che, quando la densità dei crosslinks diviene molto elevata, il materiale tende a diventare fragile e rigido. Tuttavia, le radiazioni possono anche rompere i legami che ci sono all interno della molecola, provocando la frantumazione di questa; i processi di scissione portano solitamente alla formazione di composti deboli e molli (sono in genere effetti deleteri per la struttura). In molti casi la formazione di crosslinks e la scissione della molecola procedono in maniera simultanea; a seconda della struttura che si sta considerando, uno dei due processi risulterà predominante (Fig. 7.5). Fig. 7.5: Possibili meccanismi che si possono indurre all interno di sostanze polimeriche sottoposte ad agenti radiogeni Altri effetti che si manifestano in caso di radiazioni ad alto contenuto di energia sono, ad esempio, la formazione di doppi legami o l eliminazione di prodotti gassosi; in presenza di ossigeno, ad esempio, possono aversi delle reazioni chimiche come la formazione di gruppi carbonilici. La prima specie reattiva che è coinvolta nell interazione tra le radiazioni e la macromolecola è il radicale libero. I radicali liberi sono specie che non presentano una coppia satura di elettroni che, invece, dovrebbe essere presente; essi si formano a seguito della rottura omolitica di legami come C-C, C-H, C-O. I radicali liberi sono i responsabili della grande reattività delle molecole di cui fanno parte e portano queste a reagire in 121

122 differenti tipi di reazioni, con lo scopo di riformare i legami originari o di formarne di nuovi: ad esempio due macromolecole radicaliche potrebbero reagire tra di loro per formare un nuovo legame C-C o si potrebbe avere la reazione tra una molecola radicalica e l ossigeno atmosferico. Le reazioni che prevedono la presenza di radicali liberi come iniziatori non sono necessariamente contestuali alla presenza delle radiazioni; ad esempio, per effetto di una radiazione molto penetrante, si potrebbe avere la formazione di un radicale all interno della massa polimerica, cui potrebbe seguire una reazione con l ossigeno anche a distanza di tempo dalla rimozione della radiazione. I radicali presenti all interno di una molecola possono infatti muoversi lungo la catena, fino a giungere in prossimità del punto in cui può reagire, essendo sufficiente la migrazione di un solo elettrone per il loro movimento (Fig. 7.6). Fig. 7.6: Migrazione di un elettrone dall interno di una struttura polimerica fino alla sua superficie Un parametro che può influenzare di molto la reattività di una macromolecola sottoposta a radiazioni ionizzanti (e non solo) è la temperatura: quando questa raggiunge valori molto bassi, è possibile inibire la tendenza dei radicali a reagire tra loro. Si prenda in considerazione il polietilene (PE) a titolo di esempio: nel momento in cui la molecola è investita dalle radiazioni ad alta energia si ha la produzione di idrogeno atomico a partire dai gruppi CH2-. Questi atomi di idrogeno possono poi estrarre ulteriore idrogeno atomico da posizioni vicine o dallo stesso punto della catena, formando così H2 molecolare che, a temperature molto basse, è impossibilitato a lasciare la struttura polimerica; in poche parole il gas resta congelato al suo interno. Solamente aumentando la temperatura sarà possibile permettere la diffusione di questa molecola fuori dal polimero; la perdita di idrogeno porta alla formazione di due radicali liberi che successivamente possono reagire per formare un crosslink all interno del PE. Secondo un ragionamento puramente di carattere energetico, ci si deve aspettare che i polimeri a bassa energia di polimerizzazione siano più suscettibili alla rottura dei loro legami interni, essendo richiesto un minore quantitativo energetico per la loro formazione; viceversa, i polimeri che molto facilmente tendano a formare un network tridimensionale, quando sottoposti ad agenti radiogeni andranno in contro a polimerizzazione, con formazione di ulteriori legami tra le varie parti della catena. L aggiunta di particolari sostanze all interno di un polimero può aumentare sostanzialmente quella che è la resistenza nei confronti delle radiazioni; l inserimento di questi additivi, detti di antiradiazione, risulta ovviamente efficace solo quando si ha a che fare con polimeri già di per sé resistenti a questo tipo di fonte energetica. Tra questi, sono certamente le strutture aromatiche a presentare la maggiore resistenza (Fig. 7.7): tali composti permettono infatti di raccogliere su di sé i radicali liberi presenti all interno della molecola e l energia di eccitazione che le viene conferita, riuscendo a stabilizzare il tutto. 122

123 Fig.7.7: stabilità di gruppi polimerici valutata sulla diminuzione dal 50 al 20% dell eleongazione L introduzione di questi composti all interno di una data struttura porta ad un alterazione della cristallinità e/o della rigidità della matrice polimerica, con conseguenze su quelle che possono anche essere i parametri di resistenza all esposizione, anche precedente, a particelle ionizzanti; è inoltre importante la volatilità di questi composti, poiché potrebbero abbandonare per evaporazione la matrice in cui sono stati inseriti, con ovvie conseguenze sulla molecola. I composti aromatici presentano un elevato range di stati eccitati e tutto il surplus energetico che va ad accumularsi in seno matrice polimerica, a seguito di eccitazione o di formazione di radicali liberi, è catturato da questi composti. Ad ogni modo, poter predire il comportamento dei polimeri, specie quelli di uso commerciale, è solitamente molto complicato, considerando che raramente si ha a che fare con molecole pure (di solito questi polimeri contengono al proprio interno alcune piccole quantità di molecole come antiossidanti, plasticizzanti, fillers ). Alcune di queste molecole, che vengono inserite per migliorare alcune caratteristiche del polimero, come la sua lavorabilità o il suo comportamento, possono accelerarne la degradazione, indotta ad esempio dalle radiazioni gamma, o possono invece migliorarne la resistenza, a seconda dei casi. Alcuni degli effetti che si possono riscontare sui polimeri che sono irradiati con le radiazioni sono ad esempio il cambio di colorazione o la riduzione delle proprietà meccaniche (ad esempio con induzione di un comportamento fragile in prodotti che invece dovrebbero presentare completamente un comportamento differente) Resistenza dei compositi Come noto, i materiali compositi sono costituiti da due differenti fasi, una matrice ed un rinforzo, separate tra loro da una interfacies; l'insieme di queste due parti costituisce un prodotto in grado di garantire proprietà meccaniche elevatissime (a questo scopo fondamentale la corretta adesione tra la matrice ed il rinforzo) e densità decisamente bassa. Quando si espone un tale materiale ad un ambiente radiogeno ad alta energia, è ovviamente la fase con minore resistenza a costituire il fattore limitante; anche l interfacies, che normalmente gioca un ruolo essenziale nel trasferimento delle proprietà meccaniche dalla matrice al rinforzo, può subire degradazione a seguito delle radiazioni incidenti, compromettendo quella che è la stabilità e la struttura del materiale complessivo. Molti compositi sono formati da resine organiche (spesso con alte caratteristiche resistenziali e con molti crosslinks al loro interno, come ad esempio le resine epossidiche e quelle fenoliche) per quanto riguarda la fase matrice, presentando invece il secondo 123

124 materiale (il rinforzo) disperso più o meno uniformemente al suo interno, sotto forma di fibre, lunghe o corte, o di particelle; inoltre, la natura del rinforzo può essere in ogni caso di vario tipo (metallica, ceramica o polimerica) ed è proprio la natura di questo secondo materiale che può influire in modo sostanziale sul comportamento e sulla resistenza di tutta la struttura alle radiazioni. Viste le loro proprietà meccaniche maggiori, i materiali compositi sono largamente impiegati all interno di vari settori industriali, in cui si può avere o meno la presenza di un ambiente radiogeno: in tal senso si segnala, ad esempio, la realizzazione di veicoli spaziali e satelliti, di magneti ed componenti elettronici/elettrici per istallazioni fisiche cha hanno a che fare con alte energie, la costruzione di containers magnetici nel campo delle fusioni. Per la scelta del tipo di resina da impiegare nei confronti di condizioni di esercizio che prevedano l impiego di radiazioni ad alto contenuto energetico, la scelta non può che ricadere sui polimeri aromatici (tra cui compaiono anche le poliimmidi): i materiali compositi che presentano tale tipo di matrice possono mostrare anche valori di resistenza del tutto comparabili con quelle dei polimeri puri. Analisi condotte al microscopio a scansione elettronica (SEM) hanno mostrato che, nei materiali compositi che mostrano una bassa resistenza della matrice nei confronti delle radiazioni, il fallimento della struttura è dovuto alla degradazione della fase polimerica. Spesso può però capitare che, come già accennato, la resistenza del composito sia determinata dall interfacies che si è formata tra matrice e rinforzo e che può corrodersi sotto l effetto delle radiazioni. È stato notato, ad esempio, che compositi realizzati con resine epossidiche o con poliimmidi presentano un modulo di Young che può rimanere invariato anche quando esposto ad elevate dosi assorbite; viceversa, il modulo di taglio può diminuire drasticamente in presenza di radiazioni poco intense. Questa ultima caratteristica porta alla conclusione che nei materiali compositi che presentano un alta resistenza della fase matrice il cedimento e la corrosione interessano l interfacies e le prime proprietà ad essere compromesse sono quelle meccaniche. In aggiunta, anche se le fibre inorganiche impiegate in alcuni compositi mostrano una resistenza alle radiazioni notevolmente superiore a quella dei rispettivi rinforzi polimerici, il comportamento ultimo dei materiali compositi impieganti tali fibre inorganiche è determinato dal tipo di interfaccia che si crea tra le due fasi. Alcuni studi hanno mostrato che. tra le possibili cause di fallimento dell interfacies, si ha la il rilassamento degli stress interni creati all interfaccia durante la fabbricazione del composito, il cambiamento delle proprietà del bulk polimerico a seguito delle radiazioni, la formazione di legami covalenti lungo l interfaccia carbonio-resina a seguito dei crosslinks che vengono generati per la reazione di radicali liberi in entrambe le fasi. Altre volte, come verificato per alcuni compositi a matrice epossidica, la degradazione dell interfacies è dovuta invece alla liberazione di gas di radiolisi (solitamente idrogeno molecolare) che si vanno ad accumulare in questa fase sotto forma di bolle; la formazione di bolle e quindi cavità a seguito dello sviluppo di gas è stata molte volte ritenuta il meccanismo principale di fallimento del materiale composito, riducendo queste cavità la capacità di resistenza del materiale nel momento in cui gli sforzi sono trasferiti dalla matrice al rinforzo. Per concludere, un altra possibile spiegazione, importante seppure non molto sostenuta, è quella che prende in considerazione i cambiamenti che avvengono nella matrice polimerica, la quale può modificare le proprie dimensioni (espansione o contrazione) nel momento in cui si verificano i crosslinks, le scissioni della catena o l evoluzione dei gas di radiolisi; questi cambiamenti potrebbero portare a stress localizzati all interfaccia, come ad esempio microdelaminazione all interfacies. 124

125 7.8. Polimerizzazione indotta dal plasma: meccanismi di reazione Lo studio delle proprietà del plasma e dei suoi possibili impieghi dal punto di vista tecnologico ed industriale è molto recente; nonostante non siano noti tutti i meccanismi che caratterizzano le reazioni che avvengono all interno di un ambiente plasmatico, la conduzione di processi di polimerizzazione è, oggi, una delle più importanti vie per ottenere particolari e specifici prodotti. Infatti, uno degli scopi principali delle polimerizzazioni in presenza di plasma è quello di produrre dei rivestimenti ultra sottili, configurazioni microporose con una struttura regolare e ben definita, ma di composizione variabile; tali polimeri sono poi largamente impiegati in virtù delle loro caratteristiche durabilità e resistenza all invecchiamento, alle ossidazioni ed al ritiro dimensionale, al pari dei polimeri prodotti attraverso le tecniche usuali e più comuni. Un altro obiettivo può essere quello di convertire più monomeri presentanti uno stesso gruppo funzionale in un rivestimento che presenti un solo ed unico gruppo funzionale, tale da favorire ad esempio l adesione su altri materiali, intervenire nei processi di sintesi, esplicare la funzione di substrato, etc. Nel 1960 fu analizzata per la prima volta la struttura del plasma, riconoscendo all interno di questa la presenza di alcune insaturazioni delle catene organiche (doppio e triplo legame C-C), un elevato grado di insolubilità e la tendenza ad attacchi di tipo radicalico da parte di alcune specie molto reattive, come l ossigeno quando esposto all aria. Neiswender fu il primo a identificare all interno del plasma una grande densità di radicali ed una moltitudine di composti e depositi da questi formati; fu anche il primo a proporre il fattore di rilascio energetico (dose factor), parametro che permetteva così di distinguere tra le differenti condizioni e proprietà presenti all interno del plasma. Questo fattore divenne in seguito molto polare grazie a Yasuda, cui si deve il Fattore Yasuda (YF): ( 7.20) dove W è il wattaggio J/s, F il flusso di monomero mol/s e M il peso molare del monomero. Per spiegare la polimerizzazione che si verificava in presenza di un plasma furono proposti meccanismi come quello radicalico o della catena ionica; specialmente il primo si basava su molte delle caratteristiche dal plasma stesso, come il suo essere complessivamente neutro, la grande densità di radicali presenti e la grande energia acquisita dalle varie specie presenti quando esposte ad una fase gas. Nel 1970 Yasuda propose il meccanismo della polimerizzazione atomica. Secondo tale meccanismo, nel caso di alti rapporti, i monomeri presenti nel plasma possono frammentarsi molto finemente al punto di divenire anche atomi; successivamente, atomi e piccoli segmenti possono ricombinarsi tra loro in maniera randomica e creare strutture reattive che danno luogo prima a monomeri successivamente a polimeri. Seguono poi ulteriori frammentazioni ed riarrangiamenti delle strutture plasmatiche. In questo meccanismo di polimerizzazione si è notato anche che, sotto effetto di radiazioni UV, è possibile ottenere una struttura del polimero finale altamente irregolare, frutto di combinazioni randomiche tra i vari frammenti/atomi presenti nel plasma e che alcuni idrocarburi presentavano una spiccata tendenza a formare strutture omologhe superiori. Ulteriori studi compiuti sulle polimerizzazioni in ambiente plasmatico hanno permesso di osservare che la struttura dei polimeri ottenibili tramite questa via risulta molto irregolare, comparabile con quella più regolare degli usuali polimeri solamente quando al plasma è fornito un input a bassa energia; tuttavia queste condizioni operative 125

126 permettono anche l inclusione di monomeri ed oligomeri nella struttura del polimero risultante, con ovvie contaminazioni del prodotto finale. La polimerizzazione di monomeri convenzionali, ossia di sostanze generalmente a basso peso molecolare e dette precursori, può avere luogo a partire da un gas plasmatico a pressione atmosferica o inferiore; solamente in pochi casi è permessa la formazione di polimeri organici a partire da gas e composti inorganici (un esempio di questo fenomeno è rintracciabile nella formazione degli amminoacidi all interno della prima composizione dell atmosfera terrestre). In presenza di plasma e basse pressioni possono essere distinte differenti modalità di deposizione: crescita della catena a seguito di reazioni radicaliche o ioniche: la frammentazione delle molecole all interno del plasma porta alla formazioni di radicali o di ioni che reagendo permettono di ottenere polimeri lineari o ramificati. reazioni ione-molecola. meccanismi di frammentazione e ricombinazioni dei monomeri presenti, con formazione di una struttura randomica ed irregolare. polimerizzazioni all interno di masse gassose o sulla superficie di substrati Addizioni e crescita della catena Nel caso in cui la polimerizzazione proceda attraverso la frammentazione delle molecole presenti nel plasma, con formazione di radicali e successiva reazione, non sono state notate sostanziali differenze con le classiche reazioni di poliaddizione che sono ottenute per via chimica; ad esempio è possibile avere la formazione di un monomero P a partire dall addizione continua di monomeri M secondo lo schema: dove poi la reazione di terminazione è possibile grazie all unione di due radicali: o ad una reazione di disporporzione: o per trasferimento di un radicale: o, ancora, per reazione con un radicale iniziatore: 126

