MARIA PIA POZZATO FUSO LISBONA FEAR TO WALKING SAM RAIMI DODICI CORDE STORY FRANK SINATRA IN MOSTRA CALCIO E FINANZA

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1 MARIA PIA POZZATO FUSO LISBONA FEAR TO WALKING SAM RAIMI DODICI CORDE STORY FRANK SINATRA IN MOSTRA CALCIO E FINANZA

2 (2) ALIAS LA FIABA DI UNA REGINA DELLO SCHERMO VENEZIA 72 Agnès Varda e i «tre bottoni» Diventata celebre al tempo della Nouvelle Vague, vinse il Leone d oro con «Senza tetto né legge»: incontriamo Agnès Varda alla Mostra con il corto «Les 3 boutons» presentato per la serie Miu Miu Women s Tales alle Giornate degli Autori di CRISTINA PICCINO VENEZIA Il vestito rosa acceso danza nell aria inafferabile. Appare scompare si allunga fino al cielo davanti agli occhi stupefatti della pastorella che lo ha appena ricevuto in dono. Un pacco misterioso, portato dal postino, le caprette guardano anch esse un po perplesse. Non siamo però in una Cenerentola, e non ci sono balli né fate madrine che avvolgono a colpi di bacchetta la nuvola dell abito intorno al corpo della ragazza. Quel vestito spalanca altri mondi, cave, grotte, miniere, e quando sembra lì, a un soffio dalle dita diventa rigido e opaco come il gesso. Si chiama Les 3 Boutons il cortometraggio che Agnès Varda ha realizzato per la serie Women s Tales prodotta da Miu Miu (alle Giornate degli Autori) doppio programma con De Djess di Alice Rohrwacher. Un gioco, una fiaba, «un esperimento sulla moda che è vita con le sue contraddizioni» come dice la regista. Sorride mentre alle sue spalle scorrono i fotogrammi del film. Invece dell abito dei sogni la ragazzina indosserà la divisa della scuola lasciando la campagna per la città. Appena smarrita ma sorridente, affamata con fantasie di gelati, i suoi passi rincorrono dei bottoni smarriti. C è un artista che raccoglie le cose che si perdono e ne fa degli archivi: «Esiste davvero, ci conosciamo bene, si chiama Michel Jeunesse, vive a Lyon» racconta ancora Varda. La moda per lei è la prima volta. Eppure è maestra di stile azzardato con quel suo caschetto bianco nel mezzo e rosso sulle punte che piccolina la riconosci dappertutto. Ha scelto il bordeaux la mattina del nostro incontro, tono su tono, anche la collana, e una borsetta un po stile Cina anni venti piena di colori. «La moda è una specie di utopia, per questo ho voluto un tono per il mio cortometraggio non realistico che al tempo stesso è totalmente reale». Seguiamo allora ancora per un po i passi della ragazza e le casualità dei «suoi» bottoni. Tre è ognuno è un desiderio che forse si esaudisce. «Mi batterò, voglio studiare, voglio sceglier la mia vita». Dal villaggio dove giocano i bambini arriviamo a Parigi, tra i senza tetto accampati nelle tende, e poi in una via colorata: rue Daguerre dove Varda vive da sempre, la sua casa e il suo laboratorio di cinema, dove ci sono i ricordi di una vita, gli oggetti di Jacques Demy, a lungo suo compagno, le pellicole e le «cianfrusaglie». Quella ragazzina determinata nonostante tutto le somiglia un po. Ci voleva infatti molta determinazione per fare cinema quando ha cominciato, unica donna della nouvelle vague, un gruppo molto maschile come solo i critici e i cinefili sanno essere forse ancora oggi. L esordio è datato 1954, La pointe courte, la cronaca della crisi di un matrimonio. Lo monta un giovane sconosciuto, Alain Resnais. Lei oggi dice: «Era un ottimo montatore. Mi disse che il mio film gli ricordava La terra trema di Visconti, io non ero molto cinefila allora». Agnès Varda aveva ventisei anni, rispetto ai «ragazzi terribili» della nouvella vague era già adulta, classe 1928, forse per questo la chiamano la madre della nouvelle vague, e persino la nonna. E poi non veniva dal cinema, il suo background era l arte, ha frequentato la scuola d arte del Louvre, e poi lavora come fotografa fino a quel film. Sarà per questo che le è sempre piaciuto sperimentare forme diverse, passando da una all altra, e in ciascuna di esse, sia un film, una fotografia, un installazione ritroviamo motivi comuni, frammenti di uno o dell altro. Negli ultimi anni è l arte visuale, prendiamo l installazione alla Biennale arte di Venezia del Si chiamava Patautopia, e le patate apparivano già in Les glaneurs et la glaneuse, mentre di Les Plages d Agnès ritroviamo la dolcezza melanconica e l intimità di una fusione appassionata tra vita e cinema in una sua mostra alla Fondation Cartier, L Ile et elle, dove la cabine della spiaggia erano fatte di pellicole. «Adesso mi sento molto più coinvolta dall arte, è un esperienza che ti permette anche molta libertà nel modo di lavorare e soprattutto di arrivare a un pubblico diversificato e in molti luoghi del mondo. L ultimo dei miei film che è uscito in sala è Les Plages d Agnès, possiamo definirlo un documentario, ed è un approccio al cinema che ora sento più vicino. Ora a Parigi ogni mercoledì escono almeno venti nuovi film in sala e i giovani guardano quasi tutto in rete. Vanno poco in sala. L arte, le istallazioni ti permettono anche di riciclare i tuoi materiali, se pensi che le mie vedove sono arrivate in Cina, hanno organizzato una mia mostra a Pechino, e era bellissimo vedere tante persone cinesi stare lì e ascoltare le loro voci». Le vedove di cui parla Varda sono quelle di Noirmoutier, l isola in Vandea sulla costa atlantica occidentale della Francia descritta, suggerita, fermata in video, fotografie, segni, videoistallazioni. Un luogo che lei ama moltissimo, un amore «fra buonumore e malinconia». A fargliela scoprire è stato Jacques Démy, che era nato a Nantes. Nel 1962 avevano preso un vecchio mulino riadattato e sull'isola hanno sempre passato tutte le loro vacanze, con la figlia Rosalie, il figlio Matthew, i nipoti, i bambini ormai di tre generazioni. Le «vedove» sono protagoniste di un installazione di 14 schermi, uno per ogni donna, ne ascoltiamo la storia e le conversazioni, senza auricolari le vediamo muoversi e parlare tra di loro. «Mi piace mescolare le cose. Quello che cambia tra un installazione e un documentario è la posizione dell artista. Il dispositivo dell'installazione è completamente differente. Lo spettatore non è preso in trappola, può andarsene, gettare un occhio e ripartire. Non posso imporgli di guardare bene, è più libero, dunque più difficile a farsi catturare». Torniamo indietro, agli anni Sessanta di Cleo dalle 5 alle 7, il film che l ha lanciata. Era la storia di una donna, una cantante che attraversa Parigi insieme a uno incontrato per caso, mentre attende un responso medico che potrebbe diagnosticarle un male incurabile. Nel tenpo Varda ha continuato a muoversi tra forme diverse, ha raccontato la Cina, Cuba, l America delle Black Panthers. E altri personaggi femminili indimenticabili, scoprendo attrici come la Sandrine Bonnaire di Senza tetto né legge, Leone d oro a Venezia nell 85. «A un certo punto non ho più avuto voglia di trovarmi su un set, anche per questo I tre bottoni è stata un esperienza molto divertente. Era una cosa piccola, ma l idea di affrontare gli attori e tutto il resto non è possibile. Per questo che ora faccio solo documentari, La gente è incredibile, e saperla filmare in una relazione è una prova molto avvicente per un cineasta. Sul set invece lavori con dei professionisti, gli attori, il che ti impone un approccio diverso. Al tempo stesso il confine tra cinema narrativo e documentario è labile, ricordo che per Senza tetto né legge tutti mi chiedevano se Sandrine Bonnaire fosse una persona vera, e come ero riuscita a renderla così reale». Parliamo di donne. Lei pensa che oggi le cose siano cambiate nel cinema e in genere dai tempi dei suoi esordi? Perché tante professionisti, attrici, registe continuano invece a denunciare una discriminazione. Quest anno al Festival di Cannes ha ricevuto la Palma d onore, unica donna anche stavolta: «Le donne registe sono ancora troppo poche, ma credo che più di focalizzarsi sul conflitto uomo/donna si deve combattere per essere se stessi, per fare le cose che si desiderano. Le donne devono avere il diritto di scegliere la loro strada e non soltanto seguendo rivendicazioni economiche ma per ragioni più profonde. Nella vita mi hanno chiamata in tanti modi, e forse quello che ancora preferisco è «la nonna della Nouvelle Vague», perché il mio primo film uscì cinque anni prima dell'esplosione dell ondata che cambiò i cinema. Mi piace considerarmi una innovatrice».

3 ALIAS (3) I LOVE GAI L 11 settembre al Palazzo del Cinema si inaugura un concorso ideato da SIAE e rivolto a tutti i giovani registi italiani, I love Gai dove Gai sta per Giovani Autori Italiani. Al mattino di venerdì 11 si terrà il lancio del concorso, con una rassegna di 7 corti di giovani, pluripremiati registi italiani e una mega festa alla sera all aeroporto Nicelli. I registi scelti sono Jonas Carpigano, Nicolangelo Gelormini, Adriano Giotti, Tommaso Pitta, Fulvio Risuleo, Grazia Tricarico e Tommaso Landucci. Il comitato di selezione di I LOVE GAI è composto da Nicola Giuliano di Indigo Film, Andrea Purgatori di SIAE e Greenpeace, e Mara Sartore che ha diretto Circuito Off per 14 anni. Dall 11 settembre in poi parte invece il concorso a cui possono partecipare tutti i registi sotto ai 40 anni con film sotto i trenta minuti. Si accettano candidature fino a fine aprile. I film vincitori del concorso faranno poi parte di un programma inserito nella Mostra del cinema 2016 GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola redazione: via A. Bargoni, Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax tel e redazione@ilmanifesto.it di LAURA LANDOLFI «Il senso della crescita culturale di un paese è che attraverso di essa si ha la possibilità di continuare a rinnovarsi»: questa lungimiranza spinse, nel 1966, il sindaco-postino danese, con la quinta elementare, Kaj K. Nielsen a far sì che Holstebro diventasse la casa di uno dei più significativi gruppi teatrali del Novecento, l Odin Teatret. Qui il suo fondatore Eugenio Barba e il resto del gruppo creano la loro sede dove lavorare e vivere insieme rivoluzionando per sempre il linguaggio teatrale. L Odin trasforma un ex fattoria in un centro di ricerca - che oggi ha circa cinquanta posti letto per poter anche ospitare, tre cucine e altrettante sale prove - dove gli artisti, imperterritamente, proseguono il loro lavoro. E qui Barba ha aperto le porte a due registi, Davide Barletti e Jacopo Quadri, che per tredici giorni hanno potuto seguire l allestimento di una grande festa che l Odin organizza ogni tre anni a Holstebro e che coinvolge tutta la città. Un apertura di credito che rappresenta un evento più unico che raro. La festa mostra il senso del teatro «sociale» di Barba, cioè l attitudine verso l altro, ed è un modo per ripagare la città dell ospitalità. Un baratto, secondo la poetica dell Odin. Ma quella in questione, nel 2014, epoca delle riprese, è particolarmente gloriosa perché festeggia i 50 anni del gruppo (fondato in Norvegia nel 1964) mettendo insieme artisti e gruppi provenienti da tutte le parti del mondo come Kenia, Bali, Brasile, India, e anche Europa; culture di cui il linguaggio dell Odin si è sempre nutrito in un flusso transculturale che ne rappresenta tutt oggi l unicità. Nasce così Il paese dove gli alberi volano prodotto da Fluid produzioni e Ubulibri con il sostegno dell Apulia Film Commission. Il film, distribuito L 11 settembre sarà presentato il film «Il paese dove gli alberi volano». Il documentario racconta l esperienza del teatro fondato da Eugenio Barba INTERVISTA I REGISTI BARLETTI E QUADRI C è del bello in Danimarca. L utopia possibile dell Odin Teatret da Wanted, sarà presentato l 11 settembre al Festival di Venezia come progetto speciale alle Giornate degli Autori e poi in primavera andrà in onda su Sky Arte HD. «Ho contattato Barba per fare il documentario ma all inizio lui insisteva perché intervistassimo il popolo segreto, cioè un insieme di persone vicine alla compagnia, una specie di rete mondiale. Aveva scritto persino le domande» ci racconta Quadri, «si tratta di un popolo ideale, che non esiste, un utopia come un po il lavoro dell Odin. Ma è un utopia che si può realizzare. La festuca per l anniversario riuniva tutte queste persone con cui c è uno scambio creativo continuo. Compagnie di ragazzi di varie parti del mondo hanno portato pezzi di spettacolo che lui ha cucito insieme. Lui si muoveva continuamente andando anche a chilometri di distanza dove alcune compagnie alloggiavano e ci ha concesso di seguirlo nelle prove e anche nei suoi spostamenti in macchina. Quelli sono i momenti più intimi». Figlio di Franco, critico e studioso di teatro tra i più influenti e rigorosi, Jacopo ha ereditato dal padre la casa editrice Ubulibri della quale questo lavoro rappresenta la prosecuzione ideale. «Nel percorso post Franco ho provato tante strade per trovare finanziamenti e anche una testa che dirigesse la casa editrice, poi ho pensato che l unico modo era di avvicinarla a quello che faccio io, cioè il cinema (Jacopo è montatore con un curriculum che va da Bertolucci a Martone e Bechis passando per Virzì, ndr)». Prima aveva realizzato il documentario La scuola d estate ambientato alla scuola di Santa Cristina di Luca Ronconi. Due scelte apparentemente antitetiche: «Intanto per mio padre erano due punti di riferimento perché lui si riferiva al teatro nella sua totalità. Mentre io mi sono accostato al teatro tardi, dopo la sua morte, quindi con un approccio abbastanza ingenuo: partivo dalla persona e per me Barba è sempre stato un mito. L ho conosciuto a 14 anni quando passammo per Holstebro a trovarlo, è un ricordo infantile molto forte». Per il regista Davide Barletti la motivazione della scelta è diversa e complementare: «Io, come Barba, sono pugliese e lavoro sulla memoria della mia terra, in questo senso la sua biografia è emblematica: negli anni Cinquanta lascia la Puglia e va a fondare l Odin in Norvegia. Poi nel 74 il passaggio dell Odin a Carpignano salentino con le sue rappresentazioni basate sul baratto è rimasto leggendario. Ora ho avuto la possibilità di andare all Odin, una leggenda». Aggiunge Quadri: «Eravamo esaltati da quello che avveniva, era impossibile seguire tutto ma cercavamo di essere invisibili per essere accettati, cosa che è avvenuta quasi subito, Barba ci disse sarete come le mosche che danno fastidio e ci sono sempre. L Odin più che un teatro è un luogo dove vivere, dove incontri gente continuamente. Il teatro è la vita. Lì anche organizzare la cena è un atto teatrale». Ma come conciliare un mezzo riproducibile come il cinema con il teatro? Risponde Barletti: «In teoria i due mezzi cozzano e infatti all inizio c era pregiudizio perché raccontando il teatro al cinema si teme di falsare l unicità. Questa è stata la sfida, far incontrare due mondi, per questo abbiamo deciso di non intervenire con artifici soprattutto al montaggio, non usare scappatoie per raccontare. Tutto quello che abbiamo raccontato è avvenuto» inoltre, aggiunge, «avevamo due alternative: costruire il classico biopic o fare, come avvenuto, un film politico, intendo un film sul rapporto tra Odin e il territorio, la relazione con il tessuto sociale ma anche le relazioni umane, la grandissima energia. La cosa più complicata è stata la paura di raccontare un mito, di rompere l alone leggendario che lo circonda». Per Quadri, come emerge anche dal documentario, ciò che conta è l oggi «ci interessa il presente e non il passato, non abbiamo usato immagini di repertorio né abbiamo ricostruito i 50 anni dell Odin ma siamo andati là, perché là lui stava creando. A noi interessava documentare quello che stava avvenendo in quel momento». Il lavoro documenta un incontro di culture ma anche umano, lo stupore di giovani danzatori africani che per la prima volta assistono a un balletto europeo, la commozione degli artisti brasiliani e di Barba nel ricordare uno di loro approdato all Odin e ormai scomparso. Accanto attori storici come Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley mentre stirano, sistemano e illustrano agli ospiti i costumi di scena. «L Odin è una grande macchina, con una capacità di lavoro enorme - racconta Barletti - per esempio in questo caso hanno dedicato a ognuno una lettera personale, un regalo e posto attenzione a dove alloggiavano i diversi gruppi ospitati dalle scuole del circondario, a dove sedevano a tavola. È faticoso stargli dietro». Tra le scene che colpiscono di più c è quella in cui gli artisti entrano ballando al municipio e vengono accolti dal sindaco. «Testimonia la grande trasparenza e apertura di quel comune, la sua capacità di far entrare il teatro nelle istituzioni», conclude Barletti, «del resto si tratta di un comune, inizialmente costituito principalmente da coltivatori di mucche e maiali, che 49 anni fa ha fatto quasi una profezia e la storia gli ha dato ragione. Questo grazie alla grande apertura verso la cultura e all attenzione all alterità. Non hanno avuto paura del diverso». impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel fax poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso Milano tel fax tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina ,00 (320 x 455) Mezza pagina ,00 (319 x 198) Colonna ,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina ,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a Roma tel Fax