127 Nonostante questo meccanismo di polimerizzazione si basi su molte delle caratteristiche mostrate dal plasma, è stato anche proposta una polimerizzazione che procede attraverso la formazione di precursori ionici: Le reazioni di polimerizzazione sono reazioni di equilibrio e pertanto sono controllate dalla termodinamica; queste possono avere luogo se l energia libera di Gibbs è negativa: ( 7.17) essendo rispettivamente l entalpia e l entropia di polimerizzazione, T la temperatura e Kn la costante di equilibrio. Ciò che permette la formazione di radicali, e le successive reazioni di polimerizzazione, sono le condizioni cui il plasma è sottoposto, come ad esempio l esposizione a fotoni, elettroni o particelle α. Queste esposizioni portano alla produzione di radicali C * per la rottura di legami C-C o C-H dei monomeri presenti nell ambiente di reazione, con creazione di specie estremamente reattive, caratterizzate da una vita molto breve, inferiore a s, e che velocemente reagiscono tra loro. Alcune possibili reazioni che permettono di ottenere dei radicali precursori sono, ad esempio: Si è notato che la scissione di un legame C-C è più probabile di una scissione del legame C-H, essendo richiesto un minore quantitativo di energia perché ciò avvenga (348 kj/mol per C-C contro 413 kj/mol per C-H); ciò porta alla formazione di due radicali entrambi reattivi e disponibili per le successive reazioni. Tuttavia molto frequentemente è possibile avere delle reazioni che portano alla ricombinazione dei due radicali così prodotti, di fatto con poca probabilità che si abbiano successive reazioni con radicali prodotti da altre molecole. Termodinamicamente la polimerizzazione porta ad un guadagno energetico nel senso che la trasformazione di un legame π in un legame σ porta ad una perdita di gradi di libertà: quando più monomeri si legano a formare un unico polimero si osserva un ΔS negativo. Si fa notare che molto spesso il termine entalpico è molto più grande del corrispettivo entropico e pertanto solo operando ad elevate temperature è possibile avere condizioni idonee alla polimerizzazione (ΔG < 0). Un parametro molto importante quando si descrivono i processi di polimerizzazione è la lunghezza cinetica di catena (υ), che caratterizza il numero di monomeri che sono addizionati a partire dal primo step e prima che avvenga lo stadio di terminazione; questa grandezza non è altro che il rapporto tra la velocità di propagazione Rp e quella di terminazione Rt, ossia: ( 7.18) Tale parametro cresce con la concentrazione dei monomeri e decresce con l aumento della concentrazione delle specie iniziatrici; nel caso in cui lo step di terminazione sia determinato dalla ricombinazione di due radicali polimerici si ottiene. Sfortunatamente, nel caso di plasma a bassa pressione, è presente una bassa 127

128 concentrazione di monomeri ed una grande concentrazione di radicali iniziatori, situazione che porta ad un basso valore della lunghezza cinetica di catena Reazione ione-molecola Normalmente le reazione ione-molecola non sono delle semplici addizioni di monomeri, come nel caso delle polimerizzazioni in presenza radicali o ioni. La più semplice reazione è il trasferimento di carica da una specie A ad un altra specie A, senza modificazione del peso molecolare: o tra specie differenti A e B: Un esempio molto probabile di processo è la dissociazione con trasferimento di carica: Le reazioni tra ioni e molecole possono anche provocare l incremento del peso molecolare di molti prodotti, con un aumento di entalpia molto contenuto: Meccanismo di frammentazione-ricombinazione Il meccanismo della polimerizzazione da plasma è molto lontano dalla classica polimerizzazione chimica, che porta ad un aumento della lunghezza della catena; in questo caso sono possibili le frammentazioni delle molecole monomeriche in frazioni o atomi a seguito del bombardamento di particelle ad alto contenuto energetico e/o radiazioni, come ad esempio: che si è notato essere fortemente indipendenti dalla natura dei monomeri originari. Successivamente è possibile una ricombinazione randomica di tutti i frammenti ed atomi così prodotti, a creare un polimero la cui struttura è molto irregolare: Inoltre, sono possibili anche altri fenomeni come l estrazione d idrogeno, la rimozione di composti come CO, CO2 e H2O ed la rottura (cracking) di anelli aromatici. Tutte le reazioni descritte in precedenza prevedono la formazione di un film saturo, che si pone come intermedio di reazione e che permette di ottenere un dato e ben definito polimero finale; è naturale, perciò, vista la moltitudine di polimeri possibili, che il numero possibile di questi intermedi di reazione sia molto elevato. 128

129 Si è notato che maggiore è la dose energetica a disposizione delle molecole del plasma e più la frammentazione procede nel suo percorso, mentre una più bassa dose di energia è benefica alla sopravvivenza delle strutture monomeriche. Molti studi condotti sui quantitativi energetici necessari alla rottura dei legami C-C e C-H hanno mostrato che dal plasma viene fornita molta più energia di quella che sia effettivamente necessaria, situazione che ovviamente non permette alcuna selettività o specificità delle frammentazioni. Come detto in precedenza, Yasuda fu il primo a proporre il concetto di polimerizzazione atomica, assumendo che le molecole monomeriche si frammentassero in singoli atomi all interno del plasma e che i successivi frammenti si ricombinassero a formare i polimeri. Successivamente, fu sempre lo studioso asiatico a suggerire il meccanismo CAP (Competitive Ablation and Polymerization, ossia polimerizzazione e rimozione competitive) secondo il quale vi sarebbe la simultanea presenza di polimerizzazione ed etching nel meccanismo di deposizione: questo meccanismo prevede una distinzione tra due stati, uno plasmatico ed uno indotto, il cui risultato finale è un compromesso tra il meccanismo di deposizione e quello di etching del substrato depositato; la velocità risultante sarà la differenza delle velocità dei due singoli meccanismi. A conferma di questo meccanismo sono stati condotti studi e misure, che hanno mostrato come la velocità totale sia notevolmente influenzata dalle condizioni operative, dalle caratteristiche del plasma, dal tipo di monomeri e dalla geometria dell ambiente di reazione Polimerizzazione all interno di gas o su superfici di substrati La crescita dei polimeri è favorita quando vi è a disposizione un ambiente gassoso ed un layer per il loro adsorbimento: le condizioni di bassa pressione implicano infatti collisioni a più basso valore energetico, non favorevoli alla creazione di una struttura polimerica. Sono stati proposti due possibili meccanismi di reazione: uno prevede che le polimerizzazioni avvengano all interno del gas, l altro che queste abbiano luogo sulla superficie di un substrato. Nel primo caso, è stato notato che un lieve aumento di pressione permette la formazione di polvere nella fase gassosa, dove poi possono avere luogo le reazioni di polimerizzazione con successivo adsorbimento sulla superficie di un layer. Nel secondo caso invece, le molecole monomeriche sono prima adsorbite sulla superfice di un substrato e solo in un secondo momento reagiscono per dare polimerizzazione (Fig. 7.8). Durante la deposizione di un polimero plasmatico, la costante presenza di radiazioni UV e di vuoto permette l estrazione di idrogeno atomico dal plasma, la formazione di doppi legami e radicali, la creazione di crosslinks, la degradazione delle strutture, le reazioni di ossidazione via formazione di perossidi. 129

130 Fig. 7.8: Possibili meccanismi di polimerizzazione con adesione alla superficie di un substrato Un altra possibile situazione è quella che prevede la creazione di un primo layer di monomeri sulla superficie del substrato, cui si vanno ad aggiungere i frammenti e gli atomi prodotti dalle dissociazioni plasmatiche. Successivamente, la presenza di radiazioni UV porterà alla formazione di crosslinks all interno del layer polimerico ed alla degradazione dello stesso, in accordo con quanto nel paragrafo Una volta rimossa poi la sorgente radioattiva saranno possibili ulteriori reazioni tra il substrato adsorbito e reattivo ed i monomeri presenti nell ambiente circostante (Fig. 7.9). Fig. 7.9: Polimerizzazione indotta dal plasma e graffaggio sulla superficie di un layer in presenza di radiazioni UV 7.9. Polimerizzazione indotta dal plasma: cinetica e parametri di processo Il primo modello che è stato proposto circa la formazione di un polimero adsorbito su di un layer polimerico fu presentato da Williams e Hayes, che definirono la velocità di polimerizzazione come: ( 7.19) 130

131 dove m è la massa depositata per unità di superficie, α è una costante che dipende dall adsorbimento, I è la densità di corrente agli elettrodi e t è il tempo di deposizione. Secondo il modello proposto, si era soliti considerare fase di iniziazione primaria dovuta a specie ioniche secondo due stadi, un primo in cui si formano gli ioni ed un secondo in cui, neutralizzando le cariche delle specie, si ha la formazione di radicali: La crescita del polimero è il prodotto della reazione tra un radicale ed un monomero; prendendo in considerazione il modello di adsorbimento isotermo proposto da Langmuir, è stato proposto: ( 7.20) dove γ è il coefficiente di adesione, il numero medio di collisioni, n0 il numero di molecole adsorbite a saturazione, τ il tempo di residenza medio nel plasma. La deposizione di frammenti monomerici e la polimerizzazione su di un layer sono influenzate da una grande varietà di fenomeni e fattori, molti dei quali dovuti alle complesse collisioni e processi radioattivi che anno luogo nell ambiente di reazione. Come si può vedere dallo schema seguente (Fig. 7.10), una grande frazione dell energia degli elettroni, specie di quelli ad alto contenuto energetico, è dissipata nelle collisioni anelastiche, nelle frammentazioni e dissociazioni, nel cracking di anelli aromatici. La costante esposizione dei prodotti depositati alle radiazioni UV porta all introduzione di ulteriori difetti nella struttura e ad una deposizione irregolare. Inoltre molti dei polimeri che si ottengono con le reazioni in ambiente plasmatico presentano una netta temperatura di fusione; al contrario una tendenza al rammollimento si manifesta a temperature inferiori ai 100 C. In alcuni casi questi polimeri scuriscono durante il loro riscaldamento o emettono fumo quando anche esposti all aria. Fig. 7.10: Possibili cause ed effetti delle polimerizzazioni indotte dal plasma 131

132 Si è notato che è l energia delle molecole monomeriche che sono adsorbite durante il transito nella zona del plasma a determinare la velocità di deposizione. Yasuda ha proposto una dipendenza lineare della velocità di deposizione R0 dal flusso monomerico Fw: ( 7.21) essendo k è una costante che dipende dal tipo di monomero. Questa relazione tuttavia non è applicabile quando si hanno bassi valori di wattaggio, ossia quando il fattore Yasuda assume bassi valori. Bibliografia [35] Irradiation effects on polymers ; Clegg D.W., Collyer A.A.; London : North- Holland; 1991 [36] Mechanisms of Plasma Polymerization Reviewed from a Chemical Point of View ; Friedrich J.; published in Plasma Processes and Polymers, WILET- VCH,Volume 8, Issue 9, pp ; 2011 [37] J. Polym. Sci. Polym. Chem. ; Yasuda H., Hirotsu T.; Ed.1973 [38] J. Polym. Sci. Polym. Chem. ; Yasuda H., Hsu T.; Ed.1977 [39] J. Polym. Sci. ; Yasuda H., Hsu T.; Ed

133 Capitolo 8 Setup del test alla Gamma Irradiation Facility (GIF) e studi preliminari al SEM 8.1. Introduzione Come di norma accade quando bisogna studiare il comportamento di un dato sistema all interno di un determinato contesto, dopo gli studi preliminari, generalmente basati su analisi dei principali fenomeni in gioco e su prove messe in piedi da altri autori in precedenza, è necessario allestire un setup di prove sperimentali che possano confermare o meno quanto in precedenza ipotizzato nei vari studi effettuati. Così, dopo aver descritto le principali interazioni che possono verificarsi tra le particelle ionizzanti e la materia, e nella fattispecie nei confronti dei materiali polimerici, si è deciso di avviare una campagna di test che potessero descrivere le caratteristiche ed il comportamento dei detector GEM durante il suo periodo di esercizio. Il condizionamento del rivelatore sarà eseguito presso la Gamma Irradiation Facility (GIF) presente al CERN, dove avverrà l esposizione del campione ad una sorgente di radiazioni ed il contestuale monitoraggio di tutti quei parametri che ne caratterizzano il corretto funzionamento. Ovviamente durante la conduzione dei test, che si prolungheranno per più di un anno, saranno costantemente tenute sotto osservazione tutte quelle variabili ambientali (temperatura, pressione, umidità ) che possono influenzare la risposta del rivelatore. Il setup previsto alla GIF non prevede, però, la sola caratterizzazione dei materiali e dei parametri operativi del rivelatore, ma contribuirà anche a comprendere l influenza che la miscela gassosa impiegata all interno dei rivelatori GEM ha nei confronti dei materiali che li costituiscono. Infatti, come in precedenza descritto, la simultanea presenza del plasma, che si va creando a seguito della moltiplicazione elettronica che avviene all interno del rivelatore, e di un ambiente fortemente radiogeno può portare a reazioni di polimerizzazione; ovviamente queste reazioni sono fortemente indesiderate, in quanto possono compromettere l attività del rivelatore, portandolo a risposte non attendibili o addirittura impedendone il corretto funzionamento. Essendo poi il plasma uno stato altamente reattivo della materia, complessivamente neutro ma comprendente un enorme quantità di ioni e radicali al suo interno, è probabile che i componenti gassosi costituenti la miscela usata nelle GEMs possano interagire con i materiali costituenti il rivelatore, portando alla formazione di contaminanti altrettanto pericolosi quanto l instaurarsi delle reazioni di polimerizzazione. 133

134 Scopo di questo capitolo è dunque quello di descrivere il setup che è stato progettato ed installato alla GIF: si metteranno in risalto tutte le fasi di installazione e calibrazione degli strumenti di analisi che sono state eseguite, offrendo anche una panoramica sui primi risultati che saranno acquisiti durante i vari test. Si presentano, inoltre, le prime acquisizioni di dati sui materiali che serviranno da riferimento nelle successive analisi, ed in particolare studi al SEM e in microscopia ottica per caratterizzare le geometrie interne delle GEM e lo stato dei componenti delle camere a filo di riferimento Descrizione generale del setup Nel tentativo e prospettiva di studiare i meccanismi di ageing cui i detector GEM soggiaceranno durante il loro funzionamento, è stato proposto di monitorare i loro parametri in un ambiente fortemente radiogeno, in modo da accelerare ed amplificare quelli che sono gli effetti dovuti all interazione con le radiazioni. È stato inoltre deciso di studiare gli effetti della miscela di gas flussata all interno del detector, ed in particolar modo come questa reagisca con i materiali costituenti le GEMs. Sono stati, pertanto, allestiti due differenti sistemi all interno del padiglione della GIF. Il primo sistema prende in considerazione gli aspetti dovuti all outgassing dei materiali a seguito della presenza della miscela gassosa necessaria al funzionamento del detector stesso, mentre il secondo permette di studiare l influenza della radiazioni sia nei confronti dei parametri del rivelatore, e nella fattispecie del suo guadagno, sia nei confronti dei materiali costituenti la GEM stessa. Entrambi i sistemi, di cui sarà data una dettagliata trattazione nei prossimi paragrafi, sono parte di un unico grande complesso in cui sono inserite sonde, detector di riferimento, dispositivi elettronici necessari per monitorare l andamento del guadagno dei vari rivelatori presenti, flussimetri per il controllo del flusso della miscela GEM inviata nelle linee e sistemi di monitoraggio dei parametri ambientali (temperatura, pressione ed umidità). L originalità di questo sistema di monitoraggio dei fenomeni di invecchiamento risiede nella scelta per la prima volta organica, si potrebbe dire, di conciliare esigente di carattere prettamente fisico con una corretta e completa caratterizzazione dei materiali dal punto di vista ingegneristico. Pertanto accanto alla strumentazione elettronica necessaria per il monitoraggio delle grandezze di importanza nel campo della fisica delle particelle, come il guadagno del rivelatore, la risalita di correnti oscure (discusse nel dettaglio più avanti in questo capitolo) ed il deterioramento del segnale, sono stati predisposti apparati che permetteranno di avere importanti informazioni circa le interazioni che i materiali costituenti il detector GEM avranno con i gas correttamente inviati al loro interno (Ar, CF4 e CO2) e le modifiche che si verificheranno (nella composizione dei gas stessi e dei materiali presenti) a seguito dell esposizione del rivelatore ad un ambiente fortemente radiogeno. Le analisi chimiche interesseranno sia i materiali costituenti il detector, sia i gas inviati al suo interno: i primi saranno studiati mediante tecniche di spettrografia infrarossa (vedi paragrafo 4.7) oppure, ove necessario, mediante analisi ICP-Plasma (eventuali lavaggi delle camere esposte per estrarre depositi di contaminanti, oppure analisi per distruzione di campioni di materiali al fine di valutare la presenza di elementi diversi acquisiti durante l'esercizio), mentre i gas saranno analizzati mediante gascromatografia. In entrambi i casi ciò che si prefigge è confrontare i dati acquisiti durante il procedere la campagna di invecchiamento (condizionato) con i relativi grafici ed informazioni ottenute per campioni vergini, in modo da poter risalire al tipo di modifiche subite sia dai materiali 134

135 che dai gas costituenti la miscela GEM per effetto della loro reciproca interazione, osservando anche quelle che sono le trasformazioni indotte dalla presenza di un ambiente fortemente radiogeno. Inoltre, per quanto concerne l impiego del gas cromatografo, sarà possibile monitorare l eventuale presenza di aria (e quindi di fughe di gas) all interno del sistema realizzato presso il padiglione della GIF, che, considerata inquinante, risulta responsabile di un deterioramento del guadagno dei rivelatori installati. Il setup previsto nel padiglione della GIF prevede di inviare tre differenti linee di prelievo (Fig. 8.1) ad un gas cromatografo: una linea proveniente dal sistema che studia l Outgassing (chiamata linea di Outgassing), una linea proveniente dalla sezione in cui regnano le condizioni radiogene (chiamata linea GIF) ed un ultima linea che è impiegata come riferimento del sistema (chiamata linea di Reference). Fig. 8.1: Schema generale delle linee previste per l analisi dei fenomeni di ageing: linea di Reference (in verde), linea di Outgassing (in celeste), linea GIF (in rosso); le linee più scure (blu e bordeaux) rappresentano le connessioni al gas cromatografo Fig. 8.2: Strumentazione installata presso il padiglione della GIF 135

136 La linea di Reference La linea di Reference collega il gas cromatografo direttamente con una bombola contenente la miscela GEM (Ar/CF4/CO2) già premiscelata nei rapporti richiesti (45:40:15) ed appositamente fatta realizzare. Lo studio di questa linea, la cui portata è di 1 l/h, permetterà di fissare le condizioni di base di analisi, da impiegare in seguito come dato di confronto. La comparazione degli spettri acquisti per questa linea con i corrispettivi cromatogrammi appartenenti alle altre due linee permetterà, infatti, di stabilire l eventuale presenza di prodotti di reazione e contaminanti sviluppati durante i vari test che si andranno ad allestire. La presenza di una linea di Reference si dimostrerà, inoltre, essenziale per lo studio della stabilità della miscela GEM, ritenuta da alcuni poco stabile nel tempo, specie quando fornita sotto forma di gas premiscelato. Per finire, l acquisizione di spettri di riferimento permetterà di poter monitorare il grado di pulizia presente nelle altre linee ogni volta che si interverrà su di queste per l installazione tutte le varie componenti che sono previste nel disegno originale La linea di Outgassing La necessità di installare questa linea, la cui portata è di 1 l/h, è stata quella di studiare, come detto, l outgassing dei materiali costituenti il detector. Secondo lo schema originario prefissato, dopo aver attraversato un flussimetro per il controllo della portata, il gas, proveniente dalla stessa bombola impiegata nella linea di Reference, è inviato all interno di una camera cilindrica, detta Outgassing Box (Fig. 8.3). All interno della camera, il cui diametro è di circa 8 cm, con una lunghezza di 30 cm, saranno poi posti singolarmente i materiali che si vorrà testare, come connettori per entrata ed uscita della miscela gassosa, colle ed elementi di giunzioni, viti per il serraggio della camera ed il tensionamento dei fogli GEM. Si è deciso di avvolgere la camera di outgassing con un filamento percorso da corrente elettrica, in modo da poter aumentare la temperatura al suo interno fino a 50 C; il motivo di tale necessità verrà esposto più avanti in questo capitolo. Fig. 8.3: Outgassing Box Dopo la Outgassing Box, si ha una biforcazione della linea in questione: una piccola parte è inviata al gas cromatografo per essere analizzata, mentre la restante prosegue il suo tragitto attraversando prima una Single Wire Proportional Chamber (SWPC), che sarà impiegata come detector di riferimento e successivamente un rivelatore GEM; il tutto è 136

137 poi inviato all esausto. La SWPC, come poi sarà approfondito (vedi paragrafo 8.3) è formata da un apparato cilindrico, funzionante come catodo, e da un filamento interno (anodo) che permette, in maniera del tutto simile ad un rivelatore GEM, di ottenere la ionizzazione del gas inviato al suo interno. Nella linea di Outgassing, procedendo dalle bombole contenente la miscela GEM verso la SWPC, lo scopo che ci si prefigge è monitorare come il guadagno del detector GEM, di dimensioni 10X10 cm 2, vari in funzione dei prodotti di reazione rilasciati nella precedente camera cilindrica di outgassing appunto; per avere inoltre un informazione su quelle che sono le modalità della diminuzione del guadagno del rilevatore, si è pensato di installare un rilevatore molto semplice, appunto la SWPC, di cui si conoscono perfettamente ed in maniera esaustiva quelle che sono le caratteristiche ed i comportamenti all ageing (vedi paragrafo 8.3). Entrambi i rilevatori saranno inoltre successivamente esposti ad una sorgente di radiazioni per combinare l effetto dovuto all outgassing dei materiali, con le conseguenze dovute alle interazioni con le particelle ionizzanti, allo scopo di simulare il più possibile le future condizioni di lavoro cui il rivelatore GEM sarà sottoposto. Si definisce come outgassing il rilascio di un gas dissolto, congelato, adsorbito o intrappolato in un dato materiale, come ad esempio il monossido o il biossido di carbonio a partire da alcuni materiali esposti ad un ambiente di vuoto e che subiscono fenomeni di cracking. L outgassing può includere anche l evaporazione di alcune sostanze in prodotti gassosi che poi sono desorbiti dal materiale, così come l allontanamento di prodotti di lente reazioni chimiche che avvengono all interno del materiale stesso. Generalmente l ebollizione non si considera come un fenomeno di outgassing, in quanto tale cambiamento di stato prevede il passaggio di una stessa sostanza da uno stato liquido ad uno di vapore. Lo studio dell outgassing dei materiali costituenti un detector di particelle è un argomento che è stato a lungo trattato in letteratura: partendo da studi fatti sulle camere multifilo (diretta evoluzione delle SWPCs, presentante rispetto al suo predecessori più filamenti interni a svolgere la funzione di anodo) e su alcuni precedenti prototipi di camera GEM, si è deciso di sviluppare la linea nel modo finora esposto, modificando i precedenti studi in funzione delle condizioni di lavoro cui sarà sottoposta la GEM ed in virtù della sua attuale configurazione interna. Il progetto originale per lo studio dei fenomeni di outgassing prevede che ogni materiale da testare sia posizionato singolarmente all interno della Outgassing Box, per poi essere flussato con la miscela GEM per circa una settimana, effettuando nel mentre analisi di gas cromatografia, per osservare la formazione di eventuali composti nella miscela di gas, e monitorando l andamento del guadagno; inoltre, nel caso in cui i materiali testati non diano outgassing, si ripeteranno gli stessi passaggi riscaldando e mantenendo a 50 C la Outgassing Box, in modo da accelerare i processi e le interazioni in gioco. Tutti i materiali sospettati di poter influenzare in qualche modo il comportamento e la risposta del detector saranno testati nel modo descritto; il maggior rischio deriva, ovviamente, da tutti quei componenti che presentano parti organiche, come colle, resine, giunzioni Nel caso in cui un dato materiale testato presenti un forte outgassing di componenti gassosi, a seguito del quale è possibile osservare una forte diminuzione del guadagno del rilevatore, si provvederà a rimuovere la GEM dalla linea in questione per effettuare ulteriori analisi: il detector sarà aperto ed analizzato in microscopia, confrontando poi i risultati con quelli acquisiti prima dell inizio dei test. Infatti, trattandosi principalmente di test di comparazione con dati (valori, diagrammi, immagini) di reference, il detector GEM è stato in precedenza analizzato al SEM-EDS (Fig. 8.4a/b) (vedi Appendice per maggiori informazioni) ed al microscopio ottico (Fig.8.): la scansione con questi due strumenti ha permesso di rivelare le esatte dimensioni della geometria e della trama 137

138 interna del foglio GEM e di verificare la presenza di eventuali depositi o anomalie rispetto agli standard di costruzione. Inoltre, per esplorare il detector in ogni suo punto, sono state scattate immagini sia della sua superficie che dell interfacies polimero-rame. Fig 8.4a: Immagini acquisite in microscopia a scansione elettronica (SEM) per un foglio GEM: dettaglio delle dimensioni della sua trama e della sua sezione Fig 8.4b: Analisi di composizione per un foglio GEM realizzate mediante tecnica EDS 138

139 Fig. 8.5: Immagini acquisite in microscopia ottica per un foglio GEM: dettaglio delle dimensioni della sua trama e della sua sezione La conduzione del test prevede che il detector venga aperto ed analizzato in microscopia anche nell evenienza che un singolo materiale inserito nella Outgassing Box non influenzi in maniera critica il guadagno del rilevatore: sarà sufficiente registrare una diminuzione del 5% del guadagno del rivelatore stesso perché la decisione di aprire venga presa. Ogni volta che verrà testato un nuovo materiale si provvederà ad inviare un flusso di argon per effettuare la pulizia di tutto quello che può essersi accumulato o depositato nei detector GEM e SWPC; l attacco di tale linea di pulizia avviene subito prima del rilevatore GEM, ed ovviamente dopo il punto di prelievo per il GC. Complessivamente ci si aspetta di testare tutti i materiali più critici nell arco di 3-4 mesi, ovviamente a meno di non riscontrare effetti dannosi ed accentuati per uno o più di questi, che porterebbero alla rimozione, smontaggio ed analisi della camera GEM installata sulla linea in un tempo più breve. Per primi saranno testati quei materiali di cui è ben conosciuto il comportamento di outgassing, cosa che permetterà di testare il corretto funzionamento del sistema, costituendo una sorta di calibrazione che consentirà di apportare tutte le eventuali modifiche del caso La linea GIF L ultima linea del sistema di studio dei fenomeni di aging è quella che si occupa dell effetto diretto delle radiazioni sul guadagno del rilevatore. Per fare ciò, una quota 139

140 parte del gas proveniente sempre dalla bombola contenente i gas premiscelati, e regolata sul valore di 1 l/h attraverso un flussimetro, è inviata all interno di alcuni detector posti a contatto con sorgenti ionizzanti posti all interno di un bunker schermato dal resto del sistema con murature in piombo; tale zona protetta costituisce la vera e propria Gamma Irradiation Facility (GIF). All interno della GIF la miscela fluisce prima in un SWPC irraggiato con Fe 55, per poi attraversare una GEM di grandi dimensioni con profilo trapezoidale. Questo ultimo detector non è interamente sottoposto alle radiazioni, generate da una sorgente di Cs 137 : una parte del rilevatore è infatti schermata con una lastra di Pb, in modo da poter confrontare i valori di parametri (ed in particolare il guadagno) provenienti da sezioni sottoposte o meno ad irraggiamento. (Fig. 8.6). La disposizione del rivelatore GEM e le connessioni di entrata ed uscita della miscela gassosa saranno tali da poter raccogliere ogni tipo di impurità trasportata dalla miscela gassosa nella parte del detector schermata dalla lastra di piombo, potendo osservare, invece, quelle che sono le modifiche indotte da fenomeni di polimerizzazione nella parte esposta alla sorgente radioattiva. Dopo il rilevatore GEM è posto un altro SWPC, anche quest ultimo esposto ad una sorgente radioattiva di Fe 55. Fig. 8.6: Detector a tripla GEM, sorgenti di radiazioni e rivelatori SWPC installati presso il bunker della GIF Una volta uscito dalla GIF, il gas incontra il punto di prelievo per le analisi di gas cromatografia ed è, quindi, inviato all esausto. La presenza di rivelatori dalle caratteristiche molto semplici come le SWPCs è necessaria per fornire uno stato riferimento e ben noto nello studio dei meccanismi di ageing ed interazione con le particelle ionizzanti: per tali detector, infatti, è molto semplice poter stabilire quelle che sono le cause che portano ad una diminuzione del guadagno, essendo stati largamente studiati in passato. Infatti, per tale detector, la posizione assunta dallo spettro di energia associato permette di avere un informazione sul guadagno stesso del rivelatore (Fig. 8.7): nel caso in cui si verifichino dei fenomeni di aging tale spettro traslerà verso sinistra ed il guadagno della SWPC subirà una diminuzione del proprio valore. 140

141 Fig. 8.7: Spettro di energia associato alla SWPC (a sinistra) ed andamento del guadagno (in rosso, a destra) Tutti i parametri ambientali che possono in qualche modo influenzare il comportamento del detector GEM installato presso il bunker della GIF saranno monitorati tramite un apposita stazione meteo: è stato notato infatti, e ciò è vero specialmente per le SWPCs, che parametri come temperatura, pressione (ambientale e del gas flussato nel rivelatore) e composizione della miscela gassosa inviata comportano una risposta oscillatoria del detector (Fig. 8.8). In particolare, la correlazione che esiste tra la temperatura e la pressione con il segnale contenente l informazione registrata dal rivelatore (Fig. 8.9), ed inviato poi alla readout, dipende non solo dal guadagno del gas, ma anche dalla presenza degli strumenti di elettronica impiegati nella misura e nel trasporto del segnale; per tale motivo sarà necessaria una correzione dei valori registrati, la cui normalizzazione permetterà di ottenere il reale comportamento dei detectors presenti e di identificare i possibili fenomeni di ageing (Fig. 8.10). Fig. 8.8: Andamento della posizione del picco dello spettro di Fig. 8.6 in funzione della temperatura (in violetto), della pressione del gas (in verde) e della pressione ambientale (in grigio) 141

142 Fig. 8.9: Correlazione tra la corrente presente sulla readout ed il rapporto temperatura/pressione Fig. 8.10: Normalizzazione dei valori registrati Complessivamente ci si aspetta che la campagna di analisi duri per più di un anno, avendo così modo di testare quello che è il comportamento e le prestazioni di una camera GEM sottoposta ad un periodo equivalente a 10 anni di attività all interno di CMS Funzionamento e fenomeni di aging di rivelatori SWPC e MWPC Struttura dei rivelatori proporzionali a fili Come già illustrato nei precedenti capitoli, i detector a gas sono ampiamente impiegati negli esperimenti della fisica delle particelle ad alta energia, per il riconoscimento delle particelle, per la ricostruzione del loro percorso, per la determinazione del loro momento; a volte, inoltre, sono anche impiegati con la funzione di triggering. Il funzionamento di questi detector è basato sul fatto che, quando una particella carica attraversa una mezzo, solido, liquido o gassoso, le interazioni di Coulomb tra gli atomi del mezzo e quelli della data particella provocano la perdita di energia della particella stessa; la raccolta poi delle informazioni di queste interazioni e cambiamenti del contenuto energetico permettono la rivelazione del detector. Tutti i detector a gas basano il loro comportamento sul principio del contatore proporzionale: nel caso più semplice (rivelatore SWPC), questo consiste in un cilindro 142

143 conduttore (alluminio ricoperto da strip di rame che, similmente alle GEMs, permettono poi la trasmissione del segnale all elettronica) contenente al suo interno un sottile filo di metallo (tungsteno ricoperto di oro), tensionato lungo il proprio asse ed isolato da questo in modo da poter applicare una differenza di potenziale (Fig. 8.11). Il rivelatore entra in funzione, registrando i vari segnali, quando un elettrone, muovendosi nel volume di gas presente, si dirige verso il sottile filamento che funge da anodo del sistema; lì, a seguito dell intenso valore del campo elettrico, un grande quantitativo di energia è conferita all elettrone e questi può ionizzare le molecole di gas con cui è in contatto, estraendo così altri elettroni ed ioni. Queste particelle poi, muovendosi anche loro verso l elettrodo anodico, sono soggette alle stesse condizioni cui era esposto l elettrone che le aveva generate e, pertanto, provocano a loro volta la ionizzazione del gas l estrazione di altre cariche. Questo processo di amplificazione dipende dal tipo di gas impiegato, dalla geometria del detector, da una veloce fase di start-up, dalle dimensioni degli elettrodi. Fig. 8.11: Rappresentazione schematica di una SWPC Le Multi Wire Proportional Cambers (MWPCs) sono il più semplice esempio di detector a gas e rappresentano la diretta evoluzione dei rivelatori SWPC appena descritti. Le MWPCs sono costituite da due piccoli fili che svolgono le funzioni di anodo e catodo in cui, applicando un opportuna differenza di potenziale e inviando del gas all interno del detector, è possibile creare un appropriato campo elettrico tra gli elettrodi, che permette di guidare gli elettroni e gli ioni, che si vanno a formare per interazione con le particelle del gas, verso i rispettivi elettrodi. Il loro funzionamento è ovviamente quello dei detector a gas, e nella fattispecie molta importanza hanno le dimensioni dei filamenti che compongono anodo e catodo. In tutti i detector a gas l ampiezza del segnale dipende dal guadagno del gas e quindi dal guadagno del detector; l aspetto più importante è che il numero di coppie generate durante il processo di estrazione a valanga è proporzionale al numero di ionizzazioni primarie, che è a sua volta proporzionale all energia depositata sul detector a seguito della particella incidente iniziale. Le MWPCs, al pari delle SWPCs, costituiscono un ottima base di confronto per il comportamento all aging delle altre tipologie di detector a gas: infatti, nelle camere proporzionali a fili, il guadagno del rilevatore è direttamente connesso al diametro dei filamenti presenti al loro interno ed ogni variazione di dimensione di questi è associata una riduzione dell efficienza del detector Studio al SEM dei fenomeni di aging dell anodo Come detto, una delle fonti di degradazione dei detector a gas MWPC è l incremento del raggio del filamento costituente l anodo, a seguito del deposito di materiale solido, più o meno conduttivo, sulla sua superficie (Fig. 8.12). Questo fenomeno 143