4 (4) ALIAS GIORNATE DEGLI AUTORI GIORNATE DEGLI AUTORI, «UNDERGROUND FRAGRANCE» DI PENGFEI Memorie dal sottosuolo di Pechino Uno sguardo critico poetico sulla metropoli in continua trasformazione, impoverita, preda del dominio oscuro degli affari, dove arrivano dalle lontane province giovani a cercare lavoro di SILVANA SILVESTRI VENEZIA Succedono strane cose a Pechino, inaspettate. Le vediamo in un affascinante film d esordio presentato alle Giornate degli Autori, Underground Fragrance di Pengfei, un ritratto malinconico e allo stesso tempo poetico che anticipava in qualche modo la fase discendente della Borsa e della valuta cinese. Il film mostra due città sovrapposte, un sogno di grandeur accompagnato da una misera realtà. È stato realizzato in Cina recentemente qualche documentario sui problemi dell inurbamento della capitale, ma in questo caso la terza dimensione è data da riferimenti cinematografici che ricordano le grandi crisi epocali, Chaplin e la crisi del 29, perfino il dopoguerra di Rossellini, contaminazioni che si inseriscono profondamente nel racconto. Gli studi parigini del regista hanno lasciato tracce. Le due città sono quella della grande speculazione edilizia che innalza grattacieli che spesso restano disabitati e i sotterranei atomici in disuso abitati dalla gente che arriva dalle lontane province per trovare lavoro. Non è l underground disperato del post comunismo sovietico che ci aveva per la prima volta spalancato i nuovi scenari dostoyeskiani, veri bassifondi dell anima, ma il mite accomodamento di gente che appare chiusa in se stessa, indifesa, disposta ad accettare qualunque cosa per la sopravvivenza. Chiusa in un individualismo in antitesi con la cultura collettivistica delle campagne da dove provengono. Non scorre alcool né droga in quelle topaie allagate dall acqua piovana, tanto basse da dover camminare genuflessi. Così è costretto a fare anche il giovane Yong Le che, per vivere, raccoglie i mobili abbandonati dalle vecchie case in demolizione. Un giorno è colpito agli occhi e resta momentaneamente accecato. Di lui si occupa senza dire una parola la vicina di stanza Xiao Yun che per vivere esegue una casta lap dance in un locale notturno (scene filmate con evidenti tracce del primo Vecchiali) e di giorno si dà da fare per trovare un lavoro «vero», ad esempio in un agenzia che cerca di vendere tutti quegli appartamenti ancora in costruzione o in un call center. L esile rapporto fatto di piccoli gesti per aiutare il ragazzo che non può vedere ricorda infine la fioraia e Charlot in chiave capovolta. Neanche il ragazzo, una volta guarito potrà ritrovare lei. Nessuno dei due, si capisce, ha l energia per uscire dalla solitudine. Mentre un impresario edile in bancarotta che non vuole svendere il suo terreno precipita sempre più nella povertà, attorniato dal vetro e dal cemento che continua a innalzarsi attorno alla sua antica casa dove sopravvivono echi del passato, riti contadini. Il vecchio e il nuovo,l oriente e l occidente si incontrano, così come il vechcio e il nuovo cinema. A contare le generazioni di cineasti quella di Pengfei dovrebbe essere posteriore alla «sesta generazione»: mentre la «quinta» voleva vedere la realtà come era piuttosto che come voleva che fosse per il partito comunista e l interesse personale era posto in primo piano rispetto a quello collettivo, i nuovi cineasti come Jia Zhangke (classe 70) o Zhang Yuan cresciuti dopo Tienanmen usano un immagine più «sporca», girano con camera a mano e, come ha fatto Pengfei prendono contatti con le produzioni e i festival stranieri. E infatti per molti di loro, cineasti «clandestini», esiste in caso contrario la possibilità di avere il film bloccato. Pengefei (classe 82), proviene da una famiglia di artisti dell Opera di Pechino, ha studiato a Parigi all Institut de l Image et du Son e dopo sette anni è tornato in Cina dove è stato assistente di Tsai Ming-liang in Face (2009) e The Diary of Young Boy. Produce con Francia, Germania e Torino FilmLab. Il suo è uno dei 21 film che concorreranno al premio De Laurentiis Opera prima con una giuria presieduta da Alfonso Cuaron. Foto in alto il regista Pengfei che è anche interprete del suo film, alcune scene di Underground Fragrance e, in basso i registi Jia Zhagke e Zhang Yuan LA MOSTRA PALESTINESI A GAZA A Roma alla Sala Santa Rita si tiene dal 4 all 8 settembre una mostra di quadri di pittori palestinesi, che organizza la Onlus Fotografi Senza Frontiere ( Gli artisti si chiamano Shareef Sarhan, Basel El Maqousi e Majed Shala, e sono tra i fondatori del collettivo «Shababik - Windows from Gaza for contemporary art», che si occupa di formazione per giovani aspiranti artisti gazaui e di sostegno ai loro progetti. Questa mostra, organizzata con il supporto della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese e del Centro Italiano di scambio culturale VIK, si inserisce nel quadro di un progetto più ampio di FSF per il sostegno ai progetti artistici (di arti visive e fotografia specialmente) che si sviluppano nella striscia di Gaza. Infatti, l'obiettivo della mostra è quello di vendere alcune opere per finanziare il collettivo Shabab

5 IL PALCOSCENICO GLI SCHERMI Attori, registi e drammaturghi indagano sui rapporti tra le due arti. Appuntamento l 11 settembre alla Villa degli autori ALIAS (5) Il teatro secondo il cinema e ritorno di FABIO FRANCIONE Nel febbraio scorso, per la prima volta «Le buone pratiche», organizzate da più di dieci anni dall'associazione Ateatro, uscirono come notò Mimma Gallina - «da territori strettamente legati al teatro» per andare ad indagare i suoi rapporti con il cinema. Quell'incontro, diviso in due sessioni, mattutina e pomeridiana, al quale intervennero numerosi ospiti (stralci di alcune relazioni sono riportate qui sotto dai verbali e dai materiali video raccolti durante la giornata) aveva come titolo «Le buone pratiche cinema e teatro. Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto» ha originato una seconda sessione che avrà luogo durante il Festival del Cinema di Venezia, l'11 settembre prossimo presso la Villa degli Autori dei Venice Days/Giornate degli Autori, partner della nuova iniziativa (tutto il giorno fino a sera, Lungomare Marconi, 56 Lido di Venezia). Nuovo titolo: «Le Buone Pratiche Cinema e Teatro 2. Dissolvenze incrociate», a cura di Angelo Curti, Marina Fabbri e Oliviero Ponte di Pino, avrà tra i partecipanti Gianluca Arcopinto, Lionello Cerri, Eleonora Danco, Pippo Delbono, Enrico Ianniello, Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassman, Motus, Gregorio Paonessa, ricci/forte e Jacopo Quadri di cui la sera si vedrà il film codiretto con Davide Barletti, «Il paese dove gli alberi volano. Eugenio Barba e i giorni dell'odin». Angelo Curti (Produttore teatrale e cinematografico, fondatore dei Teatri Uniti) «Il titolo di questa edizione de Le buone pratiche è Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto. La parentesi poteva stare attorno al «non» ma è stata messa intorno a «sempre», a seguito di una riflessione sullo stato della relazione tra le due arti in Italia. La relazione tra cinema e teatro è sempre stata difficile. L'avvento del sonoro sembrava comportare la scomparsa del cinema stesso, perché lo rendeva troppo simile al teatro. Negli ultimi decenni il cinema ha subito una trasformazione radicale. Una volta andare al cinema significava entrare in un luogo preciso e fruire di un film. Con la nascita e lo sviluppo della televisione e successivamente con le ulteriori possibilità di riproduzione del film, con lo sviluppo del web e la moltiplicazione dell offerta, il modo di fruire il cinema è notevolmente cambiato. Oltre ad aver perso pubblico e centralità, come dimostra la scomparsa delle sale cinematografiche, il cinema oggi è spettacolo dal vivo». Roberto Andò (Scrittore, regista teatrale e cinematografico) «Nella mia vita furono fondamentali le fascinazioni che subii da due forti personalità come Tadeusz Kantor e Bob Wilson. Non si può recitare in teatro - diceva Kantor - bisogna trovare il luogo della vita. Regista, scenografo e pittore, Kantor si domandava come fosse possibile che gli attori si potessero travestire la sera e recitare Amleto. Non subiva il fascino del teatro borghese e convenzionale e uscì da quella estetica teatrale contestando in maniera radicale il teatro del suo tempo. La stessa cosa si potrebbe dire di Bob Wilson che ha liberato il teatro occidentale da una dimensione necrofila. Mi si permetta di aprire una parentesi sulla noia. Ero in Sicilia con Patrice Chéreau, il quale a un certo punto confessò di annoiarsi da morire in teatro, cosa che al cinema non gli capitava quasi mai. A tal proposito è celebre la citazione di Alfred Hitchcock, il cinema è la vita con le parti noiose tagliate. Dunque, la noia è un fattore culturale importante, degno di interesse e approfondimento. Tornando a Kantor e Wilson come progenitori e liberatori di un idea di teatro che contempla il teatro e che cerca il luogo della vita, come può il cinema diventare un luogo interessante? Non dobbiamo parlare necessariamente del cinema nella forma di uno schermo o di una proiezione. A tal proposito vorrei parlare del mio spettacolo-installazione ll mare non bagna Napoli dal romanzo autobiografico di Anna Maria Ortese che realizzai alla Darsena Acton di Napoli. Lì il cinema non c era pur essendo molto presente. Allora, gli spettatori si trovavano di fronte a un campo lungo all interno del quale potevano scegliere tra le azioni che gli attori facevano a loop. Nell azione non c era una narrazione, ma una circolarità: lo spettatore poteva scegliere in un montaggio le azioni e rimontarle. Questo ha a che fare con un idea di teatro ma anche con una capacità del cinema di cui parlava Calvino, per cui la contaminazione tra le arti genera una sorta di sfasamento (o parafonia ) che ci porta in un altro spazio, come accade quando sentiamo qualcosa di perturbante di fronte a un paesaggio di De Chirico, oppure quando stiamo camminando per la strada di una città». Paolo Sorrentino (Regista cinematografico e televisivo) «Il mio approccio è molto semplice, operando Nell immagine grande Tadeusz-Kantor Sylwetka, nel riquadro a destra Toni Servillo, qui sotto «Lulù» di Robert Wilson esclusivamente al cinema e non avendo altre ambizioni che quella di poter far cinema, il mio avvicinamento alle esperienze teatrali di Toni Servillo è stato totalmente legato alla possibilità di rilevare aspetti cinematografici nei suoi spettacoli. L'operazione si è rivelata più facile del previsto poiché di elementi cinematografici ne ho trovati tantissimi. Per questo non è stato affatto complicato filmare il teatro. E avrei filmato volentieri anche altre esperienze di Toni, come Il Tartufo che, dal mio punto di vista, è l avamposto più cinematografico. Mi sembra di ravvisare in Toni la ricerca di una scenografia che mira all essenziale e che si libera di qualsiasi orpello, la stessa cosa che cerco di fare anche io in un film. In questo senso mi risulta facile filmare il suo teatro». Toni Servillo (Attore cinematografico e teatrale, regista teatrale) Devo la scoperta del cinema a Mario Martone. Teatri uniti ha immaginato molto presto grazie a Martone la possibilità che un teatro indipendente riuscisse a crearsi anche una dimensione di cinema indipendente: nacque immediatamente uno scambio di collaborazioni che coniugava la spinta del teatro verso il cinema e del cinema verso il teatro, come si è visto in Morte di un matematico napoletano, frutto dell intreccio culturale e umano nato intorno all esperienza di Teatri uniti. Il film ha goduto della presenza di Carlo Cecchi come protagonista, un attore a cui si guardava e si guarda ancora oggi con un'enorme ammirazione e che in quel film ha offerto una prova cinematografica straordinaria. Partendo dal modello di factory creata da Fassbinder, Martone decise con grande lungimiranza di perseguire la stessa strada. A mio avviso sono tantissimi i temi sui quali ruotare il rapporto tra cinema e teatro. Prendo come esempio l attore che a teatro ha la responsabilità ultima dell evento, al punto da avere anche la responsabilità di drammatizzare l evento. Infatti muovendosi all'interno di un testo, le condizioni in cui poi lo spettacolo si manifesta possono essere turbate da qualsiasi interferenza: un vuoto di memoria, un'interruzione, anche un cellulare che suona, un temporale, un colpo di tosse, insomma qualunque cosa accada in una sala dal vivo e che tu utilizzi portando una accelerazione della drammatizzazione dell evento. Al cinema al contrario si è drammatizzati dall evento: è tutto il contesto dell evento che deve drammatizzarti. In questo senso naturalmente l attore a teatro è in una condizione di dono, mentre al cinema deve essere disposto a essere derubato di qualcosa, rapito da qualcuno. Pertanto, l'attore deve mettersi a disposizione del regista poiché anche se può sembrare una idea semplificatrice, io credo che il film sia del regista e il teatro sia dell attore». Spiro Scimone (Drammaturgo, attore e regista teatrale e cinematografico) «Ho scritto Nunzio cercando di immaginarmi un palcoscenico e ciò che accadeva su di esso e lo stesso approccio è stato applicato per la sceneggiatura: lo sforzo è stato quello di provare a immaginare di vedere un film. Naturalmente avendo già il materiale di Nunzio in mano come punto di partenza, avevo già qualcosa ma sapevo che non avrei potuto utilizzarlo appieno, proprio perché si tratta di linguaggi differenti. È vero che le riprese cinematografiche sono caratterizzate da una forte frammentazione in fase di ripresa, ma la stessa frammentazione si può ravvedere anche nell ambito teatrale in fase di prove, durante le quali spesso capita che si interrompa una specifica scena e si inizino a provarne altre. Pur sapendo di avere dei limiti (trattandosi della loro prima esperienza da registi cinematografici) è stato fondamentale creare una équipe affiatata. ll risultato, Due amici, ha ottenuto riconoscimenti anche a livello internazionale. Dunque, io e Sframeli avremmo potuto fare subito altri film ma non sentivamo questa esigenza, la nostra esigenza era un altra: in quel momento non avevamo nulla da raccontare cinematograficamente, sentivamo un forte bisogno di tornare a teatro: per noi tornare a teatro significa partire dal nulla, creare un testo dal niente, scrivere, inventarsi qualcosa e sentivamo il bisogno di scrivere per il teatro, così è nato Il cortile». Armando Punzo (Drammaturgo, attore e regista teatrale) «Non ho mai pensato di passare al cinema: mi piace pensare cinematograficamente per quanto riguarda il mio lavoro e agire poi come teatrante. Nonostante usi molto la telecamera per le prove come appunti di lavorazione. L unica volta che una parte del girato è stata utilizzata in uno spettacolo risale a una decina d'anni fa: dopo una lunga discussione se utilizzarlo o meno, il materiale venne utilizzato in negativo, e inserito in un lavoro della Compagnia della Fortezza dal titolo Appunti per un film: l obiettivo era far vedere come si sarebbe potuto utilizzare quel materiale sapendo però che la volontà non era quella». Renato Carpentieri (Attore teatrale, cinematografico e televisivo). «Recitare otto anni nella serie La Squadra mi ha permesso di continuare a fare teatro in assoluta autonomia. Inoltre la qualità del lavoro e il legame con la vera e propria squadra che si è costituita sul set mi ha permesso di tenere quel ruolo per otto anni.. Durante questo periodo l'importante era esserci, stare lì pienamente e esserne convinti, ragionare sul lavoro e lavorare sempre con spirito di curiosità e di novità. Chiedo e domando: il teatro si sta confondendo con il cinema? Stanno nascendo sempre più attori funzionali? E ancora, c è una debolezza critica molto forte in questo momento, sembra che non si siano mai visti tanti geni come oggi. Non è forse vero che la società non chiede più nulla al teatro?» Si ringrazia l'associazione Ateatro per la disponibilità a visionare verbali e materiali video degli interventi tenuti durante le sessioni de «Le buone pratiche cinema e teatro. Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto», Teatro di Roma, 14 e 15 febbraio 2015

6 (6) ALIAS ADVERTISING Gli spot trovano in Internet un nuovo luogo di convivenza di epoche e generi. Intanto l offerta commerciale è oggi sempre più differenziata È STATO IN CRISI di MARIA PIA POZZATO * Per molte persone, magari non più giovanissime, la parola «pubblicità» evoca immediatamente piccole rotture di scatole, interruzioni del film in tv durante le quali si legge il giornale; pop-up e banner che si aprono in internet impedendoci di vedere subito quanto stavamo cercando. Noi adulti non siamo più la generazione della pubblicità-spettacolo di Carosello, e siamo ancora la generazione della pubblicità-disturbo, male inevitabile. In realtà, come ho potuto constatare senza eccezioni in anni di insegnamento, i ventenni adorano la pubblicità. Anche l argomento più noioso appare interessante se usiamo come esempio la pubblicità. Sono pronta a scommettere che immagini di spot siano usate ormai nei corsi più disparati per la semplice ragione che calamitano la sempre più ondivaga attenzione degli studenti. La spiegazione più semplice è che questi ragazzi sono vissuti a pane e pubblicità fin dalla culla. Ma è una spiegazione che non mi convince più: i prodotti pubblicitari sono cambiati rispetto al tradizionale spot televisivo ed è cambiato anche il modo in cui i giovani, ma ormai anche molti adulti, guardano la pubblicità. La televisione generalista non registra grandi cambiamenti negli ultimi trent anni se non nella tipologia dei prodotti reclamizzati: seguendo il processo di invecchiamento della popolazione, e quindi del target commerciale, abbiamo avuto un profluvio di pannolini per neonati, corredato di baby talk (bidibodibu, fuoriuscite di pupù, ecc.); poi, con la crescita delle «baby boomer» e la liberalizzazione di certi tabù, si è assistito alla concorrenza fra assorbenti femminili, alati, ultrassorbenti, ultra sottili, ultra anatomici fino ai più recenti, gommosi e trasparenti, che non si capisce come possano assorbire alcunché. L ultimo imperatore è però il pannolino-pannolone per l incontinenza, così come «la bocca che può dire ciò che vuole» è stata sostituita dalla «bocca che può addentare ciò che vuole» grazie al fissativo per dentiere. Se la rivoluzione della pubblicità consistesse in questo, non si capirebbe perché un giovane dovrebbe amare un mondo popolato di creme antirughe, ops-piccole perdite, pillole per la prostata o contro le vampate della menopausa, pomate contro il dolore articolare che permettono alle nonne di sollevare anche bambini in sovrappeso. E infatti questa non è la pubblicità che vedono i giovani i quali, come si sa, guardano sempre meno la televisione generalista preferendo internet sia per la musica che per le serie (e per l informazione, poca). E su internet le cose cambiano perché vi convivono forme assai diversificate di comunicazione pubblicitaria, alcune delle quali non molto diverse dai prodotti mediatici che il target più giovane predilige, come le serie d azione e i videoclip. Una fondamentale innovazione della forma-spot era stata apportata a partire degli anni Ottanta dalla rivoluzione digitale: i cartoni animati e i fotomontaggi che prima tentavano di aggirare la staticità del montaggio analogico, erano stati via via sostituiti da montaggi digitali veloci, immagini in continua metamorfosi con un generale venir meno delle coordinate spazio-temporali forzatamente realistiche di prima. Contemporaneamente era finita l era delle censure della tv pedagogica, uno sfrenato liberismo identificava belle ragazze bionde con birre spumeggianti e belle ragazze ambrate con gommose alla liquirizia. Ma, come dice Umberto Eco quando parla dei «passi di gambero» della storia, anche rispetto a questo stadio euforico della pubblicità ci sarebbe stato un doppio ritorno: sul piano formale, con estetiche vintage che avrebbero in molti casi recuperato stili del passato; sul piano etico, con una nuova sensibilità verso la dignità delle donne, delle etnie, del buon gusto, ecc. Per cui in tempi recenti, per pubblicizzare una marca di chips, si può tentare di far passare Rocco Siffredi come «esperto di patate», ma la cosa si impantana presto nelle nuove secche del politicamente scorretto. La pubblicità trova in internet un nuovo luogo di convivenza di epoche e generi. Martin Scorsese può girare per Dolce e Gabbana uno spot in bianco e nero che richiama la cinematografia dei primi anni Sessanta, anche se i divi oggi si chiamano Scarlett Johansson e Matthew McConaughey; ma al contempo Guy Ritchie può INTERVENTI PARTE IL FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE DI CAMOGLI Pannolini digitali. La pubblicità ai tempi della rete sperimentare, per Nike, tecniche digitali all avanguardia per uno spot dai ritmi convulsi, girato tutto in soggettiva, impensabile fino ad alcuni anni fa sia dal punto di vista tecnico che da quello dei gusti del pubblico. Quindi, se non approvavo i miei studenti quando amavano regressivamente il Mulino Bianco della loro infanzia, come posso dar loro torto adesso se nella loro dieta mediatica inseriscono anche molta pubblicità? Secondo i nuovi guru del marketing, oggi non sarebbe più importante pubblicizzare un prodotto o una marca ma raccontare storie in cui la gente possa identificarsi, sincronizzando a livello globale varie visioni del mondo. Ed è vero che sotto alcuni filmati il numero dei like è impressionante, raggiungendo in alcuni casi l ordine di miliardi di persone. Ma è anche vero che, a livello stilistico, la proposta pubblicitaria sulla rete è oggi la più differenziata della storia e dall esposizione alla differenza nascono generalmente maggior riflessione e distacco. *esperta di semiotica Lo Stato e la sua crisi secondo Gramsci (1) Dal 23 al 27 novembre 2015, nella sede di Universitas Nueva Civilización di Santiago de Chile, si svolgerà un Simposio Internazionale sul tema «Sfide della politica in un mondo complesso». Terrò una relazione sul tema : «Lo Stato e la sua crisi secondo Gramsci». Anticipo qui la sua prima parte - è bene che i simposi, i convegni e simili, siano luoghi di meditata discussione. Progetto ed esaurimento dello Stato Nel 1748 Montesquieu ha pubblicato il librone Lo spirito delle leggi, che contiene la definizione più illuminata dell ambizioso progetto dello Stato: «Qualche elemosina fatta a un uomo nudo per le strade non basta ad adempiere gli obblighi dello Stato, il quale deve a tutti i cittadini la sussistenza assicurata, il nutrimento, un abbigliamento decente, e un genere di vita che non sia dannoso alla salute» (Rizzoli 1967, p. 549). Nel 2014 Zygmunt Bauman ha pubblicato il libretto Stato di crisi, che contiene la constatazione più mesta dell epilogo di quel progetto: «Dagli anni Settanta del Novecento, a poco a poco, ma in maniera sempre più evidente, gli Stati hanno dimostrato la loro incapacità di mantenere le promesse. Seriamente svuotati di potere e sempre più indeboliti, i governi degli Stati sono costretti a cedere una dopo l altra le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici statali» (Einaudi 2015, p. 12). Inizio della fine dello Stato Dagli anni Settanta del Novecento? No. Da parecchi decenni prima. La crisi dello Stato fa parte della crisi della civiltà moderna, che dal punto divista politico generale è la civiltà degli Stati. E la crisi della civiltà moderna è iniziata nei primi decenni del Novecento. Come ha testimoniato Johan Huizinga nel 1935, nel suo libro La crisi della civiltà: «Una crisi di civiltà è un concetto storico. Mediante la pietra di paragone della storia, mediante il confronto del nostro tempo col passato, si può dare a questo concetto un certo contenuto oggettivo. Dinanzi al giudizio storico vi sono epoche ben distinte, contrassegnate da evidenti caratteri di crisi, in cui l avvenimento storico non si concepisce che come intensiva svolta di civiltà. Tali epoche sono (considerando soltanto gli ultimi duemila anni in Occidente): il passaggio dall antichità al Medioevo; quello dal Medioevo ai tempi moderni» (Pgreco 2012, p.12). E prima ancora di Huizinga, Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni (scritti a mano dal 1929 al 1935), ha descritto e spiegato la crisi nella quale ci troviamo ancora oggi a vivere come «crisi organica» della civiltà moderna. «Lo studio degli avvenimenti che assumono il nome di crisi. Quando è cominciata la crisi? La crisi si inizia almeno con la guerra : la guerra fu la risposta politica e organizzativa dei responsabili» (Einaudi 1975, p.1755). Con l inizio della crisi della civiltà moderna, inizia la fine dello Stato. (Segue)

7 ALIAS (7) VIDEOARTE Fuso, il festival tra gli azulejos di SANDRA LISCHI LISBONA C è una bella luna piena nel cielo sopra Lisbona, a chiudere le giornate di Fuso 2015, il festival annuale di videoarte internazionale diretto da Antonio Cámara che si tiene nella capitale portoghese dal Le proiezioni si svolgono all aperto, a fine agosto, dalle dieci di sera in poi. Lisbona è ricca di chiostri, cortili, giardini e spazi pubblici - e di musei - e una parte dei luoghi varia di anno in anno: come in questa edizione, con la premiazione nel bel cortile interno del Museu da Marioneta. Fra alberi e arcate, fra le palme del Giardino Botanico, le sculture del Museo di arte contemporanea del Chiado, il grande schermo itinerante del festival (impeccabile qualità di immagini e suoni) inquadra le immagini recenti della competizione portoghese, di serate monografiche e di incontri più mirati, anche di ricognizione storica. Le giornate (25-30 agosto) si inseriscono nel ricchissimo programma di «Lisboa na rua», una vera e propria festa continua, dal 20 agosto al 20 settembre, tutta en plein air, tra concerti di jazz, fado, classica, rassegne cinematografiche (quest anno proprio incentrate sulla città, dal cinema di finzione al documentario alle immagini amatoriali), letture teatrali, conversazioni; e che include anche l iniziativa «Flâneur», risultato di un progetto europeo sulle «nuove narrative urbane», con una lettura della città che in questo caso presenta foto e installazioni, in una serie di piazze. Lisbona esalta le proprie qualità scenografiche, accarezzata dalla brezza serale che arriva alle sue sette colline dal Tago e dall oceano. Il festival, nonostante un budget esiguo e ogni anno incerto, nonostante la crisi, riesce a crescere, tanto da prolungare in questa edizione le giornate di proiezione e l arco di appuntamenti anche oltre l orario serale. Fuso 2015 ha visto infatti una serie di incontri pomeridiani di approfondimento, in modo da creare scambi anche con i vari ospiti stranieri, in dialogo volutamente «informale» con i vari curatori e autori portoghesi. «Fuso files», questo il nome del ciclo di incontri curato da Elsa Aleluia, si è svolto nei locali di Carpe Diem, in un antico palazzo destinato dal Comune ad attività espositive e culturali, e che deve il suo fascino a una mescolanza casuale e insieme sapiente fra il degrado e un abbozzo di restauro, con gli azulejos che appaiono qua e là fra frammenti di muro scrostato. Si è parlato dell uso del found footage nella videoarte, documentato anche da molte opere presenti al festival; Lori Zippay di Electronic Arts Intermix (New York) ha illustrato le origini della videoarte nello scenario della controcultura negli States, sia a livello artistico che mediatico, presentando rari documenti degli anni Sessanta (fra cui uno della Bbc, sulle prime distorsioni video di Nam June Paik in una intervista televisiva a Marshall McLuhan); Fernando Aguiar ha presentato un omaggio a Anna Hatherly, recentemente scomparsa, con Revoluçao, un film del 1975 originariamente in Super8, che con un energico e ritmato collage di suoni e immagini restituisce l entusiasmo e la combattività dei giorni della «rivoluzione dei garofani» il 25 aprile 1974: scritte sui muri, manifesti strappati, frammenti di canzoni e di slogan, di manifestazioni, di gesti, bandiere. Fra documento e sperimentazione, riecheggia la performatività e l improvvisazione di cui a Fuso si sono avuti altri esempi storici. Come nella serata in cui Isabel Alves ha presentato, accanto a una serie di materiali di e su Ernesto de Sousa, intellettuale, letterato, artista e cineasta lisboeta (al museo Berardo di Lisbona è in corso un ampia mostra della sua splendida collezione di manifesti politici e culturali) The Magic Sun (SunRa) di Phill Niblock (1968), che appunto con Sousa fu in contatto dalla fine degli anni Settanta. Un corto di 17 minuti ad alto tasso sperimentale in cui la prossimità della macchina da presa alla Sun Ra Arkestra, in un concerto sul tetto di un edificio di New York, la frammentarietà, il ritmo suono-immagine, le elaborazioni visive, i dettagli quasi astratti, l alto contrasto del bianco e nero compongono un piccolo classico del cinema sperimentale e underground. Come si vede, per Fuso la videoarte ha un cuore antico, radici che molti non conoscono e che sono, anche, in gran parte da esplorare, nelle connessioni con le avanguardie, le arti contemporanee e il cinema non narrativo. Un filo rosso che ha percorso tutto il festival nei colloqui pomeridiani come nelle proiezioni notturne, che hanno consentito agli ospiti stranieri e ai curatori locali di condividere passioni e scoperte. Come la presentazione (da parte di Jean-François Chougnet) del lavoro di Miguel Palma e della sua arte che esplora e ricrea in modo divertito e surreale il fascino dei motori, dei dispositivi telecomandati, di una serie di macchinari. O come la proiezione di una scelta dalla collezione del Frac dell Ile de France, il Fondo Regionale delle Arti Contemporanee, di cui Xavier Franceschi ha presentato fra l altro diversi corti (inizio 2000) della serie «Respect the Dead» di Pierre Bismuth: celebri film mainstream che l autore interrompe non appena c è un morto, facendo subito scorrere i titoli di coda; scegliendo perlopiù opere in cui il decesso ha luogo nei primi minuti. Una serie che, pur con qualche effetto comico, ha una sua valenza critica, provocatoriamente morale. Sempre di found footage il video brasiliano presentato da Alison Avila, del 2014: Aquilo que fazemos com as nossas desagraças (Quel che facciamo con le nostre disgrazie) di Arthur Tuoto. Un sorprendente lavoro di 60 sui moderni mostri, una sorta di Società dello spettacolo di Guy Debord 2.0: la visualizzazione grafica sullo schermo nero (in portoghese) di un dialogo (in voce over in francese) fra Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, tratto da France/tour/détour/deux/enfants (1977) è intessuta di immagini, elaborazioni sonore e frammenti I PREMI La partita virtuale del King Kong punk Come ogni anno, l affollatissima prima serata di Fuso ha proposto la competizione nazionale, con i premi del pubblico e della giuria. Opere scelte fra le 107 arrivate: echi di cinema sperimentale, found footage, documentario, performance, animazione, anche se con minor arditezza sperimentale rispetto al Il premio del pubblico è andato a Pink Punk King Kong di Maciel Santos e João Cruz (2014, 6 ), una partita virtuale a ping pong giocata sui suoni; la giuria ha premiato José Simões con Como comem os portugueses a... (2014, 10 ), piccola inchiesta ammiccante sui diversi modi di mangiare la torrada, tipico toast portoghese che viene servito diviso in varie parti. di musica «alla Godard». Fra cinema, tv, filmati amatoriali, spezzoni da telecamere di sorveglianza, sfocature, variazioni di quadro. Un film-saggio (o video-saggio) forte sul nostro tempo, in cui la partitura visiva aggiorna e «apre» le geometrie di un dialogo fin troppo impeccabile, attualizzandolo e dandogli un respiro di felice ambiguità. Un lavoro assai interessante, questo di Tuoto, che ha vinto in Brasile il premio «Cine Esquema Novo» Impegno artistico-politico anche nella serata e nell incontro con Françoise Parfait, che ha illustrato metodi e opere di «Suspended Spaces», un programma collettivo e itinerante che ha come oggetto i luoghi sospesi appunto, i luoghi incerti, le grandi architetture moderniste rimaste inutilizzate, ma anche pezzi di città resi inaccessibili o «scomparsi» in seguito a guerre e conflitti. Il progetto, necessariamente interdisciplinare - fra geopolitica, architettura, arte, urbanistica - si è svolto finora a Cipro, in Libano, in Brasile, e vede anche il sostegno di alcune università francesi; si dipana fra convegni, pubblicazioni e residenze di artisti che «leggono» e interpretano, ognuno a suo modo, queste situazioni, con fotografie, animazioni, video. Paula López Zambrano, messicana, ha presentato un programma non solo nazionale ( e accompagnato anche da due performance) sulla violenza, con lavori metaforici ma anche con la cruda registrazione audio, messa in immagini (ancora una volta la grafia che scorre sullo schermo nero) delle frasi burocratiche e agghiaccianti che accompagnano un esecuzione sulla sedia elettrica (July the Twelfth 1984, di Jordan Baseman, 13, ). Una sottolineatura del potere dell audio che molti lavori di Fuso hanno efficacemente proposto.