144 porta ad una perdita del guadagno e/o ad una minore efficienza di risoluzione. Raramente i prodotti che vanno a depositarsi sull elettrodo anodico sono allo stato liquido. Il deposito di materiale sulla superficie anodica provoca inoltre una riduzione del campo magnetico, tanto più elevata quanto maggiore è lo spessore del sedimento che si va formando. Inoltre, se il deposito è formato da materiale isolante, in prossimità della superficie anodica si andranno ad accumulare particelle cariche negativamente (generate dai vari processi a valanga) e ciò porterà inevitabilmente ad una perdita di guadagno, che sarà inoltre non uniforme lungo tutta la lunghezza del filamento. Fig. 8.12: Immagini SEM dell anodo di una MWPC: in alto a sinistra un filamento nuovo, in alto a destra lo stesso filamento dopo 2 settimane di esercizio ed al centro dopo 3 mesi di lavoro Fenomeni di aging del catodo Tipicamente, i fenomeni di fotoemissione di raggi UV, che si registrano durante il normale funzionamento del rivelatore, portano alla ricombinazione degli ioni ed alla deeccitazione degli atomi creati durante i processi di moltiplicazione a valanga. Nel corso di questi fenomeni, è possibile inoltre l emissione di elettroni secondari se i fotoni emessi permettono l eccitazione altri atomi durante il loro percorso. I cosiddetti gas di quenching, tipicamente formati da composti organici e capaci di assorbire molta della radiazione fotonica presente, possono minimizzare gli effetti sopra citati. Tuttavia, l esperienza maturata con i detector a gas ha permesso di osservare che è possibile l emissione di elettroni secondari dal catodo: ciò è reso possibile quando uno 144

145 ione positivo, che si sta muovendo verso questo elettrodo, subisce un processo di neutralizzazione sulla superficie di catodo stesso, dove resta in uno stato di eccitazione. L energia di eccitazione può essere convogliata sulla superficie dell elettrodo e provocare l emissione di elettroni secondari, provocando dei rallentamenti di segnale o la creazione di correnti oscure. Per comprendere meglio quest ultimo fenomeno, bisogna analizzare quello che è il maggiore problema che si verifica in un detector a gas, ossia l instaurarsi di processi di polimerizzazione prodotti all interno della massa plasmatica che si crea durante i processi a valanga: come già analizzato in precedenza (vedi paragrafo 7.8) la presenza contemporanea di radiazioni fotoniche, che apportano l energia di attivazione necessaria, e di un plasma è favorevole allo sviluppo di polimerizzazioni (Fig. 8.13). Si fa notare che gli effetti associati a queste reazioni sono ancora più devastanti del ricoprimento superficiale dell anodo: infatti, mentre nel caso del deposito anodico si ha a che fare con un ricoprimento della superficie dell elettrodo, nel secondo caso ci si trova in presenza di una reazione che coinvolge la superficie del catodo, portando anche a profondi stravolgimenti di quest ultimo. 4 2 Fig. 8.13: Schema riassuntivo del meccanismo di polimerizzazione indotto dal plasma Le reazioni di polimerizzazione portano alla formazione di composti chimici che provocano l isolamento del catodo, il cui risultato è di rendere impossibile il raggiungimento di questo da parte degli ioni positivi; l accumulo inevitabile di cariche positive nei pressi di questa barriera isolante formatesi provoca poi la formazione di un dipolo elettrico che disturba il campo elettrico presente all interno del rivelatore, provocando la migrazione degli elettroni secondari creati sulla superficie catodica verso l anodo. Affinché questo avvenga, sono necessari campi con un valore di almeno 10 7 V/cm; gli elettroni secondari potranno in seguito o neutralizzarsi con gli ioni positivi, che si sono depositati sul layer isolanti di polimero, o proseguire il loro cammino verso l anodo, dando luogo ad ulteriori ionizzazioni del gas, con formazione di coppie e raccolta di segnale all anodo. Il complesso di eventi appena descritto rientra in quello che è chiamato effetto Malter. Ovviamente il segnale che si andrà a raccogliere in questo ultimo caso non è desiderato, essendo il frutto degli elettroni secondari e non della particolare carica (ad esempio un muone) in transito nel detector. Per finire, le ionizzazioni prodotte dagli elettroni secondari porteranno a successivi effetti a valanga, con formazione di altro plasma e quindi polimerizzazioni, arresto dei cationi al catodo, estrazione di altri elettroni e così via. Si fa notare che il rumore e le correnti oscure che si creano nel detector non sono eliminabili con la sola rimozione della radiazione fotonica, responsabile dell inizio della reazione di polimerizzazione; è necessario spegnere il rilevatore ed attendere il tempo necessario per il ripristino delle condizioni di funzionamento iniziali. 145

146 Analisi dei fenomeni di polimerizzazione nei rivelatori SWPC e MWPC È già stato detto che il plasma è una miscela, all inizio complessivamente neutra, di ioni positivi e negativi, specie neutre, radicali liberi ed elettroni. Nelle MWPCs, la zona circostante al filamento anodico può essere considerata come un plasma ad 1 atm; i processi di moltiplicazione elettronica possono produrre una grande varietà di specie, molte delle quali accompagnate da dissociazioni energetiche (tale energia proviene dalla rottura dei legami covalenti), essendo il valore energetico richiesto per questi fenomeni inferiore di 2-5 volte all energia necessaria alla ionizzazione delle stesse molecole. Quando accade ciò, è permessa la formazione di un radicale che probabilmente sarà successivamente attratto dalla superficie anodica a causa dell intenso campo elettrico; tale radicale, essendo chimicamente molto reattivo, potrà combinarsi con nuove specie o con quelle di partenza, dando luogo a polimerizzazioni. Le polimerizzazioni sono quelle reazioni che portano all associazione di più unità monomeriche a formare una catena, una macromolecola in genere ad elevato peso molecolare. Nel caso dei detector a gas, queste reazioni seguono un meccanismo a stadi, in cui è possibile distinguere: iniziazione: a partire da un composto chimico originario, detto monomero, si forma una specie reattiva, iniziatrice del processo di polimerizzazione; nel caso di interesse, la specie iniziatrice potrebbe essere un elettrone ad alta energia, un fotone, etc. propagazione: in questo stadio iniziano a formarsi i polimeri a partire della massa del gas; successivamente questi diffondono fino alla superficie del catodo, dove aderiscono per continuare poi a crescere. In alternativa i polimeri possono formarsi direttamente sulla superficie catodica. terminazione. Il polimero continua a crescere fino a che non reagisce con un altro radicale, detto terminatore. La reazione tra i due porterà alla formazione di una molecola stabile, che ha perso la propria reattività, non necessariamente satura. Tuttavia, il polimero formatesi potrà reagire nuovamente in futuro, a seguito di collisioni con elettroni, ioni, fotoni UV, che possono scindere i legami C-C e rendere reattive le molecole. Solitamente le proprietà del polimero dipendono dalle proprietà dei monomeri che lo compongono, dalle condizioni in cui ha luogo la reazione (il plasma in questo caso) e dalle caratteristiche fisiche del substrato dove il polimero si deposita. Tuttavia, nel caso in esame, è possibile osservare una serie di proprietà ricorrenti dei polimeri che si formano: si tratta di composti generalmente allo stato solido; è presente una struttura altamente ramificata, con formazioni di molti crosslinks; si ha un elevata insolubilità in molti dei solventi più comuni; i composti che si formano presentano un eccellente adesione alla superficie del substrato (nella fattispecie, il catodo del detector a gas); è presente una grande resistenza a molti reagenti chimici. 146

147 Tutte le caratteristiche sopra citate portano alla formazione di un composto la cui rimozione è molto difficile. L insieme dei fenomeni in precedenza descritti rientra all interno della chimica del plasma, branca della scienza che si occupa di reazioni molto complesse dal punto di vista dello studio qualitativo e che presenta una grande varietà di parametri che influenzano le condizioni di lavoro (pressione, velocità del gas, densità di corrente, livello di impurezze...). Si è notato che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dalla chimica del plasma, le condizioni che si presentano nelle MWPCs sono notevolmente amplificate (Tabella 8.1) Tabella 8.1: Principali parametri fisici per la chimica del plasma e per i detector a gas La pratica ha inoltre mostrato che la tipologia di gas impiegato, così come la sua velocità, può influenzare il tipo di deposito che si va formando, ad esempio conferendo a questo alcune proprietà o addirittura impedendone la formazione. Tra i molti fattori influenzano la chimica del plasma, nel caso dei detector a gas, bisogna considerare anche altre variabili come il guadagno del gas, l eventuale vapore aggiunto alla miscela gassosa, la presenza di contaminanti nel sistema tubazioni del gas, nelle camere, nei bubbolatori, etc Tutti questi fattori possono significatamene le interazioni chimiche che hanno luogo nel plasma, catalizzando o inibendo i processi di polimerizzazione. Ad esempio, si è notato che molecole contenenti ossigeno possono ridurre i fenomeni di aging; nel caso delle MWPCs si è notato che l addizione di piccole concentrazioni di alcoli o vapore acqueo può aiutare a prevenire l invecchiamento, mentre il dimetil etere (DME, CH3-O-CH3) può estendere sostanzialmente la vita del detector. Nello studio dei fenomeni di ageing per i rivelatori SWPC/MWPC è necessario prendere in considerazione due possibili fenomeni. In un primo caso è possibile avere una sorta d inattività del sistema ad opera di radicali contenti ossigeno che, nel momento in cui sono a questa addizionati alla molecola, possono bloccarne la crescita. Un secondo effetto è quello dovuto all ossigeno che può portare alla formazione di composti volatili e radicalici che facilmente possono reagire all interno della massa del gas, di fatto riducendo la quantità di radicali disponibili per i processi di polimerizzazione. L acqua gioca un ruolo a sé: questa infatti può in alcuni casi prevenire la formazione di correnti oscure associate all effetto Malter, mentre in altre occasioni può anche permettere un più facile recupero delle condizioni operative della camera. Sebbene i meccanismi di ripristino non siano ad oggi perfettamente chiari, sembra che l acqua permetta, grazie all aumento della conducibilità elettrica, di ridurre l isolamento che si viene a creare a seguito della formazione del deposito sulle superfici dell elettrodo, specie 147

148 di quello che si forma reagendo con il catodo. Inoltre l acqua può aiutare nel processo di quenching, assorbendo i raggi X. Alcuni composti possono accelerare il processo di polimerizzazione, catalizzando la reazione; l esperienza maturata con le MWPCs ha permesso di riconoscere tra questi alcune specie come ad esempio gli alogeni, alcune plastiche ed alcuni composti siliconici. Nel caso dei composti alogenuri, dalla chimica del plasma, è noto che la velocità di polimerizzazione aumenta in presenza di composti elettronegativi, come succede ad esempio con il Freon; non deve stupire pertanto che gli alogeni, presentando un elevata elettronegatività reattività, possano addizionarsi ai doppi legami presenti nella catena polimerica. Inoltre, essendo la formazione di legami come C-Cl o C-Br energeticamente meno esigente rispetto ad un legame C-H (328 kj/mol per il legame C-Cl e 276 kj/mol per C-Br, contro 413 kj/mol del legame C-H), è evidente che le frammentazioni degli idrocarburi alogenati porteranno alla formazione di una grande quantità di radicali liberi all interno del plasma; il risultato sarà pertanto una maggiore tendenza a formare polimeri ed accelerare il processo di aging all interno della camera. L origine della presenza di alogeni all interno del sistema è multipla: tracce di contaminanti possono provenire dalle operazioni di pulizia (Freon 113), dai materiali costituenti il sistema gas (PVC, Teflon ) o dalle reazioni con i gas uscenti dalla camera (fenomeni di outgassing). L esperienza con le MWPCs ha mostrato che il Freon 113 è un chiaro responsabile della presenza di alogeni all interno del sistema, composti che se da un lato sono responsabili dell aumento della velocità di polimerizzazione, dall altro sono anche imputabili di una diminuzione del guadagno della camera, essendo composti elettron-accettori. I siliconi sono dei composti che bisogna assolutamente evitare di avere all interno del sistema, essendo responsabili di una sistematica copertura della superficie degli elettrodi (formano un film isolante); anche se non è possibile identificarne l origine, sembra che questi possano provenire da bombole, dal sistema di tubazioni non perfettamente pulito o da materiali tradizionalmente impiegati per la costruzione delle camere (e contenenti ad esempio Si). Ad ogni modo, quando presenti sulla superficie degli elettrodi, se sono coinvolti nelle reazioni di polimerizzazione danno luogo alla formazione di composti molto pesanti e di difficile rimozione, anche impiegando una grande quantità di gas. Un altra problematica che è opportuno citare per un esaustiva trattazione dei fenomeni di aging per i rivelatori a gas riguarda il ripristino dopo i danni subiti dalla camera. La procedura di base consiste nell intervenire in maniera meccanica o chimica sulla superficie dell elettrodo; bisogna ricordarsi, però, che molti dei depositi polimerici sono insolubili nella maggior parte dei solventi ed inerti verso molti composti chimici. Sistemi di prevenzione dell ageing sono da preferire quando possibile; limitare e/o evitare danni agli elettrodi sono interventi conseguibili immettendo piccole quantità, tipicamente inferiori al 1%, di gas o vapori. Ovviamente, una giusta scelta dei materiali che dovranno entrare in contatto con la miscela gassosa è d obbligo. Si fa notare che quanto appena detto ha scopo puramente illustrativo e carattere generale, non riscontrando in tutte le situazioni di esercizio dei detector a gas gli effetti ed i composti menzionati (ci sono casi in cui ci si potrebbe aspettare la presenza di polimero che tuttavia non si forma). Studi compiuti sulla chimica del plasma hanno messo in luce che, quando sono presenti elettroni ad alto contenuto di energia, alcuni gas come ad esempio il CF4 non incrementano la velocità e la tendenza alla polimerizzazione, come invece ci si aspetterebbe; questo anomalo comportamento è dovuto al fatto che il legame F-F è debole (1.6 ev) e facilmente può rompersi durante i processi di moltiplicazione elettronica. Il radicale F * che si forma è molto reattivo e guida molte delle reazioni che avvengono all interno del plasma e che prevedono un ablazione del layer 148

149 formatosi; il risultato finale è di una competizione tra la reazione di polimerizzazione e quella che prevede la rimozione del polimero. Ad esempio si è visto che un 4% di CF4 riduce il deposito polimerico quando è impiegata una miscela Ar-C2H6 (50:50), l impiego di una miscela Xe-CO2-CF4 (50:30:20) permette di poter trascurare totalmente la reazione di polimerizzazione all interno del detector. Tuttavia, nonostante gli effetti benefici evidenziati circa l uso del CF4, si è anche notato (e le MWPCs ne sono un esempio) che in qualche modo questo gas può reagire con i materiali costituenti il detector, formando composti nocivi al corretto funzionamento del rilevatore Configurazione del gas cromatografo Come illustrato nella parte relativa al setup dei test che si andranno a realizzare per lo studio dei fenomeni e meccanismi di ageing, il gas cromatografo (GC) è impiegato come strumento di analisi delle tre linee in precedenza analizzate. Lo scopo di questo paragrafo è quello di mettere in evidenza i principali passaggi che hanno permesso di ottenere la migliore configurazione possibile per questo strumento di analisi, rimandando il lettore a consultare l Appendice per maggiori dettagli. Il setup ideato per gli studi di aging ed outgassing prevede che tutte e tre le linee presentino un punto di prelievo in modo da inviare il gas in analisi, o campione, allo strumento; la scelta di quale linea analizzare, e quindi inviare al GC, è effettuata manualmente tramite delle valvole appositamente installate. Prima che le due linee oggetto di studio (Outgassing e GIF) divenissero operative, sono state compiute misure ed analisi per l acquisizione le condizioni di riferimento: per un periodo di circa 3 settimane, è stato monitorato lo stato di tutte le linee (compresa ovviamente la linea di Reference) per rilevare che tutto fosse perfettamente funzionante, che non ci fossero ingressi di aria all interno delle tubazioni, che ogni singola installazione di detector, sensori o parti del sistema non influenzasse in qualche modo la risposta dello strumento. L acquisizione, poi, dei cromatogrammi relativi alla miscela era un esigenza imprescindibile: nel momento in cui i sistemi sarebbero divenuti operativi, soltanto la conoscenza delle condizioni di riferimento avrebbe permesso di stabilire l eventuale presenza di nuovi picchi e quindi prodotti di outgassing o dell interazione tra le particelle ed i materiali del detector. Ovviamente, in mancanza di ulteriori strumenti di indagine, come di uno spettrometro di massa ad esempio, è impossibile poter identificare i picchi del cromatogramma, essendo noti a priori solo quelli relativi alla miscela di gas ed ai vari componenti dell aria, analizzata anch essa come campione di riferimento. In caso di picchi sconosciuti presenti sul cromatogramma, solamente una ricerca bibliografica di analisi effettuate in passato e presentanti parametri operativi dello strumento il più simili possibili a quelli impiegati per i test alla GIF permetterà un idea dei tipi di componenti che si erano formati e/o liberati dai materiali testati nell Outgassing Box, alla quale dovrà seguire l acquisizione di campioni standard per la conferma dell identificazione. Tuttavia è stata sottolineata l urgenza e l estrema importanza di dotarsi di una strumentazione più completa al momento dell inizio dei test. Il gas cromatografo impiegato è un Agilent 3000 Micro Gas Chromatograph (Agilent Technologies, Inc.) (Fig. 8.14) ed impiega tre differenti tipi di colonne per le analisi, tutte di tipo capillare: la prima colonna è un filtro molecolare (MS5A, MolSieve zeolite 5 Å) che sfrutta come carrier gas argon, la seconda colonna è chiamata PLOTU 149

150 (Porous Layer Open TUbular), la cui fase stazionaria è costituita da divinilbenzene e glicol etilene, mentre la terza è una colonna polare, detta OV1 e avente come fase stazionaria il polidimetilsilossano, entrambe presentanti come gas di trasporto elio; la pressione con cui i gas di trasporto dovevano essere inviati allo strumento di analisi erano di (5.5 ± 0.2) bars. Mentre la prima colonna permette di separare gas permanenti e gas nobili, come O2, N2, H2, Ne, CH4, CO, Ar (e pertanto impiegata per campionare l aria), la seconda colonna permette di separare con buoni risultati i tre gas costituenti la miscela GEM, essendo solitamente impiegata per la separazione di idrocarburi leggeri (fino a C4) e gas come CO2, H2S, SO2, N2O; la terza ed ultima colonna è quella relativa all analisi di componenti idrocarburici pesanti (da C4 a C12), BTEX (benzene, toluene, etilbenzene e xylene) e VOCs (Volatile Organic Compounds, composti caratterizzati da un elevata tensione di vapore a temperatura ambiente, come acetone, etanolo alcool isopopropilico) che eventualmente potrebbero formarsi durante la campagna di test. Ogni volta che il campione è inviato allo strumento di misura, con una pressione massima di 0.2 MPa, si ottiene una separazione simultanea da tutte le colonne, in precedenza opportunatamente settate per ottenere un cromatogramma ideale. Fig. 8.14: Agilent 3000 Micro Gas Chromatograph Ogni analisi condotta per l acquisizione dei references delle linee si compone di 5 run da 3 minuti in cui si invia una grande quantità di miscela all interno dello strumento, con il compito di pulire le sue linee interne (durante questa operazione preliminare il detector del rilevatore, di tipo TCD, è spento) e da successivi 20 run, sempre da 3 minuti ciascuno. Poiché solamente le ultime analisi sono apparse essere le più veritiere e sicure, essendo ormai lo strumento stabilizzato, come dimostrato dall andamento dei tempi di ritenzione dei componenti della miscela GEM inviata (Fig. 8.15a/b), si è deciso di concludere il ciclo di analisi con un ultimo run di 10 minuti, in modo da poter permettere l adsorbimento completo dei vari componenti sulla colonna. La scelta di questo intervallo di tempo di analisi è stata effettuata sulla base delle caratteristiche dello strumento di misura, ispirandosi anche a precedenti studi, compiuti in passato per altri rivelatori ma presentanti gli stessi fini e le stesse problematiche: in queste, si è notato infatti che tutti gli eventuali prodotti di outgassing erano ritenuti sulle colonne dello strumento entro i 5 minuti di analisi e, pertanto, la decisione di raddoppiare questo lasso di tempo permetteva di essere in completa sicurezza. Periodicamente si effettueranno comunque dei test con un intervallo di analisi maggiore, di circa 30 minuti. 150

151 Fig. 8.15a: Andamento tipico dei tempi di ritenzione in funzione del numero di run eseguiti Fig. 8.15b: Dettaglio dell andamento dei tempi di ritenzione in funzione del numero di run eseguiti per CF4 (in alto a sinistra), Ar (in alto a destra) e CO2 (al centro) Tutti i run eseguiti sono in seguito analizzati, riportando su tabella i valori dei tempi di ritenzione e la composizione delle varie componenti gassose presenti nel sistema (Tabella 8.2, Fig. 8.16); inoltre, tutti i dati e le analisi acquisite sono caricati sul server interno CERN, provvedendo a creare anche un registro dati che mostri le eventuali variazioni delle due grandezze sopra riportate nel corso della campagna di ageing e per ogni gas presente e correttamente identificato. 151

152 Fig. 8.16: Andamento tipico dei valori di composizione in funzione del numero di run eseguiti Le prime analisi compiute su campioni di aria e della miscela sono ovviamente servite per rilevare l esatta posizione dei vari picchi (Fig. 8.17), individuare eventuali errori strumentali sulla lettura della composizione, settare i giusti parametri del gas cromatografo in modo da separare il più possibile i picchi e ridurre l eventuale rumore di fondo. N 2 O 2 Fig. 8.17: Dettaglio dei picchi per i principali componenti dell aria La separazione ottimale dei picchi è stata ottenuta impostando un idonea temperatura di colonna: è infatti questo il parametro che ha maggior influenza sui tempi di ritenzione, in modo ovviamente diverso a seconda del gas che si sta analizzando. Numerosi test di ricerca del valore ottimale di temperatura per ogni colonna (Fig. 8.18), uniti alle informazioni ricavate da documenti relativi ad analisi compiute con il medesimo setup di gascromatografia (strumento, colonne, carrier gas), hanno permesso di raggiungere lo scopo prefissato (Fig. 8.19a/b). 152

153 Fig. 8.18: Metodo di analisi impiegato: particolare dei parametri utilizzati CF 4 Ar CO 2 Fig. 8.19a: Dettaglio dei picchi per i gas costituenti la miscela GEM 153

154 CF 4 Ar Fig. 8.19b: Dettaglio dei picchi per CF 4 e Ar Durante il periodo di tuning dello strumento di analisi sono emerse alcune problematiche legate alla prima colonna. Questa colonna è impiegata, come detto, della separazione di gas quali O2, N2, H2 ed Ar, e proprio questo ultimo gas, correttamente separato dalla colonna (Fig. 8.20), ha costituito una fonte di interferenza nella determinazione dei componenti dell aria: un ingrandimento del picco mostra infatti un andamento locale del cromatogramma molto lontano da quello auspicabile per una corretta analisi, essendo il grafico oscillatorio (sia in verticale che in orizzontale) man mano che si procede con la campagna di analisi (Fig.8.21). Il motivo di questo anomalo comportamento è imputabile alla scelta del tipo di gas cromatografo da installare (o, meglio, all uso di uno strumento già presente al CERN e non dedicato a questo sistema), ed in particolare del tipo di colonne che lo compongono, oltre che ad una non ottima strumentazione installata sulla linea del gas: Infatti, per avere una corretta analisi in gas cromatografia, è necessario che il carrier gas impiegato non sia rilevabile dal sistema, requisito che ovviamente non è rispettato nella prima colonna: impiegando questa, come gas di trasporto, argon ed essendo lo stesso gas presente anche all interno del campione, è del tutto impossibile ottenere un andamento del cromatogramma ottimale. La riduzione della quantità di campione da inviare alla prima colonna ha permesso di ottenere dei valori di segnale raccolto dallo strumento estremamente bassi; tuttavia l andamento dello spettro relativo al picco dell Ar ha continuato ad essere fortemente oscillatorio e variabile nel tempo, situazione che ha portato a sovrapporre parzialmente o totalmente i picchi presenti, specialmente quelli relativi all aria. Ar Fig. 8.20: Dettaglio del picco per Ar 154

155 Ar N 2 Fig. 8.21: Dettaglio dei picchi per Ar e N 2 Per trovare una soluzione al problema, si è pensato inizialmente che una strada potesse essere un elaborazione dei picchi dei cromatogrammi relativi a questa colonna: in particolare, si è provato a sottrarre punto per punto il corrispettivo valore della sola baseline, acquisita in precedenza per la linea di Reference e per la quale erano presenti solo i gas della miscela (la rilevazione di tali gas è effettuata nella seconda e nella terza colonna e pertanto la linea di base relativa alla prima colonna è tale da non nascondere nessun picco). Così facendo è stato possibile evidenziare i picchi non risolti del cromatogramma: nella fattispecie il problema è sorto durante le prime analisi della linea Outgassing, in cui si hanno alcune piccole contaminazioni del sistema, dovute al serraggio non ottimale dell Outgassing Box, (estrema delicatezza del suo sistema di chiusura), che si è scoperto poi, da ricerche effettuate, aver creato lo stesso tipo di problematiche per esperimenti simili ed effettuati in passato. Nonostante questa manipolazione dei dati permetta di ottenere inizialmente delle buone analisi, si è notato che, a causa delle fluttuazioni di posizione del picco dell argon, tale metodo non può essere sempre applicato con successo: ai motivi elencati in precedenza (impiego di Ar sia come carrier gas nell analisi di una miscela che lo contiene, con una colonna che lo separa), bisogna aggiungere che la regolazione delle portate non è conseguita tramite delle valvole di regolazione ma attraverso dei flussimetri, i quali non permettono di ottenere una regolazione stabile (le oscillazioni della portata del campione comportano una variazione del picco relativo sul cromatogramma, situazione che comporta un maggiore o minore mascheramento degli altri picchi presenti). Pertanto, la sottrazione della baseline comporta spesso l ottenimento di un cromatogramma approssimativo, in cui è possibile osservare andamenti molto lontani dalla situazione reale o addirittura la presenza di picchi non presenti nella realtà. Ovviamente il problema si sarebbe potuto risolvere agevolmente cambiando il tipo di colonna o il tipo di gas di trasporto impiegato, ma queste soluzioni non sono state perseguite per motivi di tempistica, di costi e di spazio a disposizione all interno del padiglione della GIF; inoltre, essendo il problema emerso durante l installazione dell elettronica e dei detector SWPC di reference, non è stato possibile intervenire nuovamente sulla linea per cambiarne il setup. Viste le problematiche evidenziate, si è deciso che l unica strada perseguibile fosse analizzare ed integrare la sola parte dei picchi visibili (Fig. 8.14), scelta che permette comunque di stabilire l eventuale presenza di aria all interno del sistema (successive ricerche su test di outgassing condotti in passato hanno permesso di stabilire che una presenza di aria di poche decine di parti per milioni è 155

156 assolutamente normale all interno del sistema e per nulla gravosa ai fini dell esperimento); il monitoraggio del guadagno del rivelatore a singolo filo, che in caso di forti percentuali di aria avrebbe subito una forte diminuzione, avrebbe comunque permesso di avere un ulteriore conferma sulla quantità di aria presente all interno della linea. Trattando di analisi comparative si è cercato di ovviare quanto più possibile agli inconvenienti illustrati, ma anche in questo caso è stata fatta esplicita richiesta di adeguare la strumentazione al tipo di analisi e dati da ottenere Inizio dei test e primi risultati A inizio Luglio 2013 sono cominciati, dopo qualche ritardo tecnico dovuto anche alla coordinazione degli spazi presenti nel padiglione della GIF con gli altri esperimenti presenti al CERN, i primi test sulle linee GIF ed outgassing: scopo di questo paragrafo è di fornire i primi risultati ottenuti per il sistema di studio dei fenomeni di invecchiamento, descrivendo meglio quello che è il sistema di controllo e studio dell outgassing. Come descritto in precedenza (vedi paragrafo 8.2), il sistema allestito presso la GIF vuole studiare il comportamento a lungo termine dei detector GEM, prendendo in considerazione quelle che sono le interazioni dei materiali con i gas costituenti la miscela GEM e gli effetti dovuti all esposizione ad ambienti fortemente radiogeni. Per perseguire questo obiettivo sono state allestite due differenti linee di analisi presentanti tutta la strumentazione necessaria per il monitoraggio delle grandezze di interesse per i rivelatori GEM e dei vari parametri ambientali (temperatura, pressione ed umidità) che possono in qualche modo influenzare la risposta dei detector stessi. È presente inoltre una terza linea, impiegata come reference, necessaria per acquisire le informazioni e lo stato di riferimento, per le analisi di gascromatografia. Per prima cosa si vuole riportare quanto ottenuto dalle analisi di gascromatografia: lo strumento di analisi non ha per il momento evidenziato particolari interazioni o modifiche della miscela gassosa impiegata per i detector GEM, che ha mantenuto sempre la propria composizione in queste prime settimane di conduzione dei test. Anche l integrità delle linee è stata preservata, non essendoci stati particolari problemi o ingressi di aria e/o inquinanti. La linea di Outgassing (Fig. 8.22) prevede, oltre tutta la strumentazione elettronica del caso, l installazione di una scatola cilindrica (Outgassing Box) all interno della quale verranno inseriti tutti quei materiali costituenti il rivelatore GEM (Fig. 8.23), non limitandosi solamente alle componenti del foglio GEM (kapton e rame), ma anche a tutte quelle parti interessanti le connessioni, i rinforzi, le colle e gli adesivi che sono impiegati solitamente. Seguono l Outgassing Box il punto di prelievo del campione per le analisi di gas cromatografia ed un detector GEM, di dimensioni 10X10 cm 2, per il quale sarà monitorato l andamento del guadagno, confrontando quello che sarà il suo andamento con quanto osservabile da un rivelatore a singolo filo installato poco prima; entrambi i detector saranno continuamenti esposti ad una piccola sorgente di radiazioni, al fine di riprodurre, sempre, le condizioni il più possibili simili a quelle di lavoro in CMS. 156

157 Fig. 8.22: Componenti e strumentazione presente nella linea di Outgassing Fig. 8.23: Materiali e componenti presenti all interno di un rivelatore a tripla GEM; cerchiati in rosso i componenti che saranno inseriti nella Outgassing Box La scelta di quali materiali testare è stata effettuata ricercando in letteratura informazioni circa la loro resistenza alle dose di radiazioni e i vari prodotti di outgassing rilasciati. Per ovvie e comprensibili ragioni, sono stati selezionati specialmente i materiali di origine organica, di certo molto più sensibili alle modifiche ed interazioni cui le miscele gassose ed agenti ionizzanti possono apportare. Ogni componente da testare (Tabella 8.3) sarà inserito all interno della Outgassing Box e lasciato libero di interagire con i fluidi costituenti la miscela gassosa per un periodo di circa due settimane a temperatura ambiente; l impiego del gas cromatografo, al momento unico strumento di analisi per i componenti gassosi, permetterà di monitorare la composizione di Ar, CF4 e CO2, registrando inoltre la presenza di picchi sconosciuti e quindi associati a prodotti di outgassing. Un opportuna serie di strumenti elettronici volti 157

158 allo scopo permetteranno di monitorare continuamente l andamento del guadagno, completando così lo studio di outgassing per i detector GEM. Tabella 8.3: Elenco dei materiali testati per la campagna di outgassing Se nel periodo di esposizione alla miscela GEM non saranno notati sostanziali interazioni nei materiali testati capaci di modificare la composizione dei gas, influenzare il guadagno della camera GEM o del rivelatore SWPC inserito come reference, si provvederà a riscaldare la camera di outgassing fino alla temperatura di 50 C al fine di accelerare i fenomeni e meccanismi in gioco. Bibliografia [36] Mechanisms of Plasma Polymerization Reviewed from a Chemical Point of View ; Friedrich J.; published in Plasma Processes and Polymers, WILET- VCH,Volume 8, Issue 9, pp ; 2011 [40] Compilation of radiation damage test data, part IV: Adhesives ; Guarino F., Hauviller C. and Tavlet M.; CERN Service d information scientifique; 2001 [41] Compilation of radiation damage test data, part II, 2nd edition: Thermoste and thermoplastic resins, composite materials ; Tavlet M. Fontaine A. and Schönbacher H.; CERN Service d information scientifique;