8 (8) ALIAS di LUCA CELADA LOS ANGELES La fine del mondo dilaga sui piccoli schermi in una abbondante selezione di varianti. In comune hanno il gusto ineffabile di rappresentare il declino della società civile, un tema traversale che ricorre in un ondata di fiction apocalittiche. Il capostipite di diritto è Walking Dead, la mega-hit della AMC che ha fatto della zombie-apocalypse ipnotica materia per milioni di spettatori in tutto il mondo. Ma le varianti sono ovunque. Leftovers ad esempio prende spunto dalla mitologia escatologica della rapture che nella dottrina avventista cristiana postula il rapimento in paradiso dei fedeli eletti, per raccontare sulla HBO gli effetti catastrofici sui sopravvissuti alle prese con l inspiegabile scomparsa di milioni di persone. In Colony Carlton Cuse, showrunner veterano di Lost, (e del remake americano di Les Revenants) immagina una Los Angeles occupata da invasori alieni e gli effetti imprevedibili fra i terrestri divisi fra partigiani e collaborazionisti. Con The Strain Guillermo del Toro sceglie un apocalisse più di genere con la diffusione di una peste che trasforma i contagiati in vampiri in una New York crepuscolare. Altre serie calcano simile terreno: Mr. Robot in chiave di un complotto di una cabala di banchieri combattuta da un gruppo di hacker anarchici. Humans è l ultima variante del filone distopico della intelligenza artificiale, nella fattispecie una rivolta di androidi intelligenti contro i propri programmatori umani. Ultimo in ordine di tempo Fear the Walking Dead, l annunciatissimo «spinoff» di Walking Dead, ha stabilito un nuovo record assoluto di audience per una cable fiction. La nuova serie è partita domenica scorsa negli Stati Uniti e in contemporanea mondiale in 100 territori, eccetto l Italia dove il programma sembra essere rimasto vittima di una querelle fra Horror Channel e Sky che il mese scorso ha sfrattato il tematico che ne detiene i diritti dalla propria piattaforma. Tecnicamente si tratta un prequel, un prologo all originale, che mostra la diffusione della sindrome infettiva dei morti viventi che provoca l inesorabile collasso della civiltà. Gli eventi hanno luogo a Los Angeles nelle 4-5 settimane in cui lo sceriffo Grimes si trova in coma nell ospedale della Georgia (gli eventi inziali di Walking Dead: al suo risveglio troverà il mondo devastato dalle orde di zombie, un apocalisse a cui i profughi umani devono tentare disperatamente di sopravvivere). La nuova serie percorre invece le tappe iniziali dell inesorabile contagio e il progressivo degrado dell ordine costituito - una procedura dell orrore imperniato sul fascino «iper realista» del mondo che va a catafascio. A luglio, quando la serie è stata presentata al Comicon di San Diego, abbiamo incrociato alcuni dei protagonisti fra cui Frank Dillane che interpreta Nick, giovane tossicodipendente che ha la sfortuna di imbattersi nel paziente zero dei morti viventi. «Al momento sembra che tutti si stiano occupando di fine del mondo», ci ha detto il giovane attore inglese (ha esordito come Tom Riddle in Harry Potter). «Tutto sembra essere apocalittico. Forse ha qualcosa a che vedere col fatto che stiamo raggiungendo il limiti dello sviluppo, della tecnologia e del capitalismo. Ormai dopo internet è difficile immaginare un prossimo passo. C è un senso imminente di fine impero, di sistemi che devono cadere o essere abbattuti e forse inconsciamente serpeggia un pessimismo che si esprime in cinema e tv». Secondo Dillane l imperante catastrofismo avrebbe radici in Dagli Usa arrivano nuove serie tv «apocalittiche», da «Leftovers» a «The Strain» di Guillermo Del Toro, fino a «Fear the Walking Dead», prequel della fortunata fiction una paura planetaria: «Potrei sbagliarmi, in fondo da noi David Cameron è appena stato rieletto, ma credo che l idea di apocalisse possa rappresentare una voglia di azzerare un mondo alienante». «Il pubblico è affascinato dal concetto di sopravvivenza e reinvenzione», concorda Kim Dickens. Nella serie è professoressa di liceo e la madre di Nick (ma nel suo curriculum ci sono anche Sons of Anarchy e House of Cards). «La gente è affascinata da come vengono messe alla prova umanità e moralità in circostanze straordinarie, da ciò che gente ordinaria sarebbe disposta a fare per proteggere se stessa e le proprie famiglie quando viene a mancare la protezione delle autorità». In Fear the Walking Dead l azione si sposta dalla Georgia a Los Angeles; la piatta quotidianità della metropoli viene squarciata dall epidemia che inizialmente si manifesta in focolai isolati. La psicosi «iper realista» che scatena non può non rimandare ai titoli sull ebola di qualche mese fa. L ambientazione nella L horror distopico delle nostre vite

9 ALIAS (9) città-location per eccellenza, restituita in innumerevoli canoniche rappresentazioni cinetelevisive, è tanto più efficace per essere universalmente riconoscibile. Allo stesso tempo lo sfondo è una Los Angeles meno consueta, in gran parte i quartieri ispanici e multietnici di East L.A., uno sprawl crepuscolare anche prima dell epidemia, pattugliata dalla polizia, piena di homeless i «morti viventi» di tutte le nostre città. La lezione allegorica del patriarca del genere, George Romero, è stata ben assorbita dai produttori esecutivi Gale Anne Hurd (già produttrice delle distopie di Terminator) e Greg Nicotero (che con Romero ha iniziato una carriera di effettista). Nei parchi e nei ghetti della città i morti viventi si mescolano agli emarginati, ai poveri e ai diversi: gli altri che tutti siamo abituati ogni giorno ad evitare con lo sguardo. Meglio non vedere, non sapere. «È sicuramente un oggetto del nostro tempo» spiega Alycia Debnam-Carey (nella storia è la sorella di Nick). «Parla delle paure che abbiamo oggi, un pò come negli anni Cinquanta la fantascienza elaborava la psicosi della guerra fredda e l ansia tecnologica. Gli zombie sono persone senza cervello, forse come quelle che oggi stanno uccidendo il pianeta». «Una specie di suicidio collettivo», aggiunge Dillane, «non credo sia un caso che allo stesso tempo i cinema siano pieni di robot, di Terminator e di Mad Max». A differenza dello sci-fi dei supereroi, la nuova distopia è lontana dagli archetipi eroici. La protagonista di Fear the Walking Dead è una professoressa di liceo con problemi di famiglia. Il preside della sua scuola che si domanda perché così tanti alunni siano a casa malati e cerca di gestire l emergenza, assomiglia tanto a Obama. Siamo a Los Angeles quindi quando l ordine costituito comincia a dissolversi fra elicotteri della polizia e lacrimogeni, le immagini somigliano inevitabilmente alle rivolte razziali di South Central. Ma l iconografia della instabilità è universale e potrebbero essere scene sul confine macedone o fuori da un campo profughi tedesco. Universale è la psicologia del caos e l inquietudine che assorbiamo quotidianamente dai telegiornali, è questo che Hollywood ci restituisce nella valanga di serie apocalittiche. Dicono che la tv seriale abbia preso il posto dei romanzi per elaborare sentimenti e temi salienti delle nostre vite. Forse è proprio l horror distopico quello che oggi le rispecchia più fedelmente. In grande il poster di «Ash vs the Evil Dead». In alto a destra e qui accanto alcune scene da «Fear the Walking Dead». Al centro i fratelli Raimi e sotto il titolo Ash, il protagonista della saga «La casa», in azione di L. C. LOS ANGELES La fiction tv riscopre il genere d autore con un numero sempre maggiore di registi che affrontano il piccolo schermo spesso rivisitando il proprio cinema. Guillermo Del Toro ha adattato le proprie graphic novel in The Strain, David Lynch prepara la nuova incarnazione di Twin Peaks e i Wachowsky lavorano alla seconda stagione di Sense8, l epica fanta-new age per Netflix. Robert Rodriguez ha addirittura lanciato un intero network, El Rey, su cui passa la serializzazione di Dusk Till Dawn (Dal tramonto all alba). Ora arriva anche Sam Raimi che per Starz traghetta sul cavo il suo cult La casa. Ash vs. The Evil Dead che debutterà a fine ottobre (sera di Halloween, ovviamente) riprende il filo della storia trent anni dopo con i demoni che tornano a perseguitare Ash. Il protagonista molto coatto INTERVISTA I FRATELLI SAM E IVAN RAIMI Il risveglio della «Casa». 30 anni dopo guida sempre la fedele Oldsmobile del 73 ed ha ancora la protesi a motosega - e in più ora dentiera e corsetto per dissimulare i chili sopraggiunti. Una mezz ora squisitamente grandguignol e molto grindhouse che in quest era di segmentazione specialistica mira allo zoccolo duro dei fan de La casa e ai loro figli. A San Diego abbiamo incontrato Raimi e suo fratello e co-sceneggiatore Ivan. Come è stata questa riunione con una delle sue prime creature? (Sam Raimi) È rimasta tale e quale, in particolare Ash, non è maturato neanche un po, è rimasto il buzzurro di sempre. Non è decisamente progredito in quanto uomo o imparato nulla di particolare. Direi che il suo sviluppo si è arrestato e lui ha semplicemente continuato ad esistere sperando di non dover mai più affrontare demoni. Malauguratamente per lui all inizio della nostra serie torna accidentalmente a risvegliarli. Quanto a me è stato un gioco da ragazzi riprendere in mano questa storia perché lavoro con Rob Tapert, il nostro produttore di allora, mio fratello Ivan con cui scrivo tutti i miei film e Bruce Campbell con cui siamo amici dai tempi del liceo. (Ivan Raimi) È come lavorare con un gruppo di amici e un personaggio a cui vogliamo bene malgrado sia rimasto emotivamente bloccato e si ritrovi un po appesantito dagli anni a fare i conti con un altra spiacevole situazione. Da dove venne l idea originale? (S.R.) Semplicemente il desiderio di fare un horror. Fino ad allora avevamo girato solo commedie. Bob (Tapert, ndr) continuava ad insistere che avremmo dovuto fare un film dell orrore, che era l unico modo per sfondare davvero. Ci serviva un protagonista e Bruce era l unico attore che conoscevamo, tutto è accaduto un po per caso. Non avevo un idea molto chiara per Ash ed è stato Bruce a creare quel personaggio sull'arco dei tre film. E ora la serie tv... (S.R.) Sinceramente pensavamo di aver chiuso con La casa dopo il terzo episodio, che abbiamo scritto con Ivan, L armata delle tenebre, ma i fan volevano ancora Casa. Così abbiamo prodotto il remake di Fede Alvarez (del 2013) e credevamo che li avrebbe soddisfatti. Il film è andato bene, ma la gente voleva vedere di nuovo Bruce Campbell, voleva Ash. E alla fine ci è venuto in mente che invece di un altro film avremmo potuto fare una serie televisiva. Perché la tv nel frattempo è cambiata abbastanza? (S.R.) Sicuramente oggi si vedono programmi di ogni genere, storie anche estreme rispetto a quelle che si potevano fare una volta. La casa ovviamente è sempre stata molto «gore» e il cavo oggi ti permette di farlo in tv per la prima volta. E in più ti permette di esplorare più a fondo i personaggi. (I.R.) Ci siamo chiesti: «Cosa diavolo starebbe facendo oggi Ash?». Beh, è un tizio di mezza età che si è cacciato in un altro pasticcio, e il format tv permette di elaborarlo un po più a fondo; non è più lui da solo in una casa ma si muove in luoghi diversi, deve interagire con altre persone, e questo non è proprio il suo forte. In realtà è abbastanza seccato e riprende solo controvoglia la vecchia battaglia. È stato più difficile lavorare sulla serie che sul film? (S.R.) No quel film è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Per la prima Casa è stato incredibilmente difficile da girare, Partirà a ottobre «Ash vs The Evil Dead», seguito per la televisione della saga cinematografica ideata dai due «movie maker» statunitensi non avevamo un dollaro e ci siamo morti di freddo. Lo abbiamo girato in gran parte da soli e Bruce si faceva il trucco da sé. Io facevo l operatore di macchina e cambiavo i caricatori ed è stato molto, molto impegnativo. Come sei cambiato come regista da allora? (S.R.) È quasi come se all epoca avessi cominciato a disegnare figurine con le matite colorate e negli anni ho imparato il mestiere, dai miei attori e da altri registi, ho imparato a girare da direttori della fotografia, e poi tutte le ore passate nelle «writing room» con gli sceneggiatori mi hanno insegnato come si racconta una storia. La cosa buffa è che mi sembra di essere cresciuto come regista, ma i miei più grandi fan vogliono solo che mi rimetta a fare quei disegnini colorati, del resto non gliene importa niente, e così ho deciso di farlo. Che effetto fa contribuire alla cosiddetta «golden age» delle tv? (S.R.) Non so se sia una età aurea, il nostro progetto ha semmai più in comune con i cinema drive-in, è un b-movie serializzato, come quelli di una volta, è che ora la tv via cavo ci permette di tornare a farli... (I.R.) Più che oro con La casa tutt al più potrà essere un età di latta... Ma voi personalmente siete fan? Seguite la tv? (S.R.) Devo dire di sì. Amo Breaking Bad anche se non sono mai riuscito ad arrivare fino in fondo. I programmi oggi sono migliori di sempre.