159 [42] Compilation of radiation damage test data, part III: Materials used around highenergy accelerators ; Beynel P., Maier P. and Schönbacher H.; CERN Service d information scientifique; 1982 [43] Long term study of CMS GEM detectors ; Merlin J.; Slides for meeting; 2013 [44] Study of the ageing of gaseous detectors and solutions for the use of MSGCs in high rate experimentis ; Capeáns M.; Tesi di Dottorato; 1995 [45] Outgassing analysis of various detector materials ; Andersson H., Heino J. et al; Nuclear Science Symposium and Medical Imaging Conference (NSS/MIC), IEEE, pp ; 2003 [46] Microscopio a scansione elettronica dalle lezioni del prof. Vittone ; Politecnico di Torino; 2004 [47] Spettrometria e gascromatografia-spettrometria di massa. Principi e applicazioni ; Vaglio G.A; Piccin-Nuova Libraria; 1981 [48] Introduzione pratica alla Gascromatografia ; Baars B.G.J., Miliazza A.; Morgan Edizioni Tecniche, Milano; 2002 (8) (9) 159

160 Conclusioni Questo lavoro di tesi ha contribuito a sviluppare una più ampia conoscenza dei materiali dei detector GEM che saranno installati prossimamente sul rivelatore CMS, e di progettare, impostare e avviare una campagna di studi di aging improntata sia alla verifica degli aspetti della fisica del sistema che a quelli dell ingegneria. Il lavoro presentato vuole gettare uno sguardo critico, quasi pioneristico, all interno del campo scientifico della fisica delle particelle, sulle proprietà e le problematiche dei materiali regolarmente impiegati. Il periodo di permanenza presso i laboratori del CERN ha permesso in un primo momento di inquadrare le specifiche richieste del detector e le condizioni di esercizio cui questi sarà esposto dopo la sua installazione: senza l adeguato background di conoscenze, non solo del rivelatore e delle sue funzionalità, ma anche e soprattutto delle caratteristiche, delle potenzialità e dei limiti dei materiali impiegati, sarebbe stata impossibile qualsiasi tipo di sperimentazione e di caratterizzazione. La difficoltà maggiore nello studio e nella caratterizzazione che si voleva fornire risiedeva sia nel tipo di materiali scelti per la costruzione del rivelatore, sia nelle loro dimensioni, sia nel severo ambiente cui i materiali sarebbero stati esposti: mai prima erano stati condotti degli studi sistematici per la caratterizzazione dei materiali costituenti detector in analoghe condizioni di lavoro (diverse volta per volta a seconda del tipo di esperimento scientifico che si considera all interno di LHC) e impieganti le stesse miscele di gas. Per i motivi appena citati, sono stati condotti molti parallelismi con altri settori scientifici ed applicazioni simili, ricercando di volta in volta problematiche simili a quelle che si possono verificare all interno del detector GEM. In questo modo, da un confronto con le problematiche sollevate dall uso di film ultrasottili normalmente impiegati in elettronica e presentanti una configurazione estremamente simile a quella dei fogli GEM, è stato preso in considerazione come prioritario l aspetto dell interazione del materiale con l umidità. È stato sperimentalmente ottenuto, per il sistema in esame, il valore del coefficiente di diffusione e successivamente si è provveduto mediante esso a modellizzare i meccanismi di trasporto nel caso specifico. Il risultato ottenuto, è stato poi validato da prove di laboratorio e da test messi a punto ad hoc sia su fogli di semplice kapton che su fogli GEM (kapton ramato e microforato). Questo ha permesso di confermare che nelle normali condizioni di esercizio lo strato di poliimmide impiegato per la costruzione dei fogli GEM si trovi a lavorare in condizioni di completa saturazione, raggiunta circa 8 ore di esercizio: questo range di tempo per il raggiungimento della saturazione è del tutto trascurabile rispetto al tempo di esercizio del sistema, per il quale sono previsti shutdown dopo periodi dell ordine degli anni. Nonostante sia presente acqua, quindi, nel sistema, e per lo più allo stato liquido, non sono stati osservati sostanziali cambiamenti delle proprietà meccaniche ed elettriche del sistema rame-kapton-rame: in particolare, la costante dielettrica (che è il parametro di esercizio più significativo per questo tipo di rivelatori) non evidenzia apprezzabili modifiche nel suo valore per il valore di umidità imposto. La presenza di questo fluido può comunque influenzare negativamente i parametri di carattere più prettamente fisico, portando alla diminuzione del guadagno delle camere o 160

161 ad effetti secondari non voluti, come lo sviluppo di composti reattivi come l acido fluoridrico. Pertanto, data l importanza del problema e alla luce anche del tipo di sistema di distribuzione dei gas impiegati per questi rivelatori, sono stati approntati e condotti i primi studi sperimentali sulle modalità di desorbimento dell acqua dai materiali impiegati. È stato così determinato per il kapton un tempo di 13 ore per ottenere la rimozione dell acqua in precedenza adsorbita giungendo ad un plateau che indica il valore massimo di acqua desorbita nel materiale. La prova è stata effettuata utilizzando un contenitore contenente silica gel con una umidità relativa controllata da un igrometro. La quantità residua di liquido contenuto all interno della struttura si è quindi dimostrata essere ancora molto elevata (80% rispetto alla quantità presente a saturazione). Questa condizione, tuttavia, risulta essere alquanto favorevole rispetto a quanto detto in precedenza sull aspetto della produzione di composti dannosi o corrosivi dovuti al rilascio dell acqua nel sistema ed all interazione di questa con le miscele di gas utilizzate. Sono già in programma ulteriori test, questa volta effettuati su campioni di fogli GEM, da eseguire per lo studio del desorbimento, e in questi è stato anche previsto il flussaggio con le miscele di gas utilizzate nel sistema al fine di valutare eventuali differenze nella quantità di acqua desorbita in una condizione più vicina alla realtà dell operatività del sistema e successivamente anche mediante l uso di miscele di gas riscaldate allo scopo di definire una procedura standard che permetta di ottenere un corretto condizionamento del detector prima del suo impiego all interno del rivelatore di CMS e nelle pause di manutenzione, garantendo la completa rimozione di acqua dal sistema. Sono stati compiuti studi di carattere meccanico sia su campioni di solo kapton che su fogli GEM, con il fine di evidenziare le eventuali principali modifiche che il doppio rivestimento di rame e la presenza della trama dei fori per la moltiplicazione elettronica apportano alla struttura. Sono stati allestiti alcuni test di trazione monoassiale, punto di partenza per futuri test di caratterizzazione ed approfondimento. Il confronto dei risultati ottenuti in queste prove hanno mostrato che, nonostante un iniziale incremento della rigidità del sistema, rispetto al solo polimero (dovuta senza ombra di dubbio alla presenza del rame), si registra una generale inflessione dei valori resistenziali causati della trama dei fori presenti (diminuzione di circa il 40% della massima resistenza a rottura). Anche sulla scorta di esperienze simili e precedenti, che hanno rivelato come sia opportuno procedere attraverso un tensionamento biassiale della struttura per non deformare in maniera permanente la geometria dei fori (massima tensione applicabile pari a 16.5 MPa), sono stati programmati ulteriori test meccanici sui materiali partendo dalle indicazioni ottenute dai test riportati in questo lavoro. I test sono stati ripetuti su campioni esposti ad un ambiente con umidità controllata al 99.5%, non registrando sostanziali cambiamenti delle proprietà meccaniche del foglio GEM, se non per i valori di deformazione relativa, maggiori di un 33% per i campioni esposti in precedenza ad alti valori di umidità; da segnalare infine un sensibile aumento della tensione (pari al 9%) per il kapton, risultato in contrasto con i dati ufficiali rilasciati dalla casa produttrice e sul quale varrà la pena compiere ulteriori studi. Il confronto delle proprietà meccaniche per campioni di kapton ricavati secondo la direzione longitudinale e trasversale ha permesso di osservare un leggero aumento (10%) dei valori resistenziali a favore dell ultima direzione, condizione che varrebbe la pena prendere in considerazione all atto della costruzione dei rivelatori che, ad oggi, prevede l utilizzo del polimero lungo la sua direzione longitudinale. Parallelamente all attività di caratterizzazione dei materiali in se, è stato allestito un sistema di monitoraggio e di studio dei fenomeni di aging che coinvolgono sia il detector (con i suoi materiali appunto) sia i fluidi del sistema (miscele di gas e acqua presenti). Anche in questo caso è stato fondamentale partire da esperienze maturate in situazioni analoghe per altri detector impiegati in passato e dallo studio dei fenomeni di interazione 161

162 con gli agenti ionizzanti, in particolare all interno di un ambiente plasmatico. In questo sistema di monitoring forse per la prima volta, ma certamente per la prima volta in maniera sistematica sono stati conciliati i protocolli prettamente fisici per lo studio di aging come il deterioramento del segnale, la risalita delle correnti e la diminuzione del guadagno, con quelli di carattere prettamente ingegneristico, come lo studio dei materiali (caratterizzazione) e dei fluidi impiegati (analisi ed interazioni). Il sistema, il cui allestimento è stato portato a termine, prevede due linee di analisi, la prima che si occuperà dello studio dei fenomeni di outgassing dei materiali a seguito delle interazioni con la miscela gassosa inviata al rivelatore, la seconda tratterà invece gli aspetti relativi all influenza delle radiazioni sui materiali costituenti il detector; entrambe le linee sono alimentate tramite una bombola premiscelata contenente la miscela GEM (CF4/Ar/CO2) e prevedono l installazione di numerosi strumenti di analisi, detector di riferimento e sorgenti di radiazioni (tali da riprodurre le effettive condizioni che si avranno nell ambiente di lavoro di CMS). Una terza linea, con funzione di reference ed alimentata dalla stessa bombola di gas prima citata, è stata installata in modo da ottenere importanti informazioni circa lo stato di pulizia delle altre due linee di analisi, la stabilità della miscela impiegata per i rivelatori e l acquisizione degli stati di riferimento. La caratterizzazione dei gas inviati ai detector GEM, sia dal punto di vista morfologico che chimico, è stata eseguita con rigorose e costanti analisi di gascromatografia (per quel che riguarda la miscela gassosa inviata all interno del rivelatore) e spettrografia ad infrarossi e microscopia ottica ed a scansione elettronica (per quel che riguarda i materiali veri e propri). Per la campagna di studio dei fenomeni di aging è stato previsto almeno un anno di acquisizione dati e sperimentazione e test. Solo da pochi giorni è iniziato il flussaggio e sono iniziati i primi campionamenti di miscela in circolo nel sistema, e quindi non è possibile in questa sede fornire dati e indicazioni in merito. In questa tesi è stato sviluppato il setup e sono stati riportati tutti i principali passi che hanno permesso il suo allestimento del in un area del CERN dedicata ed è stata portata a termine la sua installazione. Sono state inoltre standardizzate le modalità di campionamento e di analisi in modo da ottenere le migliori risposte degli strumenti di indagine, in particolare in gascromatografia, mediate tarature con miscele di gas certificate e sono stati acquisisti i dati dello stato del sistema al tempo zero, dati, questi, necessari per i successivi confronti con i valori dopo attività di flussaggio nel sistema. Il lavoro ha prodotto una nota interna LNF ( Test for the Measurement od Diffusion Coefficient of Water in Kapton Foils for the GEM Detector of the Upgraded High- Pseudorapidity Muon Detection in CMS, INFN-13-09/LNF), cui seguirà una successiva nota, contenente gli altri studi effettuati sulle interazioni tra l umidità ed il foglio GEM, ed una nota interna CMS, in corso di pubblicazione. Nel mese di Maggio è stato presentato un poster di presentazione del setup di analisi dei fenomeni di aging per i rivelatori GEM in occasione di una conferenza interna CMS a Desy (Germania), che ha vinto un premio come miglior lavoro presentato sulla parte dei materiali e sono stati proposti e accettati due talk a conferenze internazionali, la prima organizzata dalla Società Italiana di Fisica e che avrà luogo a Trieste a fine Settembre (XCIX Congresso Nazionale della SIF), la seconda ad Ottobre presso Siena (13th Topical Seminar on Innovative Particle and Radiation Detectors). Allo scrivente è stato proposto dal CERN di continuare l attività di presa dati almeno per ulteriori tre mesi in modo da avviare la campagna di analisi progettata ed affiancare, in un secondo momento, il gruppo in carica dello studio dei fenomeni di aging dei rivelatori GEM. 162

163 Appendice #1 Principali tecniche di analisi impiegate A.1. Introduzione Nel corso dell opera sono state compiute numerose analisi dei materiali costituenti il rivelatore GEM, al fine di studiarne le proprietà, le interazioni con i fluidi ed i gas di processo, le modifiche strutturali, compositive e morfologiche a seguito dell esercizio del detector stesso. La presente Appendice vuole descrivere alcune delle tecniche di analisi e relative strumentazioni utilizzate, in modo da poter aiutare a comprendere il perché di alcune scelte effettuate o di alcuni problemi evidenziati nel corso dello studio dei materiali GEM. Ovviamente non potrà essere data una trattazione esaustiva dell argomento e ci si limiterà, pertanto, a mettere in luce i principali aspetti che caratterizzano queste metodologie di indagine, in particolare della gascromatografia, della spettroscopia ad infrarossi e della microscopia a scansione elettronica. A.2. La gascromatografia La gascromatografia è una tecnica cromatografica impiegata a scopo analitico che si basa sulla ripartizione della miscela in analisi tra una fase stazionaria ed una mobile, in funzione della diversa affinità di ogni sostanza della miscela con le fasi. Strumentalmente, nella forma più elementare, è basata su un piccolo forno termostatabile, in cui è alloggiata la colonna cromatografica: essa è sommariamente formata da un avvolgimento costituito da un sottile tubo capillare (in alternativa sono presenti anche colonne presentanti diametri maggiori), lungo alcuni metri e tale da presentare una buona affinità con i componenti della miscela da analizzare; poiché stabile ed immobile, la colonna è talvolta definita anche fase fissa. Il campione è introdotto all interno dello strumento ad una sua estremità grazie ad un flusso di gas, definito carrier gas e solitamente inerte (ad esempio He, Ar, H2, N2), e dopo un certo tempo i componenti separati fuoriescono col flusso di gas dall'estremità opposta, dove è posto un opportuno rivelatore in grado di segnalarli. 163

164 La gascromatografia presenta come unica grande limitazione il fatto che il campione deve essere iniettato, per la specifica temperatura impostata nella colonna per l analisi, allo stato gassoso; ciò ovviamente è valido quando lo scopo dell analisi è quello di separare una miscela, o un componente, a partire da una soluzione liquida, mentre le analisi di campioni già di per sé allo stato gassoso non presentano, ovviamente, questi tipi di problematiche. I meccanismi basilari di separazione che si sfruttano in gascromatografia sono l adsorbimento (su di una fase solida) e la ripartizione (su di una fase liquida): adsorbimento: la fase stazionaria è costituita da un solido sulla cui superficie si trovano dei siti attivi in grado di stabilire una serie di legami di tipo fisico (interazioni dipolo-dipolo, legami ad idrogeno, forze di Van der Waals ) con i diversi componenti della miscela da analizzare; in questo caso si parla di cromatografia gas-solido (GSC, Gas-Solid Chromatography). ripartizione: la fase stazionaria è composta da un liquido in cui si verifica una vera e propria solubilizzazione delle varie componenti del campione in analisi; in questo caso si parla, invece, di cromatografia gas-liquido (GLC, Gas-Liquid Chromatography). La fase stazionaria rappresenta il substrato sul quale viene operata la separazione dei vari componenti; contenuta all interno della colonna, questa è generalmente un liquido non volatile, supportato su di una polvere che riempie uniformemente la colonna stessa (colonna impaccata), oppure distribuito come film sottile di spessore intorno al micron e contenuto all interno della colonna (colonna capillare), la cui lunghezza è anche superiore ai 10 m ed il diametro inferiore al millimetro. Il liquido costituente la fase stazionaria può variare a seconda dell'applicazione, ossia del tipo di composti che si intendono analizzare. La fase mobile è costituita da un gas, detto anche gas di trasporto, gas vettore o carrier gas; questa fase ha il compito di trasportare il campione da analizzare lungo la colonna, in modo che si possa avere il trattenimento (ritenzione) dei vari componenti sulla fase stazionaria. Come detto, la scelta del tipo di gas da impiegare per il trasporto del campione ricade su composti chimicamente inerti ed ottenibili ad elevata purezza (99,9%); tuttavia, per alcune applicazioni vengono anche utilizzati l'idrogeno o l'anidride carbonica. Il campione, iniettato in testa alla colonna e sottoposto al flusso costante del gas di trasporto, è separato nelle sue componenti in funzione di quanto queste siano affini alla fase stazionaria: a seconda del tipo di affinità mostrata, i vari composti saranno trattenuti, o meglio ritenuti, in posizioni diverse della colonna, ossia ogni campione avrà un proprio tempo di ritenzione: ( A.1) essendo tr il tempo di ritenzione, x la posizione della colonna in cui è avvenuta la ritenzione del componente e v la velocità del gas di trasporto. Un'ulteriore variabile su cui si agisce spesso per migliorare la separazione è la temperatura della colonna, che può essere mantenuta costante (isoterma) o fatta variare secondo un gradiente desiderato (programmata di temperatura). Quando il campione esce dall'estremità finale della colonna (eluizione del campione), questi è raccolto da un rivelatore che genera un segnale. Il diagramma che rappresenta il segnale generato dal rivelatore in funzione del tempo è definito cromatogramma del 164