10 (10) ALIAS di PASQUALE COCCIA Chi sono i padroni del calcio? Sceicchi e oligarchi russi, cinesi, thailandesi e indiani hanno messo le mani sul calcio europeo per trarne profitti. Perché il capitalismo mondiale si fa la guerra attraverso il calcio? Chi ha colto la palla al balzo e chi ha perso il treno come il calcio italiano, conservatore e litigioso. Ne parliamo con Marco Bellinazzo autore di Goal Economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio ( Baldini e Castoldi, euro 19). Com'è andato il calciomercato delle grandi concorrenti della Juve? Il Milan ha speso molto, come non accadeva da anni, anche in vista del passaggio del 48% del club al thailandese Bee Tauchebaul atteso per fine settembre. Sono stati investiti una novantina di milioni. Purtroppo per l attuale dirigenza sono sfumati i colpi più prestigiosi e questo ha generato un certo malcontento nella tifoseria. L Inter ha scelto una campagna più roboante, rivoluzionando l organico, distribuendo attraverso varie formule contrattuali il peso economico sui bilanci dei prossimi anni. Lo stesso ha fatto la Il libro «Goal Economy» racconta le trasformazioni del «gioco più bello del mondo», ma il nostro paese è rimasto indietro. Intervista all autore Marco Bellinazzo Roma. Una strategia che dovrà passare ora al vaglio dell Uefa chiamata a verificarne la compatibilità con il fair play finanziario. Perché condotte diverse? In Italia solo Juve, Roma e Lazio sono quotate in Borsa e perciò sottoposte a maggiore trasparenza e controllo. Gli altri non hanno controlli rigidi e i casi come quello del Parma o Siena sono dietro l'angolo. La squadra toscana che fino a due anni fa militava in serie A è finita nel nulla, travolta dai debiti e dall eccessiva dipendenza dal Monte dei Paschi. Con la crisi dell'istituto bancario non a caso il Siena è precipitato. Altre squadre delle serie minori che giocavano in Lega Pro (quella che un tempo veniva chiamata serie C, ndr) sono scomparse, cancellando la memoria storica, il rapporto con i tifosi e la città. Negli ultimi anni in Italia sono scomparse 120 società di calcio. Anche negli altri campionati europei succede questo? La Premier League ha avuto la capacità di rigenerarsi, a partire dai fatti tragici che caratterizzarono il calcio inglese negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la strage dell'hysel, quella dell'89 all'hillsborough Stadium in occasione della semifinale di FA Cup tra il Liverpool e il Nottingham Forest in cui morirono 96 tifosi del Liverpool per la calca formatasi nel tunnel del Gate C, a causa di una cattiva gestione dell'ordine pubblico da parte della polizia. Negli anni Novanta il governo inglese favorì l'ammodernamento degli stadi con un contributo del 2,5% proveniente dalle scommesse sportive al quale si Calcio e finanza, Italia all ultimo stadio aggiunse un finanziamento di 3,5 miliardi di sterline da parte dei club. Negli ultimi 20 anni sono stati costruiti 30 nuovi stadi, che sul piano architettonico sono invidiabili e assicurano alle squadre una redditività che va oltre 700 milioni di euro a stagione a fronte dei 100 milioni garantiti nel periodo precedente alla costituzione della Premier League. Inoltre, nel paese del liberismo sfrenato, i presidenti delle società di calcio si sono messi d'accordo su una più equa distribuzione dei proventi dei diritti televisivi. La prima squadra non può percepire più del doppio dell'ultima squadra, un principio che garantisce agli ultimi di mantenere i bilanci solidi, di fare acquisti di calciatori importanti, di pagare gli stipendi e di evitare buchi che portano nel giro di poco al fallimento. Perché non avviene in Italia? L'Italia ha perso il treno all'inizio del Duemila. Siamo una generazione indietro rispetto a paesi come Inghilterra, Germania e Spagna. Nel 2004 il fatturato dell'inter e quello del Barcellona erano intorno ai 160 milioni. Oggi il club catalano è tra i più ricchi del mondo e ricava oltre mezzo miliardo di euro a stagione. In Italia si è verificato il processo opposto a quello inglese. I presidenti vanno ognuno per conto proprio, con alleanze tra squadre forti e piccole che paralizzano la Lega privandola di una strategia comune. Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio, nonché responsabile comunicazione di Unicredit, di fatto, non ha potere decisionale. Tutto si decide, si fa per dire, nelle reiterate riunioni assembleari. Una sorta di condominio in cui si fa a chi alza di più la voce senza decidere alcunché, se non come spartirsi i soldi delle tv, e in cui ogni presidente di serie A

11 ALIAS (11) A destra l Olympiastadion di Berlino; sotto il segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha potere di veto e ogni scelta è frutto di equilibri precari che cambiano continuamente, con dirigenti e patron come Galliani e Lotito a tirare le fila. Il calcio italiano è incapace di rinnovarsi ed è lo specchio di quello che avviene nella politica. Le dimissioni del ct Cesare Prandelli e del presidente della Federcalcio Giancarlo Abete, dopo il disastroso esito degli azzurri ai mondiali di calcio del 2014, hanno aperto una crisi «politica» dalla quale si è usciti con intese consociative che sono il riflesso di un certo conservatorismo del calcio italiano. L'elezione di Tavecchio è figlia di una governance ingessata del nostro calcio in cui nessuno si fida più di nessuno. Se il calcio italiano è conservatore, che cosa può fare la politica? In Spagna sono stati i presidenti delle squadre della Liga a sollecitare il governo Rajoy ad approvare una legge per la vendita collettiva sui diritti televisivi e una distribuzione più equa degli introiti, sul modello di quello che avviene in Inghilterra. Si faccia la stessa cosa in Italia, qualche segnale Renzi l'ha dato ma poi è finito lì. Basta una più attenta distribuzione degli introiti televisivi per risolvere i problemi del calcio italiano? No, occorre altro. Un primo passo potrebbero essere gli stadi di proprietà della squadra, o meglio parlerei di stadi di qualità, che possano garantire sicurezza, spazi agevoli e impiegabili anche durante il resto della settimana. Impianti moderni dotati di musei, palestre, ristoranti, sale convegni e negozi per il merchandising. Allo Juventus Stadium, di proprietà della squadra bianconera, sono stati impiegati un migliaio di persone. Se si ammodernassero gli stadi italiani che hanno un età media di sessant anni o se ne costruissero di nuovi il settore dell'edilizia, anche nelle zone economicamente più depresse del paese, potrebbe rimettersi in moto, garantire occupazione agli operai e nuovi impieghi negli stadi. Se gli stadi diventano proprietà dei club, per gestire proficuamente questi spazi occorrerà mettere a capo gente selezionata, capace di gestirli per renderli redditizi. Potrebbe essere un primo passo anche per formare una nuova leva di dirigenti. Altro aspetto da non sottovalutare è la possibilità di riqualificare urbanisticamente le aree intorno allo stadio, dando la facoltà a una società costituita da privati e club di costruire abitazioni civili e uffici nelle aree circostanti e dai ricavi finanziare l area sportiva. Su questo punto c'è una certa resistenza da parte della sinistra e del movimento ambientalista, che gridano alla speculazione edilizia. Nella legge di stabilità 2014 che ha tentato di accelerare le procedure pubbliche per la realizzazione di impianti sportivi di nuova generazione è stato escluso che tra le misure compensative che i comuni possono concedere ai privati affinché finanzino i club ci potesse essere l edilizia residenziale, depotenziando un intervento legislativo atteso da anni. Ma le abitazioni potrebbero essere anche di tipo cooperativo, contornate da spazi verdi e da servizi, dalle palestre ai palazzetti dello sport fino ai supermercati, non necessariamente destinate a un ceto sociale alto. Puoi fare degli esempi? Lo stadio dell'arsenal, inaugurato nel campionato , ha richiesto un investimento di 550 milioni di sterline, è stato finanziato con la cessione dei diritti di denominazione dello stadio a Emirates per quindici anni in cambio di 100 milioni. La capienza è passata da 38mila a 60mila spettatori, nel 2013 la media spettatori è stata di , inoltre si sono svolti cinque concerti tra i quali quelli dei Coldplay e dei Muse, garantendo circa 108 milioni di euro alle casse del club, passati a 127 milioni nel All'interno dello stadio i box per i tifosi vip sono passati da 50 a 150 e per l'abbonamento annuale si è passati da 65mila a 150mila sterline annue. Sotto vi sono quattro ristoranti e decine di punti di ristoro per i tifosi. Ogni anno l'arsenal incassa 70 milioni in più alla voce «match day». Inoltre, d'accordo con le autorità locali l'arsenal dopo aver demolito il vecchio stadio Highbury, ha costruito 700 appartamenti inaugurati nel dicembre 2009, dalla cui vendita ha incassato 500 milioni. Tutta questa operazione permette all'arsenal di tenere i conti sotto controllo, di non essere costretta a vendere i calciatori più forti e di competere ai massimi livelli della Premier League. Queste modalità possono essere applicate anche a squadre del campionato italiano di media grandezza. Se dieci anni fa avessimo intrapreso questa strada avremmo evitato il fallimento di società che hanno fatto parte della storia del calcio italiano, con ricadute sul tessuto sociale, sui tifosi e sull'economia delle città coinvolte. Perché sul calcio inglese, spagnolo e ora italiano hanno messo le mani cinesi, russi, indiani, americani? Sono imprenditori che gestiscono imperi economici e sono convinti che i club acquistati se gestiti correttamente possano produrre guadagni. Inoltre paesi come l'india e la Cina rappresentano potenziali mercati dove far fruttare il marchio del club, perciò gli sponsor sono aumentati, a cominciare dalle compagnie aeree che hanno dato i loro nomi ad alcuni stadi. Il capitalismo mondiale si fa la guerra attraverso il calcio. In Asia il monopolio delle sponsorizzazioni delle nazionali di calcio è tenuto dalla Nike, che finanzia ben nove squadre dalla Cina all'india all'indonesia fino alla Corea del Sud che rappresentano 2,5 miliardi di persone, mentre in Europa Adidas e Nike sponsorizzano il 45% dei club che partecipano ai cinque principali campionati di calcio europei. Non è un po' strano che nella trattativa per l'acquisto del Milan sia intervenuto il segretario del Pcc Xi Jinping per sostenere una cordata cinese? Tutt'altro, Xi Jinping ha capito il grande potenziale del calcio e il consenso politico che ne può derivare. Non a caso in Cina stanno sorgendo accademie di calcio ovunque, vogliono allestire squadre competitive in grado di competere e affermarsi a livello mondiale, come i più prestigiosi club europei. Si pensi al Guangzhou, la squadra di Pechino, il più forte club della Cina allenato fino a poco tempo fa da Marcello Lippi cui è subentrato Fabio Cannavaro. La decisione di esonerare quest'ultimo perché non erano soddisfatti dei risultati è il segno che vogliono vincere. Anche il caso Blatter e lo scandalo dell'assegnazione dei mondiali di calcio che ha travolto a maggio la Fifa, l'organizzazione mondiale che sovrintende il calcio, è frutto di questo scontro politico in atto tra le superpotenze. Non a caso contro Blatter è scesa in campo l Fbi e la Casa Bianca ha giustificato l operazione, mentre a difesa del tuttora «dimissionario» numero uno del calcio è intervenuto Putin. Lo stesso Putin, consapevole del consenso che il calcio può portare, ha fortemente voluto ospitare i Mondiali del 2018 e ha sollecitato Gazprom a sponsorizzare i principali club europei e gli oligarchi della sua cerchia a comprare squadre di calcio europee. Oggi perfino gli «Forme partecipative come quelle tedesche o spagnole, che hanno decine di migliaia di soci-tifosi, sono indispensabili» Usa, storicamente dediti al football americano, al baseball e al basket, stanno rivedendo le strategie sul calcio e riorganizzando i campionati per renderli più attraenti, non a caso Pirlo e altri campioni finiscono lì la loro carriera. La Germania ha vinto i mondiali in Brasile l'anno scorso e i club tedeschi vincono in Europa. Qual è il segreto? In primo luogo hanno un'impiantistica all'avanguardia. In occasione dei mondiali del 2006 disputatisi in Germania, sono stati investiti 1,5 miliardi per il rifacimento di 12 stadi con il contributo del governo centrale, lander e comuni pari. I club hanno contribuito con 412 milioni cui si aggiungono altri 440 milioni attraverso innovativi project financing, non per compiere aberranti speculazioni, come accadde per Italia 90, ma per realizzare stadi moderni che consentono ai club di aumentare i ricavi. Dopo l'eliminazione della Germania ai quarti di finale dei mondiali del '98 e la mediocre prestazione agli Europei del 2000, la Germania ha rivisto l'organizzazione del calcio giovanile. I club della Bundesliga di serie A e B dal 2001 hanno l'obbligo di istituire accademie giovanili con squadre a partire dagli under 12, dall'under 16 in su ogni club deve avere almeno 12 giocatori candidabili per una convocazione in nazionale. A partire dal 2001 le 18 squadre della Bundesliga hanno investito complessivamente 950 milioni nelle accademie giovanili. La selezione dei ragazzi più promettenti avviene all'interno del paese, dove li accolgono 366 campi in cui operano allenatori formati dalla Federcalcio tedesca, supervisionati da coordinatori che tengono i rapporti con i club e hanno il compito di uniformare i metodi di allenamento. Oggi i due terzi delle squadre è costituito da calciatori tedeschi, pur non essendoci il limite di tesseramento degli extracomunitari, come avviene in Italia. Lega e Federcalcio tedesca hanno deciso di favorire l'integrazione, semplificando notevolmente l'accesso alla cittadinanza agli immigrati di seconda generazione. Una politica lungimirante, che unita agli ingenti investimenti sui vivai hanno portato la Germania alla conquista del quarto titolo mondiale in Brasile. I club tedeschi sono anche i soli che resistono all'assalto degli stranieri ricchi e pigliatutto. Com'è possibile? Dal 1999 in Germania vige la regola del 50%+1, che di fatto impedisce a un singolo investitore di controllare un club, il cui pacchetto di maggioranza deve appartenere a un'associazione di tifosi. Il no ai capitali stranieri è compensato da un sistema di sponsorizzazioni dei principali gruppi industriali nazionali. Il Bayern di Monaco, tra i club più ricchi del mondo, ha come soci di minoranza Audi, Allianz e Adidas, che insieme non superano il 25%, mentre il rimanente 75% è di proprietà dell'associazione sportiva dei tifosi Fc Bayern Munchen, che conta 250mila iscritti, i quali al momento dell'iscrizione comprano delle azioni ed eleggono i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione. La gran parte delle squadre tedesche sono governate da soli soci, tra queste anche le squadre che competono ai massimi livelli della Bundensliga e delle competizioni europee come lo Shalke 04, al cento per cento proprietà dei 125mila soci, e del Werder Brema. Rigore nei bilanci, trasparenza e partecipazione attiva dei tifosi alle scelte del club sono un segno evidente di democrazia, una formula che consente un maggior controllo dei tifosi che diventano sostenitori della squadra e garanti della trasparenza. Una formula replicabile in Italia? Credo che forme partecipative come quelle tedesche o come quelle di Real Madrid e Barcellona, che hanno decine di migliaia di soci-tifosi, siano indispensabili. Ma ogni paese deve sviluppare modelli di azionariato popolare o diffuso conformi alle proprie tradizioni. Per questo ritengo che soprattutto le realtà medio-piccole, le squadre di provincia possano giovarsi della partecipazione attiva e finanziaria dei tifosi nei club. Ma ci devono essere diritti e doveri, potere di controllo e obblighi. Il senso di identità dei tifosi e delle squadre non può che uscirne rafforzato. Ci sono già esperienze in quest ottica, per esempio ad Ancona, e un altra ne sta nascendo proprio a Parma. E ciò che diventa essenziale per questi tifosi-azionisti è la sostenibilità nel tempo dei progetti sportivi, al di là delle vittorie sul campo. Se l economia e la finanza padroneggiano il calcio alla fine lo distruggeranno, ma se i dirigenti sportivi, di piccoli o grandi club, sapranno mettere l economia e la finanza al servizio del calcio, tuteleranno i club e le comunità che si raccolgono intorno ad essi. Difenderanno la passione sportiva e la tradizione che l accompagna. IL TOCCO DI SANSONE COLLE IMMANE Italia, 2015, 4 10, musica: Verdena, regia: Donato Sansone fonte: Repubblica Tv 8Fotografie rielaborate, soprattutto con la band che suona, miste a schizzi a matita animati (anzi, scarabocchi). La camera si muove istericamente, a scatti, con zoomate violente e sfocature, su questa texture grafica cangiante, in cui alle chitarre si sostituiscono delle mitragliatrici e l immagine ricorrente di una pallottola vagante (provvista di ghigno) finisce col marcare inevitabilmente tutto il clip di Colle immane. Il tocco di Donato Sansone, uno dei più folli e geniali animatori italiani, si riconosce fin dalla prima inquadratura, per il suo tratto istintivo, infantile e primitivo che ben si sposa con il rock dei Verdena. Un video materico, probabilmente frutto di un lavoro rapido e febbrile, che arriva dritto allo stomaco. Il singolo è incluso nell album Endkadenz vol. 2. UMA THURMAN Usa, 2015, 4 10, musica: Fall Out Boys, regia: Scantron Films e Mel Soria, fonte: MTV 1Tratto dall album American Beauty/American Psycho, il video di questo singolo dedicato all attrice americana divenuta una vera e propria icona grazie a Pulp Fiction, in realtà non ha nessun riferimento visivo alla Thurman, a parte il carro armato finale con la scritta Uma che schiaccia ripetutamente un pick-up parcheggiato in strada. L idea è comunque originale e molto divertente: la sorridente Sarah per sua fortuna (o sciagura) vince il concorso come assistente h24 dei quattro componenti della band: nel giro di pochi minuti dovrà espletare una serie di mansioni e assecondare le manie dei Fall Out Boys, correndo da una parte all altra di Los Angeles. Ritmo incalzante, gag a getto continuo, qualche trovata visiva azzeccata e il gioco è fatto. LAZZARETTO Usa, 2014, 4, musica: Jack Whitregia: Jonas et François fonte: MTV 7L idea centrale del video dei due registi francesi è quella di creare continue frantumazioni di vetri che scandiscono il playback di White e della sua band, creando così una struttura spettacolare e suggestiva di associazioni visuali (corpi, ombre, oggetti, strumenti musicali, azioni rallentate) in un elegante bianco e nero, basato su una fotografia piena di chiaroscuri. Ma in Lazzaretto a funzionare davvero bene è da un lato la sincronicità tra schitarrate elettriche e colpi di batteria, dall altro le continue deflagrazioni della superficie-inquadratura, che diventano elemento texturizzato di un video, anche musicalmente, coinvolgente.

12 (12) ALIAS STORIE SENZA QUESTO STRUMENTO NON SAREBBE ESISTITA «STAIRWAY TO HEAVEN» Dodici corde per il paradiso di ROBERTO PECIOLA Il rock per evolversi ha, nel corso degli anni, allargato il range strumentale attingendo via via a sonorità sempre più ampie, e lontane dall'immaginario collettivo e dal cliché chitarre (possibilmente elettriche), basso, batteria (e voce). Tastiere di ogni tipo, percussioni, fiati, archi e chi più ne ha più ne metta, si sono uniti al trittico classico per dar linfa vitale a un genere in continua evoluzione. Tra i tanti strumenti utilizzati ce n'è uno che sembra un po' scomparso dai radar, la chitarra a dodici corde, tanto elettrica quanto acustica. Sempre di chitarra si tratta e sempre dello strumento di riferimento del rock si parla, ma le differenze sono molteplici rispetto a una normale sei corde: il suono è più morbido, più rotondo, e le corde aggiuntive, specie nella acustica, richiamano quasi un'arpa rendendo il tutto più acuto rispetto alle sonorità medio-basse di una sei corde canonica. Ma, dicevamo, la dodici corde sembra essere scomparsa, o comunque utilizzata in maniera molto marginale rispetto a quanto avveniva fino a un paio di decenni fa, e specialmente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando sono stati scritti e incisi brani che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del rock, proprio con la dodici corde come strumento principale. Già tra i Sessanta e gli anni successivi si può notare un cambio di registro, laddove prima era l'elettrica a esser sfruttata in maniera più capillare dai Settanta in poi, grazie anche al sempre crescente successo del country rock e delle sue derivazioni, è l'acustica a ritagliarsi lo spazio maggiore. In quella decade non c'era quasi disco in cui non fosse presente l'inconfondibile sound della acustica a dodici corde, dai Genesis (gli arpeggi di Supper's Ready, ad esempio) ai Pink Floyd e via dicendo. In queste pagine abbiamo catalogato alcuni brani in cui la dodici corde svolge un ruolo primario, molti di questi sono per veri appassionati, ma alcuni restano impressi nella memoria di chiunque si sia mai approcciato al rock e suoi derivati. Partiamo con un vero classicone, composto insieme a Una chitarra capace di rendere un suono rotondo, morbido, pacato. Si è imposta tra i Sessanta e i Settanta, e oggi cerca di rilanciarsi Jacques Levy e inciso da Bob Dylan sul suo album del 1976 Desire. Il brano è Hurricane. Otto minuti e mezzo per raccontare la storia di Rubin «Hurricane» Carter, un pugile arrestato e condannato ingiustamente per un triplice omicidio nel 1966, un brano epocale basato su un giro di chitarra acustica dodici corde, una Danelectro Bellzouki, suonata da Vinnie Bell (e non dallo stesso Dylan come molti pensano) e su un ostinato di violino (Scarlet Rivera). Restiamo su coordinate country e facciamo un salto indietro di cinque anni, nel 1971, quando un gruppo dal nome inequivocabile, America, apparve sulle scene con un disco e un singolo, Horse with no Name, che si rivelerà il loro più grande successo. Le similitudini con Neil Young (sonorità e voce) hanno fatto sì che molti pensasse ro che la canz one fosse proprio del rocker canadese, forse anche a causa dell'assonanza tra il titolo del brano e il nome del progetto precedente di Young, i Crazy Horse... Stesso anno, ma attraversiamo l'oceano Atlantico per trovare una canzone che occupa un posto di rilievo anche nella lista delle «500 Greatest Songs of All Time» di Rolling Stone. Si tratta di Maggie May, primo singolo inciso come solista dall'ex Faces e Jeff Beck Group Rod Stewart, inserito nell'album Every Picture Tells a Story. La particolarità del brano - la cui linea melodica viene ricordata a più riprese in brani successivi dello stesso Stewart - sta nella perfetta sintesi tra la dodici corde (acustica) e il mandolino. Una delle formazioni che più hanno attinto al suono della twelve string guitar è senz'altro la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, la cui iconografia del tempo lo raffigurava spesso con una double neck, ossia una chitarra elettrica a doppio manico, uno a sei e l'altro a dodici corde, appunto. Il brano scelto è uno dei più intensi scritti dalla band jazz rock, e ripreso successivamente anche da Mos Def e Massive Attack, You Know You Know, uno strumentale presente nell'album d'esordio (era sempre il 1971) intitolato The Inner Mounting Flame. Tra post punk, dark wave, electro pop, heavy metal e quant'al tro, gli anni Ottanta hanno visto pochi gruppi cimentarsi con il rock classico e con il country, e questo ha influito senz'altro anche sull'utilizzo dello strumento di cui stiamo parlando, e tra le poche canzoni in cui è presente una dodici corde solo un paio sono da ricordare: Wanted Dead or Alive di Bon Jovi, dall'album del 1986 Slippery When Wet, e Free Fallin di Tom Petty (da Full Moon Fever, 1989). La prima vede Richie Sambora impegnato in un arpeggio che riprende stilemi cari al country rock riportati in un climax da hard rock da Fm Usa; la seconda è una classica ballata che apriva il primo disco solista dell'ex Traveling Wilburys, e oltre alla ritmica offre anche un piccolo solo suonato con una Rickenbacker dodici corde. Molto più prolifici in questo senso gli anni Novanta, ma questa è anche l'ultima decade in cui si riescono ad annoverare e catalogare brani in cui la dodici corde mantiene un ruolo predominante. Proviamo qui a dare conto in maniera cronologica di quanto di meglio fu pubblicato nel decennio in questione, partendo da uno dei più grandi interpreti della sei corde, Stevie Ray Vaughan, il quale nel 1990 si presentò davanti alle telecamere di Mtv per una performance nella serie Unplugged con una dodici corde acustica con la quale diede vita ad alcuni brani del suo album di debutto, Texas Flood, tra i quali Pride and Joy, Testify e, soprattutto, Rude Mood, un blues in 4/4 suonato a una velocità quasi supersonica (264 bpm), dando prova così della sua tecnica eccelsa davanti a un pubblico in visibilio. Sempre in quello stesso anno fu pubblicato un album postumo, The Sky Is Crying, che conteneva il brano Life by the Drop, scritto dal suo amico Doyle Bramhall e registrato da Vaughan con una dodici corde. Tutto ciò lascia pensare che forse stesse cercando nuove strade e nuove sonorità per il futuro, futuro che per lui si è fermato il 27 agosto del Non si può certo dire che Ozzy Osbourne non sia stato affiancato da grandi chitarristi, a cominciare dal suo sodale nei Black Sabbath Tony Iommi passando per lo sfortunato Randy Rhoads, fino a Zakk Wylde, con il quale ha inciso (e scritto insieme a Lemmy Kilmister dei Motörhead) Mama I'm Coming Home, da No More Tears, disco del Il pezzo è chiaramente ispirato alle sonorità southern rock e oltre a presentare un riconoscibilissimo arpeggio, opera di Wylde, è degno di menzione anche per il fatto che è l'unico singolo di Osbourne, in versione solista, ad aver varcato la Top 40 di Billboard. Il 1991 è

13 ALIAS (13) In queste pagine, dall alto verso il basso: The Who, Layne Staley e Jerry Cantrell degli Alice in Chains, Led Zeppelin, Bob Dylan con Rubin «Hurricane» Carter, David Bowie e Mick Ronson, Keith Richards dei Rolling Stones, The Beatles, Pink Floyd, Mahavishnu Orchestra, Stevie Ray Vaughan, Eagles, Queen, The Byrds, America anche l'anno che vede la consacrazione di un gruppo che faceva della provocazione e della dissacrazione uno stile di vita. Esce infatti l'album Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers. Il disco contiene una delle uniche due canzoni in 6/8 della band, Breaking the Girl (l'altra è Porcelain da Californication). La sequenza di accordi e l'uso del mellotron riportano agli anni Settanta ed è facile notare come le ballad ledzeppeliniane (The Battle of Evermore, Over the Hills and Faraway) siano state fonte di ispirazione per Anthony Kiedis, John Frusciante, Flea e Chad Smith. Il grunge è stato probabilmente il genere che più di ogni altro ha caratterizzato il decennio, e tra i vari gruppi ascrivibili al movimento nato a Seattle, uno dei più importanti sono stati gli Alice in Chains di Layne Staley e Jerry Cantrell. Dopo un paio di fortunati lavori, nel 1994 pubblicano l'ep Jar of Flies, sei brani dal mood acustico tra i quali spicca il primo singolo, I Stay Away, che viene ricordato da Cantrell come il primo scritto insieme al nuovo bassista del gruppo, Mike Inez. Il pezzo, così come l'intero ep, metteva in luce la doppia anima degli Alice in Chains, in grado di passare, anche all'interno della stessa canzone, da momenti spigolosi e duri ad altri di estrema dolcezza e cantabilità, e forse per questo sono ricordati come una delle migliori espressioni del grunge e del rock di quegli anni. I Pantera sono stati uno dei gruppi heavy metal più puri e duri, ma per una volta hanno provato un esperimento, riuscitissimo, dando spazio a una sperimentazione quasi catartica, affidandosi a una dodici corde acustica e a una tastiera cupa. La chitarra del compianto Dimebag Darrell accompagna la voce scura di Phil Anselmo nel brano del 1996 Suicide Note pt. 1 (da The Great Southern Trendkill), e fa da contraltare alla pt. 2 che riprende il classico stile heavy della formazione texana. L'ultimo brano che vogliamo prendere in esame negli anni Novanta è una lunga «elucubrazione» virtuosistica di John Butler, chitarrista californiano di nascita ma australiano di adozione, leader del trio che porta il suo nome e che, a fine 1998, pubblica il suo primo disco (John Butler). Il brano in questione si chiama Ocean e vede l'artista - poco noto da queste parti - impegnato in dodici minuti (totalmente strumentali) di fingerpicking, tapping e varie altre tecniche su una dodici corde acustica. Sicuramente una prova che mostra la grande «scaltrezza» di Butler ma che, alla lunga, poco lascia all'ascoltatore. Se c'è stato un gruppo negli anni Sessanta immediatamente riconoscibile per l'uso di una dodici corde questi sono i Byrds, ma per loro stessa ammissione tutto nacque da un brano che fu fonte di ispirazione e che potremmo definire, oggi, la madre di tutte le canzoni per una dodici corde. E chi avrebbe potuto scrivere una canzone così importante, influente, per generazioni future se non i Beatles? Il pezzo di cui parliamo è A Hard Day's Night del 1964, tratto dall'omonimo lp. L'inconfondibile incipit del brano è opera di George Harrison e della sua Rickenbacker 360/12. Rifacendosi a quel sound la band americana in cui militavano Jim McGuinn (poi noto come Roger) e David Crosby e per cui fu coniato il termine folk rock, esordì l'anno dopo con un album e un singolo, cover di un brano scritto e pubblicato pochi mesi prima da Bob Dylan, Mr. Tambourine Man, in cui McGuinn mostrò le potenzialità di quello strumento, che, come detto, fu un tratto distintivo del sound dei Byrds fino al loro scioglimento nel Ma ancor più di Mr. Tambourine Man il pezzo che meglio inquadra il tutto è quello che dà il titolo al successivo ellepì, uscito sempre nel '65, Turn! Turn! Turn!, e in cui è presente un bel solo su una Rickenbacker. Quell'anno fu particolarmente prolifico per la dodici corde e le due band amiche/rivali per antonomasia, Beatles e Rolling Stones, pubblicarono due brani che sono entrati nella storia della musica rock, Ticket to Ride e As Tears Go By. Il primo fu pubblicato sia come singolo che all'interno dell'album Help! (e nella colonna sonora dell'ominimo film dei Fab Four) e vedeva di nuovo Harrison alle prese con la sua 360/12, il secondo (del quale esiste anche una versione in italiano intitolata Con le mie lacrime suonata dagli stessi Stones) fu scritta dalla coppia Jagger-Richards insieme al loro manager Andrew Loog Oldham, il quale, si narra, costrinse i due a chiudersi in una cucina per scrivere una canzone di loro pugno. Una prima versione del brano fu affidata alla voce dell'allora diciassettenne Marianne Faithfull, nel 1964, mentre le Pietre Rotolanti la registrarono l'anno successivo con Richards a una dodici corde acustica, Jagger alla voce e con gli arrangiamenti di archi affidati a Mike Leander. Il pezzo fu inserito all'interno dell'ellepì December's Children (And Everybody's) e resta una delle ballate più intense degli Stones nonché il primo pezzo scritto dalla coppia Jagger-Richards. Per chiudere con il 1965 non resta che un noto brano dei The Hollies, Look Through Any Window, da Hollies, con Tony Hicks alla twelve string guitar. Anche un'altra band influente di quel periodo, The Who, scelse di utilizzare la dodici corde per una canzone, Substitute, scritta da Pete Townshend e pubblicata come singolo nel Il 45 giri raggiunse il quinto posto nella hit parade inglese, e dieci anni dopo, nel 1976, fu ripubblicata raggiungendo di nuovo la top ten della classifica dei singoli più venduti. Inserita tra le duecento canzoni più belle degli anni Sessanta da Billboard, Substitute è stata anche a più riprese «coverizzata», tra gli altri, da Sex Pistols, Ramones e Stereophonics. E per chiudere con gli anni Sessanta non possono mancare due icone come David Bowie e Jimi Hendrix. Il primo nel 1969 dà alle stampe una delle sue hit più famose, la bellissima ballata che racconta la storia del Maggiore Tom, perso nello spazio, Space Oddity. Uscita nel luglio di quell'anno, appena nove giorni dopo che l'apollo 11 ebbe toccato il suolo lunare, la canzone vede lo stesso Bowie alla chitarra e la partecipazione al mellotron di Rick Wakeman, poi tastierista degli Yes. Come per i Rolling Stones con As Tears Go By anche Bowie incise una versione in italiano di Space Oddity, dal titolo Ragazzo solo, ragazza sola, con un testo di Mogol. Hendrix, riconosciuto come il più grande chitarrista rock di tutti i tempi, dal canto suo non ha mai dimenticato le origini, in particolare l'amore per il blues del Delta, e lo palesa in una versione acustica in solo del 1969 di Hear My Train A Comin', che è possibile vedere su youtube. Ma torniamo agli anni Settanta, decennio d'oro per la chitarra a dodici corde. Tra i brani in esame alcuni riguardano artisti di nicchia o quasi, altri, la maggior parte, sono invece dei veri e propri inni generazionali. Iniziamo con tre canzoni poco conosciute da queste parti: Early Morning Rain di Gordon Lightfoot, registrata e pubblicata in un primo tempo a metà anni Sessanta raggiunse però la notorietà con la ristampa del 1975 per l'album compilation Gord's Gold; Give a Little Bit dei Supertramp, brano d'apertura del disco Even in the Quietest Moments... del 1977, divenne una hit internazionale, ma il mondo ricorda la band inglese soprattutto per l'album Breakfast in America; Closer to the Heart dei Rush, probabilmente la più nota del trittico in questione, uscita come singolo e poi inserita nell'album del '77 A Farewell to Kings, è il primo brano della band canadese a esser stato scritto da un «esterno» al gruppo, l'amico Peter Talbot, e anche il primo a raggiungere un posto di rilievo nelle chart britanniche. Il 1976 vide apparire sulle scene una nuova band, il cui nome indicava chiaramente l'origine, i Boston. Il loro debutto, omonimo, si apriva con un brano destinato a restare un classico di tutti i tempi, More than a Feeling. L'inconfondibile arpeggio iniziale alla chitarra dodici corde è opera del leader della formazione del Massachusetts Tom Scholz, il quale dichiarò di aver impiegato ben cinque anni per la struttura definitiva del brano. Una delle grandi doti dei Queen fu quella di riuscire a spaziare nei generi e negli stili, questo grazie al fatto che ognuno dei quattro membri era - sia pure in misure e con spazi diversi - anche autore. Tra i tanti generi toccati dalla band non mancò il country folk, con un brano composto dal chitarrista Brian May per il fortunatissimo album del 1975, A Night at the Opera: 39. Una ballata sostenuta in cui May sfoggia la sua bravura anche come chitarrista ritmico e come vocalist, accompagnato dalla cassa in quattro e dal tamburello di Roger Taylor e dal basso pulsante di John Deacon, il tutto condito dall'impasto vocale, vero punto di forza dei Queen. Nello stesso anno usciva un altro disco epocale, Wish You Were Here dei Pink Floyd, album che prendeva il titolo da una ballata entrata nella storia, e che chiunque abbia qualche dimestichezza con la chitarra e con la musica rock avrà provato a suonare. La canzone ha un intro di dodici corde il cui suono sembra arrivare da una vecchia radio a transistor, per poi aprirsi con la frase solista di chitarra acustica, opera di David Gilmour. Come è noto, la canzone, e l'album tutto, fa riferimento all'ex compagno e leader della band inglese Syd Barrett, già allora alle prese con il decadimento fisico e mentale che lo portò alla morte qualche anno dopo. Parlando di Breaking the Girl dei Red Hot Chili Peppers abbiano fatto notare come nella scrittura della canzone Frusciante e soci furono influenzati fortemente dai Led Zeppelin e in particolare da pezzi come Over the Hills and Faraway, e proprio questo è da considerarsi il più emblematico tra i brani per dodici corde della band di Jimmy Page, forse ancor più della stessa Stairway to Heaven, il cui incipit resta sì indelebile nella storia del rock, ma oltre all'esser stata tacciata - e non esattamente a torto - di plagio (ascoltate per credere Taurus degli Spirit) viene ricordata nella sua interezza, per i suoi cambi di registro e per l'iconografia che raffigura Page alle prese con la celeberrima Gibson a doppio manico. Ad ogni modo entrambi sono da annoverare tra i brani più importanti mai pubblicati (il primo tratto da Houses of the Holy, 1972, il secondo da Led Zeppelin IV, 1971), a prescindere dalla dodici corde, aggiungeremmo. E della stessa pasta è l'ultimo pezzo che prendiamo in considerazione, uno di quelli che vengono citati in qualsiasi classifica di genere, che ritroveremmo come una delle canzoni più belle, più conosciute, più coverizzate, con uno dei migliori assolo di chitarra e chi più ne ha più ne metta. Parliamo di Hotel California degli Eagles, dall'album omonimo del La canzone ebbe anche delle critiche perché, si disse, il testo faceva riferimento al San Francisco Hotel, noto per esser diventato poi il quartier generale di Anton LaVey, satanista e fondatore della Curch of Satan, e dei suoi seguaci. Per la cronaca la sequenza di accordi arpeggiati, così come uno dei due soli che si intrecciano nel finale, è opera di Don Felder.