165 campione; ovviamente l istante iniziale è fissato al momento in cui il campione viene iniettato all interno della colonna. Il cromatogramma (Fig. A.1) si presenta come una sequenza di picchi di varia ampiezza ed altezza distribuiti lungo l'asse del tempo; dal tempo di ritenzione di ogni picco è possibile dedurre l'identità del composto eluito mentre dall'area dei picchi è possibile dedurre le concentrazioni dei vari composti presenti nel campione analizzato. Fig. A.1: Esempio di cromatogramma A.2.1. L introduzione del campione Il campione viene generalmente introdotto all interno della colonna nella quantità di pochi microgrammi; spesso il campione da analizzare è sciolto in un opportuno solvente ed iniettato tramite una siringa, altre volte è sottoposto a riscaldamento in modo da fare avvenire il passaggio di stato dei suoi componenti in fase vapore ed iniettarli dopo previa aspirazione in una siringa o una fiala, mentre in altre si invia direttamente il campione allo stato gassoso. La differenza tra i procedimenti di introduzione del campione dipende, ovviamente, dallo stato fisico e dal tipo di miscela che si vuole analizzare; esistono poi una serie di modalità che diversificano le analisi eseguibili in gascromatografia, come ad esempio la possibilità di poter campionare solamente una parte della miscela o di effettuare un introduzione manuale o automatica. L'iniettore, che insieme alla colonna e al rilevatore completa la struttura del gascromatografo, è composto essenzialmente da un sistema chiuso, stabilizzato termicamente, al cui interno trova alloggio un inserto in vetro, non presente nelle colonne impaccate e un blocco riscaldante. La presenza dell iniettore è necessaria per l ottenimento di una corretta analisi del campione, poiché permette la sua completa omogeneizzazione ed assicura che sia completamente presente in fase vapore. È possibile distinguere in due tipi di iniezione: iniezione split: questo tipo di introduzione del campione è da preferire quando la miscela da analizzare, a causa della sua elevata concentrazione, potrebbe saturare la risposta del rivelatore, portando ad un risultato finale fuori scala. Attraverso lo split si effettua una diluizione del campione nel carrier gas, regolando la quantità che deve essere immessa all interno della colonna (tempo di iniezione) e liberando la restante parte di gas all esterno tramite un opportuno sfiatatoio. 165

166 iniezione splitless: questa modalità di iniezione porta ad analizzare l intera massa di gas costituente il campione; in questo caso il solvente impiegato per la dissoluzione del campione dovrebbe essere la prima specie ad arrivare sulla colonna e, pertanto, sarà possibile notare sul cromatogramma un picco ben visibile ed inconfondibile. A.2.2. Le colonne Come detto in precedenza, è possibile distinguere in due tipi di colonne: colonna impaccata: si tratta di una colonna molto simile a quelle impiegate nelle altre tecniche di cromatografia, costituita da un tubo di teflon, vetro borosilicato o acciaio, con lunghezza fino a 10 m ed un diametro fino a qualche centimetro, piegato a spirale (Fig. A.2) o a U. All interno del tubo è poi presente la fase stazionaria costituita da un supporto solido, generalmente gel di silice, allumina o carbone, e da un liquido non volatile, la cui scelta dipende dal tipo di composti che si vogliono separare. Fig. A.2: Colonna impaccata avvolta a spirale colonna capillare: questa tipologia di colonna prevede un sottile tubo di silice fusa, di diametro generalmente non superiore agli 0,53 mm e di lunghezza non inferiore ai 10 m, avvolto a spirale su un supporto metallico (Fig. A.3). La fase stazionaria è presente come film uniformemente distribuito sulla superficie interna della colonna e presenta uno spessore che, a seconda della capacità di carico della colonna, varia generalmente tra 0,5 e 2,5 µm; a seconda dei casi, la fase stazionaria può essere adesa alle pareti della colonna o ancorata ad un supporto. Generalmente il film è costituito da metil-silossani modificati su cui sono presenti differenti gruppi funzionali che permettono la ritenzione dei vari composti da analizzare. Le fasi stazionarie si differenziano in primo luogo per la loro polarità: sostanze che risultano avere una polarità simile alla fase stazionaria saranno maggiormente trattenute in colonna (tempi di ritenzione più lunghi), poiché le 166

167 interazioni che si andranno a creare saranno più numerose e presenteranno una maggiore forza. Fig. A.3: Colonna capillare A.2.3. I rivelatori (o detector) I rivelatori presenti in gascromatografia sono di diverso tipo, in funzione del principio fisico utilizzato per rilevare l'uscita delle sostanze dalla colonna e della loro specificità. Principalmente, questi possono essere distruttivi (FID) o non distruttivi (ECD, TCD); l impiego, poi, di rivelatori non distruttivi per l analisi delle componenti di un campione permette il successivo invio delle stesse ad ulteriori gradi di analisi (ad esempio analisi di massa). È possibile individuare tre classi principali di rivelatori: rivelatore a conducibilità termica (TCD, Thermal Conductivity Detector): tale detector è costituito da due filamenti, uno su cui scorre il carrier gas puro e l altro dove scorre il gas in uscita dalla colonna; entrambi sono riscaldati elettricamente e mantenuti a temperatura costante (Fig. A.4). Quando si ha l eluizione di un composto, il secondo filamento subirà un raffreddamento (o un riscaldamento) rispetto al primo per via del calore più (o meno) facilmente asportato dal gas contenente la sostanza in espulsione dalla colonna; tale variazione di temperatura si riflette poi in una variazione della resistenza, che viene amplificata e rappresenta il segnale del rilevatore. Fig. A.4: Schema illustrativo di un detector TCD 167

168 rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID, Flame Ionization Detector): per una tale tipologia di detector, il gas di trasporto (solitamente elio o azoto) in uscita dalla colonna è mescolato con idrogeno ed ossigeno. Successivamente, grazie ad un elettrodo presente all uscita del gas dalla colonna, si ha lo sviluppo di una fiamma nella quale i vapori di campione combusto sono caricati elettricamente; si ha così la formazione di ioni che sono poi raccolti sulla superficie del rilevatore, con produzione di una corrente elettrica che, amplificata, rappresenta il segnale del rilevatore (Fig. A.5). Il picco che si può osservare sul cromatogramma è dato dalla differenza tra il gas puro e quello contenente la sostanza separata. Nonostante il suo essere cieco a tutte le sostanze che non bruciano (ad esempio, l'acqua), il FID è uno dei rilevatori più diffusi, permettendo di ottenere analisi accurate anche dopo molte ore di esercizio. Fig. A.5: Schema illustrativo di un detector FID rivelatore a cattura di elettroni (ECD, Electron Capture Detector): si tratta di un radioisotopo, in genere Ni 63, impiegato come sorgente di raggi beta (Fig. A.6). Composti contenenti atomi elettronegativi, e che presentano pertanto un forte tendenza ad assorbire elettroni, possono essere visualizzati all atto dell eluizione dalla colonna grazie alla presenza di un rivelatore di elettroni, che raccoglie su di sé tutta la carica non assorbita dalle specie in questione. In genere queste molecole sarebbero scarsamente visibili con altri rilevatori: ad esempio molti composti alogenati oltre a non bruciare possono addirittura estinguere la fiamma (con chiare limitazioni sul tipo di rivelatore utilizzabile). Fig. A.6: Schema illustrativo di un detector ECD rivelatori a fiamma fotometrica (FPD, Flame Photometric Detector) e rivelatori termoionici (TSD, Thermionic Specific Detector): si tratta di dispositivi dotati di elevata specificità per elementi quali l'azoto, il fosforo e lo 168

169 zolfo. Il detector a fiamma fotometrica sfrutta l'emissione di una radiazione di luminescenza prodotta dalla combustione di composti contenenti zolfo e fosforo in fiamma di idrogeno; il rivelatore termoionico sfrutta, invece, una parziale pirolisi attuata tramite bruciatore a fiamma idrogeno/aria e nella quale è misurata la corrente prodotta da radicali CN* e PO*, provenienti da composti contenenti azoto e fosforo, che acquistano elettroni da un apposita sorgente posta sopra la fiamma e portano alla formazione di ioni CN - e PO -. Per concludere, come detto, all'uscita della colonna cromatografica è possibile disporre un rivelatore che effettui una analisi non distruttiva che permetta di ottenere indicazioni sulla struttura di ogni singola sostanza eluita; solitamente tale strumento è uno spettrometro di massa. In breve, lo spettrometro di massa consiste di una camera di ionizzazione, come sorgente di ioni, seguita da un analizzatore di masse (in genere un analizzatore a quadrupolo, o tecnologie derivate), e di un rivelatore di ioni; il tutto è mantenuto in condizioni di alto vuoto mediante apposite pompe. I sistemi gas-massa (GC-MS), così come quelli liquido- massa (GL-MS), rappresentano delle tecniche di analisi più avanzate, che permettono l'identificazione e la quantificazione di sostanze organiche in una varietà di matrici; ovviamente l'implementazione delle tecniche GC e MS richiede un adattamento delle caratteristiche della strumentazione cromatografica e spettrometrica in modo da poter raggiungere un sufficiente grado di compatibilità. A.2.4. La taratura dello strumento Nella conduzione delle analisi di gascromatografia, così come in tutte le analisi di cromatografia in generale, è importante tarare opportunatamente lo strumento, acquisendo tutti gli standard dei componenti da analizzare. Questa procedura consiste nell iniettare nel sistema concentrazioni note della sostanza da sottoporre ad analisi per poter ricavare una curva di calibrazione: questa esprime la dipendenza tra l area del picco della determinata specie e la sua concentrazione, relazione che, entro certi limiti di concentrazione, è di tipo lineare (Fig. A.7). Iniettando perciò dei campioni a concentrazione nota, di volta in volta più o meno diluiti, ed integrando i relativi picchi, sarà possibile ricavare la retta di calibrazione, la cui equazione permetterà poi di ricavare la concentrazione di un campione a concentrazione incognita e sottoposto ad analisi. Fig. A.7: Esempio di retta di calibrazione, riportante in ascisse il valore di concentrazione ed in ordinata il segnale registrato (area del picco) 169

170 A.3. La spettroscopia ad Infrarossi La Spettroscopia Infrarossa a Trasformata di Fourier (FTIR, Fourier Transform Infrared) è una tecnica spettroscopica di assorbimento che permette di studiare i legami chimici di un dato materiale, portando alla sua identificazione, alla determinazione delle sue caratteristiche o al riconoscimento delle sue componenti (quando si tratta di miscele). La spettroscopia raccogli al suo interno tutte quelle analisi che hanno come obiettivo lo studio e la misura dello spettro di un campione, dove per spettro si intende l insieme di tutte le frequenze (o le lunghezze d onda) delle radiazioni elettromagnetiche. Più nel generico, attraverso la spettroscopia è possibile analizzare l intensità di una determinata radiazione elettromagnetica o di una data classe di particelle, prendendone in considerazione la loro energia, la loro lunghezza d onda, la loro frequenza o la loro massa. Gli strumenti che permettono lo studio dei vari spettri di radiazione sono detti spettrometri o spettrografi. Rispetto alle altre analisi di spettroscopia ottica, la FTIR è preferita in quanto è una tecnica non distruttiva, più veloce ed economica in relazione ai tempi di acquisizione degli spettri ed in relazione alla preparazione del campione (che può essere anche non necessaria) rispetto ad altre tecniche spettrofotometriche. A.3.1. Lo spettro elettromagnetico Uno spettro elettromagnetico ha origine dall interazione tra onda elettromagnetica e materia, le varie componenti della radiazione risultante da questa interazione possono essere separate e rappresentate in un grafico intensità/frequenza (o intensità/energia del fotone). La distribuzione delle frequenze (o delle energie) dei fotoni viene chiamato spettro; è possibile distinguere tra tre diverse tipologie di spettro (Fig. A.8): spettro ad emissione continua: questo spettro è ottenibile dall interazione tra la luce ed un corpo nero, ossia un corpo capace di assorbire tutta la radiazione elettromagnetica incidente senza tuttavia riflettere alcun tipo di energia. Lo spettro che si ottiene presenta una caratteristica forma a campana la cui unica dipendenza è con la temperatura del corpo stesso. spettro ad emissione a righe o bande: per poter ottenere questa tipologia di spettro è necessario disporre di una sorgente costituita da un gas rarefatto, ossia a bassa pressione, ed elevata temperatura. la peculiarità di tale spettro è che esso non è continuo, ma presenta delle righe o bande che sono caratteristiche delle specie atomiche (righe) o poliatomiche (bande) che compongono il gas stesso. spettro ad assorbimento: lo spettro che si ottiene a seguito dell attraversamento di un gas, da parte di una radiazione fotonica, permette l identificazione delle componenti che descrivono il gas stesso. 170

171 Fig. A.8: Tipi di spettro elettromagnetico Quando la radiazione fotonica è assorbita da un materiale bersaglio, avviene un aumento di energia interna del campione in analisi, con conseguente eccitazione delle particelle componenti il materiale stesso (elettroni, atomi, molecole ); ovviamente i fenomeni che si possono registrare sono caratteristici di ogni sostanza. Poiché, secondo la meccanica quantistica, l energia delle particelle che costituiscono la materia è quantizzata (può assumere solo dei valori discreti o singolari), nel momento in cui avviene l interazione tra la materia e la radiazione (particelle) è possibile registrare un assorbimento dell energia del fotone incidente solo quando questa è pari alla differenza tra il contributo energetico associato alla radiazione incidente e quello dello stato fondamentale competente alla materia bersaglio; successivamente, a seguito dell interazione, sarà possibile il passaggio della particella dal suo stato fondamentale iniziale ad uno eccitato. Inoltre, poiché ad ogni sistema molecolare è associata una distribuzione caratteristica dei vari livelli energetici (elettronici, vibrazionali e rotazionali), l assorbimento di una determinata radiazione incidente risulta essere una proprietà caratteristica del particolare sistema in esame. Ovviamente non tutte le possibili transizioni energetiche sono ammesse, ma solamente alcune: esistono pertanto delle regole di selezione che permettono di riconoscere i vari picchi energetici degli diversi elementi. Per quanto riguarda la spettroscopia infrarossa, l assorbimento di un fotone incidente porta la molecola bersaglio ad assumere uno stato vibrazionale eccitato, con conseguente transizione a più alti livelli energetici. Le transizioni vibrazionali possono essere sostanzialmente di due tipi: stiramento del legame chimico (stretching) o deformazione dell angolo di legame (bending). È possibile effettuare poi una successiva diversificazione: entrambe queste transizioni possono presentare un carattere di simmetria o meno ed in particolare, a seconda che ci si trovi all interno o fuori dal piano in cui giace la molecola, il bending può essere distinto in scissoring (simmetria nel piano), rocking (asimmetria nel piano), twistin (simmetria fuori dal piano) e wagging (asimmetria fuori dal piano). A seconda che si consideri molecole lineari o meno, il numero di moti vibrazionali concessi è pari a 3n-5 o 3n-6, essendo n il numero di atomi presenti all interno della molecola stessa. Solamente le transizioni che portano ad una variazione del momento dipolare della particella incidente potranno essere registrate come picchi all interno della regione dell infrarosso. 171