14 (14) ALIAS RITMI NOTE DI SACKS di F. AD. «Musicofilia» è uno dei testi più noti di Oliver Sacks (foto), scomparso il 30 agosto. È qui che il neurologo e scrittore britannico ha raccontato l'interazione tra musica e funzioni cerebrali. Sacks spiegava che ascoltare musica è un processo attivo e costantemente in fieri. Sosteneva che «quando ricordiamo una melodia essa suona nella nostra mente, ridiventa viva. Richiamiamo una nota alla volta e sebbene ogni nota riempia interamente la nostra coscienza, simultaneamente entra in rapporto con il tutto. È come quando camminiamo, lo facciamo compiendo un passo alla volta, eppure ogni passo è parte integrante di un tutto». Un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipò a un illuminante incontro organizzato da un batterista con alcune persone affette dalla sindrome di Tourette. Racconta nel testo: «Tutti, in quella stanza, sembravano in balia dei loro tic, ciascuno con il suo tempo. Vedevo i tic erompere e diffondersi per contagio». Poi il batterista iniziò a suonare, e tutti in cerchio lo seguirono con i loro di VILMO MODONI Se fosse ancora vivo Francis Albert Sinatra sarebbe sulla soglia dei cent'anni. Era infatti nato il 12 dicembre 1915 a Hoboken, in New Jersey, piccolo centro tanto vicino in linea d'aria a Manhattan quanto lontano dalla Grande Mela in termini di opportunità e cose da fare. Era figlio di immigrati italiani: il padre Antonio, siciliano, aveva tirato di boxe con lo pseudonimo di Marty O'Brien e serviva nel locale corpo dei vigili del fuoco; la madre, Natalina Garaventa, originaria dell'entroterra ligure, procurava aborti clandestini ed era militante attiva del partito democratico. Quest'anno l'america sta rendendo omaggio con diverse iniziative al centenario di colui che Bruce Springsteen ha definito «un simbolo riconoscibile come la Statua della Libertà. Era il ventesimo secolo, era moderno e complesso, aveva swing e una personalità inquieta. La sua voce esprimeva un bisogno ribaldo di libertà e la triste consapevolezza di come va il mondo». Il Boss non è l'unico musicista apparentemente lontano anni luce dal suono e dallo stile di Sinatra a rendergli onore. Bob Dylan ha di recente pubblicato un album, Shadows in the Night, con diverse cover di The Voice (il soprannome più noto di Sinatra) e il suo produttore Daniel Lanois ha rivelato che ne avrebbe già inciso anche un secondo, finora inedito. Oltre agli inchini dei musicisti venuti dopo di lui, la lista delle celebrazioni è davvero notevole. Un'esposizione di foto alla Morrison Hotel Gallery e tre show speciali al Lincoln Center di New York, la proiezione dei suoi film al Tribeca Film Festival di Robert De Niro, un documentario sulla rete Hbo. E poi programmi radio su Sirius Xm, diversi dibattiti durante tutto l'anno (dall'università di Yale fino al convegno di dicembre al festival Sxsw di Austin) e un grande spettacolo celebrativo chiamato Frank Sinatra 100. Non mancano neppure edizioni di cd targati Capitol, Universal e Sony, mentre la Warner ha messo in cantiere edizioni commemorative dei suoi film. Puntuale anche l'omaggio di una famosa casa produttrice di whisky, considerato come Frank ne fosse appassionato e devoto consumatore e sostenitore (ebbe a dire: «Non ignoro il bisogno di fede dell'uomo: sono per qualunque cosa ti permetta di passare bene la notte, siano preghiere, tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniels»). La distilleria di Lynchburg ha messo sul mercato una bottiglia griffata che lo ricorda, il «Jack Daniel's Sinatra Select». Tra i molti eventi commemorativi merita un cenno particolare la mostra appena Mostre, concerti, proiezioni, dischi, dibattiti e anche una bottiglia di bourbon. Negli Usa molte le iniziative per ricordare «The Voice» ANNIVERSARI CENTO ANNI FA NASCEVA IL CANTANTE DI HOBOKEN Frank Sinatra, il sogno americano a «modo suo» conclusasi alla New York Public Library for the Performing Artse intitolata Sinatra: An American Icon. All'organizzazione della spettacolare mostra, curata dal Grammy Museum di Los Angeles e che sembra possa avere un seguito itinerante (e chissà che non si riesca a vederla anche dalle nostre parti), hanno partecipato le figlie Nancy e Tina che hanno messo a disposizione cimeli inediti di ogni genere: foto mai viste, lettere rare, effetti personali, i quadri che dipingeva per rilassarsi e non vendeva mai. C'è pure l'angolo per fare un duetto virtuale con The Voice. Naturalmente è un'esibizione agiografica, dove si decanta a pieni polmoni il buono e si tacciono i difetti. Si esaltano ad esempio le sue prese di posizione contro il razzismo («Credetemi, ne so qualcosa di intolleranza razziale. A undici anni fui chiamato "sporco italiano" a casa mia, nel New Jersey») o l'antisemitismo, come la creazione del Tamarisk Country Club perché tutti gli altri campi da golf escludevano ebrei e neri e lui allora rifiutava di frequentarli. Ma non si trova neppure una delle oltre pagine di dossier che l'fbi ha raccolto sui suoi rapporti con la mafia, spiandolo per oltre quarant'anni (indagini che liquidava così: «I mafiosi? Niente a che fare. Solo ciao e arrivederci»). E non si scopre neppure se Frank è davvero il padre di Ronan Farrow, come tempo fa la madre Mia ha lasciato intendere senza peraltro fornirne prova. E, girando per le sale della mostra, non è dato capire i motivi di alcune delle contraddizioni più eclatanti di Ol' Blue Eyes (altro soprannome di Frank). Non si capisce, ad esempio, perchè abbia finito la vita da cattolico praticante e devoto, dopo aver detto di credere «nella Natura» come un figlio dei fiori panteista. O come mai, dopo essere stato come la madre un convinto sostenitore dei democratici (durante una convention del partito John Kennedy gli rese omaggio così: «So che abbiamo un debito con il nostro grande amico Frank Sinatra. Prima ancora di cantare, raccoglieva voti per i democratici in un distretto elettorale del New Jersey. E quando smetterà di cantare, continuerà a parlare in favore del partito democratico, e io lo ringrazio a nome di tutti i presenti») abbia finito per appoggiare Ronald Reagan. Poco importa. L'America è genuflessa di fronte a Sinatra. Ol' Blue Eyes è un'icona, forse anche per tutti i difetti che incarnava, e così lo trattano dalla costa atlantica al Pacifico. Tanto che Sinatra non ha certo bisogno delle celebrazioni del centenario per essere ben presente nella coscienza collettiva statunitense e, perché no, di tutto il mondo. I suoi dischi continuano a essere venduti, a oggi siamo attorno ai 150 milioni di copie, e anche i media moderni registrano la sua strabordante presenza: un video di My Way su YouTube ha registrato trentasette milioni di visualizzazioni. The Voice non è solo ben presente e radicato nella memoria popolare, ma viene pure apprezzato dalla critica colta. Tempo fa il mensile inglese di musica classica Gramophone è giunto a paragonare le sue canzoni, per la qualità dell'interpretazione, a dei veri e propri Lieder, composizioni per voce solista e pianoforte che ebbero come autori maestri come Schubert o Brahms. Non male per un cantante autodidatta che asseriva di essere l'unico ad aver preso lezioni di canto da un trombone: «Quello che più mi ha influenzato è stato il modo in cui Tommy Dorsey suonava il trombone. Volevo assolutamente che la mia voce funzionasse proprio come un trombone o un violino; non volevo certo che il suono fosse lo stesso, ma volevo modulare la voce come quegli strumenti». E oltre a Dorsey (nella cui big band aveva militato attorno al 1940, definendola poi con rispetto «la General Motors delle big band americane»), Sinatra aveva cercato di carpire i segreti di Bing Crosby (la cura per le tecniche di registrazione, l'approccio al microfono, il morbido cantato), delle linee melodiche di Louis Armstrong, del tono musicale arioso e sfuggente del sassofonista Lester Young, del modo in cui alcuni musicisti jazz possono far sentire una melodia come qualcosa di incredibilmente fragile e al contempo infrangibile. Altra grande influenza fu Billie Holiday e, sorpresa, Sinatra venne anche ispirato dal violinista classico Jascha Heifetz: «Fui sempre attratto dal suo suono, che pareva non interrompersi mai». Tante influenze insomma, anche molto diverse tra loro, che avevano reso Frank capace di modulare la voce da baritono alto a tenore, assicurandogli grande maestria nel dare significato alla frase che cantava con pause e furiose accelerazioni. In questo 2015 dedicato a Sinatra si discuterà di questo e di molto altro ancora e probabilmente non mancheranno neppure le voci critiche. Ma la percezione è che Frank ne uscirà alla grande. Ha incarnato il sogno americano, le speranze del dopoguerra, le contraddizioni e i pregi della sua generazione, i limiti di un cantante autodidatta. Che però, alla resa dei conti, con la sua voce ha convinto tutti. In alto a sinistra Frank Sinatra. Nelle altre immagini due foto della mostra «Sinatra: An American Icon»

15 ALIAS (15) tamburi: come per incanto i tic scomparvero e il gruppo si fuse in una perfetta sincronia ritmica. Questa è la «neurogamia» che si verifica ogniqualvolta il nostro sistema nervoso «si sposa» - attraverso la musica - con quello di chi ci è accanto. È lì che la musica lascia affiorare la sua «straordinaria forza neurale», i suoi essenziali nessi con le funzioni e disfunzioni del cervello. INDIE ITALIA La ferocia di Brosolo Cadremo feroci è un disco pensato da un friuliano che vive a Berlino. E Berlino si sente, eccome, in questo album in cui Brosolo paga tributo alla poesia di Federico Tavan che fa incontrare con la visione pop tutta berlinese di artisti chiave della scena tedesca «glitch» come Robert Lippok e Bernd Jestram. Accanto a lui si radunano anche Pierpaolo Capovilla, Rudi Moser e, ultimo ma non ultimo, Bobby Solo, che presta la sua voce ad Albero, il singolo. Ne viene fuori un disco (pubblicato dalla storica label inglese Rough Trade) che ci regala perle di indietronica pop da non perdere. Molto interessante anche I'm Good If Yer Good (Stop Records) degli italianissimi Jarred, The Cavemen. Da Rimini e con al loro fianco Antonio Gramentieri, suonano lontani anni luce da tutto ciò che è italiano. Il timbro della voce rimanda a Bob Dylan. E la musica affonda le proprie radici nel folk Usa, fatto entrare in rotta di collisione con atmosfere indie. Mix riuscitissimo. Indie è anche l'esordio di Gonzaga, Tutto è guerra (Autoprod.). Suono corposo, affilato ma allo stesso tempo vellutato, si affidano a un produttore come Taketo Gohara. La marcia in più si sente. (Viola De Soto) ON THE ROAD Linkin Park Dopo il successo della data milanese dello scorso anno torna in Italia, per un'unica data, la band crossover/nu metal statunitense, a chiudere il festival «Rock in Roma». Roma DOMENICA 6 SETTEMBRE (IPPODROMO DELLE CAPANNELLE) Joy Una data per il rock psichedelico della band di San Diego. Marina di Ravenna (Ra) VENERDI' 11 SETTEMBRE (HANA-BI) Steve Hogarth Arriva in Italia il vocalist che ha sostituito Fish nei Marillion, in versione solista. Roma SABATO 12 SETTEMBRE (AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA) The Warlocks Tra neopsichedelia e indie rock. Marina di Ravenna (Ra) SABATO 5 SETTEMBRE (HANA-BI) U2 Seconda data torinese per la band irlandese che non ha certo bisogno di presentazioni. Torino SABATO 5 SETTEMBRE (PALA ALPITOUR) Magnus Il progetto dance di Tom Barman dei deus. AA. VV. TUK MUSIC ANTOLOGICO/GIVE ME FIVE BY FOOT (Tuk Music) Cinque anni. Per cinque fa venticinque, e ironicamente si invita a «dare il cinque», ma con il piede, perché è questione di strada e cammino (d'arte). Un lustro di attività per l'etichetta presidiata artisticamente da Paolo Fresu, che in un quinquennio non ha sbagliato un colpo. Né nella musica, né nelle copertine d'autore. Alternando uscite di nomi consolidati a radiose scoperte, magari dai bordi più estremi della musica dove il jazz diventa chissà che altro. Qui trovate venticinque brani, in due cd, in confezione «a quaderno», uno più stimolante dell'altro. (g.fe.) ADMIRAL FALLOW TINY REWARDS (Nettwerk/Self) La band scozzese al terzo album si affranca dal folk allargando lo spettro sonoro e compositivo, senza perdere nulla delle loro qualità, anzi, guadagnando qualcosa. La cosa che più si nota è una diversa attenzione verso la sezione ritmica, qui molto presente, e la mancanza quasi totale delle chitarre acustiche. Ma la cosa fondamentale è che Louis Abbott e soci hanno saputo scrivere dodici brani ad alto tasso emozionale. E la «piccola ricompensa» è per l'ascoltatore che gli regala la fiducia. (r.pe.) GOLDEN VOID BERKANA (Thrill Jockey) Rientro numero tre per la band californiana. È la loro pubblicazione migliore, dove sintetizzano quello che amano e che sanno fare: un robusto psych-rock con corpose reminiscenze Seventies. Aprono il lavoro con la potente ed evocativa Burbank s Dream, per poi proseguire con la quasi stoner Silent Season. È un prodotto più che soddisfacente: lo confermano la lunga I ve Been Down dove trovate davvero tante influenze e The Beacon, la cosa migliore del disco. Unico neo la brevità. Ma va bene così. (g.di.) ODWALLA UOMO INVISIBILE (MB) Ispirato a Uomo invisibile del romanziere afroamericano Ralph Ellison e alla fiaba I vestiti nuovi dell'imperatore di Andersen, arriva su disco il nuovo spettacolo per voci femminili, percussionisti e ballerini/e di Massimo Barbiero, il quale si autoproduce in aperta polemica con il sistema discografico italiano. Il lavoro eccelle anche solo dal punto di vista musicale, grazie all'intelligenza del Brescia LUNEDI' 7 SETTEMBRE (LATTERIA MOLLOY) Tony Allen Il batterista nigeriano torna in Italia con la sua band. Bologna VENERDI' 11 SETTEMBRE (LOCOMOTIV) Hudson Mohawke L'elettronica del producer scozzese. Roma VENERDI' 11 SETTEMBRE (ANDREA DORIA CONCERT HALL) Nathan Fake Torna l elettronica del musicista britannico. Roma SABATO 12 SETTEMBRE (ANDREA DORIA CONCERT HALL) Matthew Herbert Un mago dell'elettronica. Vercelli SABATO 12 SETTEMBRE (TEATRO CIVICO) Carl Craig Un pioniere della techno di Detroit. Segrate (Mi) VENERDI' 11 SETTEMBRE (MAGNOLIA) Caparezza Il rapper di Molfetta ancora on the road. Bonorva (Ss) DOMENICA 6 SETTEMBRE (LOCALITA' TZIU PINNA) Cerignola (Fg) MERCOLEDI' 9 SETTEMBRE (PIAZZA DUOMO) BLUES Campanilismo oltreoceano In Italia le note nordamericane hanno attecchito bene, è quasi luogo comune. Si rischia il campanilismo a sostenere che qualche volta i nostri musicisti se la giocano alla pari con quelli d'oltreoceano. Lo rischieremo. Ad esempio con Paolo Bonfanti, bluesman, rocker e autore che in Back Home Alive (Club de la Musique) come Bob Dylan torna, metaforicamente e fisicamente, a casa sua: e live in Casale ha inciso questo fascinoso viaggio che tocca e sfiora le più diverse declinazioni autorali americane, ma la penna, la testa, e la fatata mano mancina sulla sei corde è la sua. Con band affiatata, ospite il vecchio puma blues Fabio Treves, e un omaggio da lacrime in coda ai Grateful Dead del grande Jerry Garcia. Disseccato desert rock con gusto, inventiva, e quel suono polveroso che sa di grandi film, serpenti a sonagli, dust bowl e tante altre cose per i Guano Padano: in Americana (Ponderosa) omaggiano Steinbeck, Fante, il Vittorini, appunto, di Americana, l'antologia letteraria, e tanto altro ancora. Esce per Appaloosa invece Down the Line, nuovo capitolo in blues per la gloriosa Gnola Blues Band: una (attesa) conferma di classe. (Guido Festinese) leader qui al vibrafono, che sa amalgamare con originalità jazz, ethno, classica e avanguardia. (g.mic.) MARC STONE POISON & MEDICINE (Louisiana Red Hot Records) Marc Stone pubblica il nuovo lavoro ed è un gran bel disco. Puro sound di New Orleans. C è dentro il suo blues che dall inizio alla fine non abbandona l ascoltatore, neanche per un istante: I Tried e Come to Me sono un battito entusiasmante. Emerge Verdena La rock band bergamasca ha appena pubblicato il secondo volume di Endkadenz. Palma Campania (Na) SABATO 5 SETTEMBRE (ISOLA ECOLOGICA) Acquaviva (Si) GIOVEDI' 10 SETTEMBRE (GIARDINI EX FIERALE-LIVE ROCK) Tonadico (Tn) VENERDI' 11 SETTEMBRE (SOT ALA ZOPA) Senigallia (An) SABATO 12 SETTEMBRE (MAMAMIA) Paolo Benvegnù L'ex leader degli Scisma con la band che porta il suo nome di nuovo live. L'Aquila SABATO 5 SETTEMBRE (A LOT FESTIVAL) Bologna MARTEDI' 8 SETTEMBRE (CUBO) Elio e Le Storie Tese Gli alfieri della musica demenziale made in Italy. Brescia LUNEDI' 7 SETTEMBRE (PIAZZA DELLA LOGGIA) Live Rock Il festival tra le colline toscane giunge all'edizione numero diciannove. Gli ospiti della rassegna sono, in ordine di apparizione: The Yellow Traffic Light, Mecna e Fast Animals and Slow Kids; Venus in Furs, My Baby e Verdena; Astral Week, Fujiya & Miyagi e The Qemist; Niagara, Seun Kuti & Egypt 80; Pink is Punk dj set. ULTRASUONATI DA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA JAZZ L epigramma di Ponticelli Arrangiamenti, vasto spettro timbrico e formazioni inedite accomunano i lavori di Francesco Ponticelli, Dino Rubino e Brass Bang!. Il contrabbassista e compositore in Ellipses (Tuk Music) disegna 12 pagine, spesso dal fascino delicato e impalpabile, l ultima delle quali ispirata a Shostakovich. Camerismo elettroacustico e screziature rock. L epigrammatico brano Departure, con le sue scure armonie, apre Kairòs di Dino Rubino (Tuk Music). Il pianista arrangia 10 suoi brani insieme a Giuseppe Mirabella (Getsèmani è scritto a quattro mani) per un ottetto diviso tra sezione ritmica e ottoni. Il sound è scuro e nitido, le atmosfere viaggiano tra la spensieratezza ritmata di Pellicano e il dolente incedere di Fratello, la musica ispirata e personalissima. Primo album, omonimo, per Brass Bang! (Tuk Music), formazione di ottoni con S. Bernstein, P. Fresu, G. Petrella e M. Rojas. Anche se dal vivo rende meglio, il gruppo sfrutta al massimo l eccellenza solistica e l intreccio delle voci su un repertorio da Palestrina a Duke Ellington, dagli originali a Jagger-Richards: tra tuba ed elettronica una risignificazione tra storia e attualità. (Luigi Onori) anche un sapore soul non indifferente e una afferenza al maestro Walter «Wolfman» Washington in Whatever You Do e The Well. Molti musicisti importanti nella sessione di registrazione e lui lì davanti a tirare le fila con voce, chitarra e tanto buon gusto. Nemesi perfetta in When You re Bad. (g.di.) FRANK ZAPPA HALLOWEEN IN THE BIG APPLE (Sutra) Per tutti coloro che hanno «annusato» nell'aria l'arrivo del Frank A CURA DI ROBERTO PECIOLA SEGNALAZIONI: rpeciola@ilmanifesto.it EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ Acquaviva (Si) DA MERCOLEDI' 9 A SABATO 12 SETTEMBRE (GIARDINI EX FIERALE) Home Festival L'edizione 2015 della rassegna propone vari generi musicali, dall'indie rock (italiano e internazionale) al reggae, all'hip hop al pop. Questa la line up degli ultimi due giorni di performance: Dj Paul Kalkbrenner, Gemitaiz & Madman, Nitro, Simple Plan, Ghemon e Marracash; Fedez, Negrita, Modena City Ramblers, Punkreas, Slim Jim Phantom e altri. Treviso SABATO 5 E DOMENICA 6 SETTEMBRE (ZONA DOGANA) Ethnos Ventesima edizione del festival internazionale di musica etnica. Il primo appuntamento è con la Bollywood Masala Orchestra. Napoli GIOVEDI' 10 SETTEMBRE (TEATRO MERCADANTE) Eutropia La programmazione musicale della rassegna capitolina prevede Brunori Sas, Carmen Consoli e il Festival Steampunk. Roma DA MERCOLEDI' 9 A SABATO 12 SETTEMBRE (CAMPO BOARIO) Ai Confini tra Sardegna e Jazz Il festival è dedicato alla memoria e BLUES/2 David. M. Miller, outsider di classe News dagli States. Apriamo la terna in esame con il migliore dei lavori proposti. Da Buffalo, New York, il cantante e chitarrista David Michael Miller fa uscire Same Soil (Autoprod.). Lui è un outsider di quelli che hanno decenni di gavetta e che mette a frutto questa esperienza. Blues della costa est, quindi levigato e sinuoso, ma mai lezioso grazie al sound di Miller. Ballad intense (Friend of Mine), tempi medi di classe (Needle to the Wheel) e genuina grinta (Just Ride). Arriva da Greenville, Mississippi, il sanguigno Kern Pratt. Broken Chains (Autoprodotto) è blues da bar in cui tirare tardi la sera. Chitarre fragorose e voce roca del leader ad alternarsi di continuo: nulla di esaltante ma qualcosa che lascia il segno c è: la allegra Don t Leave Me Baby e il down home di Handcuffed to the Blues. Di Tulsa, Oklahoma, è Scott Ellison, altro navigato frequentatore di palchi. Elevator Man (Red Parlor Records) è un disco molto elettrico, ben suonato e con ottimi arrangiamenti, ma che non morde. Ricorderemo solo lo slow Fishsticks and Jelly e il funk-blues della title-track. (Gianluca Diana) Zappa in studio numero cento, Dance Me This, intricata partitura che mescola elettronica e canto difonico, non certo facilmente reperibile, ecco un bella consolazione. Questa è una trasmissione radiofonica dal Palladium di New York, la prima volta che Zappa cominciò a celebrare in concerto Halloween. Frizzi e lazzi, un'atmosfera di palpabile eccitazione, band con Adrian Belew in gran spolvero, un solo memorabile del Maestro su The Squirm, risate e grande musica. (g.fe.) alla musica di Butch Morris e propone, nelle ultime due giornate, aapuntamenti di tutto rispetto quali quello con il William Parker-Hamid Drake-John Dikeman Trio + Nublu Orchestra (oggi) e il duo scandinavo Wildbirds & Peacedrums + Fire! Orchestra. Sant'Anna Arresi (Ci) SABATO 5 E DOMENICA 6 SETTEMBRE (PIAZZA DEL NURAGHE) TransArt Apre questa settimana l'edizione 2015 della rassegna itinerante altoatesina, che spazia lungo le arti più disparate. Per lo spazio dedicato alla musica si parte con il Quiet Ensemble per proseguire poi, a fine settimana prossima, con Interzona Plays Transart. Bolzano e provincia MERCOLEDI' 9 E SABATO 12 SETTEMBRE (VARIE SEDI) Bolzano Festival Si rinnova l'appuntamento con la musica classica nel capoluogo altoatesino. Tra gli appuntamenti più importanti si possono citare i concerti della Gustav Mahler Jugendorchester, della European Union Youth Orchestra, e la rassegna Antiqua. Il programma completo è consultabile su bolzanofestivalbozen.it. Bolzano DA SABATO 5 A SABATO 12 SETTEMBRE (VARIE SEDI) IN USCITA A SETTEMBRE Chantal Acda The Sparks in Our Flaws (Glitterhouse) Aerosmith Rocks Donington 2014 dvd+2 cd (Eagle Rock/Edel) Arti&Mestieri Universi paralleli (Cramps/Sony) Atreyu Long Live (Spinefarm/Universal) Baio The Names (Glassnote/Universal) Lou Barlow Brace the Wave (Domino/ Self) Battles La Di Da Di (Warp/Self) Beirut No No No (4AD/Self) Black Tongue The Unconquerable Dark (Century Media/Universal) Franc Cinelli The Marvel Age (SongCircle Records/Proper) Crazy Town The Bromstone Sluggers (Membran/Sony) Dam-Funk Invite the Light (Stones Throw/Goodfellas) Robert De Long In the Cards (Glassnote/Universal) Devil City Angels s/t (Century Media/ Universal) Destroyer Poison Season (Dead Oceans/Goodfellas) Anneli Drecker Rocks & Straws (Rune Grammofon/Goodfellas) Empress Of Me (Terrible/XL/Self) Farewell to Heart and Home Diversions (Millesei/Audioglobe) Fever the Ghost Zirconium Meconium (Heavenly/Coop/Self) Fidlar Too (Wichita/Coop-Pias/Self) Frisino Tropico dei romantici (Volcan Records/The Orchard) Gardens & Villa Music for Dogs (Secretly Canadian/Goodfellas) Giöbia Magnifier (Sulatron) Girl Band Holding Hands with Jamie (Rough Trade/Self) Glen Hansard Didn't He Ramble (Anti- Epitaph/Self) Michael Head & The Strands The Olde World (Megaphone/Goodfellas) Julia Holter Have You in My Wilderness (Domino/Self) Koritni Night Goes on for Days (Earmusic/Edel) Sara Lov Some Kind of Champion (Irma Records/Self) Low Ones and Sixes (Sub Pop/ Audioglobe) Lucero All a Man Should Do (Ato/ Pias/Self) Briana Marela All Around Us (Jagjaguwar/Goodfellas) Dave McCabe & The Ramifications Church of Miami (1965/ Coop-Pias/Self) Mercury Rev The Light in You (Bella Union/Pias/Self) Micachu & The Shapes Good Sad Happy Bad (Rough Trade/Self) Midas Fall The Menagerie Inside (Monotreme) Bob Moses Days Gone By (Domino/ Self) Elliot Moss Highspeeds (Pias/Self) Mutoid Man Bleeder (Sargent House/ Goodfellas) New Order Music Complete (Mute/ Self) Oh Wonder s/t (Oh Wonder/ Universal) Once Human The Life I Remember (Earmusic/Edel) Cristopher Owens Chrissybaby Forever (Turnstile/Caroline/Universal) Laurex Pallas La prestigiosa Milano-Montreux (Rodeo Dischi) Doe Paoro After (Anti/Self) Patton C (Prohibited Records) Petite Noir La vie est belle/life is Beautiful (Domino/Self) PiL What the World Needs Now (PiL Official/Goodfellas) Port-Royal Dying in Time (N5MD) Riverside Love, Fear and the Time Machine (Century Media/Universal) Rp Boo Fingers, Bank Pads & Shoe Prints (Planet Mu/Goodfellas) Sea+Air Evropi (Glitterhouse) Ballake Sissoko & Vincent Segal Musique de nuit (No Format/Naive/Self) Spector Moth Boys (Friction/Caroline/ Universal) Stratovarius Eternal (Earmusic/Edel) U.S. Girls Woman's Work (4AD/Self) Kurt Vile B'lieve I'm Going Down (Matador/Beggars/Self) Watkins Family Hour s/t (Thirty Tigers/Goodfellas) Young Empires The Gates (Caroline/ Universal)

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