172 A.3.2. Il setup del sistema FTIR Lo spettrometro impiegato per le analisi FTIR (Fig. A.9) è costituito fondamentalmente da una sorgente che genera la radiazione elettromagnetica, un interferometro e un rivelatore; l interferometro è costituito da un beam splitter che e da due specchi, uno fisso ed uno mobile. Il beam splitter ha il compito di separare la radiazione che vi giunge in due componenti le quali sono inviate poi sui due specchi: i fasci ricevuti dai singoli specchi sono poi rinviati indietro allo splitter, con la differenza che mentre il fascio riflesso dallo specchio fisso percorre un cammino ottico costante per giungere nuovamente allo splitter, la radiazione che è inviata allo specchio mobile percorre un cammino ottico variabile per coprire il percorso inverso, in funzione della posizione dello specchio sulla quale è riflessa. Ricomponendo i due fasci della radiazione elettromagnetica dei cammini ottici differenti, quando entrambi giungono nuovamente al beamsplitter si produce un interferenza distruttiva o costruttiva, la traslazione continua dello specchio mobile consente di generare lo spettro d onda da inviare al campione in esame. Fig. A.9: Schema raffiguranti le principali parti di un setup per analisi FTIR L interazione tra la radiazione incidente con il campione è successivamente raccolta da un apposito sensore che consente di generare l interferogramma: l interferogramma è in relazione con il tempo di analisi e corrisponde all energia incidente della radiazione, privata della quota parte assorbita dal campione bersaglio durante il suo attraversamento. L impiego poi di una strumentazione elettronica e della trasformata di Fourier permette di generare lo spettro di analisi, in funzione del numero d onda, a partire dall interferogramma iniziale (Fig. A.10). Fig. A.10: conversione dell interferogramma in spettro di analisi 172

173 Lo spettro così ottenuto permette di identificare la composizione del campione dalla posizione dei picchi, mentre l area associata al picco è proporzionale alla concentrazione della specie stessa all interno del campione. A.4. La microscopia a scansione elettronica Il microscopio a scansione elettronica (SEM, Scanning Electron Microscope) rappresenta oggigiorno una delle tecniche di analisi irrinunciabili per lo studio dei materiali, permettendo non solo di ottenere delle informazioni di carattere morfologico del campione, ma anche di carattere compositivo; per questo microscopio la sonda impiegata è costituita da un fascio di elettroni con energia dell ordine dei kev (il range varia tra 1-40 kev). Nella microscopie elettronica è possibile ottenere buone risoluzioni facendo in modo che il raggio di elettroni che costituisce la sonda sia molto sottile e ben collimato. Questo fascio è prodotto da una sorgente di elettroni, in genere costituita da un filo metallico ad altra temperatura; l emissione degli elettroni avviene poi per effetto termoionico. Gli elettroni espulsi sono poi accelerati in una direzione con l applicazione di una differenza di potenziale ed il fascio viene focalizzato per mezzo di un sistema di lenti elettromagnetiche, riducendone le dimensioni fino all ordine dei nanometri. La traiettoria degli elettroni viene deviata per mezzo di bobine di deflessione che permettono la scansione del fascio sulla superficie del campione; infine, i segnali prodotti dal processo di scansione (in particolare elettroni primari, elettroni di backscattering e raggi X) vengono impiegati per ottenere informazioni sulla morfologia e sulla composizione del campione. La composizione delle informazioni, relative al segnale proveniente dal rivelatore e alla posizione del fascio di elettroni sul campione, consente di ricostruire un immagine tridimensionale, in cui ogni coppia di coordinate X e Y è esplorata dal fascio elettronico stesso; ad ogni punto esplorato dal fascio è poi associato un valore Z, collegato all ampiezza del segnale percepito dal rivelatore utilizzato. L energia del fascio incidente è dell ordine dei kev, dello stesso ordine di grandezza degli elettroni nei gusci più interni. Un requisito indispensabile per le analisi SEM è che il campione sia elettricamente conduttivo: nel caso in cui ciò non fosse possibile, è necessario procedere ad una preventiva metallizzazione del materiale, solitamente ricoprimento ricoprendo la superficie del campione con un sottile strato di grafite o di oro. A.4.1. Le sorgenti del fascio Il fascio di elettroni generato può essere sostanzialmente di due tipi: emissione termoionica: gli elettroni vengono eccitati termicamente grazie ad un filo metallico percorso da corrente. La temperatura del filamento può raggiungere i 2000 K, permettendo agli elettroni di acquistare l energia necessaria per superare la barriera di potenziale che li separa dal vuoto. Perché si abbia una buona sorgente è necessario che il metallo utilizzato per il filamento abbia un punto di fusione 173

174 sufficientemente alto per non essere modificato a seguito del riscaldamento, e per tale motivo è impiegato il tungsteno o l esaborato di lantanio. Poiché gli elettroni estratti dal filamento hanno bassissime energie in confronto a quelle necessarie per una corretta penetrazione del fascio all interno del materiale, si è soliti impiegare un cannone ionico (Fig. A.11) per accelerare il fascio e fargli raggiungere i quantitativi idonei di energia; inoltre tale cannone ionico permette anche di avere una prima focalizzazione del fascio. Fig. A.11: Cannone ionico Un parametro importantissimo nella formazione del fascio è la brillanza β, definita come densità di corrente per angolo solido nel quale gli elettroni sono focalizzati; ovviamente sono da preferire quelle situazioni in cui il valore di brillanza è molto altro, situazione che corrisponde ad un fascio molto sottile ed ad una buona risoluzione dello strumento di analisi. effetto di campo: questa tecnica consiste nell applicare un forte potenziale negativo su una punta metallica. Il potenziale applicato e la geometria favorevole fanno in modo che si instauri un campo elettrico molto intenso, tale da piegare le bande di energia del materiale e permettere la fuoriuscita degli elettroni per effetto tunnel. I vantaggi nell impiego di sorgenti ad emissione di campo consiste nell ottenere brillanze maggiori e fasci di dimensioni più ridotte (cosa che non rende necessarie successive focalizzazioni), in aggiunta al fatto che non è necessario operare ad alte temperature per ottenere l estrazione degli elettroni e che è possibile ottenere elevati valori dei campi elettrici (con potenziali modesti) sfruttando l effetto punta. Tra gli svantaggi si segnala la necessità di avere un vuoto molto spinto all interno del sistema (P < mbar) e che si ha una facile corrosione/ossidazione delle punte impiegate. Gli elettroni vengono accelerati con l applicazione di una differenza di potenziale; successivamente il fascio passa attraverso un sistema di bobine che funzionano da lenti elettromagnetiche e consentono di focalizzare il fascio riducendone le dimensioni fino all ordine dei nm. Alla fine del sistema sono presenti dei deflettori elettrostatici (o ancora 174

175 delle bobine) che, deviando le traiettorie degli elettroni, permettono la scansione del fascio sulla superficie del campione. Una lente elettromagnetica è assimilabile a una lente ottica, riferendosi alla Fig. A.12 si ha: ( A.2) Fig. A.12: Fuoco e fattore di riduzione essendo M il fattore di riduzione, S0 e Si le distanze focali e il fuoco. A.4.2. I prodotti di interazione tra il campione ed il fascio Una volta giunto sul campione, il fascio di elettroni incidente interagisce con il materiale secondo fenomeni di scattering, sia di tipo elastico che di tipo anelastico. Attraverso studi e simulazioni che tengano conto di tutti i possibili effetti che si verificano all atto della penetrazione del fascio all interno del campione, dei vari cammini medi degli elettroni e dei quantitativi di energia in gioco, è possibile affermare che la sonda di elettroni si allarga all interno del campione in analisi; più precisamente, il volume di interazione interno al campione aumenta all aumentare dell energia degli elettroni incidenti. Il volume di interazione che assume la tipica forma a pera (Fig. A.13), il cui volume cresce al crescere del tempo di esposizione del campione al fascio elettronico. 175

176 Fig. A.13: Volume di interazione interessato all atto della penetrazione e principali prodotti risultanti I differenti prodotti dell interazione sonda campione provengono da regioni di differenti dimensioni e profondità diverse che dipendono dalla natura dei prodotti stessi: elettroni retrodi usi (o di backscattered): si tratta di elettroni del fascio primario che escono fuori dal campione a seguito di processi soprattutto elastici. La loro energia rimane dunque prossima a quella del fascio (più alta di quella competente agli elettroni secondari): si conclude che la regione di provenienza di queste particelle è molto più estesa della corrispettiva regione appartenente agli elettroni secondari e pertanto le informazioni morfologiche che sono associate a questi prodotti di interazione con il campione risultano essere meno precise. Sperimentalmente si osserva inoltre che, aumentando il numero atomico Z, si osserva un aumento del coefficiente di retrodiffusione: ( A.3) essendo nre il numero di elettroni retrodiffusi generati e nb il numero degli elettroni del fascio incidente. Pertanto pochi conteggi di elettroni retrodiffusi sono sinonimi di un un basso numero atomico del campione in esame. Si capisce, quindi, come l analisi degli elettroni retrodiffusi fornisca informazioni sulla composizione chimica dei campioni. Se il campione è disomogeneo il valore di η risultante è: ( A.4) dove ηi e Ci sono, rispettivamente, il numero di elettroni retrodiffusi e la frazione volumetrica. 176

177 Infine, è possibile migliorare l immagine ottenibile grazie agli elettroni retrodiffusi variando l angolo di incidenza del fascio con il campione in esame è possibile ottenere un maggiore (o minore) volume di interazione e di conseguenza un più grande (o più piccolo) numero di urti e perdite di energia durante il tragitto verso la superficie. La dipendenza con l angolo di incidenza è: ( A.5) essendo poi. elettroni secondari: questi sono gli elettroni appartenenti al campione stesso ed espulsi per mezzo di processi anelastici. Questi provengono da una regione meno profonda del campione e abbastanza ristretta, permettendo pertanto una buona risoluzione: il motivo di ciò risiede nel fatto che elettroni secondari presentano un energia abbastanza modesta, che viene persa facilmente a seguito di urti anelastici durante il loro cammino verso la superficie. Solamente gli elettroni più esterni possono pertanto essere espulsi dal campione ed essere rivelati, fornendo informazioni solo di tipo morfologico. Bisogna tuttavia osservare che gli elettroni secondari possono essere prodotti non solo dal fascio di elettroni primari incidenti il materiale, ma anche dagli elettroni retrodiffusi che nel loro cammino verso la superficie interagiscono con il campione (Fig. A.14): gli elettroni così generati sono responsabili della presenza di sfocature sull immagine restituita dall apparecchio Fig. A.14: Possibili meccanismi di generazione degli elettroni secondari Perciò si deve tenere conto di entrambe le sorgenti di elettroni secondari; è possibile definire il coefficiente per gli elettroni secondari δ: ( A.6) dove nse è il numero di elettroni secondari generati dal campione bombardato da un fascio nb di elettroni, δb e δbs i coefficienti per gli elettroni secondari generati rispettivamente dagli elettroni incidenti e da quelli retrodiffusi e η il coefficiente di retrodiffusione. 177

178 I parametri che influenzano il numero di elettroni secondari che si vanno producendo sono il numero atomico del campione (gli elettroni secondari possono essere prodotti a partire dagli elettroni retrodiffusi il cui numero dipende dal numero di urti che avvengono durante la loro risalita verso la superficie, collisioni che sono funzione del numero atomico del materiale), l energia del fascio incidente (si è notato che al diminuire dell energia del fascio aumenta la probabilità di scattering e che si ha una minore penetrazione all interno del materiale, con un minor numero di elettroni secondari generati) e rotazione del campione (la rotazione del campione può portare ad un aumento del numero di elettroni secondari). raggi X: emessi dal campione, possono provenire da un qualunque punto della pera, fornendo informazioni sugli elementi chimici presenti nel campione con esclusione di quelli con numero atomico più basso, che risultano essere quasi trasparenti ai raggi stessi. elettroni Auger: questi elettroni possono provenire da un qualsiasi punto della pera e si formano quando un elettrone del fascio incidente penetra all interno del campione bersaglio provocandone l eccitazione, con la formazione di una vacanza negli orbitali. Poiché la formazione di questa vacanza non rappresenta lo stato originario e più stabile del materiale, si verificherà il passaggio di un elettrone a più alta energia fino allo livello elettronico di interesse, con conseguente diseccitazione dell atomo. Il surplus di energia potrebbe non essere impiegato per formare un fotone X, così come per liberare un elettrone di un orbita superiore, definito appunto Auger. L energia a questi associata prescinde dal quantitativo energetico della sonda, mentre dipende strettamente dall energia dei livelli atomici del campione: per questo motivo gli elettroni Auger forniscono informazioni di tipo composizionale (solamente quando sono generati in prossimità della superficie stessa, in quanto, se provenienti da zone di penetrazione più profonde, sono soggetti alla perdita della loro informazione a seguito di numero si urti cui vanno in conto nel loro cammino di risalita). Lo spettro di elettroni che fuoriescono dal campione presenta sempre un classico andamento (Fig. A.15), in cui è possibile distinguere una prima parte a bassa energia, propria degli elettroni secondari, ed una restante coda di più alto contenuto energetico e propria degli elettroni che hanno perso molta della loro energia a seguito dei vari urti anelastici; in questa coda vi sono sia gli elettroni Auger che quelli retrodiffusi, essendo poi questi ultimi responsabili anche dell ultima porzione dello spettro, a grandissimo contenuto energetico. 178

179 Fig. A.15: Spettro degli elettroni emessi dal campione bombardato Gli elettroni che fuoriescono dal campione come risposta possono essere secondari o retrodiffusi (principalmente) dunque sono necessari due rivelatori che siano in grado di rivelarli e di discriminarli (dato che forniscono informazioni di tipo diverso). Un buon rivelatore deve possedere alcune caratteristiche: una risposta lineare, cioè ad uguali aumenti di segnale in ingresso devono corrispondere uguali aumenti del segnale in uscita. una larga banda passante a seconda delle necessità. un alto guadagno. basso rumore, cioè deve fornire una risposta più pulita possibile, col minor numero possibile di errori. A.4.3. I rivelatori I rivelatori impiegati per la determinazione degli elettroni fuoriuscenti dal campione sono sostanzialmente di due tipi: rivelatore di Everhart-Thornley: permette di raccogliere gli elettroni secondari, che fuoriescono dal campione con energie intorno ai 50 ev. Queste energie sono troppo piccole per la rivelazione degli elettroni (non riescono ad eccitare uno scintillatore), per questo motivo è necessario accelerare gli elettroni secondari fino ad una energia di qualche kev. Il rivelatore (Fig. A.16) è pertanto costituito da un materiale scintillante, che viene portato ad un certo potenziale positivo (10 kv ) rispetto al campione che si trova a terra. Gli elettroni vengono così accelerati verso lo scintillatore, irraggiandolo e provocando l emissione di luce; misurando poi questa ultima grandezza è possibile risalire al numero di elettroni secondari. 179

180 Fig. A.16: Rivelatore di Everhart-Thornley rivelatore a semiconduttore: permette di raccogliere gli elettroni di backscattering(o retrodiffusi) che, fuoriuscendo dal campione con un energia intorno ai kev, non necessitano di essere accelerati per poter essere rivelati. Questo rivelatore (Fig. A.17) è costituito da sottili wafer a cui è possibile donare qualsiasi forma; inoltre può collocato molto vicino alla superficie del campione in modo da migliorarne l efficienza. Il suo principio di funzionamento è molto semplice: gli elettroni che devono essere rivelati vanno ad interagire all interno del semiconduttore e producono della coppie elettrone-lacuna che sono responsabili poi della generazione di una carica indotta sugli elettrodi la cui misura permette di risalire all energia ed al numero di particelle che hanno interagito. Il rivelatore a semiconduttore, raccogliendo su di sé elettroni retrodiffusi, produce informazioni (per Z non elevato) sulla composizione chimica del campione, oltre che sulla composizione topografica (ma con risoluzione minore). Fig. A.17: Rivelatore a semiconduttore 180

181 Appendice #2 Raw Data Dati relativi al Capitolo 5 181

182 182

183 Tabella RD.1: Risultati di ogni misura di peso per il campione di GEM. W_polymer(t) è calcolato sottraendo il peso del bullone (5.725 g) e M(t) è calcolato come differenza tra W_polymer(t) W_polymer(t=0) 183

184 184

185 Tabella RD.2: Risultati di ogni misura di peso per il campione di GEM. W_polymer(t) è calcolato sottraendo il peso del bullone (5.725 g) e M(t) è calcolato come differenza tra W_polymer(t) W_polymer(t=0) Dati relativi al Capitolo 8 185

186 186

187 Tabella RD.3: Risultati ottenuti per un analisi di gascromatografia 187

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